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sabato 13 luglio 2013

Omelia di Joseph Ratzinger

E Julien Green ridiventò se stesso. Omelia di Joseph Ratzinger nella celebrazione per il settantesimo compleanno del vescovo Ernst Tewes (1978)



Il 12° volume dell'Opera Omnia di Joseph Ratzinger "Annunciatori della Parola e Servitori della vostra gioia"

E Julien Green ridiventò se stesso

di Joseph Ratzinger

Casualmente in questi giorni ho letto il racconto che il grande scrittore francese Julien Green fa della sua conversione. Scrive che nel periodo tra le due guerre egli viveva proprio come vive un uomo di oggi: si permetteva tutto quello che voleva, era incatenato ai piaceri contrari a Dio così che, da un lato, ne aveva bisogno per rendersi la vita sopportabile, ma, dall'altro, trovava insopportabile proprio quella stessa vita. Cerca vie d'uscita, allaccia rapporti. Va dal grande teologo Henri Bremond, ma la conversazione resta sul piano accademico, sottigliezze teoriche che non lo aiutano.
Instaura un rapporto con i due grandi filosofi, i coniugi Jacques e Raîssa Maritain. Raîssa Maritain gli indica un domenicano polacco. Lui lo incontra e gli descrive ancora questa sua vita lacerata. Il sacerdote gli dice: «E Lei, è d'accordo a vivere così?». «No, naturalmente no!», risponde. «Dunque vuole vivere in modo diverso; è pentito?». «Sì!» fa Green. E poi accade qualcosa di inaspettato. Il sacerdote gli dice: «Si inginocchi! Ego te absolvo a peccatis tuis -- ti assolvo». Scrive Julien Green: «Allora mi accorsi che in fondo avevo sempre atteso questo momento, avevo sempre atteso qualcuno che mi dicesse: inginocchiati, ti assolvo. Andai a casa: non ero un altro, no, ero finalmente ridiventato me stesso».
Se siamo onesti, se riflettiamo su questa vicenda in profondità, vediamo che in ultima analisi questa attesa è in ognuno di noi, che il nostro intimo grida che vi sia qualcuno che dica: «Inginocchiati! Ego te absolvo!».
Un famoso teologo protestante qualche tempo fa ha detto: oggi bisognerebbe raccontare la parabola del figliol prodigo in modo nuovo, come parabola del padre perduto. 
E in effetti, lo smarrimento di questo figlio consiste proprio nel fatto che ha smarrito il padre, che non lo vuole più vedere. Ma questo figliol prodigo siamo noi. 
La sua difficoltà è la difficoltà del nostro tempo che si vanta di essere una società senza padre. Seguendo Freud, abbiamo creduto che il padre fosse l'incubo del “Super Io”, colui che limita la nostra libertà, e che ce ne dobbiamo liberare. E ora che questo è accaduto riconosciamo che, facendo così, ci siamo emancipati dall'amore e abbiamo amputato da noi stessi quello che ci fa vivere.
Ma allo stesso tempo emerge così di nuovo quello che vi è di più profondo nel ministero episcopale e sacerdotale: poter rappresentare il Padre, il vero Padre di noi tutti, del quale abbiamo bisogno per poter vivere come uomini. Il sacerdote può renderlo presente dando la sua pace, la sua grazia, la parola trasformatrice dell'assoluzione.
Un secondo compito del ministero sacerdotale, con questo strettamente intrecciato, viene in luce quando Paolo nel versetto successivo dice: «Siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza». Prendiamolo come esame di coscienza. Certo, siamo molto ricchi di parola e di conoscenza. Ma siamo veramente ricchi della Parola che è conoscenza e che ci guida in mezzo a tanti discorsi inutili? Oppure è proprio di questa che siamo divenuti estremamente poveri?
Torniamo ancora una volta a Julien Green. Egli racconta come, sin dalla fanciullezza, sua madre, anglicana, lo avesse letteralmente immerso nella Sacra Scrittura. Era ovvio per lui sapere a memoria tutti e centocinquanta i Salmi. La Scrittura era l'atmosfera della sua vita. E dice: «Mia madre mi insegnò a comprenderla come libro d'amore. E mi permeò profondamente dell'idea che, da un capo all'altro della Scrittura, fosse unicamente l'amore a parlare. E tutto il mio essere non voleva nient'altro che amare». Ecco, alla fine non può perdersi un uomo che ha ricevuto delle basi così.
E noi? Non dobbiamo forse iniziare in modo del tutto nuovo a dare spazio a questa Parola, nella quale da un capo all'altro ci avvolge l'amore, farne l'atmosfera delle nostre case e della nostra vita quotidiana? Non è assolutamente una garanzia che nella vita tutto andrà a gonfie vele. Ma è un'ultima forza portante che sempre di nuovo ci ricondurrà a casa, che ci renderà ricchi di vera conoscenza.
Infine un terzo punto. Paolo dice di essere grato per il fatto che «nessun dono di grazia più vi manca». Sentendo queste parole è quasi come se vedessi davanti a me il volto di san Paolo che sorride con una sottile, lieve ironia. Infatti, alcune pagine dopo, punta l'indice contro i Corinzi perché sono addirittura assetati di carismi. Egli non ritira quella frase, non è adulazione. No, non manca loro alcun carisma, alcun dono di grazia. E tuttavia essi rischiano di essere scriteriati, perché importa loro solo il particolare, perché ognuno vuole sopraffare l'altro e perché così non è più evidente che tutti i carismi, tutti i doni hanno un unico fine: introdurci all'amore ed edificare così l'organismo vivo di Gesù Cristo.
Ma mi viene in mente anche san Filippo Neri (...), quel santo che con il suo inesauribile umorismo e con la sua fede smisurata fece della Roma della seconda metà del XVI secolo una città nella quale la luce di Gesù Cristo era di nuovo posta sul candelabro e poteva di nuovo essere criterio per i cristiani.
Egli raccoglieva dei giovani che con lui leggevano la Scrittura, si immergevano nei tesori della storia della Chiesa e per i quali era ovvio che chi si abbeverava di questa parola, dopo la dovesse distribuire andando fra i malati nel vicino ospedale di Santo Spirito, dai sofferenti e dai poveri di Roma.
A questa scuola dei carismi sono cresciuti uomini eccellenti come Cesare Baronio -- il grande storico della Chiesa -- e tanti altri uomini nei quali furono risvegliati dei doni e nei quali, senza alcun ministero o chiamata particolare, divenne viva la forza della Parola di Dio. Questa Parola prese quegli uomini al proprio servizio e tutto venne a raccogliersi, sempre e comunque, attorno a quel centro che si chiama amore, fede, speranza.

(©L'Osservatore Romano 15 maggio 2013)

sabato 15 giugno 2013

«La luna narra il mistero di Cristo»



Una Chiesa che, contro tutta quanta la propria storia e la propria natura, venga considerata soltanto politicamente, non ha alcun senso, e la decisione di rimanere in essa, se è puramente politica, non è leale, anche se si presenta come tale. Però di fronte alla situazione presente come si può giustificare la permanenza nella Chiesa? In altri termini: la scelta in favore della Chiesa per avere senso deve essere spirituale; ma su quali motivi può essa oggi far leva? 
Vorrei dare una prima risposta ricorrendo a un nuovo paragone e a un’osservazione precedente. Abbiamo detto che nei nostri studi ci siamo ormai avvicinati talmente alla chiesa, che non riusciamo più a scorgere le linee generali né a vederla nel suo complesso. Approfondiamo questo pensiero rifacendoci a un esempio, con il quale i Padri nutrirono la loro meditazione sul mondo e sulla chiesa.
Essi spiegarono che nel mondo materiale la luna è l’immagine di ciò che la chiesa rappre[85]senta per la salvezza nel mondo spirituale. Viene qui ripreso un antico simbolismo costantemente presente nella storia delle religioni (i Padri non hanno mai parlato di «teologia delle religioni», ma l’hanno attuata concretamente); in esso la luna, in quanto simbolo della fecondità e della fragilità, della morte e della caducità delle cose, ma anche della speranza nella rinascita e nella risurrezione, era l’immagine, «patetica e insieme consolante»[nota 1], dell’esistenza umana.

Il simbolismo lunare e quello tellurico si fondono spesso insieme. Nella sua fugacità e nella sua rinascita la luna rappresenta il mondo terreno degli uomini, questo mondo che è continuamente condizionato dal bisogno di ricevere e che trae la propria fecondità non da se stesso, ma dal sole; rappresenta lo stesso essere umano, quale si esprime nella figura della donna, che concepisce ed è feconda in forza del seme che riceve.
I Padri hanno applicato il simbolismo della luna alla chiesa soprattutto per due ragioni: per il rapporto luna-donna (madre) e per il fatto che la luna non ha luce propria, ma la riceve dal sole, [86] senza il quale essa sarebbe completamente buia.



La luna risplende, ma la sua luce non è sua, bensì di un altro[nota 2]. È tenebre e nello stesso tempo luce; pur essendo di per sé buia, dona splendore in virtù di un altro di cui riflette la luce. Proprio per questo essa simboleggia la chiesa, la quale pure risplende, anche se di per sé è buia; non è luminosa in virtù della propria luce, ma del vero sole, Gesù Cristo, cosicché, pur essendo soltanto terra (anche la luna non è che un’altra terra), è ugualmente in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio – «la luna narra il mistero di Cristo»[nota 3].

I simboli non vanno forzati; la loro efficacia è tutta in quell’immediatezza plastica che non si può inquadrare in schemi logici. Tuttavia in que[87]sta nostra epoca di viaggi nello spazio viene spontaneo approfondire questo paragone, che, confrontando la concezione fisica con quella simbolica, mette meglio in evidenza la nostra situazione specifica rispetto alla realtà della chiesa.
La sonda lunare e l’astronauta scoprono la luna soltanto come landa rocciosa e desertica, come montagne e come sabbia, non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto deserto, sabbia e rocce. E tuttavia, per merito di altri ed in funzione di altri ancora, essa è pure luce e tale rimane anche nell’epoca dei voli spaziali. È dunque ciò, che in se stessa non è. Pur appartenendo  ad altri, questa realtà è anche sua. Esiste una verità fisica e una simbolico-poetica, una non elimina l’altra.

Ciò non è forse un’immagine esatta della Chiesa? Chi la esplora e la scava con la sonda spaziale scopre soltanto deserto, sabbia e terra, le debolezze dell’uomo, la polvere, i deserti e le altezze della storia. Tutto ciò è suo, ma non rappresenta ancora la sua realtà specifica.
Il fatto decisivo è che essa, pur essendo soltanto sabbia e sassi, è anche luce in forza di un altro, del Signore: ciò che non è suo, è veramente suo e la qualifica più di qualsiasi altra cosa, anzi la sua caratteristica è proprio quella di non valere per se stessa, ma solo per ciò che in essa non è suo, di esistere in qualcosa che le è al di fuori, [88] di avere una luce, che pur essendo sua, costituisce tutta la sua essenza. Essa è ‘luna’ – misterium lunae – e come tale interessa i credenti perché proprio così esige una costante scelta spirituale.

Siccome il significato contenuto in questa immagine mi sembra di importanza decisiva, prima di tradurlo in affermazioni di principio, preferisco chiarirlo meglio con un’altra osservazione.
Dopo la traduzione della liturgia della Messa, avvenuta in seguito all’ultima riforma, recitando il testo prescritto incontravo ogni volta una difficoltà, che mi sembra chiarire ulteriormente l’argomento di cui ci stiamo occupando. Nella traduzione del Suscipiat si dice: «Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio…per il bene nostro e di tutta la sua santa chiesa». Io ero sempre tentato di dire «e di tutta la nostra santa chiesa».
Ricompare qui tutto il nostro problema e il cambiamento operatori in questo ultimo periodo. Al posto della sua chiesa è subentrata la nostra, e con essa le molte chiese; ognuno ha la sua. Le chiese sono diventate imprese nostre, di cui ci vantiamo oppure ci vergogniamo, piccole e innumerevoli proprietà private disposte una accanto all’altra, chiese soltanto nostre, nostra opera e proprietà, che noi conserviamo o trasformiamo a piacimento. Dietro alla «nostra [89] chiesa» o anche alla «vostra chiesa» è scomparsa la «sua chiesa».
Ma è proprio e soltanto questa che interessa; se essa non esiste più, anche la ‘nostra’ deve abdicare. Se fosse soltanto la nostra, la chiesa sarebbe un superfluo gioco da bambini.

Scritti di Joseph Ratzinger 



[nota 1] M. EliadeDie Religionen und das Heilige, Salzburg, 1954, p. 215 [trad. it., Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1954, p. 192]. Cfr. qui anche l’intero capitolo: Mond und Mondmystik, pp. 180-216 [trad. it cit., pp. 158-192 (La luna e la mistica lunare)].

[nota 2] Cfr. H. RahnerGriechische Mythen in christlicher Deutung, Darmstadt, 1957, pp. 200-224 [trad. It., Miti greci nell’interpretazione cristiana, Il Mulino, Bologna 1971, 189-197]; Id., Symbole der Kirche, Salzburg 1964, pp. 89-173 [trad. it., L’ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Paoline, Roma 1971, pp. 145-229]. Interessante l’osservazione secondo cui la scienza antica discusse a lungo sulla questione se la luna avesse o no luce propria. I Padri della chiesa sostennero la tesi negativa, diventata nel frattempo comune, e l’interpretazione in senso teologico-simbolico (cfr. specialmente p. 100 [trad. it., L’ecclesiologia dei Padri, cit., 161ss.).



[nota 3] AmbrosiusExameron IV 8, 32, CSEL 32, 1, p. 137. Z 27ss. [trad. It, I sei giorni della creazione, in Opera omnia di Sant’Ambrogio 1, Ambroniana – Città Nuova, Milano-Roma 1979, 231], RahnerGriechische Mythen, cit., p. 201 [trad. it. cit., p. 192]

Gesù mio, credo in Te, spero in Te,
amo Te e mi dono a Te!