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martedì 27 dicembre 2022

Santo Stefano

 


26 dicembre 2022 - S. Stephani Protomartyris - Tempo di Natale I 


Santo Stefano Primo Martire

Sedérunt príncipes, et advérsum me loquebántur: et iníqui persecúti sunt me: ádiuva me, Dómine, Deus meus, quia servus tuus exercebátur in tuis iustificatiónibus.

Santo Stefano

Cari amici e fratelli, proponiamo la liturgia del Vetus Ordo, ovvero la bimillenaria e  autentica Tradizione degli Apostoli nel Rito Romano antico.
Siamo consapevoli dell'azione quantomai disgregatrice del modernismo, la cui opposizione è la 'ragione più profonda di quest'Opera' del Sommo Maestro e Autore delle 'Parole di Vita Eterna' attraverso il 'Piccolo Giovanni'.
Perché una è 'la Verità del Cristo Dio e Uomo', ed una è 'l'origine divina dei dogmi, dei sacramenti e della Chiesa una, santa, cattolica, apostolica'; così come una e immutabile è la preghiera perfetta - il 'Padre Nostro' - che  ci ha insegnato il Maestro 

Sommo; ed una e perfetta la sequenza del Rosario di 15 poste.
Così troverete la liturgia tradizionale per esteso, e la lettura dal Vangelo di quella moderna: entrambe con i paralleli valtortiani; lasciamo altresì i link alla liturgia in diretta web soltanto del Novus Ordo, avendo difficoltà a reperire quella preferibile del Vetus Ordo: per chi fosse impossibilitato alla frequentazione diretta della Santa 

Messa, o a quanti in questa forma virtuale trovassero il miglior compromesso possibile rispetto alle divagazioni e deviazioni ivi presenti.
'Io ve le dico queste parole. Vi offro questo cibo e questa bevanda d'acqua viva. La mia Parola è Vita. E Io vi voglio nella Vita, con Me. E moltiplico la Mia Parola a controbilanciare i miasmi di Satana che vi distruggono le forze vitali dello spirito.


 AMDG et DVM

sabato 3 agosto 2019

Signore, non imputar loro questo a peccato.





Dagli Atti degli Apostoli


Atti 7:51-59; 8,2
................
51 Di testa dura e incirconcisi di cuore e di orecchio, voi resistete sempre allo Spirito Santo: anche voi siete come i vostri padri.
52 Qual dei profeti non perseguitarono i vostri padri? Uccisero perfino quelli che predicevano la venuta del Giusto, di cui voi siete stati adesso i traditori e gli assassini,
53 Voi che avete ricevuto la legge per ministero d'Angeli, e non l'avete osservata.>>
54 All'udire tali cose, si rodevano nei loro cuori, e digrignavano i denti contro di lui.





55 Ma egli, ch'era pieno dello Spirito Santo, mirando fisso in cielo, vide la gloria di Dio, e Gesù che stava ritto alla destra di Dio. E disse: <<Ecco, io vedo i cieli aperti, e il Figlio dell'uomo ritto alla destra di Dio.>>
56 Ma quelli, gettando grandi grida, si turarono le orecchie, e tutti insieme gli si gettarono addosso.
57 E trascinatolo fuori della città, si diedero a lapidarlo: e i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi d'un giovane, chiamato Saulo.
58 Mentre lo lapidavano, Stefano pregava dicendo: Signore Gesù, ricevi il mio spirito.





59 Poi, caduto ginocchioni, gridò a gran voce, dicendo: <<Signore, non imputar loro questo a peccato.>> E detto ciò, s'addormentò nel Signore. E Saulo approvava l'assassinio di lui. 
1 Si scatenò allora una gran persecuzione contro la Chiesa che era in Gerusalemme; e tutti, fuorché gli Apostoli, si dispersero per le contrade della Giudea e della Samaria. 
2 Ma degli uomini timorati seppellirono Stefano, e fecero gran pianto su di lui.

V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.





Lettura 4


I corpi dei santi Stefano Protomartire, Gamaliele, Nicodemo e Abibone rimasti nascosti per molto tempo in luogo oscuro e sordido, furono ritrovati [anno 541] presso Gerusalemme dal prete Luciano dietro divina rivelazione sotto l'imperatore Onorio. Gamaliele apparsogli in sogno sotto figura d'un vecchio grave e maestoso, gli mostrò il luogo ove giacevano i corpi, e gli ordinò di andare da Giovanni, vescovo di Gerusalemme, a trattare con lui perché quelle spoglie avessero una sepoltura onorevole.


Il vescovo di Gerusalemme udito ciò, convocò i vescovi e i preti delle città vicine; e recatosi sul luogo, si scavò e si scoprirono le tombe, dalle quali esalava un soavissimo odore. Al rumore dell'avvenimento accorse gran folla, e molti fra essi ch'erano affetti da diverse malattie o deboli, ritornarono guariti alle loro case. Il sacro corpo di san Stefano, depositato colla più gran pompa nella santa chiesa di Sion, fu trasportato sotto Teodosio il giovine a Costantinopoli; e in seguito, sotto il sommo Pontefice Pelagio I, a Roma, nel campo Verano, e riposto nella tomba di san Lorenzo Martire.


Dal Libro di sant'Agostino Vescovo «Della Città di Dio»

Libro 22, cap. 8, verso la metà

Allorché il vescovo Projetto portò a Tibilis delle reliquie del gloriosissimo Martire Stefano, ci fu un gran concorso di gente al passaggio della sua urna. 
Fu allora che una donna cieca, avendo pregato d'essere condotta al vescovo che portava le sacre spoglie, presentò dei fiori che aveva seco perché toccassero le sacre reliquie; e, riavutili, se li accostò agli occhi, e tosto riebbe la vista. Con stupore dei presenti, ella si mise a camminare davanti, tutta festante, senza più bisogno di guida. 
Un'altra urna dello stesso Martire si conserva nel borgo di Sinise, presso il contado d'Ippona, e mentre Lucilio, vescovo del luogo, la portava preceduto e seguito dal popolo, fu subito guarito, in grazia di questo prezioso fardello, da una fistola che lo tormentava già da molto tempo, e ch'era per far aprire da un medico suo amico.

V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.


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L'invenzione St. Stephen ~ semiduplex
http://divinumofficium.com/cgi-bin/horas/officium.pl


AMDG e DVM


martedì 26 dicembre 2017

«Amico mio, ti attendo sulla via di Cristo».

645. Il processo a Stefano e la sua lapidazione. 
Le opposte vie di Saulo a di Gamaliele alla santità.
 Atti 6, 8-15; 7; 8, 1 

 Lapides torrentis * illi dulces fuérunt: ipsum sequúntur omnes ánimæ iustæ. - Adhæsit ánima mea * post te, quia caro mea lapidáta est pro te, Deus meus. - Stephanus vidit * cælos apertos, vidit, et introívit: beátus homo, cui cæli patebant.
Le pietre del torrente * furon dolci per lui: lui seguono tutte le anime giuste. - L'anima mia * s'è attaccata a te, perché la mia carne è stata lapidata per te, o mio Dio. - Stefano vide * i cieli aperti, li vide e ci entrò: beato lui, cui si aprivano i cieli.
*
 L’aula del Sinedrio, uguale, e per disposizione e per persone, a come era nella notte tra il giovedì e il venerdì, durante il processo di Gesù.
Il Sommo Sacerdote e gli altri sono sui loro scanni.
Al centro, davanti al Sommo Sacerdote, nello spazio vuoto dove, durante il processo, era Gesù, è ora Stefano.

Egli deve aver già parlato (come in: Atti 6, 8-15; 7, 1-54), confessando la sua fede e testimoniando sulla vera Natura del Cristo e sulla sua Chiesa, perché il tumulto è al colmo e nella sua violenza è in tutto simile a quello che si agitava contro il Cristo nella notte fatale del tradimento e deicidio.

Pugni, maledizioni, bestemmie orrende sono lanciati contro il diacono Stefano che, sotto le percosse brutali, traballa e vacilla mentre con ferocia lo stiracchiano qua e là. Ma egli conserva la sua calma e dignità.

Anzi più ancora. È non solo calmo e dignitoso, ma persino beato, quasi estatico. Senza curarsi degli sputi che gli rigano il volto, né del sangue che gli scende dal naso violentemente colpito, alza, ad un certo momento, il suo volto ispirato e il suo sguardo luminoso e sorridente per affissarsi su una visione nota a lui solo. Apre poi le braccia in croce, le alza e le tende verso l’alto, come per abbracciare ciò che vede, poscia cade in ginocchio esclamando:
«Ecco, io vedo aperti i Cieli, ed il Figlio dell’Uomo, Gesù, il Cristo di Dio, che voi avete ucciso, stare alla destra di Dio».

Allora il tumulto perde quel minimo che ancora conservava di umanità e di legalità e, con la furia di una muta di lupi, di sciacalli, di belve idrofobe, tutti si slanciano sul diacono, lo mordono, lo calpestano, lo afferrano, lo rialzano sollevandolo per i capelli, lo trascinano, facendolo cadere di nuovo, facendo ostacolo con la furia alla furia, perché, nella ressa, chi cerca di strascinare fuori il martire è ostacolato da chi lo tira in altra direzione per colpirlo, per calpestarlo di nuovo.

Tra i furenti più furenti vi è un giovane basso e brutto, che chiamano Saulo. La ferocia del suo volto è indescrivibile.

In un angolo della sala sta Gamaliele. Egli non ha mai preso parte alla zuffa, né mai ha rivolto parola a Stefano né ad alcun potente. Il suo disgusto per la scena ingiusta e feroce è palese.

In un altro angolo, anche lui disgustato e non partecipante al processo e alla mischia, sta Nicodemo, che guarda Gamaliele, il cui volto è di una espressione più chiara di ogni parola. Ma, ad un tratto, e precisamente quando vede per la terza volta sollevare Stefano per i capelli, Gamaliele si ammanta nel suo amplissimo mantello e si dirige verso un’uscita opposta a quella verso cui è strascinato il diacono. L’atto non sfugge a Saulo, che grida: «Rabbi, te ne vai?». Gamaliele non risponde. Saulo, temendo che Gamaliele non abbia capito che la domanda era diretta a lui, ripete e specifica: «Rabbi Gamaliele, ti astrai da questo giudizio?». Gamaliele si volge tutto d’un pezzo e, con uno sguardo terribile tanto è disgustato, altero e glaciale, risponde soltanto: «Sì». Ma è un “sì” che vale più d’un lungo discorso.
Saulo capisce tutto quanto c’è in quel “sì” e, abbandonando la muta feroce, corre verso Gamaliele. Lo raggiunge, lo ferma e gli dice:
«Non vorrai dirmi, o rabbi, che tu disapprovi la nostra condanna».
Gamaliele non lo guarda e non gli risponde.

Saulo incalza: «Quell’uomo è doppiamente colpevole, per aver rinnegato la Legge, seguendo un samaritano posseduto da Belzebù, e per averlo fatto dopo esser stato tuo discepolo».
Gamaliele continua a non guardarlo e a tacere.

Saulo allora chiede: «Ma sei tu forse, anche tu, seguace di quel malfattore detto Gesù?».

Gamaliele ora parla e dice: «Non lo sono ancora. Ma, se Egli era Colui che diceva, e in verità molte cose stanno a dimostrare che lo era, io prego Dio che io lo divenga».

«Orrore!», grida Saulo.

«Nessun orrore. Ognuno ha un’intelligenza per adoperarla e una libertà per applicarla. Ognuno dunque l’usi secondo quella libertà che Dio ha dato ad ogni uomo e quella luce che ha messo nel cuore di ognuno. I giusti, prima o poi, li useranno, questi due doni di Dio, nel bene, ed i malvagi nel male». E se ne va, dirigendosi verso il cortile dove è il gazofilacio, e va ad appoggiarsi contro la stessa colonna contro la quale Gesù parlò alla povera vedova che dà al Tesoro del Tempio tutto quanto ha: due piccioli. (Vol 9 Cap 596).

È lì da poco quando lo raggiunge nuovamente Saulo e gli si pianta davanti. Il contrasto tra i due è fortissimo.

Gamaliele alto, di nobile portamento, bello nei tratti fortemente semitici, dalla fronte alta, dai nerissimi occhi intelligenti, penetranti, lunghi e molto incassati sotto le sopracciglia folte e diritte, ai lati del naso pure diritto, lungo e sottile, che ricorda un poco quello di Gesù. Anche il colore della pelle, la bocca dalle labbra sottili, ricordano quelle di Cristo. Solo che Gamaliele ha la barba e i baffi, un tempo nerissimi, ora molto brizzolati e più lunghi.

Saulo invece è basso, tarchiato, quasi rachitico, con gambe corte e grosse, un poco divaricate ai ginocchi, che si vedono bene perché si è levato il manto ed ha solo una veste a tunica corta e bigiognola. Ha le braccia corte e nerborute come le gambe, collo corto e tozzo, sorreggente una testa grossa, bruna, con capelli corti e ruvidi, orecchie piuttosto sporgenti, naso camuso, labbra tumide, zigomi alti e grossi, fronte convessa, occhi scuri, piuttosto bovini, per nulla dolci e miti, ma molto intelligenti sotto le ciglia molto arcuate, folte e arruffate. Le guance sono coperte da una barba ispida come i capelli e foltissima, però tenuta corta. Forse, per causa del collo così corto, pare lievemente gobbo o con spalle molto tonde.  Per un poco tace, fissando Gamaliele. Poi gli dice qualcosa sottovoce.

Gamaliele gli risponde, con voce ben netta e forte: «Non approvo la violenza. Per nessun motivo. Da me non avrai mai approvazione ad alcun disegno violento. L’ho detto anche pubblicamente, a tutto il Sinedrio, quando furono presi, per la seconda volta, Pietro e gli altri apostoli e furono portati davanti al Sinedrio perché li giudicasse. E ripeto le stesse cose: “Se è disegno e opera degli uomini, perirà da sé; se è da Dio, non potrà essere distrutta dagli uomini, ma anzi questi potranno esser colpiti da Dio”. Ricordalo».

«Sei protettore di questi bestemmiatori seguaci del Nazareno, tu, il più grande rabbi d’Israele?».

«Sono protettore della giustizia. E questa insegna ad essere cauti e giusti nel giudicare. Te lo ripeto. Se è cosa che viene da Dio resisterà, se no cadrà da sé. Ma io non voglio macchiarmi le mani di un sangue che non so se meriti la morte».

«Tu, tu, fariseo e dottore, parli così? Non temi l’Altissimo?».

«Più di te. Ma penso. E ricordo... Tu non eri che un piccolo, non ancora figlio della Legge, ed io insegnavo già in questo Tempio con il rabbi più saggio di questo tempo... e con altri, saggi ma non giusti. La nostra saggezza ebbe, tra queste mura, una lezione che ci fece pensare per tutto il resto della vita. (Quella di Gesù adolescente, al Vol 1 Cap 41). Gli occhi del più saggio e giusto del tempo nostro si chiusero sul ricordo di quell’ora e la sua mente sullo studio di quelle verità, udite dalle labbra di un fanciullo che si rivelava agli uomini, specie se giusti. I miei occhi hanno continuato a vigilare e la mia mente a pensare, coordinando eventi e cose... Io ho avuto il privilegio di udire l’Altissimo parlare per mezzo della bocca di un fanciullo, che fu poi uomo giusto, sapiente, potente, santo, e che fu messo a morte proprio per queste sue qualità. Le sue parole di allora hanno poi avuto conferma dai fatti accaduti molti anni dopo, all’epoca detta da Daniele (9)... Misero me che non compresi avanti! che attesi l’ultimo terribile segno per credere, per capire! Misero popolo d’Israele che non comprese allora e non comprende neppur ora! La profezia di Daniele, e quella d’altri profeti e della Parola di Dio, continuano e si compiranno per Israele cocciuto, cieco, sordo, ingiusto, che continua a perseguitare il Messia nei suoi servi!».

«Maledizione! Tu bestemmi! Veramente non vi sarà più salvezza per il popolo di Dio se i rabbi d’Israele bestemmiano, rinnegano Javé, il Dio vero, per esaltare e credere in un falso Messia!».

«Non io bestemmio. Ma tutti coloro che insultarono il Nazareno e continuano a fargli spregio, spregiando i suoi seguaci. Tu sì che lo bestemmi, poiché tu odi, in Lui e nei suoi. Ma hai detto giusto dicendo che non c’è più salvezza per Israele. Ma non perché vi sono israeliti che passano nel suo gregge, ma perché Israele ha colpito Lui, a morte».

«Mi fai orrore! Tradisci la Legge, il Tempio!».

«Denunciami allora al Sinedrio, perché io abbia la stessa sorte di colui che sta per essere lapidato. Sarà l’inizio e il compendio felice della tua missione. E io sarò perdonato, per questo mio sacrificio, di non aver riconosciuto e compreso il Dio che passava, Salvatore e Maestro, tra noi, suoi figli e suo popolo».

Saulo, con un atto d’ira, va via sgarbatamente, tornando nel cortile prospiciente all’aula del Sinedrio, cortile nel quale dura il gridio della folla esasperata contro Stefano. Saulo raggiunge gli aguzzini in questo cortile, si unisce a loro, che lo attendevano, ed esce insieme agli altri dal Tempio e poi dalle mura della città. Insulti, dileggi, percosse continuano ad esser lanciati contro il diacono, che procede già spossato, ferito, barcollante, verso il luogo del supplizio.

Fuori delle mura vi è uno spazio incolto e sassoso, assolutamente deserto. Là giunti, i carnefici si allargano in cerchio, lasciando solo, al centro, il condannato, con le vesti lacere e sanguinante in molte parti del corpo per le ferite già ricevute. Gliele strappano prima di allontanarsi. Stefano resta con una tunichetta cortissima.

Tutti si levano le vesti lunghe, rimanendo con le sole tuniche, corte come quella di Saulo, al quale affidano le vesti, dato che egli non prende parte alla lapidazione, o perché scosso dalle parole di Gamaliele, o perché si sa incapace di colpire bene. I carnefici raccolgono i grossi ciottoli e le aguzze selci, che abbondano in quel luogo, e cominciano la lapidazione.

Stefano riceve i primi colpi rimanendo in piedi e con un sorriso di perdono sulla bocca ferita, che, un istante prima dell’inizio della lapidazione, ha gridato a Saulo, intento a raccogliere le vesti dei lapidatori: «Amico mio, ti attendo sulla via di Cristo».

Al che Saulo gli aveva risposto: «Porco! Ossesso!», unendo alle ingiurie un calcio vigoroso sugli stinchi del diacono, che solo per poco non cade, e per l’urto e per il dolore.

Dopo diversi colpi di pietra, che lo colpiscono da ogni parte, Stefano cade in ginocchio puntellandosi sulle mani ferite e, certo ricordando un episodio lontano (Vol 5 Cap 354), mormora, toccandosi le tempie e la fronte ferita: «Come Egli m’aveva predetto! La corona... I rubini... O Signore mio, Maestro, Gesù, ricevi lo spirito mio!». Un’altra grandine di colpi sul capo già ferito lo fanno stramazzare del tutto al suolo, che si impregna del suo sangue. Mentre si abbandona tra i sassi, sempre sotto una grandine di altre pietre, mormora spirando: «Signore... Padre... perdonali... non tener loro rancore per questo loro peccato... Non sanno quello che...».
La morte gli spezza la frase tra le labbra, un estremo sussulto lo fa come raggomitolare su sé stesso, e così resta. Morto.

I carnefici gli si avvicinano, gli lanciano addosso un’altra scarica di sassate, lo seppelliscono quasi sotto di esse. Poi si rivestono e se ne vanno, tornando al Tempio per riferire, ebbri di zelo satanico, ciò che hanno fatto.

Mentre parlano col Sommo Sacerdote e altri potenti, Saulo va in cerca di Gamaliele. Non lo trova subito. Torna, acceso d’odio verso i cristiani, dai sacerdoti, parla con loro, si fa dare una pergamena col sigillo del Tempio che lo autorizza a perseguitare i cristiani. Il sangue di Stefano deve averlo reso furente come un toro che veda il rosso, o un vino generoso dato ad un alcoolizzato.
Sta per uscire dal Tempio quando vede, sotto il portico dei Pagani, Gamaliele. Va da lui. Forse vuole iniziare una disputa o una giustificazione.
Ma Gamaliele traversa il cortile, entra in una sala, chiude la porta in faccia a Saulo che, offeso e furente, esce di corsa dal Tempio per perseguitare i cristiani.

 [Dice Gesù:] «Mi sono manifestato molte volte e a molti, anche nelle straordinarie manifestazioni. Ma non in tutti in ugual modo la mia manifestazione operò. Possiamo vedere come ad ogni mia manifestazione corrisponda una santificazione di coloro che possedevano la buona volontà richiesta agli uomini per avere Pace, Vita, Giustizia.

Così, nei pastori la Grazia lavorò per i trent’anni del mio nascondimento e poi fiorì con spiga santa quando fu il tempo in cui i buoni si separarono dai malvagi per seguire il Figlio di Dio, che passava per le vie del mondo gettando il suo grido d’amore per chiamare a raccolta le pecore del Gregge eterno, sparpagliate e sperdute da Satana.
Presenti tra le turbe che mi seguivano, messi miei, perché, coi loro semplici e convinti racconti, bandivano il Cristo dicendo: “È Lui. Noi lo riconosciamo. Sul suo primo vagito scesero le ninna-nanne degli angeli. E a noi, dagli angeli, fu detto che avranno pace gli uomini di buona volontà. Buona volontà è il desiderio del Bene e della Verità. Seguiamolo! Seguitelo! Avremo tutti la Pace promessa dal Signore” .

Umili, ignoranti, poveri, i miei primi messi tra gli uomini si scaglionarono come scolte lungo le vie del Re d’Israele, del Re del mondo.
Occhi fedeli, bocche oneste, cuori amorosi, incensieri esalanti il profumo delle loro virtù per fare meno corrotta l’aria della Terra intorno alla mia divina Persona, che s’era incarnata per loro e per tutti gli uomini, e persino ai piedi della Croce li ho trovati, dopo averli benedetti col mio sguardo lungo la via sanguinosa del Golgota, unici, con pochissimi altri, che non maledicessero fra la plebe scatenata ma che amassero, credessero, sperassero ancora, e che mi guardassero con occhi di compassione, pensando alla notte lontana del mio Natale e piangendo sull’Innocente, il cui primo sonno fu su un legno penoso e l’ultimo su un legno ancor più doloroso.
Questo perché la mia manifestazione a loro, anime rette, li aveva santificati. 

E così pure avvenne ai tre Savi d’Oriente, a Simeone ed Anna nel Tempio, ad Andrea e Giovanni al Giordano, e a Pietro, Giacomo e Giovanni al Tabor, a Maria di Magdala nell’alba pasquale, agli undici perdonati sull’Uliveto, e ancor prima a Betania, del loro smarrimento...

No. Giovanni, il puro, non ebbe bisogno di perdono. Fu il fedele, l’eroe, l’amante sempre. L’amore purissimo che era in lui e la sua purezza di mente, di cuore, di carne, lo preservò da ogni debolezza. Gamaliele, e con lui Hillele, non erano semplici come i pastori, santi come Simeone, sapienti come i tre Savi.

In lui, e nel suo maestro e parente, era il viluppo delle liane farisaiche a soffocare la luce e la libera espansione della pianta della Fede. Ma nel loro essere farisei era purità d’intenzione. Credevano di essere nel giusto e desideravano di esserlo. Lo desideravano per istinto, perché erano dei giusti, e per intelletto, perché il loro spirito gridava malcontento: “Questo pane è mescolato a troppa cenere. Dateci il pane della vera Verità”.

Gamaliele però non era forte al punto di avere il coraggio di spezzare queste liane farisaiche. L’umanità sua lo teneva ancor troppo schiavo e, con essa, le considerazioni della stima umana, del pericolo personale, del benessere famigliare. Per tutte queste cose Gamaliele non aveva saputo comprendere “il Dio che passava tra il suo popolo”, né usare “quell’intelligenza e quella libertà” che Dio ha dato ad ogni uomo perché le usi per il suo bene.

Solo il segno atteso per tanti anni, il segno che lo aveva atterrato e torturato con rimorsi che non cessavano più, avrebbe suscitato in lui il riconoscimento del Cristo e la mutazione del suo antico pensiero, per cui, da rabbi dell’errore -- avendo gli scribi, i farisei ed i dottori corrotta l’essenza e lo spirito della Legge, soffocandone la semplice e luminosa verità, venuta da Dio, sotto cumuli di precetti umani, sovente errati, ma sempre di utilità per loro -- sarebbe divenuto, dopo lunga lotta tra il suo io antico a il suo io attuale, discepolo della Verità divina.

Non era, del resto, stato il solo nell’essere incerto nel decidere e forte nell’agire. Anche Giuseppe d’Arimatea, e più ancora Nicodemo, non seppero mettere subito sotto i piedi le consuetudini e le liane giudaiche e abbracciare palesemente la nuova Dottrina, tanto che usavano venire dal Cristo “in occulto” per timore dei giudei, oppure costumavano incontrarlo come per caso, e per lo più nelle loro case di campagna o in quella di Betania, da Lazzaro, perché la sapevano più sicura e più temuta dai nemici del Cristo, ai quali era ben nota la protezione di Roma per il figlio di Teofilo. Certamente, però, sempre molto più avanti nel Bene e più coraggiosi questi rispetto a Gamaliele, al punto da osare i gesti pietosi del Venerdì Santo.

Meno avanti rabbi Gamaliele.
Ma osservate, voi che leggete, la potenza della sua retta intenzione. Per essa la sua giustizia, umanissima, si intinge di sovrumano.

Quella di Saulo, invece, si sporca di demoniaco nell’ora che lo scatenarsi del male pone lui e il suo maestro Gamaliele davanti al bivio della scelta tra il Bene e il Male, tra il giusto e l’ingiusto.
L’albero del Bene e del Male si drizza davanti ad ogni uomo per presentargli, col più invitante e appetitoso aspetto, i suoi frutti del Male, mentre tra le fronde, con ingannevole voce di usignolo, sibila il Serpente tentatore. Sta all’uomo, creatura dotata di ragione e di un’anima datagli da Dio, saper discernere e volere il frutto buono tra i molti che buoni non sono e che dànno lesione e morte allo spirito, e quello cogliere, anche se pungente e faticoso a cogliersi, amaro a gustarsi e meschino d’aspetto.

La sua metamorfosi, per cui diviene tanto più liscio e morbido al tatto, dolce al gusto, bello all’occhio, avviene solo quando, per giustizia di spirito e ragione, si sa scegliere il frutto buono e ci si è nutriti del suo succo, amaro ma santo.
Saulo tende le mani avide al frutto del Male, dell’odio, dell’ingiustizia, del delitto, e le tenderà sinché non verrà folgorato, abbattuto, fatto cieco della vista umana perché acquisti la vista sovrumana e divenga non solo giusto, ma apostolo e confessore di Colui che prima odiava e perseguitava nei suoi servi.
Gamaliele, spezzando le liane tenaci della sua umanità e dell’ebraismo, per il nascere e fiorire del lontano seme di luce e giustizia, non solo umana ma anche sovrumana, che la mia quarta epifania - o manifestazione, che forse vi è parola più chiara e comprensibile - gli aveva posto in cuore, nel suo cuore dalle rette intenzioni, seme che egli aveva custodito e difeso con onesta affezione ed eletta sete di vederlo nascere e fiorire, tende le mani al frutto del Bene. Il suo volere ed il mio Sangue ruppero la dura scorza di quel lontano seme, che egli aveva conservato nel cuore per decenni, in quel cuore di roccia che si fendette insieme al velo del Tempio a alla terra di Gerusalemme - e che gridò il suo supremo desiderio a Me, che più non potevo udirlo con udito umano ma che ben l’udivo col mio spirito divino - là, gettato a terra ai piedi della croce.
E sotto il fuoco solare delle parole apostoliche e dei discepoli migliori e la pioggia del sangue di Stefano, primo martire, quel seme mette radici, fa pianta, fiorisce e fruttifica. La pianta novella del suo cristianesimo, nata là dove la tragedia del Venerdì Santo aveva abbattuto, sradicato, distrutto tutte le piante ed erbe antiche.

La pianta del suo nuovo cristianesimo e della sua santità nuova è nata e s’erge davanti agli occhi miei. Perdonato da Me, benché colpevole per non avermi compreso avanti, per la sua giustizia che non volle partecipare alla mia condanna né a quella di Stefano, il suo desiderio di divenire mio seguace, figlio della Verità, della Luce, viene benedetto anche dal Padre e dallo Spirito Santificatore, e da desiderio diviene realtà, senza bisogno di una potente e violenta folgorazione quale fu necessaria per Saulo sulla via di Damasco, per il protervo che con nessun altro mezzo avrebbe potuto esser conquistato e condotto alla Giustizia, alla Carità, alla Luce, alla Verità, alla Vita eterna e gloriosa dei Cieli».
*
Gesù Solo Salva
AMDG et DVM

martedì 2 agosto 2016

Ritrovamento del Corpo di Santo Stefano Protomartire : De Inventione S. Stephani Protomartyris ~ 3.8.2016

Dagli Atti degli Apostoli
Atti 7:51-58
51 Di testa dura e incirconcisi di cuore e di orecchio, voi resistete sempre allo Spirito Santo: anche voi siete come i vostri padri.
52 Qual dei profeti non perseguitarono i vostri padri? Uccisero perfino quelli che predicevano la venuta del Giusto, di cui voi siete stati adesso i traditori e gli assassini,
53 Voi che avete ricevuto la legge per ministero d'Angeli, e non l'avete osservata.
54 All'udire tali cose, si rodevano nei loro cuori, e digrignavano i denti contro di lui.


55 Ma egli, ch'era pieno dello Spirito Santo, mirando fisso in cielo, vide la gloria di Dio, e Gesù che stava ritto alla destra di Dio. E disse: Ecco, io vedo i cieli aperti, e il Figlio dell'uomo ritto alla destra di Dio. 
56 Ma quelli, gettando grandi grida, si turarono le orecchie, e tutti insieme gli si gettarono addosso. 
57 E trascinatolo fuori della città, si diedero a lapidarlo: e i testimoni deposero i loro mantelli ai piedi d'un giovane, chiamato Saulo. 
58 Mentre lo lapidavano, Stefano pregava dicendo: Signore Gesù, ricevi il mio spirito.


Lettura 3
I corpi dei santi Stefano Protomartire, Gamaliele, Nicodemo e Abibone, esalanti un soavissimo odore, furono trovati vicino a Gerusalemme, da Giovanni vescovo di Gerusalemme. 


Al rumore dell'avvenimento accorse gran folla, e molti fra essi ch'erano affetti da diverse malattie o deboli, ritornarono guariti alle loro case. 

Il sacro corpo di san Stefano, depositato colla più gran pompa nella santa chiesa di Sion, fu trasportato sotto Teodosio il giovine a Costantinopoli; e in seguito, sotto il sommo Pontefice Pelagio I, a Roma, nel campo Verano, e riposto nella tomba di san Lorenzo Martire.
[Sant'Agostino nel suo DE CIVITATE DEI  parlando sul tema della Risurrezione della carne narra molti miracoli avvenuti per intercessione di Santo Stefano Protomartire le cui reliquie in quegli anni erano state trovate. cfr XXII, 8, 11-23]

V. O Signore, esaudisci la mia preghiera.
R. E il mio grido giunga fino a Te. 
Preghiamo
Signore, dacci d'imitare quello che onoriamo: cosicché impariamo ad amare anche i nemici; poiché celebriamo l'Invenzione di colui che anche per i persecutori seppe pregare nostro Signore Gesù Cristo tuo Figlio
Lui che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.

R. Amen

giovedì 25 dicembre 2014

Santo STEFANO PROTOMARTIRE


FESTA DI Santo STEFANO PROTOMARTIRE

1. In quel tempo: “Gesù diceva alla folla dei Giudei: Ecco, io vi mando i profeti”, ecc. (Mt 23,1.34). In questo brano del vangelo si devono considerare due fatti:
- la persecuzione dei giusti,
- Cristo che si paragona alla chioccia.

I. la persecuzione dei giusti


2. “Ecco, io vi mando i profeti...” In questa prima parte si fa osservare, in senso morale, in che maniera i mondani e i carnali distruggono i se stessi o respingono da sé la molteplice ispirazione della grazia divina.
“Diceva dunque alla folla dei Giudei”. I Giudei, che amavano i beni passeggeri e solo ad essi si dedicavano, raffigurano i mondani, dediti al corpo, i quali, come è detto nel libro dei Giudici, non sono capaci di dire Scibbolet, che significa spiga o grano, ma dicono Sibbolet, che vuol dire paglia (cf. Gdc 12,6). Vanno infatti dietro alla paglia e così diventano essi stessi paglia, destinata ad essere bruciata nel fuoco eterno1.
A costoro dunque il Signore dice: “Ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi” (Mt 23,1.34). In queste tre categorie di inviati è simboleggiata la triplice ispirazione della grazia divina. I profeti raffigurano il timore del giudizio e l’orrore dell’inferno, che il Signore manda all’anima peccatrice affinché le preannuncino il giudice tremendo e la geenna vendicatrice. Dice Nahum: “Davanti al suo sdegno chi può resistere? Chi affronterà il furore della sua ira? La sua collera si diffonde come il fuoco e perfino le pietre si dissolvono davanti a lui” (Na 1,6). E Gioele: “Davanti a lui c’è il fuoco che divora, e dietro a lui c’è la fiamma che consuma” (Gl 2,3).
Il Signore, per bocca di Geremia, dice di questi profe­ti: “Io vi ho mandato i miei servi, i profeti, alzandomi di notte; li ho mandati perché vi dicessero: Non fate questa cosa abominevole! Ma essi non hanno ascoltato e non hanno prestato orecchio in modo da abbandonare la loro iniquità” (Ger 44,4-5). È detto che il Signore si alza di notte a mandare i profeti, in quanto all’anima che vive nella notte del peccato, egli, nella sua misericordia, incute il salutare timore del giudizio e il terrore dell’inferno. Ma l’anima sventurata non accoglie l’ispirazione, né presta l’orecchio dell’obbedienza per allontanarsi dal male e volgersi alla penitenza.
Ugualmente, i sapienti raffigurano quelle divine ispirazioni che mettono ordine nei pensieri, fanno riflettere prima di parlare, impreziosiscono le opere, regolano la vita e dispongono rettamente ogni cosa. Chi cammina con questi sapienti, diventa egli stesso sapiente. Di essi dice l’Ecclesiastico: Non disprezzare i discorsi dei sapienti, ma abbi familiarità con le loro massime: impara da loro il sapere e il discernimento (cf. Eccli 8,9-10). Preziosa è la loro scuola, gradito il loro insegnamento, lodevoli le loro direttive: riformano i costumi e distruggono i vizi.
Infine gli scribi raffigurano gli affetti, i sentimenti della nostra mente, che nel libro della memoria scrivono l’impurità del nostro concepimento, la materialità della nostra nascita, la malvagità di chi compie il male, la miseria del nostro peregrinare, la brevità del tempo e il pensiero della morte. Leggi in questo scritto così veritiero, studia in questo libro nel quale, come dice Ezechiele, sono scritti lamen­ti, pianti e guai (cf. Ez 2,9). Lamenti per l’impurità del concepimento e la materialità della nascita; pianti per la malvagità di chi compie il male, e la miseria del nostro peregrinare; guai per la brevità del tempo e il pensiero della morte.
Ecco in qual modo il Signore pietoso e pieno di misericordia vi manda i profeti per infondervi il dolore, i sapienti per riformare i costumi, e gli scribi per ricorda­rvi sempre la condizione della vostra vita.

3. Ma sentiamo come i Giudei ingrati, cioè gli adoratori dei beni terreni, abbiano corrisposto con tante scelle­ratezze a sì grandi benefici.
“Di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe” (Mt 23,34). Uniamo tra loro i termini corrispondenti: uccidono i profeti, crocifiggono i sapienti e flagellano gli scribi. I superbi e i vanaglorio­si uccidono i profeti; i golosi e i lussuriosi crocifiggono i sapienti; gli avari e gli usurai flagellano gli scribi.
La superbia e la vanagloria uccidono nell’uomo il terrore del giudizio e l’orrore dell’inferno. Perciò oggi Stefa­no dice ai giudei: “O gente di dura cervice”, ecco la superbia; “incirconcisi nel cuore e negli orecchi”, ecco la vanagloria: infatti non vogliono capire né sentire se non quello che piace a loro; “voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo, come facevano anche i vostri padri. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccise­ro quelli che preannunciavano la venuta del Giusto” (At 7,51-52). Quindi li uccidono in se stessi, perché essi preannunciano l’arrivo del giudizio.
I golosi e i lussuriosi crocifiggono e tormentano i sapienti: essi infatti sono corrotti nei pensieri, lascivi nelle parole, dissoluti nella loro condotta, disordinati nei costumi. Dicono perciò: “Riempiamoci di vino squisito e di profumi; non lasciamoci sfuggire il fiore della primave­ra. Coroniamoci di rose prima che avvizziscano; nessun prato sfugga alle scorribande della nostra lussuria (Sap 2,7-8).
Gli avari e gli usurai flagellano gli scribi nelle sinagoghe, cioè nella loro coscienza, dov’è la sede e la sinagoga di satana (cf. Ap 2,9.13). Gli sventurati non considerano la condizione della loro vita, la loro nascita e la loro morte. Sono nati senza borsa e senza un soldo, moriranno con poca stoppa e sacco; sono nati nudi, moriranno coperti di poca stoffa. E da dove allora hanno avuto tutto ciò che possiedono? Dalla rapina e dall’usura. Dice Abacuc: “Guai a colui che accumula ciò che non è suo! Fino a quando continuerà ad ammassare su di sé tanto fango?” (Ab 2,6). Fa come lo scarabeo che accumula una quantità di sterco e con grande fatica ne fa una palla rotonda; ma alla fine passa un asino e mette la zampa sullo scarabeo e sulla palla, e in un istante distrugge lo scarabeo e la palla, per la quale ha tanto faticato. Così l’avaro, o l’usuraio, accumula a lungo lo sterco del denaro, a lungo fatica, ma quando meno se l’aspetta il diavolo lo strangola. E così l’anima va ai demoni, la carne ai vermi e il denaro ai parenti.

4. “Sarete perseguitati di città in città” (Mt 23,34). Ahimè, non si accontentano quegli sventurati di rifiutare l’ispirazione della grazia divina e di spegnerla in se stessi, ma vogliono scacciarla anche dai loro congiunti, come dai figli e dalle mogli, quasi perseguitandoli di città in città. Un esempio: se il figlio di un usuraio, scosso dalla paura del giudizio e della pena dell’inferno, fa il proposito di vivere onestamente e di piangere sulla miseria della sua vita, e il padre suo ha sentore di ciò, questi, con tutte le sue forze, osteggia in lui questa grazia e lo stesso fa con la figlia, con la moglie e con tutta la famiglia.
“Perché ricada su di voi tutto il sangue innocente”, cioè la giusta vendetta per il sangue versato, “dal sangue del giusto Abele”, nome che significa “lutto”, “fino al sangue di Zaccaria”, che s’interpreta “ricordo del Signo­re", “figlio di Barachia”, che significa “benedizione del Signore” (Mt 23,35). Ecco quante scelleratezze hanno perpetrato quegli omicidi! Uccidono in se stessi e nei loro parenti il pianto della penitenza e il ricordo della passione del Signore, che è stata data da Dio Padre in benedizione per tutto il mondo.
“Che avete ucciso tra il tempio e l’altare” (Mt 23,35), cioè nell’atrio del tempio. Dice l’Apocalisse: “L’atrio, che è fuori del tempio, lascialo da parte e non misurarlo, perché è stato dato in balìa dei pagani (Ap 11,2), cioè di coloro che vivono da pagani. Il tempio è figura della chiesa trionfante; l’altare, della chiesa militante; l’atrio invece simboleggia la vanità del mondo, nella quale si sopprime il ricordo della passione del Signore.

II. cristo si paragona alla chioccia
 
5. “Gerusalemme, Gerusalemme!” (Mt 23,37). Con sentimento di pietà Gesù piange sugli uomini, non sulle pietre [della città]. “Che uccidi i profeti”, i quali annunciano il Signore dei profeti, “e li làpidi” (Mt 23,37). Proprio a motivo di queste parole, si legge questo brano del vangelo in questo giorno, nel quale il beato Stefano fu lapidato dai Giudei: mentre li rimproverava per la loro durezza – “gente di dura cervice” (At 7,51) , aveva loro detto –, affrontò la durezza delle pietre. Ma “gode chi è paziente nelle durezze” (Luca­no). Ieri è nato il Signore, oggi viene lapidato il servo; ieri il Re è stato avvolto in fasce, oggi il soldato è stato spogliato della veste corruttibile; ieri il Salvatore è stato adagiato nel presepio, oggi Stefano viene portato in cielo.
Stefano s’interpreta “regola”, o “coronato”, oppure anche “che fissa lo sguardo”. Regola dev’essere per noi il suo esempio: “Piegate le ginocchia” pregò per quelli che lo lapidavano: “Signore, non imputar loro questo peccato” (At 7,60). Fu coronato con il suo stesso sangue, e fissò lo sguardo nel Figlio di Dio: “Vedo i cieli aperti e Gesù che sta alla destra di Dio” (At 7,56.60).
“Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e tu non hai voluto” (Mt 23,37). Come dicesse: Io volevo ma tu non hai voluto, e ogni volta che li ho raccolti, con la mia volontà sempre efficace, l’ho fatto contro la tua volontà, perché sei sempre stata ingrata!

6. In altro senso. Il Signore rivolge il suo rimprovero all’anima ingrata: “Gerusalemme, Gerusalemme!”. Questo nome s’interpreta “timore perfetto”, ossia completo, o anche “temerà totalmente” (Girolamo). È detta casa imperfetta quella non ancora finita, non ancora completata. Osserva che dice due volte “Gerusalemme”, perché l’anima sventurata che, come si è detto sopra, uccide in se stessa i profeti, deve temere due cose: di vedere sopra di sé il giudice adirato, e sotto di sé la geenna aperta e ardente; e allora il suo timore sarà perfetto, completo. Adesso non teme perché in questo suo giorno [non vuole conoscere] ciò che serve alla sua pace(cf. Lc 19,42).
“E lapidi quelli che ti sono inviati” (Mt 23,37), respingi cioè con la durezza del cuore le ispirazioni della grazia divina e le sue manifestazioni. Dice Isaia: “So che tu sei ostinato, che la tua cervice è una sbarra (nervus) di ferro e la tua fronte è di bronzo” (Is 48,4). Nella sbarra di ferro è simboleggiata la superbia ostinata. Agostino dice: “Drizzare la testa è segno di superbia”. Nella fronte di bronzo è indicata l’irriverenza; dice Ezechiele: “Tutta la casa d’Israele è di fronte impudente e di cuore indurito” (Ez 3,7).
“Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, e non hai voluto”. Osserva che la giustificazione dell’uomo si effettua in due modi: e cioè con la propria decisione e con l’ispira­zione divina: il Creatore coopera all’azione della sua creatura. Perciò il Creatore, nell’opera della nostra giustificazione, esige il nostro volontario assenso; infatti dice: “Se vorrete e mi ascolterete, mangerete i frutti della terra” (Is 1,19).
Quanto si mettono impedimenti a quest’azione, ciò viene imputato al libero arbitrio, perché è detto: “Se il mio popolo mi avesse ascoltato” (Sal 80,14), ecc. Se noi infatti in questa opera non facciamo proprio niente, inutilmente imploriamo l’aiuto del Creatore, e falsamente lo chiamiamo adiutore. Una cosa infatti è fare e un’altra è aiutare. Che cosa vuol dire aiutare se non cooperare con chi opera? Ha inteso di aver in lui un aiuto e un cooperatore nel bene, colui che disse: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore, o Signore, non tardare!” (Sal 69,6). Ogni giorno cerchiamo il suo aiuto, quando nelle nostre preghiere quotidiane gridiamo: “Aiutaci, o Dio, nostro Salvatore!” (Sal 78,9). È chiaro dunque che “da due” viene compiuta quest’opera, nella quale il creatore opera insieme con la sua creatura.
In quest’opera perciò sono necessari il nostro impegno e la grazia divina. Invano uno si appoggia al libero arbitrio se non si sostiene con l’aiuto divino. La nostra giustificazione si compie per mezzo della nostra decisione e con l’ispirazione divina. Il volere solo cose giuste significa essere già giusto. Infatti soltanto dalla nostra volontà dipende l’es­sere detti, a ragione, giusti o ingiusti, sebbene in ambedue i casi siamo anche aiutati dalle opere. Fa’ dunque ciò che tocca a te offrendo la tua volontà, e Dio farà quello che a lui compete infondendoti la sua grazia.
E sia chiaro che né angelo, né uomo, né diavolo può costringere il libero arbitrio, e neppure Dio vuole fargli violenza. Ma Dio vuole amorevolmente raccogliere intorno a te, o anima, i figli, cioè i tuoi affetti e sentimenti, che sono dispersi in vari interessi temporali e vizi, perché tu abiti nella sua casa in perfetto accordo (cf. Sal 67,7): per questo tu devi offrire volentieri te stessa e volere proprio questo.

7. “Come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali”. Osserva che la chioccia si ammala quando i pulcini sono ammalati; li chiama a mangiare fino a tanto che diventa rauca; li protegge sotto le ali e resiste allo sparviero con le penne irte per difenderli. Così Cristo, Sapienza di Dio, per noi infermi si è fatto infermo. Dice infatti Isaia: “Lo abbiamo osservato: è disprezzato e l’ultimo degli uomini”, cioè il più reietto; “uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53,2-3). Chi vuole consolare un ammalato deve investirsi dei sentimenti dell’ammalato: infatti nel quarto libro dei Re è si narra che Eliseo “si curvò sopra il fanciullo, e il corpo del fanciullo riprese calore” (4Re 4,34). Il curvarsi di Eliseo simboleggia l’incarnazione di Cristo, dalla quale abbiamo ricevuto il calore della fede e abbiamo ricuperato la vita. Ci chiamò al banchetto della sua dottrina, e ci ha chiamati così a lungo che riarse sono le sue fauci (cf. Sal 68,4).
Osserva che il rauco non ha una voce melodiosa, ma manda suoni bassi e aspri, e quindi non si ascolta volentieri. Così oggi la dottrina di Cristo non ha la voce melodiosa dell’adulazione, perché non blandisce i peccatori e non promette vantaggi temporali; ma risuona aspramente perché insegna a castigare la carne e a disprezzare il mondo; e quindi non è ascoltata volentieri. Per questo si lamenta Giobbe: “Ho chiamato il mio servo, ma non ha risposto; devo scongiurarlo con la mia bocca. Il mio alito è ripugnante anche per la mia sposa e devo pregare anche i miei figli” (Gb 19,16-17). Sposa di Cristo sono i chierici, impinguati con il suo patrimonio: essi più di tutti hanno orrore del suo alito, cioè della sua predi­cazione che proviene dal suo profondo; poiché, come dice Giobbe, nascosto e profondo è il luogo dal quale si trae la sapienza (cf. Gb 28,18).
Allo stesso modo, per proteggerci ha aperto come ali le sue braccia sulla croce, e irto di spine si è opposto al diavolo che tramava di rapirci. La corona di spine sul capo come un elmo, la croce nelle braccia come uno scudo, i chiodi nelle mani come una clava: così armato ha sconfitto il nostro nemico.
A lui dunque lode e gloria per i secoli eterni. Amen.

 III. sermone allegorico

8. “Farai un candelabro di purissimo oro battuto (dutti­le): i bracci, le coppe, le sferule e i gigli si dirame­ranno da esso. Sei bracci si dirameranno dai due lati, tre da un lato e tre dall’altro” (Es 25, 31-32).
“Farai un candelabro…”. Leggiamo in Matteo: “Non accendono una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il candelabro perché faccia luce per tutti quelli che sono in casa” (Mt 5,15). Infatti la grazia dello Spirito Santo, “lampada che arde e risplende” (Gv 5,35), fu posta sopra il candelabro, cioè sul beato Stefano, come dice Zaccaria: “Vedo un candelabro tutto d’oro, e una lampada è sulla sua sommità” (Zc 4,2). Questa lampada, o lucerna, non fu posta sotto il moggio, non fu cioè usata per un guadagno materiale, ma faceva luce per tutti coloro che erano nella casa, cioè nella chiesa. E infatti Luca, nella lettura di oggi, dice: “Stefano, pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e miracoli tra il popolo” (At 6,8).
Questo candelabro fu di oro purissimo: in esso è simbo­leggiata la sua aurea povertà. Allora infatti, come dice la Genesi, l’oro della terra di Avila – nome che s’interpreta “partoriente” e indica la chiesa primitiva –, era finissimo. (cf. Gn 2,12). Ma ahimè, ora si è mutato in scoria. Fu anche “duttile” (battuto), perché è stato lavorato battendolo. Anche il beato Stefano fu, per così dire, lavorato e battuto a colpi di pietra, e le sue braccia allargate ad abbracciare i nemici. Infatti: “Lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: Signore, non imputar loro questo peccato” (At 7,59.60).
E concordano con questo le parole del terzo libro dei Re: “Condussero Nabot di Izreel fuori della città e lo uccisero, lapidandolo” (3Re 21,13). Nabot non aveva voluto che la sua vigna, ereditata dai suoi padri, fosse trasformata in un orto per coltivare legumi (cf. 3Re 21,2-3). Anche il beato Stefa­no fu lapidato così: “Lo trascinarono fuori della città e lo lapidarono” (At 7,58), perché si opponeva ai Giudei, i quali volevano trasformare la chiesa primitiva in un orto di legumi, volevano cioè imporle l’osservanza dei loro riti e delle loro tradizioni.

9. “Sei bracci si dirameranno dai due lati, tre da un lato e tre dall’altro”. I sei bracci simboleggiano le sei virtù che erano nel beato Stefano, sei virtù ricordate nella lettura della messa di oggi.
La fede. È detto infatti: “Elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo” (At 6,5), e queste parole fanno capire che la sua fede fu viva e operante. La graziae la fortezza: “Era pieno di grazia e di fortezza” (At 6,8). La sapienza e il coraggio nella predicazione: “Non riuscivano a resistere alla sapienza e allo spirito che parlava” (At 6,10), e ancora: “Gente di dura cervice e incirconcisi di cuore, opponete resistenza allo Spirito Santo” (At 7,51). La preghiera per quelli che lo lapidavano: “Signore, non imputar loro questo peccato” (At 7,60).
Di fede viveva, con la grazia comunicava, con la fortezza resisteva, con la sapienza istruiva, con il coraggio confutava e con la preghiera aiutava. In questi bracci c’erano cop­pe, sferette e gigli. Nella concavità della coppa è indicata l’umiltà del cuore; nella rotondità della sferetta la cura dei fratelli in necessità; nei gigli la purezza del corpo. Ecco dunque il candelabro d’oro nella tenda del Signore, che illumina la mensa delle offerte, cioè la chiesa e l’anima fedele: il protomartire Stefano, adorno di virtù, bagnato del suo sangue, trionfante nei cieli.
Per le sue preghiere, ci faccia giungere agli eterni gaudi colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

IV. sermone morale

10. “Farai un candelabro di oro purissimo, lavorato a martello”. Nel candelabro è raffigurata l’anima dei fedeli. Di questo candelabro il Signore dice ad Aronne: “Quando avrai sistemato le sette lampade, erigerai il candelabro nella parte meridionale, affinché le lampade facciano luce verso settentrione e siano rivolte verso la mensa delle offerte” (Nm 8,2). Le sette lucerne simboleggiano la grazia dello Spirito Santo, la fede nel Verbo incarnato, l’amore verso il prossimo, l’insegnamento della parola di Dio, la luce del buon esempio, la retta intenzione dell’animo e la costanza nei propositi.
Della grazia dello Spirito Santo dice Giobbe: “La sua lampada brillava sopra il mio capo, e alla sua luce io camminavo anche in mezzo alle tenebre” (Gb 29,3). La lampada brilla sopra il capo quando la grazia illumina la mente, e allora tra le tenebre del presente esilio vede chiaramente dove mettere il piede delle opere.
Sulla fede nel Verbo incarnato leggiamo in Luca: “Quale donna, se ha dieci dracme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa finché non la ritrova? “(Lc 15,8). Le nove dracme raffigurano i nove ordini di angeli; la decima raffigura Adamo e la sua discendenza, la quale è stata perduta quando fu scacciata dal paradiso terrestre. Ma “la donna”, cioè la Sapienza di Dio Padre, “accese la lampada” quando nella fragile creta della nostra umanità pose la luce della sua divinità. E così “spazzò la casa”, cioè il mondo e l’inferno, “finché la ritrovò.
Sull’amore verso il prossimo è scritto nei Proverbi: “Il precetto è lampada, la legge è luce, le correzioni della disciplina sono sentiero di vita” (Pro 6,23). “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda” (Gv 13,34): questo comandamento “è la lampada”; “chi ama il suo fratello dimora nella luce, chi lo odia dimora nelle tenebre” (1Gv 2,10-11). E la stessa “legge” dell’amore, dalla quale dipendono la Legge e i profeti (cf. Mt 22,40), “è luce”. E “le correzioni della disciplina” sono “sentiero di vita”, sentiero cioè che conduce alla vita. Dice infatti l’Apostolo: “Ogni correzione non sembra, sul momento, causa di gioia, ma di tristezza”: ecco la correzione; “dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per mezzo suo sono stati addestrati” (Eb 12,11): ecco la via della vita.
Sull’insegnamento della parola di Dio dice il salmo: “La tua Parola è lampada ai miei passi” (Sal 118,105); e Pietro: “Abbiamo conferma migliore della parola dei profe­ti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori (2Pt 1,19).
Sulla luce del buon esempio parla Luca: “Siate pronti con i fianchi cinti e in mano le lampade accese” (Lc 12,35). E Gregorio: “Abbiamo in mano le lampade accese, quando con le buone opere mostriamo al nostro prossimo esempi luminosi”.
Sulla retta intenzione dell’animo leggiamo in Matteo: “La lampada del tuo corpo è l’oc­chio. Se il tuo occhio sarà chiaro, tutto il corpo sarà nella luce” (Mt 6,22). L’occhio simboleggia l’intenzione, il corpo l’opera. Se l’intenzio­ne sarà chiara, vale a dire senza pieghe oscure, tutta l’opera sarà nella luce, perché illuminata dalla lampada della retta intenzione.
E infine sulla costanza nei propositi, leggiamo nei Proverbi, dove si parla della donna forte: “La sua lampada non si spegne neppure durante la notte” (Pro 31,18). È come dicesse: la notte della tentazione diabolica non spegne la luce dell’anima costante.
Queste sette lampade devono essere poste nell’anima, in modo da essere rivolte a settentrione, contro l’Aquilo­ne, cioè contro il diavolo, affinché l’anima, da esse illumi­nata, sia in grado di scoprire le astuzie di satana e di difendersene; e le lampade illuminino anche “la mensa dei pani dell’offerta”, nella quale è simboleggiata la condot­ta dei i fedeli. Se l’anima si nutre di cose celesti, viene offerto a tutti da questa mensa, nelle tenebre della cecità presente, ciò che viene illuminato dalle suddette lampade.
Osserva infine che il Signore ha comandato che questo candelabro “sia eretto nella parte meridionale”, e non in quella occidentale. La parte meridionale raffigura la vita eterna: “Dio – dice Abacuc – verrà da meridione” (Ab 3,3). L’anima del fedele, quando si alza per compiere un’opera buona, si alzi dalla parte di mezzogiorno, in modo che tutto ciò che fa, sia fatto non per la vacua gloria del mondo ma per la gloria celeste. “Farai dunque un candelabro”.

11. “Duttile, battuto con il martello”. L’anima viene lavorata e, per così dire, spianata e allargata verso l’amore del Redentore dal martello della contrizione; con le battiture l’anima matura, si dilata, perché “gode chi è paziente nelle durezze”. Un riscontro a tutto questo lo troviamo nell’Ecclesiastico: “Il sapiente si rivela nelle sue parole” (Eccli 20,29). Quand’egli infatti si colpisce con la parola della propria accusa, ossia della confessione, guida se stesso all’amore di Dio.
E poiché con le battiture della contrizione si giunge alla purezza del cuore, dice appunto: “di oro purissimo”. E l’Apocalisse: “La città stessa è di oro puro, simile a terso cristallo (Ap 21,18). L’anima del giusto, sede o città della sapienza, è detta oro puro, perché risplende per la purezza dei pensieri; e se talvolta, per la fragilità della condizione umana, si copre di qualche macchia, immediatamente la rivela, come un terso cristallo, nella confessione, e così progredisce nell’amore di Dio e del prossimo.
“Sei bracci si dirameranno dai due lati”, ecc. I sei bracci del candelabro sono nel giusto come delle braccia amorose con le quali l’anima abbraccia Dio e il prossimo. Di queste braccia con i quali abbraccia Dio, è detto nel Deuteronomio e in Luca: “Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt 6,5; Lc 10,27). Agostino così parla e spiega: “Con tutto il cuore”, cioè con l’in­telletto senza errore; “con tutta la mente”, cioè con la memoria senza dimenticanze; “con tutta l’anima”, cioè con la volontà, senza aver mai nulla in contrario.
Allo stesso modo, le braccia con le quali l’anima abbraccia il prossimo, sono queste: perdonare chi pecca, correggere chi sbaglia, nutrire chi ha fame. Su queste braccia ci sono le coppe, le sferette e i gigli. Le coppe raffigurano la grazia della dottrina celeste, dalla quale bevono gli amici e si inebriano i più cari, i parenti. Questa è la coppa d’argento di Giuseppe, nascosta nel sacco di Beniamino (cf. Gn 44,2.12), cioè nel cuore del giusto. Nelle sferette (che ruotano) è simboleggiato il rotolare del peccato verso la confessione. Dice Isaia: “Prendi la cetra”, cioè la confessione, “percorri la città”, cioè la tua memoria o la tua vita, per rivoltare tutto e nulla resti nascosto, “canta in modo giusto” accusando te stesso, “ripeti il tuo canto” dando la colpa a te stesso e piangen­do “affinché tu sia ricordato” (Is 23,16) al cospetto di Dio. Canta infatti l’istrione alla porta del ricco per averne qualche beneficio.
Nei gigli è simboleggiata la luminosa e soave compagnia delle beate schiere angeliche. Il diletto si pasce tra i gigli, (cf. Ct 2,16), e dice: “Il vincitore indosserà vesti bianche” (Ap 3,5). Anche l’angelo della risurrezione apparve rivestito di una veste candida (cf. Mc 16,5).
Colui che è benedetto nei secoli eterni conduca anche noi a ricevere questa candida veste. Amen.