FESTA DI Santo STEFANO PROTOMARTIRE
1. In quel tempo: “Gesù diceva alla folla dei Giudei: Ecco, io vi mando i profeti”, ecc. (Mt 23,1.34). In questo brano del vangelo si devono considerare due fatti:
- la persecuzione dei giusti,
- Cristo che si paragona alla chioccia.
I. la persecuzione dei giusti
2. “Ecco, io vi mando i profeti...” In questa prima parte si fa osservare, in senso morale, in che maniera i mondani e i carnali distruggono i se stessi o respingono da sé la molteplice ispirazione della grazia divina.
“Diceva dunque alla folla dei Giudei”. I Giudei, che amavano i beni passeggeri e solo ad essi si dedicavano, raffigurano i mondani, dediti al corpo, i quali, come è detto nel libro dei Giudici, non sono capaci di dire Scibbolet, che significa spiga o grano, ma dicono Sibbolet, che vuol dire paglia (cf. Gdc 12,6). Vanno infatti dietro alla paglia e così diventano essi stessi paglia, destinata ad essere bruciata nel fuoco eterno1.
A costoro dunque il Signore dice: “Ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi” (Mt 23,1.34). In queste tre categorie di inviati è simboleggiata la triplice ispirazione della grazia divina. I profeti raffigurano il timore del giudizio e l’orrore dell’inferno, che il Signore manda all’anima peccatrice affinché le preannuncino il giudice tremendo e la geenna vendicatrice. Dice Nahum: “Davanti al suo sdegno chi può resistere? Chi affronterà il furore della sua ira? La sua collera si diffonde come il fuoco e perfino le pietre si dissolvono davanti a lui” (Na 1,6). E Gioele: “Davanti a lui c’è il fuoco che divora, e dietro a lui c’è la fiamma che consuma” (Gl 2,3).
Il Signore, per bocca di Geremia, dice di questi profeti: “Io vi ho mandato i miei servi, i profeti, alzandomi di notte; li ho mandati perché vi dicessero: Non fate questa cosa abominevole! Ma essi non hanno ascoltato e non hanno prestato orecchio in modo da abbandonare la loro iniquità” (Ger 44,4-5). È detto che il Signore si alza di notte a mandare i profeti, in quanto all’anima che vive nella notte del peccato, egli, nella sua misericordia, incute il salutare timore del giudizio e il terrore dell’inferno. Ma l’anima sventurata non accoglie l’ispirazione, né presta l’orecchio dell’obbedienza per allontanarsi dal male e volgersi alla penitenza.
Ugualmente, i sapienti raffigurano quelle divine ispirazioni che mettono ordine nei pensieri, fanno riflettere prima di parlare, impreziosiscono le opere, regolano la vita e dispongono rettamente ogni cosa. Chi cammina con questi sapienti, diventa egli stesso sapiente. Di essi dice l’Ecclesiastico: Non disprezzare i discorsi dei sapienti, ma abbi familiarità con le loro massime: impara da loro il sapere e il discernimento (cf. Eccli 8,9-10). Preziosa è la loro scuola, gradito il loro insegnamento, lodevoli le loro direttive: riformano i costumi e distruggono i vizi.
Infine gli scribi raffigurano gli affetti, i sentimenti della nostra mente, che nel libro della memoria scrivono l’impurità del nostro concepimento, la materialità della nostra nascita, la malvagità di chi compie il male, la miseria del nostro peregrinare, la brevità del tempo e il pensiero della morte. Leggi in questo scritto così veritiero, studia in questo libro nel quale, come dice Ezechiele, sono scritti lamenti, pianti e guai (cf. Ez 2,9). Lamenti per l’impurità del concepimento e la materialità della nascita; pianti per la malvagità di chi compie il male, e la miseria del nostro peregrinare; guai per la brevità del tempo e il pensiero della morte.
Ecco in qual modo il Signore pietoso e pieno di misericordia vi manda i profeti per infondervi il dolore, i sapienti per riformare i costumi, e gli scribi per ricordarvi sempre la condizione della vostra vita.
3. Ma sentiamo come i Giudei ingrati, cioè gli adoratori dei beni terreni, abbiano corrisposto con tante scelleratezze a sì grandi benefici.
“Di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe” (Mt 23,34). Uniamo tra loro i termini corrispondenti: uccidono i profeti, crocifiggono i sapienti e flagellano gli scribi. I superbi e i vanagloriosi uccidono i profeti; i golosi e i lussuriosi crocifiggono i sapienti; gli avari e gli usurai flagellano gli scribi.
La superbia e la vanagloria uccidono nell’uomo il terrore del giudizio e l’orrore dell’inferno. Perciò oggi Stefano dice ai giudei: “O gente di dura cervice”, ecco la superbia; “incirconcisi nel cuore e negli orecchi”, ecco la vanagloria: infatti non vogliono capire né sentire se non quello che piace a loro; “voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo, come facevano anche i vostri padri. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto” (At 7,51-52). Quindi li uccidono in se stessi, perché essi preannunciano l’arrivo del giudizio.
I golosi e i lussuriosi crocifiggono e tormentano i sapienti: essi infatti sono corrotti nei pensieri, lascivi nelle parole, dissoluti nella loro condotta, disordinati nei costumi. Dicono perciò: “Riempiamoci di vino squisito e di profumi; non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera. Coroniamoci di rose prima che avvizziscano; nessun prato sfugga alle scorribande della nostra lussuria (Sap 2,7-8).
Gli avari e gli usurai flagellano gli scribi nelle sinagoghe, cioè nella loro coscienza, dov’è la sede e la sinagoga di satana (cf. Ap 2,9.13). Gli sventurati non considerano la condizione della loro vita, la loro nascita e la loro morte. Sono nati senza borsa e senza un soldo, moriranno con poca stoppa e sacco; sono nati nudi, moriranno coperti di poca stoffa. E da dove allora hanno avuto tutto ciò che possiedono? Dalla rapina e dall’usura. Dice Abacuc: “Guai a colui che accumula ciò che non è suo! Fino a quando continuerà ad ammassare su di sé tanto fango?” (Ab 2,6). Fa come lo scarabeo che accumula una quantità di sterco e con grande fatica ne fa una palla rotonda; ma alla fine passa un asino e mette la zampa sullo scarabeo e sulla palla, e in un istante distrugge lo scarabeo e la palla, per la quale ha tanto faticato. Così l’avaro, o l’usuraio, accumula a lungo lo sterco del denaro, a lungo fatica, ma quando meno se l’aspetta il diavolo lo strangola. E così l’anima va ai demoni, la carne ai vermi e il denaro ai parenti.
4. “Sarete perseguitati di città in città” (Mt 23,34). Ahimè, non si accontentano quegli sventurati di rifiutare l’ispirazione della grazia divina e di spegnerla in se stessi, ma vogliono scacciarla anche dai loro congiunti, come dai figli e dalle mogli, quasi perseguitandoli di città in città. Un esempio: se il figlio di un usuraio, scosso dalla paura del giudizio e della pena dell’inferno, fa il proposito di vivere onestamente e di piangere sulla miseria della sua vita, e il padre suo ha sentore di ciò, questi, con tutte le sue forze, osteggia in lui questa grazia e lo stesso fa con la figlia, con la moglie e con tutta la famiglia.
“Perché ricada su di voi tutto il sangue innocente”, cioè la giusta vendetta per il sangue versato, “dal sangue del giusto Abele”, nome che significa “lutto”, “fino al sangue di Zaccaria”, che s’interpreta “ricordo del Signore", “figlio di Barachia”, che significa “benedizione del Signore” (Mt 23,35). Ecco quante scelleratezze hanno perpetrato quegli omicidi! Uccidono in se stessi e nei loro parenti il pianto della penitenza e il ricordo della passione del Signore, che è stata data da Dio Padre in benedizione per tutto il mondo.
“Che avete ucciso tra il tempio e l’altare” (Mt 23,35), cioè nell’atrio del tempio. Dice l’Apocalisse: “L’atrio, che è fuori del tempio, lascialo da parte e non misurarlo, perché è stato dato in balìa dei pagani (Ap 11,2), cioè di coloro che vivono da pagani. Il tempio è figura della chiesa trionfante; l’altare, della chiesa militante; l’atrio invece simboleggia la vanità del mondo, nella quale si sopprime il ricordo della passione del Signore.
II. cristo si paragona alla chioccia
5. “Gerusalemme, Gerusalemme!” (Mt 23,37). Con sentimento di pietà Gesù piange sugli uomini, non sulle pietre [della città]. “Che uccidi i profeti”, i quali annunciano il Signore dei profeti, “e li làpidi” (Mt 23,37). Proprio a motivo di queste parole, si legge questo brano del vangelo in questo giorno, nel quale il beato Stefano fu lapidato dai Giudei: mentre li rimproverava per la loro durezza – “gente di dura cervice” (At 7,51) , aveva loro detto –, affrontò la durezza delle pietre. Ma “gode chi è paziente nelle durezze” (Lucano). Ieri è nato il Signore, oggi viene lapidato il servo; ieri il Re è stato avvolto in fasce, oggi il soldato è stato spogliato della veste corruttibile; ieri il Salvatore è stato adagiato nel presepio, oggi Stefano viene portato in cielo.
Stefano s’interpreta “regola”, o “coronato”, oppure anche “che fissa lo sguardo”. Regola dev’essere per noi il suo esempio: “Piegate le ginocchia” pregò per quelli che lo lapidavano: “Signore, non imputar loro questo peccato” (At 7,60). Fu coronato con il suo stesso sangue, e fissò lo sguardo nel Figlio di Dio: “Vedo i cieli aperti e Gesù che sta alla destra di Dio” (At 7,56.60).
“Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e tu non hai voluto” (Mt 23,37). Come dicesse: Io volevo ma tu non hai voluto, e ogni volta che li ho raccolti, con la mia volontà sempre efficace, l’ho fatto contro la tua volontà, perché sei sempre stata ingrata!
6. In altro senso. Il Signore rivolge il suo rimprovero all’anima ingrata: “Gerusalemme, Gerusalemme!”. Questo nome s’interpreta “timore perfetto”, ossia completo, o anche “temerà totalmente” (Girolamo). È detta casa imperfetta quella non ancora finita, non ancora completata. Osserva che dice due volte “Gerusalemme”, perché l’anima sventurata che, come si è detto sopra, uccide in se stessa i profeti, deve temere due cose: di vedere sopra di sé il giudice adirato, e sotto di sé la geenna aperta e ardente; e allora il suo timore sarà perfetto, completo. Adesso non teme perché in questo suo giorno [non vuole conoscere] ciò che serve alla sua pace(cf. Lc 19,42).
“E lapidi quelli che ti sono inviati” (Mt 23,37), respingi cioè con la durezza del cuore le ispirazioni della grazia divina e le sue manifestazioni. Dice Isaia: “So che tu sei ostinato, che la tua cervice è una sbarra (nervus) di ferro e la tua fronte è di bronzo” (Is 48,4). Nella sbarra di ferro è simboleggiata la superbia ostinata. Agostino dice: “Drizzare la testa è segno di superbia”. Nella fronte di bronzo è indicata l’irriverenza; dice Ezechiele: “Tutta la casa d’Israele è di fronte impudente e di cuore indurito” (Ez 3,7).
“Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, e non hai voluto”. Osserva che la giustificazione dell’uomo si effettua in due modi: e cioè con la propria decisione e con l’ispirazione divina: il Creatore coopera all’azione della sua creatura. Perciò il Creatore, nell’opera della nostra giustificazione, esige il nostro volontario assenso; infatti dice: “Se vorrete e mi ascolterete, mangerete i frutti della terra” (Is 1,19).
Quanto si mettono impedimenti a quest’azione, ciò viene imputato al libero arbitrio, perché è detto: “Se il mio popolo mi avesse ascoltato” (Sal 80,14), ecc. Se noi infatti in questa opera non facciamo proprio niente, inutilmente imploriamo l’aiuto del Creatore, e falsamente lo chiamiamo adiutore. Una cosa infatti è fare e un’altra è aiutare. Che cosa vuol dire aiutare se non cooperare con chi opera? Ha inteso di aver in lui un aiuto e un cooperatore nel bene, colui che disse: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore, o Signore, non tardare!” (Sal 69,6). Ogni giorno cerchiamo il suo aiuto, quando nelle nostre preghiere quotidiane gridiamo: “Aiutaci, o Dio, nostro Salvatore!” (Sal 78,9). È chiaro dunque che “da due” viene compiuta quest’opera, nella quale il creatore opera insieme con la sua creatura.
In quest’opera perciò sono necessari il nostro impegno e la grazia divina. Invano uno si appoggia al libero arbitrio se non si sostiene con l’aiuto divino. La nostra giustificazione si compie per mezzo della nostra decisione e con l’ispirazione divina. Il volere solo cose giuste significa essere già giusto. Infatti soltanto dalla nostra volontà dipende l’essere detti, a ragione, giusti o ingiusti, sebbene in ambedue i casi siamo anche aiutati dalle opere. Fa’ dunque ciò che tocca a te offrendo la tua volontà, e Dio farà quello che a lui compete infondendoti la sua grazia.
E sia chiaro che né angelo, né uomo, né diavolo può costringere il libero arbitrio, e neppure Dio vuole fargli violenza. Ma Dio vuole amorevolmente raccogliere intorno a te, o anima, i figli, cioè i tuoi affetti e sentimenti, che sono dispersi in vari interessi temporali e vizi, perché tu abiti nella sua casa in perfetto accordo (cf. Sal 67,7): per questo tu devi offrire volentieri te stessa e volere proprio questo.
7. “Come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali”. Osserva che la chioccia si ammala quando i pulcini sono ammalati; li chiama a mangiare fino a tanto che diventa rauca; li protegge sotto le ali e resiste allo sparviero con le penne irte per difenderli. Così Cristo, Sapienza di Dio, per noi infermi si è fatto infermo. Dice infatti Isaia: “Lo abbiamo osservato: è disprezzato e l’ultimo degli uomini”, cioè il più reietto; “uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53,2-3). Chi vuole consolare un ammalato deve investirsi dei sentimenti dell’ammalato: infatti nel quarto libro dei Re è si narra che Eliseo “si curvò sopra il fanciullo, e il corpo del fanciullo riprese calore” (4Re 4,34). Il curvarsi di Eliseo simboleggia l’incarnazione di Cristo, dalla quale abbiamo ricevuto il calore della fede e abbiamo ricuperato la vita. Ci chiamò al banchetto della sua dottrina, e ci ha chiamati così a lungo che riarse sono le sue fauci (cf. Sal 68,4).
Osserva che il rauco non ha una voce melodiosa, ma manda suoni bassi e aspri, e quindi non si ascolta volentieri. Così oggi la dottrina di Cristo non ha la voce melodiosa dell’adulazione, perché non blandisce i peccatori e non promette vantaggi temporali; ma risuona aspramente perché insegna a castigare la carne e a disprezzare il mondo; e quindi non è ascoltata volentieri. Per questo si lamenta Giobbe: “Ho chiamato il mio servo, ma non ha risposto; devo scongiurarlo con la mia bocca. Il mio alito è ripugnante anche per la mia sposa e devo pregare anche i miei figli” (Gb 19,16-17). Sposa di Cristo sono i chierici, impinguati con il suo patrimonio: essi più di tutti hanno orrore del suo alito, cioè della sua predicazione che proviene dal suo profondo; poiché, come dice Giobbe, nascosto e profondo è il luogo dal quale si trae la sapienza (cf. Gb 28,18).
Allo stesso modo, per proteggerci ha aperto come ali le sue braccia sulla croce, e irto di spine si è opposto al diavolo che tramava di rapirci. La corona di spine sul capo come un elmo, la croce nelle braccia come uno scudo, i chiodi nelle mani come una clava: così armato ha sconfitto il nostro nemico.
A lui dunque lode e gloria per i secoli eterni. Amen.
III. sermone allegorico
8. “Farai un candelabro di purissimo oro battuto (duttile): i bracci, le coppe, le sferule e i gigli si dirameranno da esso. Sei bracci si dirameranno dai due lati, tre da un lato e tre dall’altro” (Es 25, 31-32).
“Farai un candelabro…”. Leggiamo in Matteo: “Non accendono una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il candelabro perché faccia luce per tutti quelli che sono in casa” (Mt 5,15). Infatti la grazia dello Spirito Santo, “lampada che arde e risplende” (Gv 5,35), fu posta sopra il candelabro, cioè sul beato Stefano, come dice Zaccaria: “Vedo un candelabro tutto d’oro, e una lampada è sulla sua sommità” (Zc 4,2). Questa lampada, o lucerna, non fu posta sotto il moggio, non fu cioè usata per un guadagno materiale, ma faceva luce per tutti coloro che erano nella casa, cioè nella chiesa. E infatti Luca, nella lettura di oggi, dice: “Stefano, pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e miracoli tra il popolo” (At 6,8).
Questo candelabro fu di oro purissimo: in esso è simboleggiata la sua aurea povertà. Allora infatti, come dice la Genesi, l’oro della terra di Avila – nome che s’interpreta “partoriente” e indica la chiesa primitiva –, era finissimo. (cf. Gn 2,12). Ma ahimè, ora si è mutato in scoria. Fu anche “duttile” (battuto), perché è stato lavorato battendolo. Anche il beato Stefano fu, per così dire, lavorato e battuto a colpi di pietra, e le sue braccia allargate ad abbracciare i nemici. Infatti: “Lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: Signore, non imputar loro questo peccato” (At 7,59.60).
E concordano con questo le parole del terzo libro dei Re: “Condussero Nabot di Izreel fuori della città e lo uccisero, lapidandolo” (3Re 21,13). Nabot non aveva voluto che la sua vigna, ereditata dai suoi padri, fosse trasformata in un orto per coltivare legumi (cf. 3Re 21,2-3). Anche il beato Stefano fu lapidato così: “Lo trascinarono fuori della città e lo lapidarono” (At 7,58), perché si opponeva ai Giudei, i quali volevano trasformare la chiesa primitiva in un orto di legumi, volevano cioè imporle l’osservanza dei loro riti e delle loro tradizioni.
9. “Sei bracci si dirameranno dai due lati, tre da un lato e tre dall’altro”. I sei bracci simboleggiano le sei virtù che erano nel beato Stefano, sei virtù ricordate nella lettura della messa di oggi.
La fede. È detto infatti: “Elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo” (At 6,5), e queste parole fanno capire che la sua fede fu viva e operante. La graziae la fortezza: “Era pieno di grazia e di fortezza” (At 6,8). La sapienza e il coraggio nella predicazione: “Non riuscivano a resistere alla sapienza e allo spirito che parlava” (At 6,10), e ancora: “Gente di dura cervice e incirconcisi di cuore, opponete resistenza allo Spirito Santo” (At 7,51). La preghiera per quelli che lo lapidavano: “Signore, non imputar loro questo peccato” (At 7,60).
Di fede viveva, con la grazia comunicava, con la fortezza resisteva, con la sapienza istruiva, con il coraggio confutava e con la preghiera aiutava. In questi bracci c’erano coppe, sferette e gigli. Nella concavità della coppa è indicata l’umiltà del cuore; nella rotondità della sferetta la cura dei fratelli in necessità; nei gigli la purezza del corpo. Ecco dunque il candelabro d’oro nella tenda del Signore, che illumina la mensa delle offerte, cioè la chiesa e l’anima fedele: il protomartire Stefano, adorno di virtù, bagnato del suo sangue, trionfante nei cieli.
Per le sue preghiere, ci faccia giungere agli eterni gaudi colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
IV. sermone morale
10. “Farai un candelabro di oro purissimo, lavorato a martello”. Nel candelabro è raffigurata l’anima dei fedeli. Di questo candelabro il Signore dice ad Aronne: “Quando avrai sistemato le sette lampade, erigerai il candelabro nella parte meridionale, affinché le lampade facciano luce verso settentrione e siano rivolte verso la mensa delle offerte” (Nm 8,2). Le sette lucerne simboleggiano la grazia dello Spirito Santo, la fede nel Verbo incarnato, l’amore verso il prossimo, l’insegnamento della parola di Dio, la luce del buon esempio, la retta intenzione dell’animo e la costanza nei propositi.
Della grazia dello Spirito Santo dice Giobbe: “La sua lampada brillava sopra il mio capo, e alla sua luce io camminavo anche in mezzo alle tenebre” (Gb 29,3). La lampada brilla sopra il capo quando la grazia illumina la mente, e allora tra le tenebre del presente esilio vede chiaramente dove mettere il piede delle opere.
Sulla fede nel Verbo incarnato leggiamo in Luca: “Quale donna, se ha dieci dracme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa finché non la ritrova? “(Lc 15,8). Le nove dracme raffigurano i nove ordini di angeli; la decima raffigura Adamo e la sua discendenza, la quale è stata perduta quando fu scacciata dal paradiso terrestre. Ma “la donna”, cioè la Sapienza di Dio Padre, “accese la lampada” quando nella fragile creta della nostra umanità pose la luce della sua divinità. E così “spazzò la casa”, cioè il mondo e l’inferno, “finché la ritrovò.
Sull’amore verso il prossimo è scritto nei Proverbi: “Il precetto è lampada, la legge è luce, le correzioni della disciplina sono sentiero di vita” (Pro 6,23). “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda” (Gv 13,34): questo comandamento “è la lampada”; “chi ama il suo fratello dimora nella luce, chi lo odia dimora nelle tenebre” (1Gv 2,10-11). E la stessa “legge” dell’amore, dalla quale dipendono la Legge e i profeti (cf. Mt 22,40), “è luce”. E “le correzioni della disciplina” sono “sentiero di vita”, sentiero cioè che conduce alla vita. Dice infatti l’Apostolo: “Ogni correzione non sembra, sul momento, causa di gioia, ma di tristezza”: ecco la correzione; “dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per mezzo suo sono stati addestrati” (Eb 12,11): ecco la via della vita.
Sull’insegnamento della parola di Dio dice il salmo: “La tua Parola è lampada ai miei passi” (Sal 118,105); e Pietro: “Abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori (2Pt 1,19).
Sulla luce del buon esempio parla Luca: “Siate pronti con i fianchi cinti e in mano le lampade accese” (Lc 12,35). E Gregorio: “Abbiamo in mano le lampade accese, quando con le buone opere mostriamo al nostro prossimo esempi luminosi”.
Sulla retta intenzione dell’animo leggiamo in Matteo: “La lampada del tuo corpo è l’occhio. Se il tuo occhio sarà chiaro, tutto il corpo sarà nella luce” (Mt 6,22). L’occhio simboleggia l’intenzione, il corpo l’opera. Se l’intenzione sarà chiara, vale a dire senza pieghe oscure, tutta l’opera sarà nella luce, perché illuminata dalla lampada della retta intenzione.
E infine sulla costanza nei propositi, leggiamo nei Proverbi, dove si parla della donna forte: “La sua lampada non si spegne neppure durante la notte” (Pro 31,18). È come dicesse: la notte della tentazione diabolica non spegne la luce dell’anima costante.
Queste sette lampade devono essere poste nell’anima, in modo da essere rivolte a settentrione, contro l’Aquilone, cioè contro il diavolo, affinché l’anima, da esse illuminata, sia in grado di scoprire le astuzie di satana e di difendersene; e le lampade illuminino anche “la mensa dei pani dell’offerta”, nella quale è simboleggiata la condotta dei i fedeli. Se l’anima si nutre di cose celesti, viene offerto a tutti da questa mensa, nelle tenebre della cecità presente, ciò che viene illuminato dalle suddette lampade.
Osserva infine che il Signore ha comandato che questo candelabro “sia eretto nella parte meridionale”, e non in quella occidentale. La parte meridionale raffigura la vita eterna: “Dio – dice Abacuc – verrà da meridione” (Ab 3,3). L’anima del fedele, quando si alza per compiere un’opera buona, si alzi dalla parte di mezzogiorno, in modo che tutto ciò che fa, sia fatto non per la vacua gloria del mondo ma per la gloria celeste. “Farai dunque un candelabro”.
11. “Duttile, battuto con il martello”. L’anima viene lavorata e, per così dire, spianata e allargata verso l’amore del Redentore dal martello della contrizione; con le battiture l’anima matura, si dilata, perché “gode chi è paziente nelle durezze”. Un riscontro a tutto questo lo troviamo nell’Ecclesiastico: “Il sapiente si rivela nelle sue parole” (Eccli 20,29). Quand’egli infatti si colpisce con la parola della propria accusa, ossia della confessione, guida se stesso all’amore di Dio.
E poiché con le battiture della contrizione si giunge alla purezza del cuore, dice appunto: “di oro purissimo”. E l’Apocalisse: “La città stessa è di oro puro, simile a terso cristallo (Ap 21,18). L’anima del giusto, sede o città della sapienza, è detta oro puro, perché risplende per la purezza dei pensieri; e se talvolta, per la fragilità della condizione umana, si copre di qualche macchia, immediatamente la rivela, come un terso cristallo, nella confessione, e così progredisce nell’amore di Dio e del prossimo.
“Sei bracci si dirameranno dai due lati”, ecc. I sei bracci del candelabro sono nel giusto come delle braccia amorose con le quali l’anima abbraccia Dio e il prossimo. Di queste braccia con i quali abbraccia Dio, è detto nel Deuteronomio e in Luca: “Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt 6,5; Lc 10,27). Agostino così parla e spiega: “Con tutto il cuore”, cioè con l’intelletto senza errore; “con tutta la mente”, cioè con la memoria senza dimenticanze; “con tutta l’anima”, cioè con la volontà, senza aver mai nulla in contrario.
Allo stesso modo, le braccia con le quali l’anima abbraccia il prossimo, sono queste: perdonare chi pecca, correggere chi sbaglia, nutrire chi ha fame. Su queste braccia ci sono le coppe, le sferette e i gigli. Le coppe raffigurano la grazia della dottrina celeste, dalla quale bevono gli amici e si inebriano i più cari, i parenti. Questa è la coppa d’argento di Giuseppe, nascosta nel sacco di Beniamino (cf. Gn 44,2.12), cioè nel cuore del giusto. Nelle sferette (che ruotano) è simboleggiato il rotolare del peccato verso la confessione. Dice Isaia: “Prendi la cetra”, cioè la confessione, “percorri la città”, cioè la tua memoria o la tua vita, per rivoltare tutto e nulla resti nascosto, “canta in modo giusto” accusando te stesso, “ripeti il tuo canto” dando la colpa a te stesso e piangendo “affinché tu sia ricordato” (Is 23,16) al cospetto di Dio. Canta infatti l’istrione alla porta del ricco per averne qualche beneficio.
Nei gigli è simboleggiata la luminosa e soave compagnia delle beate schiere angeliche. Il diletto si pasce tra i gigli, (cf. Ct 2,16), e dice: “Il vincitore indosserà vesti bianche” (Ap 3,5). Anche l’angelo della risurrezione apparve rivestito di una veste candida (cf. Mc 16,5).
Colui che è benedetto nei secoli eterni conduca anche noi a ricevere questa candida veste. Amen.