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sabato 26 novembre 2022

Si tratta di un documento eccezionale...

 

È una campagna contro Ratzinger che mira però allo stesso Magistero

Le radici dell’astio nei confronti di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Un articolo “profetico” di Messori del 1985

"Il Blog degli amici di Papa Benedetto XVI" - Rileggiamo questo articolo di Vittorio Messori, scritto nell'ottobre del 1985, quasi trent'anni fa. Si tratta di un documento eccezionale per due motivi: innanzitutto perche' dimostra che l'atteggiamento di certi teologi, intellettuali e giornalisti non e' affatto cambiato in questi decenni. Non ti adatti allo spirito del tempo? Osi dire verita' scomode? E noi ti attacchiamo in ogni modo utilizzando innanzitutto i mass media.

Apprendiamo che Kung usava allora la stessa strategia di oggi: scriveva un articolo che poi veniva tradotto e ripreso dai maggiori quotidiani di tutto il mondo. Non vi ricorda qualcosa? Avete presente quei commenti che nascono in tedesco per poi essere tradotti in francese su Le Monde, in italiano su Repubblica ed in spagnolo su El Pais? Per non parlare delle traduzioni in inglese...
L'articolo e' importante anche per un secondo motivo ed e' questo che ci interessa maggiormente. Esso dimostra come l'astio e gli attacchi nei confronti di Joseph Ratzinger vengano da lontano e siano espressione di contestazioni che arrivano da "sinistra" come da "destra".

Non solo! Parliamo di attacchi che non provengono dall'esterno ma dall'interno del Cattolicesimo. Vi ricorda qualcosa?
Questo post e' la "prima pietra" di uno studio che il blog intende intraprendere sulle radici dell'astio (odio?) nei confronti del teologo e del cardinale Ratzinger, tensioni che si sono acuite con l'elezione al Soglio di Pietro. Intanto leggiamo questo articolo di Messori che sembra scritto oggi e non nell'ottobre 1985. (Raffaella) 

«E' una campagna contro Ratzinger che mira però allo stesso Magistero»

Vittorio Messori,  Stampa Sera 07/10/1985

E' stato tradotto in italiano un intervento di Hans Kung, il prete svizzero-tedesco, da anni ridotto da docente cattolico a teologo "privato". 

Oggetto del chilometrico intervento il Rapporto sulla fede, il libro intervista del cardinal Ratzinger uscito in queste settimane anche in tedesco.

L'aggressione di Kung contro l'ex collega all'università di Tubingen, con l'insolito rilievo datogli da una catena internazionale di quotidiani, non è che uno tra i tanti episodi della campagna che, a livello mondiale, è in corso contro il prefetto della Congregazione per la Fede e contro il papa stesso che si è riconosciuto nell'intervista del suo principale collaboratore. 
Una vera guerra, che si dice condotta contro il Vaticano, ma che in realtà sembra mirare al magistero stesso della Chiesa e che si svolge, con manovra a tenaglia, su due fronti.

Da un lato muovono contro Roma le rumorose armate "di sinistra" (per quanto possano dirsi di sinistra uomini come un Kung, beniamino dei media dell'occidente opulento e profeta di certa borghesia tedesca). Sul fronte opposto, moltiplicano i loro attacchi gli insidiosi commandos dell'integrismo di destra. 

Tra frastuono di colubrine e scariche di archibugi, qualche colpo vagante finisce addosso anche all'intervistatore, reo di aver fatto il suo mestiere di cronista andando ad ascoltare il Prefetto dell'ex Sant'Uffizio e coperto per questo di contumelie sia da Kung che da monsignor Lefebvre e accoliti.

E' certo comunque che in tutto il mondo (le traduzioni già uscite o in preparazione sono una dozzina), il Rapporto sulla fede si è rivelato come test esemplare degli umori dentro la Chiesa. 

Scorrendo l'impressionante rassegna stampa internazionale colpisce subito un fatto:  le reazioni più virulente non vengono dall'esterno ma dall'interno stesso del cattolicesimo. 

Tanto che un commentatore ha osservato con qualche amarezza: «Il problema più grave della Chiesa d'oggi non è quello degli ex cattolici che se ne vanno ma quello degli ex cattolici che restano, dicendo che i veri credenti sono loro».
Ci sarebbe da temere che quanto sta succedendo giustifichi il lucido realismo del cardinal Ratzinger secondo il quale la Chiesa potrebbe rivelarsi ormai ingovernabile da Roma. 

Come ci disse allargando le braccia dopo averci elencato per giorni guasti e pericoli: «La Chiesa è di Cristo, alla fine tocca a lui salvarla in questa tempesta, noi siamo più che mai servi inutili».

Eppure, non è affatto detto che coloro che si sono autoproclamati "portavoci della base ecclesiale", "paldini del popolo di Dio", lo siano per davvero.

Per esempio, in una recente intervista, il direttore di Fayard-Hachette, il maggior gruppo editoriale di Francia ed editore della traduzione del rapporto di Ratzinger, confidava sconcertato: «Per nessun altro libro abbiamo dovuto registrare una campagna così sapientemente orchestrata di diffamazioni, falsità, calunnie da parte della lobby che con pugno di ferro controlla da noi l'informazione religiosa».
Ma, continuava quell'editore, «a questo fuoco di sbarramento ha fatto contrasto una diffusione di massa, davvero popolare con le prime quarantamila copie esaurite in agosto, a librerie in gran parte chiuse. 

Siamo sommersi da lettere e telefonate di lettori non specialisti, non teologi, non giornalisti che ci ringraziano: finalmente parole chiare e comprensibili a tutti, finalmente qualcuno si rivolge spiegando,  alle maggioranze, sprezzate dagli scribi di sempre».
La stessa forbice tra accoglienza ostile della intelligentia e favore, quando non entusiasmo, tra la gente comune, è segnalata dagli altri editori del mondo, dalla Spagna agli Stati Uniti fino alla Germania.

Qui, lo sfogo di Kung non è casuale: si sa da fonte certa che, nel paese stesso di Ratzinger, l'ordine di scuderia era il silenzio. 
Ma, come confessa lo stesso teologo, non era più possibile tacere, vista la simpatia popolare che anche lì aveva circondato subito il libro.

C'è qualcuno che da tempo sospetta che non sia che un mito la convinzione che i giornali rappresentino l'opinione pubblica. 
Può darsi che questo sia vero in generale, è certamente vero nella Chiesa, legata a un Vangelo che qui è più che mai esplicito: «Queste cose saranno rivelate ai semplici e nascoste agli intellettuali». I quali intellettuali, i soli ad aver accesso ai media, giurano a ogni capoverso di "rappresentare la Chiesa dal basso", "di esporre la ragione degli ultimi". 

C'era da diffidare di queste autoinvestiture, ciò che sta avvenendo in questi mesi conferma la diffidenza. 

Chissà che chi più parla di "popolo di Dio" non sia il realtà il meno autorizzato a parlare a suo nome? Chi rappresenta chi nella Chiesa? E' forse la domanda più urgente che i cattolici dovrebbero porsi con sincerità nei loro tanti numerosi convegni e congressi.

La Stampa, 7 ottobre 1985

La fonte: "Il Blog degli amici di Papa Benedetto XVI"

AMDG et DVM

mercoledì 8 luglio 2020

DA LEGGERSI. RAPPORTO SULLA FEDE. ENFORME SOBRE LA FE









Quel primo incontro nel 1984, a Bressanone: Ratzinger visto da ...


Vittorio Messori, el escritor italiano más traducido del mundo, ha dedicado a Lourdes y a las apariciones de la Virgen a Bernadette muchos años de profundos estudios, que han encontrado una primera síntesis en “Bernadette no nos ha engañado” –que publicará LibrosLibres en octubre de este año-, un libro publicado recientemente por la editorial Mondadori. Y conoce muy bien a Joseph Ratzinger, el Papa Emérito Benedicto XVI, cuya amistad nació con ocasión del libro-entrevista al entonces prefecto de la Congregación para la Doctrina de la Fe. Aquí les dejamos una entrevista que realizaron recientemente al escritor italiano:   Las circunstancias que acompañaron la publicación de aquel libro, “Informe sobre la fe”, en 1985, han contribuido sin ninguna duda a crear una relación: “Estábamos todavía en plena contestación eclesial —recuerda Messori—, y entonces no era en absoluto fácil llamarse «Ratzingeriano» dentro de la Iglesia: alrededor de él circulaba una leyenda negra, era definido como el ´oscuro´ Prefecto del Santo Oficio, el perseguidor, el panzerkardinal y cosas así. Yo incluso tuve que esconderme, desaparecer por más de un mes, me retiré en la montaña porque los sacerdotes del diálogo, los curas ecuménicos, esos de la tolerancia, querían acabar conmigo literalmente: cartas anónimas, llamadas telefónicas nocturnas. Mi culpa no era solamente haber dado voz al cardenal nazi, sino además haberle dado razón”messori4 

De este modo, empezaron a verse asiduamente, “a menudo íbamos juntos al restaurante”, y muchas veces han hablado de Lourdes, con la que comparten una curiosa circunstancia: Messori y Ratzinger han nacido el día 16 de abril, el dies natalis de Bernadette.   

Por tanto, Messori, la elección del 11 de febrero no ha sido una casualidad en absoluto. Yo diría que no. El por qué ha elegido esta fecha es la primera pregunta que yo mismo me he hecho, y me ha parecido que ha tomado la inspiración de su «amado y venerado predecesor», como siempre ha llamado a Juan Pablo II: el 11 de febrero entró en el calendario universal de la Iglesia, en tiempos de León XIII, como fiesta de Nuestra Señora de Lourdes, y dada la conexión que tiene este santuario con la enfermedad física, Juan Pablo II la declaró Jornada Mundial del Enfermo. Por tanto, Benedicto XVI pretendía hablar de su enfermedad.   
¿Enfermedad? El portavoz vaticano, el padre Lombardi, ha excluído que el motivo de la renuncia haya sido una enfermedad. «Senectus ipsa est morbus», decían los latinos: la vejez misma es una enfermedad. A sus 86 años, aunque si no estás formalmente enfermo, existe una enfermedad unida a la edad. El Papa se siente enfermo porque es muy anciano, así que yo creo que él ha elegido precisament ese día para reconocerse como enfermo entre los enfermos. Y también para hacer un homenaje y una especie de invocación a la Virgen: no solamente a la Virgen de Lourdes, sino a la Virgen en cuanto tal.   
El Papa ha hablado en diversas ocasiones de Fátima también, pero quizá con Lourdes mantiene una relación particular. De Lourdes hemos hablado a menudo durante estos 25 años, y seguramente ha aprovechado el 150 aniversario de las apariciones para ir a visitarlo (septiembre de 2008). Para hacernos una idea de lo que suscita Lourdes en él, basta pensar que en aquel día y medio que ha estado allí, estaban previstos tres grandes discursos suyos. Pues bien, en realidad el Papa ha hablado nada menos que quince veces, de improviso y a menudo se conmovía. Y siempre haciendo una llamada a la devoción a María y a la figura de Bernadette. Ha sido arrastrado a hablar de Fátima de alguna manera por las circunstancias del atentado del Papa, pero tengo la impresión de que, instintivamente, su preferencia se dirige hacia la claridad cristalina de Lourdes, más que al nudo tan complejo que representa Fátima. Considera Fátima incluso demasiado compleja, ama la claridad cristalina de Lourdes: allí no hay secretos, todo está claro. 

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Muchos líderes de opinión han interpretado la renuncia de Ratzinger como una especie de rendición ante las dificultades. Existen aparentes rendiciones que en realidad son un signo de fuerza, de humildad. La libertad católica es mucho más grande de cuanto se piensa. Existen temperamentos diversos, historias diversas, carismas diversos, y todos ellos se han de respetar porque forman parte de la sacrosanta libertad del creyente. En Juan Pablo II prevalecía el lado místico, era un místico oriental. Mientras en Ratzinger prevalece la racionalidad del occidental, del hombre moderno. Por ello, se dan dos posibles elecciones: la mística, la del Papa Wojtyla, que persevera y resiste hasta el final; o la elección de la razón, como Ratzinger: reconocer que no se tienen ya las energías físicas y que la Iglesia, por el contrario, necesita una guía con grandes energías, por lo que, por el bien de la Iglesia, es mejor dejarlo. Ambas decisiones son evangélicas.   

El Papa Ratzinger siempre ha impresionado por su gran humildad. De hecho, su decisión está marcada por una gran humildad, una virtud que siempre ha sido evidente en él. Recuerdo todavía un episodio del lejano 1985 que me había impresionado particularmente: después de tres días enteros de entrevistas pensadas para «Informe sobre la fe», antes de despedirnos, yo le dije: «Eminencia, con todo lo que me ha contado de la situación de la Iglesia (repito, eran los años de la contestación todavía), permítame una pregunta: ¿Consigue usted dormir bien por la noche?». Él, con su rostro de eterno muchacho, y con los ojos de par en par me respondió: «Yo duermo muy bien, porque soy consciente de que la Iglesia no es nuestra, es de Cristo, nosotros solamente somos siervos inútiles: yo por la noche hago examen de conciencia, si constato que durante la jornada he hecho con buena voluntad todo aquello que podía hacer, duermo tranquilo». Raztinger tiene clarísimo que no estamos llamados a salvar a la Iglesia, sino a servirla, y si no puedes más, la sirves de otro modo, te arrodillas y rezas. La salvación es una cuestión que atañe a Cristo. Así que me parece que estas dimisiones van en esta línea, en el sentido de no tomarse demasiado en serio. Haz hasta el final tu deber y, cuando te des cuenta de que no puedes más, que las fuerzas ya no te acompañan, entonces recuerdas que la Iglesia no es tuya y pasas el testigo, y vas a hacer un trabajo para la Iglesia que, en la perspectiva de la Iglesia es el mayor, el más valioso: el trabajo de rezar y el trabajo de ofrecer a Cristo tu sufrimiento. Lo veo como un acto de gran humildad, de consciencia de que le toca a Cristo salvar a la Iglesia, nosotros, pobres hombres, no tenemos que salvarla, incluso si eres el Papa.   

El sábado pasado hablando a los seminaristas del Seminario romano ha dicho que, incluso cuando se piensa que la Iglesia va a acabar, en realidad siempre se está renovando. ¿Qué renovación ha traído el Pontificado de Benedicto XVI? A menudo se olvida que él, al comienzo del pontificado, dijo: mi programa es no tener programas, en el sentido de someterse a los acontecimientos que la Providencia le ponía delante. El gran diseño estratégico consistía, en el fondo, en esto, simplemente confirmar al rebaño en la fe. En este sentido, siempre he sentido una gran sintonía con él, siempre ha sido un Papa convencido de la necesidad de relanzar la apologética, de reencontrar las razones de la fe. Él también estaba convencido, como yo, que los muchos así llamados problemas graves de la Iglesia son, en realidad, secundarios: los problemas de la institución, los problemas eclesiales, la administración, los mismos problemas morales y litúrgicos, son efectivamente muy importantes, pero en torno a ellos existe una pelea eclesial que, sin embargo, —lo ha dicho él mismo en el documento de convocaba el Año de la Fe— da por descontado la fe, cosa que no es verdad. ¿Qué estamos haciendo peleando entre nosotros sobre cómo organizar mejor los dicasterios romanos, y también sobre los principios no negociables, qué cosa estamos haciendo peleando y organizando defensas si ya no creemos que el Evangelio es verdad? Si ya no creemos en la divinidad de Jesucristo, todo el resto es un hablar vacío. Y, de hecho, no por casualidad, su último acto ha sido convocar el Año de la Fe: pero de la fe entendida en el sentido apologético, intentar demostrar que el cristiano no es un cretino, tratar de demostrar que nosotros no creemos en fáculas, intentar demostrar cuáles son las razones para creer. Sus grandes líneas estratégicas consisten solamente en esto: reconfirmar las razones por las que se puede apostar por la verdad del Evangelio. El resto se afrontará día a día. Y esto lo ha hecho, lo ha hecho de la mejor manera.  

 Entonces, sería justo afirmar que el Año de la Fe es su verdadera herencia. Sí, el Año de la Fe es su herencia, esta es la herencia que tenemos que tomar en serio. En la Iglesia, en perspectiva de futuro, la apologética debe tener un papel fundamental, porque, si no es verdadera la base, todo el resto es absurdo. Benedicto XVI nos deja la seguridad de que tenemos que redescubrir las razones para creer. messori3 
Si hablamos de herencia, pensamos inmediatamente en quién podrá recogerla. Es verdad que la pregunta nace en aquellos que comparten esta prioridad… No podemos robarle al Espíritu Santo su trabajo. Las previsiones de los llamados expertos, cuando se trata de Cónclave, se realizan para ser desmentidas. Normalmente no aciertan nunca. La impresión es que el Espíritu Santo se divierte tomándonos el pelo: los grandes voceros, los grandes expertos, los grandes vaticanistas, dan por seguro uno u otro, y después eligen a uno diferente. Recuerdo en 1978, trabajaba en La Stampa, estaba en la redacción cuando han elegido al Papa Luciani: cuando lo anunciaron hubo un gran pánico, porque los grandes vaticanistas que teníamos nos habían pedido tener preparadas algunas biografías, ya que el Papa saldría seguro de un elenco de papables, y, por el contrario, nada: cuando ha sido elegido Luciani nos hemos dado cuenta de que en el archivo de La Stampa no teníamos ni siquiera una foto. La misma historia se repitió dos meses después con Wojtyla: todos habían previsto este o este otro, y, por el contrario, cuando lo anunciaron pánico de nuevo: no sabíamos ni siquiera como se escribía su nombre.   

Pensando en estos años de pontificado, alguno deja entrever el hecho de que no haya sido muy «afortunado» en su elección de los colaboradores, que lo han metido en grandes dificultades a menudo. Ratzinger ha sido durante un cuarto de siglo prefecto en la Congregación para la Doctrina de la Fe, pero ha vivido siempre apartado, he tenido la impresión siempre de que estaba un poco aislado con respecto a la Curia. El tenía un vínculo muy fuerte con Wojtyla, funcionaba en tándem con él: no ha habido ninguna decisión teológica que Wojtyla haya tomado que no haya consultado antes con Ratzinger. Pero, he siempre tenido la impresión de que era, diría que por decisión propia, extraño a la Curia, a sus círculos, a sus juegos, a sus formaciones. Y creo que, una vez elegido Papa para su sorpresa, en el fondo no tenía suficientes conocimientos sobre los mecanismos o las personas. Después, algunas decisiones eran de alguna manera obligadas, pero seguramente no estaba lo suficientemente al corriente de cómo eran las cosas.   

Se dice que la Curia no le ha querido nunca… Es cierto que la Curia no lo ha querido nunca. Wojtyla había elegido hacer un pontificado itinerante y, de esta manera, ha dejado que la Curia fuera hacia adelante de forma autónoma; de este modo, la Curia se ha aprovechado, por lo que, con todo esto, aquellos viejos zorros de los dicasterios se encontraban a gusto con Wojtyla, el Papa estaba lejos, no se ocupaba de los asuntos cotidianos. Por el contrario, Ratzinger ha viajado poco, quería saber, quería meter las narices. Dado que sabía poco de la Curia, ha comenzado a informarse y ha comenzado a hacer cambios, retiros, avances, aún con su delicadeza. Y esto no ha gustado, por lo que, incluso como Papa, ha continuado siendo aislado.   (entrevista publicada en catolicos online.org)

martedì 18 ottobre 2016

Vittorio Messori

MESSORI: qualcuno VA IN SVEZIA A FESTEGGIARE LO SCISMA. MA NON C’E’ NIENTE DA CELEBRARE

Il papa f. ha deciso di recarsi a fine ottobre '16 in Svezia per commemorare il mezzo millennio dall’inizio della riforma di Lutero.
A Lund, l’antica città universitaria , si incontrerà con i vertici di quel poco che resta della comunità luterana e faranno festa insieme.
Francesco più volte ( anche per sua stessa ammissione ) ha mostrato di non conoscere a fondo molti aspetti della storia della Chiesa.  Non si può sapere tutto: è un limite che vale anche per i papi. Bergoglio ha comunque a disposizione fior di specialisti che potrebbero ricordargli quanto così sintetizzò   Henri Pirenne , uno dei maggiori storici del secolo scorso: “ Il luteranesimo, in gran parte dei Paesi che lo accettarono, fu imposto con la forza dai principi e dai nobili che concupivano i beni della Chiesa e non parve loro vero di poterli sequestrare. La convinzione religiosa ha avuto un ruolo assai modesto nella espansione della nuova fede. Gli adepti sinceri , convinti e disinteressati, almeno all’inizio erano assai pochi . Imposto d’autorità e accettato per obbedienza esso ha proceduto per annessione , spesso forzata “.
Proprio in Svezia, dove andrà Francesco, commosso di potere solennizzare i 500 anni dell’inizio della Riforma assieme ai fratelli protestanti, proprio in Svezia , violenza e cinismo raggiunsero il massimo.
Il fondatore della nuova dinastia scandinava , Gustavo I Wasa , ben lontano da preoccupazioni religiose , per mero interesse economico e politico vide nel luteranesimo un modo per riempire le casse vuote dello Stato e per legare a sé la nobiltà, suddividendo tra loro il bottino costituito dalle proprietà della Chiesa.
Il popolo ne fu indignato e più volte insorse , ma fu schiacciato da Gustavo . I suoi successori furono costretti, dal malcontento della gente nei confronti della nuova fede imposta manu militari, a tollerare almeno che restassero aperti alcuni santuari mariani.  Proprio a Lund, dove Francesco si recherà, tutte le chiese furono rase al suolo , tranne la cattedrale , pur ovviamente denudata di ogni decorazione , all’uso riformato.   Le pietre degli edifici cattolici abbattuti furono impiegate per la fortificazioni e la cinta muraria della città.   Insomma , per dirla chiara : è difficile capire che cosa ci sia , in Svezia da onorare e da festeggiare per un cattolico.   Ma, forse, il vescovo di Roma vorrà spiegarcelo, nel suo soggiorno scandinavo.
VITTORIO  MESSORI
(dall’ultimo Vivaio)

giovedì 25 agosto 2016

Ecco la parola chiave: “apologetica”.



So bene cosa sia il dolore...guardate la Mia Croce
e meditate su quel Sangue che ho versato per voi tutti

Patì sotto Ponzio Pilato


di Pietro Cantoni

Il “corpo” è oggi un tema d’importanza difficilmente sottovalutabile. Non è un caso che si diffondano contemporaneamente concezioni che riducono il corpo a elemento intercambiabile dell’essere dell’uomo, come nel caso della reincarnazione, e a semplice “teatro” del suo agire, senza che ciò comporti una responsabilità essenziale, come in certe dottrine teologico-morali. Ma il corpo può anche venire semplicemente considerato campo di sperimentazione illimitata, come nel caso dell’ingegneria genetica che vuole sottrarsi a qualunque controllo etico.
Ora, anche la fede cristiana ha un “corpo”, perché è fede in Dio che si è fatto “carne”, cioè uomo completo con —anche— un corpo. Secondo la fede cristiana cioè, Dio è entrato nella storia degli uomini, facendosi uomo fra gli uomini. Questo significa necessariamente che è apparso in un momento preciso della storia, legato a determinate coordinate spazio-temporali e “misurabile” attraverso testimonianze e documenti come tutti gli eventi importanti di questa stessa storia. L’evento di Dio fatto uomo entra nell’insieme degli eventi che costituiscono propriamente la “storia”, quindi può entrare nella “storiografia”, cioè nel racconto che gli uomini possono fare di questi eventi significativi.
Il “corpo” della fede cristiana sarà dunque —prima di tutto— lo spessore storico verificabile del suo fondamento, cioè della persona di Gesù di Nazareth e degli eventi terreni di cui è stato protagonista, primi fra tutti la sua morte e la sua risurrezione.
Secondo un’analogia profonda ma essenziale, corpo della fede sono anche gli eventi costitutivi della fede di ogni singolo cristiano: battesimo, eucaristia, Chiesa… Vi è un legame fra gli eventi della storia delle origini, gli eventi che fondano la storia del popolo di Dio che è la Chiesa e gli eventi che fondano l’esistenza del singolo cristiano.
Contro questa visione delle cose si erge una concezione della fede completamente sganciata dai fatti, siano essi eventi storici o eventi misterici, cioè sacramenti. Si tratta di una concezione che ha i suoi inizi con la Riforma protestante e una delle sue espressioni più conseguenti nella teologia dell’esegeta luterano tedesco Rudolf Bultmann, nato nell’ultimo quarto del secolo XIX e scomparso nel 1976.
E proprio Rudolf Bultmann è un “protagonista” dell’opera di Vittorio Messori Patì sotto Ponzio Pilato? Un’indagine sulla passione e morte di Gesù. Infatti, il teologo ed esegeta luterano viene citato spesso come fondatore, con altri, del metodo della Formgeschichte, la “storia delle forme”, e come ideatore del programma teologico della “demitizzazione”. Non che Vittorio Messori voglia addentrarsi in difficili problematiche attinenti alla storia della teologia contemporanea, ma vuole certamente mettere a fuoco le ragioni di un disagio avvertito da molti relativamente ai metodi dell’esegesi storico-critica, soprattutto applicata ai Vangeli, e in un’ottica apologetica.
Ecco la parola chiave: “apologetica”. Perché è certo che Vittorio Messori vuol fare —scandalosamente!— della buona apologetica. Si tratta di una parola ormai carica di un’eco emotiva sfavorevole. La teologia cattolica, negli ultimi decenni, ha cercato di sbarazzarsene ricorrendo al termine più generico —ma anche più ambiguo— di “teologia fondamentale”, termine ambiguo perché può riguardare due oggetti assai differenti: i princìpi intrinseci della fede e le ragioni del credere. Infatti, è certamente compito indiscusso della teologia fondamentale occuparsi dei princìpi della fede, cioè di che cosa significa “fede”, di quali sono le sue “fonti” —Scrittura, Tradizione e Magistero— e del metodo di quella scienza della fede che è la teologia. La teologia fondamentale dovrebbe occuparsi però anche di qualcosa d’altro: delle ragioni di credibilità, che costituiscono il presupposto o l’anima razionale della fede, presupposto o anima la cui mancanza ridurrebbe la fede a sentimento o istinto. L’ambiguità del termine ha favorito l’ambiguità dei metodi e ha fornito copertura all’imbarazzo di fronte a una fede che pretende di avere anche delle ragioni. La scomparsa del termine “apologetica” ha significato in moltissimi casi la scomparsa della cosa stessa.
Vittorio Messori nasce a Sassuolo, in provincia di Modena, nel 1941; studia a Torino, dove si laurea in scienze politiche, quindi —giornalista professionista— lavora ai quotidiani del gruppo de La Stampa; passa poi a Milano come collaboratore fisso del mensile Jesus e del quotidiano Avvenire, acquisendo grande notorietà soprattutto grazie alla seguitissima rubrica Vivaio, pubblicata appunto su Avvenire. Dalla fine degli anni Ottanta vive a Desenzano del Garda, in provincia di Brescia, dedicandosi soprattutto alla pubblicazione di volumi. È autore di opere di apologetica biblica e storica, agiografo nonché abile e acuto intervistatore di significativi protagonisti della vita contemporanea, ecclesiastici e laici. Nella prima categoria di scritti si situano Ipotesi su Gesù (1a ed., Società Editrice Internazionale, Torino 1976) e Scommessa sulla morte (1a ed., Società Editrice Internazionale, Torino 1982) nonché Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1992) e La sfida della fede. Fuori e dentro la Chiesa: la cronaca in una prospettiva cristiana (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 1993); nella seconda Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1990; cfr. la recensione di Enzo Peserico, in Cristianità, anno XIX, n. 193-194, maggio-giugno 1991) e Opus Dei. Un’indagine (Mondadori, Milano 1994; cfr. la recensione e l’integrazione di Massimo Introvigne, L’Opus Dei e il movimento anti-sette, in Cristianità, anno XXII, n. 229, maggio 1994); nella terza Rapporto sulla fede. A colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger (1a ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1985; cfr. recensione di Giovanni Cantoni, in Cristianità, anno XIII, n. 122-123, giugno-luglio 1985), Inchiesta sul cristianesimo (1a ed. Società Editrice Internazionale, Torino 1987) e dello straordinario — in più sensi — Varcare la soglia della speranza (Mondadori, Milano 1994), in cui è interlocutore apprezzato di Papa Giovanni Paolo II.
Dunque, l’interesse per l’apologetica caratterizza l’opera di Vittorio Messori da lungo tempo e Patì sotto Ponzio Pilato? Un’indagine sulla passione e morte di Gesù si ricollega esplicitamente a Ipotesi su Gesù, di cui vuol essere l’inizio di una rielaborazione.
Con la consueta abilità letteraria, sui toni di un’appassionante inchiesta, l’autore ripercorre i principali episodi del racconto evangelico della passione, nel tentativo costante di illuminare il rapporto che le pagine evangeliche intrattengono con la storia. E il taglio, l’impostazione impressa all’opera deve sempre essere presente al lettore che non ne voglia fraintendere il significato. Il Vangelo, così come tutta la parola di Dio, assomma in sé una tale gamma e “quantità” di significati che sarebbe vano pretendere di esaurirli. Vittorio Messori ha ben chiaro che i Vangeli non sono “libri di storia”, nel senso corrente del termine, cioè non si esauriscono nel raccontare una storia; ma il loro messaggio è proprio quello di un Dio che entra nella storia, per cui il loro valore storico non è estraneo al loro significato religioso. Questo è il punto centrale.
Se un’inchiesta svolta nel 1993 ha posto i volumi di Vittorio Messori in testa alle letture religiose degli italiani, la ragione sta certamente nel fatto che essi rispondono con vigore e con piacevolezza a una domanda autentica, quella delle ragioni della fede e, quindi, della fondatezza della storia di Gesù.
L’autore non segue un ordine sistematico, ma si addentra nella materia con un metodo simile a quello utilizzato dai geologi nell’esame della composizione di un terreno, cioè mediante “carotaggi”, approfondimenti puntuali che permettono al racconto di non diluirsi troppo e di garantire piacevolezza di lettura senza scadere nella superficialità. In altri termini, Vittorio Messori costruisce un ottimo libro di divulgazione, ma di una divulgazione che non scade in volgarizzazione: anche il non specialista si accorge agevolmente che dietro il tono giornalistico sta uno studio condotto con serietà, in cui l’autore sa destreggiarsi nei meandri della sterminata bibliografia sulla materia, sa scegliere il meglio della produzione scientifica e non perde mai il contatto con gli specialisti.
Dopo alcune considerazioni introduttive, in cui chiarisce l’intento della ricerca, che non è affatto quello di difendere una posizione di stampo fondamentalista — Ragionando sui vangeli (pp. 3-9) —, Vittorio Messori conduce una critica pungente di certa critica biblica — Ipotesi su (certa) critica biblica (pp. 10-21) — rifiutando, in sostanza, la falsa alternativa “metodo storico-critico oppure fondamentalismo”: “Per le Scritture giudeo-cristiane, il credente sa che l’ispirazione è divina ma che la redazione è affidata agli uomini, i quali vi hanno lasciato le loro tracce che tocca allo specialista (e anche in questo senso il suo lavoro è prezioso) identificare, pur nell’attento rispetto del mistero.
“Seppure ben lontano, dunque, da ogni ingenuo letteralismo “fondamentalista” o “coranico”, non ho però potuto impedirmi di andare a vedere che possa succedere quando — scevri da ogni pregiudizio, anche “scientifico” o presunto tale — si provi a ragionare davvero su quei versetti greci, passandoli al vaglio di tutto ciò che sappiamo” (p. 8).
L’indagine si snoda poi in altri trentacinque capitoli, come un romanzo giallo, dal sinistro episodio dell’impiccagione di Giuda, nel campo detto Akeldamà, attraverso le vicende del processo di Gesù, della profezia del Tempio, del rinnegamento di Pietro, della crocifissione, per tornare alle ricerche esegetiche, scandagliate però qui nei loro aspetti innovatori rispetto alla corrente maestra del metodo storico-critico. Così un capitolo — La scuola di rabbì Gesù (pp. 285-293) — è dedicato alla proposta della cosiddetta scuola svedese — rappresentata da H. Riesenfeld e da B. Gerhardsson —, che sottolinea l’importanza della memoria e dei metodi di memorizzazione nell’insegnamento rabbinico, che hanno certamente caratterizzato sia l’insegnamento di Gesù sia la sua trasmissione. Questo non significa che la trasmissione si sia realizzata in modo “magnetofonico”, perché si sa che una trasmissione fedele non è necessariamente una trasmissione “letterale”; anzi, spesso si fa esperienza del contrario. Tuttavia, si viene certamente aiutati a comprendere come la fedeltà alla parola del maestro fosse una preoccupazione assolutamente centrale in quel contesto culturale. Se nel contesto del Nuovo Testamento si può parlare di “teologie” — teologia di Marco, di Luca, di Matteo, di Giovanni, di Paolo —, però si deve fare attenzione a non intendere il termine “teologia” — e quello collegato di “teologo” — nel senso che ha attualmente. Si commetterebbe lo stesso errore di intendere i Vangeli alla stregua di “biografie”, sempre nel senso moderno, di Gesù. Il noto esegeta Claus Westermann fa una osservazione assolutamente pertinente a proposito delle “teologie” attribuite ai diversi autori e ai diversi — ipotetici — documenti nell’ambito dell’Antico Testamento: “Essi sono, senza eccezione, in primo luogo dei trasmettitori: formulano quello che i loro padri hanno detto. La formulazione di quanto hanno ricevuto può essere loro propria in modo anche rilevante, ma non sono mai soltanto persone che danno, bensì sempre insieme persone che ricevono” (Biblischer Kommentar Altes Testament. I/1 Genesis [Commento biblico del Vecchio Testamento. I/1 Genesi], 3ª ed., Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1983, p. 775).
Finalmente, due capitoli sono dedicati alle ipotesi di Jean Carmignac e di altri studiosi sull’originaria composizione ebraica dei Vangeli —Una storia tutta ebraica: anche nella lingua? (pp. 294-302) — e sull’identificazione e la datazione del frammento ritrovato nelle grotte di Qumràn e classificato con il nome 7Q5, Qumràn, grotta 7: venti lettere per un mistero (pp. 353-368).
Com’era per altro prevedibile, alla ricerca di Vittorio Messori non sono mancate le critiche provenienti dal mondo degli studiosi di professione. Per esempio Vittorio Fusco, ordinario di Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, a Napoli, ne ha fatto un’analisi serrata e impietosa, accusando Vittorio Messori di “concordismo” (cfr. Note di lettura sull’ultimo libro di V. Messori. Le trombe del concordismo, in il regno-attualità, anno XXXVIII, n. 703, 15-4-1993, pp. 249-253). Alcune affermazioni di Vittorio Fusco sono state vivacemente contestate dai due eminenti papirologi José O’Callaghan e Carsten Peter Thiede (cfr. Lucio Brunelli, Un indizio di storia, in 30 Giorni nella Chiesa e nel mondo, anno XII, n. 7/8, luglio-agosto 1994, pp. 72-75). La papirologia è una scienza fortemente “positiva” rispetto all’interpretazione letteraria, per cui troviamo qui proprio la conferma di un’osservazione di Vittorio Messori, secondo cui in una “certa” esegesi si assiste a una prevaricazione della teoria sui fatti, del pensiero sull’essere… Se i fatti mi danno ragione bene, altrimenti “tanto peggio per i fatti”! Si tratta, peraltro, di una tendenza non nuova, perché la critica cattolica la rimproverava da tempo all’esegesi razionalista. Dunque Vittorio Fusco accusa Vittorio Messori di praticare il concordismo, cioè quel metodo esegetico preoccupato solo di assicurare a qualunque costo l’aderenza del testo biblico alla “storia”, senza curarsi del fatto che l’attenzione principale degli agiografi non è rivolta alla storiografia come si è abituati a concepirla attualmente.
In realtà, mi pare che questa critica non tenga conto di almeno due elementi.
1. In primo luogo, del “genere letterario” in cui l’opera è stata volutamente realizzata. Pretendere che, in un testo di divulgazione, ci si soffermi a valutare le teorie più nuove e più “contestatrici” esponendo anche, con la stessa cura, le critiche che esse hanno ricevuto, è eccessivo. È sufficiente avvertire il lettore — cosa che Vittorio Messori fa puntualmente — che si tratta di ipotesi. Questo avviene sia per la teoria della scuola svedese sull’importanza della trasmissione mnemonica nel mondo ebraico dell’epoca, sia per l’identificazione del frammento 7Q5 con un versetto del vangelo di Marco, come pure circa l’ipotesi avanzata da Jean Carmignac sulla lingua dei Vangeli. Vittorio Messori ne dà notizia, senza nascondere le sue simpatie, ma senza neppure maggiorare il grado di probabilità scientifica che simili proposte hanno nell’attuale dibattito scientifico. Certamente non mancano spunti polemici sul modo con cui il mondo scientifico ha accolto teorie che rischiano di mettere in discussione certe impostazioni accolte dalla maggior parte dei cultori della materia. Ma Vittorio Messori non è affatto il solo a osservare questa mancanza di obiettività nel valutare tutto quanto mette in discussione i presupposti del metodo della Formgeschichte. Si ha da più parti la netta impressione che questi presupposti siano trasformati surrettiziamente in dogmi. Un teologo di fama come Louis Bouyer non esita a usare toni ben più forti di quelli che si permette Vittorio Messori: “Bisogna […] sottolineare che la critica e l’esegesi bibliche restano ancora troppo spesso paralizzate sotto il peso di teorie più o meno a priori, sviluppatesi in genere nella euforia ingenua di un certo secolo XIX, che si considerava, quanto ad atteggiamento intellettuale, preludio alla età d’oro, e che è stato piuttosto l’inizio di una generale disintegrazione.
“Tali sono: la tesi di Graf e Wellhausen sui “documenti” del Pentateuco (chiamati rispettivamente Javista, Elohista, Deuteronomista, Sacerdotale) — la concezione, sviluppata particolarmente da Bernard Duhm, di quello che è stato definito il “profetismo biblico”, profondamente antisacerdotale e individualista — la certezza della priorità del vangelo di Marco e della sua storicità più “pura” — la ipotesi dei “logia”, ossia di una raccolta scritta delle parole di Gesù che sarebbe esistita prima dei nostri vangeli — il carattere tardivo ed ellenico degli scritti giovannei, specialmente del quarto vangelo — l’eterogeneità più o meno radicale delle lettere attribuite a san Paolo e dette “della prigionia”, nei confronti del gruppo Romani-Galati-Corinzi. A questo va aggiunto il quadro storico prospettato da Bultmann (su cui si basa il suo progetto di demitizzazione), che schematizza in quattro fasi corrispondenti a quattro generazioni successive, lo sviluppo dei testi neotestamentari: ciò che può essere contemporaneo all’ambiente giudaico palestinese in cui Gesù è vissuto e ha predicato, ciò che può esserlo di una prima missione nello stesso ambiente dopo la scomparsa di Gesù, ciò che trova il suo posto nella prima missione cristiana tra i giudei ellenizzati e ciò che risale alla fondazione della Chiesa in un ambiente di convertiti dall’ellenismo.
“Bisogna constatare che nel protestantesimo, anche il più “liberale”, non vi è nessuno di questi presupposti che non sia diventato oggetto di un dubbio più o meno sviluppato e generalizzato […] mentre nella maggioranza degli ambienti cattolici che si definiscono biblici questi sono dogmi intangibili e basta metterli in dubbio per sentir gridare: “Non ci toccate la nostra scienza!”” (Gnosis. La conoscenza di Dio nella Scrittura, trad. it., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, pp. 168-169).
Di fatto, Vittorio Messori mette a fuoco un dato di grande rilievo, e cioè che quella che oggi si presenta come la esegesi storico-critica è in realtà soltanto un metodo di esegesi; e un metodo per cui è giunto — in verità ormai da tempo — il momento di presentare le sue credenziali davanti al tribunale della fede e della ragione, cioè della teologia e della filosofia, che hanno il compito di verificare i suoi presupposti metodologici saggiandone la consistenza e l’adeguatezza rispetto all’oggetto che pretende di indagare. Il numero di quanti richiedono un riesame metodologico dell’esegesi storico-critica cresce e in esso si pongono, per esempio, Gerhard Maier (Das Ende der historisch-kritischen Methode [La fine del metodo storico-critico], 2ª ed., Theologischer Verlag Rolf Brockhaus, Wuppertal 1975), Paul Toinet (Pour une théologie de l’exégèse, con prefazione di Ignace de la Potterie, Fac-éditions, Parigi 1983), René Laurentin (Comment réconcilier l’exégèse et la foi, O.E.I.L., Parigi 1984), nonché alcuni autori — per esempio lo stesso Ignace de la Potterie e Joseph Ratzinger —, i cui contributi sono raccolti nell’opera collettiva L’esegesi cristiana oggi (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1991). E una serrata e documentata critica al metodo della Formgeschichte ha svolto nel 1994 Hans-Joachim Schulz (Die apostolische Herkunft der Evangelien [L’origine apostolica dei Vangeli], con una prefazione di Rudolf Schnackenburg, Herder, Friburgo-Basilea-Vienna 1994).
2. In secondo luogo, vi è un problema di linguaggio, di comunicazione, in cui il giornalista Vittorio Messori è indubbiamente il competente rispetto all’esegeta. Qui si rovesciano le posizioni rispetto all’”esperto” nell’esegesi. Infatti, l’esperto corre spesso il rischio — chiuso com’è nella torre d’avorio della sua università o del suo istituto di ricerca, abituato al dialogo ristretto all’interno della cerchia, o “casta”, degli specialisti — di perdere il contatto con il linguaggio della gente e con le sue reali domande. Da questo punto di vista dovrebbe porsi in un atteggiamento più umile e recettivo nei confronti di chi invece intrattiene un dialogo vivace con il cosiddetto “uomo della strada”, dialogo suffragato dalle tirature lusinghiere dei suoi libri.
L’uomo della strada si pone l’”ingenua” domanda: “Ma è successo veramente”? Per visioni del mondo altre rispetto al cristianesimo si tratta di una domanda oziosa: infatti, poco importa che Krishna sia veramente esistito, che Buddha abbia fatto tutto quanto gli viene attribuito, che Karl Marx abbia veramente assunto questa o quella posizione; conta piuttosto la via che hanno tracciato. Ma il discorso è radicalmente diverso per Colui che ha osato affermare “Io sono la via”.
L’opera di Vittorio Messori aiuta a ritrovare questa “via” nella storia, perché possa diventare storia anche della nostra vita.
© Cristianità

giovedì 19 maggio 2016

LE MERAVIGLIE DI LOURDES


LOURDES: 

UNA SORPRESA


Vivaio di Vittorio Messori


...Quattordicesimo punto. 
Mettiamo per ultimo questo punto che non è però tra i minori ma è, anzi, tra quelli più significativi. Qui si tratta di luce e di tenebre. 

Copiamo quanto dice Malou nei suoi consigli: << Bisogna che la luce avvolga Maria come una aureola. La luce, perché simbolo della purezza, dell’innocenza, della santità conviene perfettamente al soggetto >>  
Ma, si chiede il nostro autore, <<bisogna anche rappresentare le tenebre? >>. 

Ecco la risposta: <<Se il pittore può tratteggiare, nel suo quadro, il contrasto tra la luce che circonda la Vergine e le tenebre che coprono la terra, ebbene quel pittore aggiungerà alla immagine dell’Immacolata un elemento molto significativo>>. 

Continua Malou: <<Nel linguaggio ordinario ecclesiale si dice che le terre non cristiane sono ancora “avvolte nelle tenebre“. Dunque , tra le beatissima Maria, preservata dal peccato, e gli altri esseri, tutti infettati sin dall’origine, c’è una diversità che l’artista può indicare con il contrasto tra luce e tenebre>> 

Impressionante, davvero, confrontare queste espressioni con quanto avverrà nel 1858. La grotta di Massabielle è rivolta in pieno nord, in essa dunque non penetra mai il sole e i suoi anfratti sono bui, soprattutto nelle giornate invernali di cielo coperto. 
Su questo scenario oscuro, ecco il contrasto. Bernadette ha testimoniato che, prima che la Vergine apparisse, una luce << dolce e forte come quella del sole ma non abbagliante >> illuminava la nicchia. 

L’Apparsa appariva circondata dal chiarore 
<< come da un’aureola >>, giusto come consigliava mons. Malou. Il contrasto tra l’ogiva luminosa dell’apparizione e il buio della grotta era tale che, parole di Bernadette  << quando l’apparizione finisce, la Signorina si allontana, la luce piano piano si spegne e io devo sfregarmi gli occhi per vedere di nuovo bene, come uno che in una bella giornata soleggiata entra in una camera buia >>. 
Nota, qui, René Laurentin, il grande lourdologue, come chiamano in Francia gli studiosi degli eventi del 1858 : <<Senza, ovviamente, saperlo, Bernadette sembra echeggiare la visione dell’Apocalisse: “Apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole“ ( 12,1 ).
Non resta che concludere con la constatazione di Pierre Corbin, lo studioso di iconografia e di simbologia che più volte citammo: << E’ un fatto oggettivo: una delle prove più forti che la Santissima Vergine Immacolata è davvero apparsa a Bernadette sta nella descrizione che ella ce ne ha dato. Dove sbagliarono grandi teologi, grandi artisti, grandi esperti non ha sbagliato un’analfabeta di 14 anni, semplicemente raccontandoci ciò che ha visto sotto quella Grotta >>.
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VI PREGO: per approfondire l'argomento e conoscere i punti precedenti  veda:
http://www.vittoriomessori.it/blog/2015/04/15/vivaio-marzo-2015/

http://www.vittoriomessori.it/blog/2015/04/15/vivaio-aprile-2015/
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AVE MARIA!

sabato 2 aprile 2016

E queste son prove e testimonianze assolutamente valide sulla RISURREZIONE di GESU' CRISTO

    "VIDE E CREDETTE"
    di Vittorio Messori
Indagine sul sepolcro vuoto

Malgrado venti secoli di appassionata lettura credente e due di occhiuta, spesso sospettosa, lettura “storicocritica”, si ha l’impressione - che è poi certezza, fondata sull’esperienza quotidiana dell’indagatore - che le parole greche del Nuovo Testamento siano ancora lontane dall’avere rivelato tutta la loro profondità e tutti i loro segreti. Si ha l’impressione, cioè, che, dietro quelle antiche espressioni, ci siano ancora molte cose da capire e da portare alla luce. Così che, agli scavi archeologici, può e deve accompagnarsi lo scavo sempre più approfondito dentro testi la cui inesauribilità è tra gli aspetti che più inducono a convincersi di un Mistero che vi stia dietro.

In questo articolo ci confronteremo con uno di quei casi in cui, probabilmente, la comprensione sinora avuta di certe espressioni va mutata, aprendo nuove prospettive. E questo proprio nel cuore della fede, proprio al suo inizio stesso, il mattino di Pasqua.

La fede in Gesù come il Cristo atteso da Israele nasce infatti, per tutti, con le apparizioni del Risorto. Per tutti, tranne che per uno: per il discepolo prediletto, per colui che “il Maestro amava”, per il giovane Giovanni. È lo stesso che, nel suo vangelo, ci racconta come, entrato con Pietro nel sepolcro “vuoto” (ma che, poi, evidentemente, vuoto del tutto non era, visto che vi era abbastanza da indurre alla fede), “vide e credette” (Gv 20,8): Eỉden kaì epìsteusen, nell’originale greco. Un’espressione sintetica, lapidaria, che segna un momento solenne: è in quell’istante, in effetti, che nasce la fede, che nasce il cristianesimo stesso.

Ma perché Giovanni “credette”, a differenza di Pietro che pure, prima di lui e poi accanto a lui, vide le stesse cose e restò perplesso, senza “ancora avere compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”, come aggiunge Giovanni stesso (20,9) e come conferma Luca, 24,12 (“(Pietro) tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto’)? Perché a Giovanni basta ciò che ha scorto, appena entrato nel sepolcro, mentre a Simone, che pure è capo del collegio apostolico, occorre una speciale iniziativa del Risorto stesso, per stare a Luca nella finale del resoconto dei discepoli sulla via di Emmaus: “Davvero il Signore è risosto ed è apparso a Simone” (Lc, 24,34)?

E’ una domanda di straordinaria importanza perché, lo dicevamo, dalla sua risposta dipende il momento stesso della nascita della fede. Eppure, è sorprendente constatare come si sia sorvolato proprio su questo versetto decisivo.

Ci si accontenta, così, di spiegazioni che in realtà non spiegano nulla come (citiamo un solo esempio, tra i più recenti e diffusi) la nota che a quel “vide e credette” appone la traduzione ecumenica della Bibbia: “Il discepolo vede nella tomba vuota e nelle bende piegate con cura il segno che lo conduce a riconoscere, nella fede, la risurrezione di Gesù”.

Siamo ben lontani da una spiegazione soddisfacente: la “tomba vuota” è tutt’altro che un segno inequivocabile, tant’è vero che non è bastata a far intuire la verità alle donne, le quali, entrate (nel sepolcro) non trovarono il corpo del Signore. Mentre erano incerte per questo... " (Lc, 24,4). La sola scomparsa del cadavere autorizzava tutte le supposizioni, a cominciare dal furto, come pensa - piangendo, e per stare allo stesso Giovanni - Maria di Magdala (20,11 ss.).

Non è poi ammissibile l’altro elemento della presunta spiegazione: le “bende piegate con cura" come “segno” della Risurrezione, evidentemente sul presupposto, da parte dell’autore della nota, che un ladro avrebbe lasciato tutto in disordine e non avrebbe perso tempo a mettere ordine. Non è ammissibile, innanzitutto, perché proprio le “bende” (come dice, con scarsa precisione, la nota) erano, stando alla traduzione della Cei - che è il testo utilizzato per l’edizione italiana della traduzione ecumenica, di cui sì sono riprodotti solo i commenti - quelle “bende”, dunque, erano gettate "per terra”, come Giovanni ripete per due volte (20,5-7). In apparente ordine ("piegato in un luogo a parte" Gv, 20,7, per dirla con la stessa traduzione) era semmai il sudario che gli era stato posto sul capo” (ibid.).

Dunque, la tomba presentava un aspetto insieme ordinato e disordinato. Sia la sparizione del cadavere sia l’aspetto delle vesti funerarie sembravano lanciare un messaggio ambiguo, aperto a tutte le interpretazioni. Tale, comunque, da non giustificare affatto quel “vide e credette”.

Oltretutto, dal contesto sembra chiaro che quel “credette” non risale al fatto che la tomba fosse vuota, ma piuttosto al fatto che c’era là dentro - in quell’alba della prima domenica della storia - “qualcosa” che indusse di colpo Giovanni a credere. Divenendo, se così possiamo dire, il primo cristiano. Che cos’era quel “qualcosa”? E possibile, scrutando i testi, riuscire a intravedere quali siano stati quei “segni" tanto inconfutabili?

Occorre riconoscere che l’annuncio primitivo del cristianesimo, quale ci appare dal Nuovo Testamento, sembra quasi dimenticare la tomba. Il fatto che sia restata vuota non entra nel Credo e tutta la prima predicazione insiste, come prova di verità, unicamente sulle apparizioni.

Solo nel vangelo di Luca vi è l’episodio narrato anche da Giovanni, ma vi si cita soltanto Pietro: “Pietro corse al sepolcro e, chinatosi, vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto” (Lc, 24,12).

La tradizione cui Luca ispira il suo vangelo è quella che ha raccolto da Paolo: in essa, evidentemente, l’episodio era raccontato in modo abbreviato, non citando Giovanni (probabilmente perché ancora troppo giovane al momento dei fatti e, dunque, non abbastanza autorevole), ma confermando quanto nel quarto vangelo è detto, a proposito degli effetti di perplessità e non di fede procurati su Pietro dalla visita al sepolcro.

Si noti, tra l’altro, nel brano di Luca appena citato, quel “chinatosi”, che è esattamente il “chinatosi” di Giovanni, che lo riferisce a se stesso, ma che ha lo stesso valore: quello, cioè, di una sorta di "frammento” di ricordo diretto, restato nel racconto fatto dagli stessi protagonisti. È un altro dei tanti segnali, sparsi per tutto il vangelo, che rinviano - all’improvviso e senza alcun sospetto di premeditazione - a una testimonianza diretta e oculare, a un elemento cronachistico. Ma è tra i segnali di verità, anche perché rispecchia una realtà che l’archelogia ha confermato: come tutte quelle dei notabili d’Israele, anche la tomba di Giuseppe d’Arimatea era scavata nella roccia e la sua apertura era più bassa della statura di un uomo. Così che, per entrarvi o anche solo per guardarvi dentro, occorreva “chinarsi”: proprio come dicono il vangelo di Luca e quello di Giovanni.

Tra l’altro, tra le tracce e gli indizi di nascosto accordo tra i vangeli, c’è un “segnale” nello stesso capitolo 24 di Luca dove, al versetto 12, per brevità o per il motivo che dicevamo (l’età di Giovanni, in un mondo dove aveva valore solo la testimonianza di uomini maturi) non si parla che di Pietro accorso al sepolcro. Ma ecco che, poco sotto, i due discepoli che se ne vanno verso Emmaus e parlano con lo Sconosciuto, dicono: “Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato le cose proprio come le donne avevano detto, ma lui non l’hanno trovato!” (Lc, 24, 24). I verbi al plurale ("alcuni dei nostri” è il soggetto) non possono spiegarsi con il solo Pietro di cui lo stesso evangelista aveva parlato e sembrano confermare che accanto a lui c’era qualcun altro, visto che non vi è cenno di altre visite al sepolcro da parte di uomini (delle donne gli evangelisti parlano sempre a parte, e distinguendo con chiarezza).

Comunque sia, soltanto quando Giovanni - dopo che i Sinottici avevano già scritto, secondo il parere comune degli studiosi - redasse il suo vangelo, dell’episodio fu data la versione “completa”; e fu data dall’evangelista-apostolo stesso, che dice di avervi partecipato in prima persona.

La riportiamo qui, quella versione giovannea, come al solito nella traduzione della Conferenza Episcopale Italiana.
C’è, innanzitutto, l’antefatto, che non è possibile trascurare e che quindi richiamiamo al lettore, anche se la nostra analisi si eserciterà su quanto segue: “Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!” (Gv, 20,1 ss.).
Ed ecco subito di seguito il passo che ci interessa esaminare, perché in esso è contenuto l’enigma troppo spesso trascurato (che cosa vide Giovanni?): "Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entro. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro e vide e credette”(Gv, 20, 3-8).

Così, dunque, la Bibbia “ufficiale” dei cattolici italiani; la quale però qui (alla pari, del resto, di tutte o quasi le altre traduzioni, sia in Italia, che nel mondo intero) sarebbe imprecisa, equivocando a tal punto sulla lettera e lo spirito dell’evangelista da rendere incomprensibile le ragioni di quel “vide e credette” che termina in modo folgorante la prima visita a ciò che diventa da quel momento il Santo Sepolcro.

La dimostrazione (se davvero è tale) che qui i traduttori cadrebbero in gravi abbagli, è proposta da un prete diocesano laziale, un “dilettante”, don Antonio Persili, anziano parroco a Tivoli. Sin da seminarista, racconta, fu ossessionato da quel eỉden kaì epìsteusen: che cosa vide Giovanni per credere? Insoddisfatto dalle spiegazioni tradizionali (e non a torto, come vedremo) don Persili per decenni si è arrovellato, cercando se per caso, sotto quelle poche parole greche, Giovanni avesse dato indicazioni su ciò che c’era davvero là dentro.

Convinto, a un certo momento, di avere avuto l’intuizione giusta, l’approfondì sempre di più, decidendosi finalmente nel 1988 ad esporre in un libro i risultati delle sue ricerche.

Il volume, dal titolo "Sulle tracce del Cristo risorto" (sottotitolo: "Con Pietro e Giovanni testimoni oculari"), non trovò un editore e, quindi, don Persili lo pubblicò a sue spese. Un esemplare fu inviato dall’autore anche al sottoscritto che, riservandosi di esaminarlo un giorno o l’altro, lo depose sui suoi scaffali. Tra migliaia di altri libri, giacque dimenticato il libretto, dall’apparenza modesta, del vecchio parroco di Tivoli (scambiato a prima vista anche da chi scrive, occorre pur confessarlo, per uno dei tanti apologeti naifs che inviano in continuazione a studiosi e giornalisti le loro presunte, quasi sempre inservibili, “dimostrazioni scientifiche” della verità dei vangeli).

Avendo recuperato il testo dimenticato quando si trattò di scrivere questo libro [su Gesù Risorto] e avendolo studiato con attenzione, eccoci a proporre alcune sue ipotesi come attendibili. 

In ogni caso, seriamente documentate da uno che, come questo sacerdote, dimostra di maneggiare molto bene il greco del Nuovo Testamento e di avere studiato e ricostruito come pochissimi altri le tecniche, gli usi, i costumi funerari nell’Israele antico. Un aspetto, questo, essenziale per cercare di capire che cosa “vide” Giovanni e, in generale, per saggiare la storicità dei racconti di passione, morte, risurrezione; e aspetto, invece, a tal punto trascurato che, nell’immensa bibliografia biblica, sembra proprio che manchi un’opera specifica approfondita che lo affronti. Don Persili lo ha fatto, con risultati che sembrano convincenti.

Seguendo la ricostruzione, attenta ai testi e alle fonti, del Persili, la preparazione del corpo fu accurata e completa, non affrettata e provvisoria come abitualmente si dice.
Mancava il tempo, mentre incombeva l’inizio del sabato, quando ogni lavoro doveva cessare? In realtà i due uomini, entrambi grandi notabili in Israele, dovevano disporre di molti servi che certamente portarono con sé e che i due coordinarono efficacemente perché le cose si svolgessero al meglio.

Quanto alle ore disponibili, dovettero essere di più di quanto si pensi. Se Gesù morì, stando ai Sinottici, all’ora nona (le tre del pomeriggio), stando alle stesse fonti le operazioni per la sepoltura iniziarono più tardi, quando era ormai venuta la sera “(Mt, 27,57; Mc, 15,42) e occorreva non attardarsi per evitare di essere sorpresi dall’inizio del sabato. Ma questo, come sembrano ignorare molti, non cominciava col tramonto del disco solare: stando ai rabbini, quando in cielo appariva la prima stella si era ancora al venerdì, alla seconda si era tra il venerdì e il sabato e solo alla terza stella cominciava il giorno sacro del riposo.

Le tristi operazioni iniziarono con l’acquisto del “lenzuolo” da parte dell’Arimateo, stando al racconto di Marco (15,46). In realtà, la traduzione della Cei ("egli, allora, comprato un lenzuolo...") non sembra accettabile. La parola sindớn può anche, in senso secondario e particolare, significare “lenzuolo” (al pari di “vela" “vessillo”, ecc.), ma in senso primario e generico significa “tessuto di lino”, “tela”. Non esistevano lenzuoli funerari da comprare, magari in apposite botteghe: i morti erano sepolti dagli ebrei con le loro vesti. Ciò che Giuseppe d’Arimatea comprò - o, meglio, quasi certamente fece comprare da qualche suo servo - fu un rotolo di tela di alcuni metri, di cui si servì per ritagliare i pezzi necessari per ricoprire, avvolgere, legare il corpo di Gesù, completamente nudo (tranne, forse, uno straccio alle reni: omaggio romano alla pudicizia ebraica) poiché le sue vesti, come per ogni condannato a morte, erano finite ai soldati.
Dal rotolo di tela fu ricavato subito il lenzuolo in cui il Crocifisso fu avvolto, come specificano tutti e tre i Sinottici, mentre Giovanni dà questo per scontato e passa alla fase successiva: "e avvolsero (il corpo) in bende..."(19,40).

L’avvolgimento previo nella tela (la "sindone”) era necessario per due motivi: innanzitutto, per evitare di toccare direttamente il cadavere e non incorrere così in una grave impurità [??]; in secondo luogo, per una prescrizione della Legge, che imponeva di non lasciare disperdere il sangue dalle ferite di chi fosse morto in modo traumatico. Si sa che, per l’ebraismo, il sangue rappresenta l’uomo stesso: andava dunque in qualche modo “salvato”, tanto che si imponeva di seppellire con il morto anche le zolle di terra su cui qualche goccia fosse caduta.
Anche alla luce di ciò, si noti, in questi racconti di sepoltura, un segno ulteriore di credibilità storica a silenzio: non si dice, cioè, che il cadavere di Gesù sia stato lavato, come era invece d’uso - anzi obbligatorio, stando ai rabbini - in Israele. Persili: “Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo non hanno lavato e unto con l’olio il corpo di Gesù, ma lo hanno avvolto semplicemente in una tela non perché non avevano tempo a disposizione; non perché non avevano l’acqua, che avrebbero potuto procurarsi con facilità; neanche perché pensavano di procedere solo a una sepoltura provvisoria; e, di certo, nemmeno perché non amavano e non rispettavano abbastanza Gesù. 
Se non l’hanno fatto, è perché obbedivano a una precisa prescrizione della Legge, che imponeva di seppellire il defunto per morte violenta con il suo "sangue di vita”, senza detergerlo. E solo degli esperti della Legge, come quei due, potevano conoscere questa particolare prescrizione”. 
Dunque, non solo in ciò che fecero, ma anche in ciò che non fecero si nasconde un segnale di attendibilità storica.

*
Ecco, allora, la sintesi della ricostruzione data da Antonio Persili: 

“Il corpo di Gesù fu preparato per la sepoltura nel seguente modo. Prima fu avvolto in una grande tela (la sindớn)con il duplice scopo di non toccare il cadavere con le mani nude e di non disperdere il sangue. Quindi, si passò alla seconda operazione di avvolgere e legare il corpo con le fasce(othớnia) versando nel frattempo, all’interno e all’esterno di esse, profumi. 
I Sinottici, non avendo parlato dell’intervento di Nicodemo con i suoi aromi, non ne descrivono l’impiego, anche perché non avevano intenzione di dire per filo e per segno come era stato preparato il corpo di Gesù per la sepoltura; mentre Giovanni, usando il verbo entafiàzo, che significa esattamente “preparare un cadavere per la sepoltura” e non semplicemente “seppellire”, descrive con precisione come essa di fatto avvenne. 
Questa operazione di avvolgimento e di legamento fu preceduta e seguita dall’applicazione di due “sudari”: il primo all’interno della sindone, dove svolgeva la funzione di mentoniera; il secondo all’esterno, per completare l’avvolgimento e il legamento, come vedremo meglio. E il tutto fu fatto al di fuori del sepolcro, sulla pietra da unzione che faceva parte del complesso sepolcrale di proprietà di Giuseppe”. 

Quando tutto fu finito, il corpo fu trasportato all’interno, sul banco scavato nella roccia. Poi, per dirla con Matteo, “fu rotolata una grande pietra sulla porta del sepolcro” (27,60). Dopo il silenzio del sabato (questo giorno inquietante e misterioso forse più di ogni altro. quello in cui il Padre si “nasconde” a tal punto che il Figlio giace inanimato in una tomba), verrà la sorpresa sbalorditiva del “terzo giorno”.

Tra sindone, sudario, fasce

Perché Giovanni - l’apostolo e l’evangelista - fu il primo che credette nella risurrezione di Gesù? Che cosa “vide” per avere “creduto” (come dichiara al versetto 8 del capitolo 20 del suo vangelo), dopo essere entrato nel sepolcro, al seguito di Pietro, in quell”’ottavo giorno” che divenne la prima domenica della storia?

Impostato in precedenza il problema, adesso, affrontiamo subito il testo di Giovanni nella traduzione datane dalla Bibbia della Cei, affiancandovi la versione e la relativa interpretazione di Antonio Persili, il sacerdote che ha dedicato gli studi di una intera vita a cercare di decifrare il perché di quella fede subitanea.

Giovanni, 20,5: 
Traduzione della Conferenza Episcopale Italiana: “Chinatosi, (Giovanni) vide le bende per terra, ma non entrò”.
Traduzione di Antonio Persili: “ Chinatosi, (Giovanni) scorge le fasce distese, ma non entrò”.

Come si vede, l’edizione ufficiale cattolica ha “le bende per terra”; quella del nostro studioso traduce “le fasce distese”. Il punto è decisivo per lo stesso evangelista, che in ciascuno degli altri due versetti che seguono (il 6 e il 7) parla di quelle che per la Cei sarebbero “bende per terra”, mentre per Persili sono sempre e solo “fasce distese”. 
Che cosa ha voluto comunicarci Giovanni, ripetendo tre volte in tre versetti successivi quel suo keìmena tà othònia, quel linteamina posita come traduce la Vulgata latina?

Per capire dobbiamo rifarci, come sappiamo, alla “tecnica” di sepoltura messa in atto per Gesù, secondo le leggi e i costumi ebraici, da Giuseppe d’Arimatea, dal suo pietoso aiutante, Nicodemo e, certamente, dai loro servi. Come ricordavamo precedentemente, Persili coordina (con un'abilità nella quale non sembra però di scorgere forzature) i cenni che al proposito ci danno i Sinottici con quelli di Giovanni, mettendo in rilievo che il corpo del Crocifisso deve essere stato interamente avvolto in una grande tela - la sindòn - non solo per evitare il contatto dei vivi con un cadavere di per sé impuro, ma anche per obbedire al precetto di non disperdere il sangue di chi fosse morto con ferite sul corpo.

Dallo stesso rotolo di tela da cui fu ricavata quella “sindone”, l’Arimateo - o qualche suo servo - tagliarono tà othònia: che non sarebbero “bende”, ma “fasce”. “Bende”, in effetti, erano quelle che legavano il cadavere di Lazzaro e per indicare le quali lo stesso Giovanni usa un diverso sostantivo (11, 44). Le othònia - le quali, lo ripetiamo, tornano qui in tre versetti - erano più alte: delle grosse “fasce”, con le quali fu avvolto tutto il corpo di Gesù, escludendo solo la testa. Su quest’ultima, alla “sindone”, che già la copriva, fu sovrapposto il “sudario”.
Come giunge Persili a questa ricostruzione? Innanzitutto, facendo osservare come sia scritto che Giovanni, “chinatosi vide le fasce”: se vide solo esse e non il lenzuolo, è evidentemente perché quest'ultimo era tutto coperto dalla fasciatura (ad esclusione del capo; ma l'Apostolo, stando al di fuori, vedeva la parte dov’erano stati i piedi).
Ma, poi, non va dimenticato che poco prima lo stesso evangelista aveva parlato di quelle stesse othònia: “Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, come è usanza seppellire per i Giudei” (Gv, 19,40). Gli “oli aromatici” sono la “mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre” portata da Nicodemo. Erano ben 32 chili e 700 grammi, in forma liquida, di cui una parte fu versata sulla pietra sepolcrale sino a preparare un “letto” di profumi, un’altra parte servì per ungere le pareti interne della tomba (ecco perché una simile quantità, che è sembrata inverosimile a tanti critici) e il rimanente fu versato sulla sindone.
Le “fasce” messe tutto attorno al corpo di Gesù, sino a coprire interamente il lenzuolo, avevano anche la funzione di impedire quella troppo rapida evaporazione del liquido aromatico che si sarebbe verificata se la sindone fosse stata a contatto con l’aria. Si noti che questa sembra essere stata la funzione anche del sudario sul capo. Se c’era già la sindone che lo avvolgeva, perché quel pezzo ulteriore di tela? Una ragione precisa l’aveva: proteggere la soluzione di mirra e di aloe da una evaporazione eccessiva-mente veloce.

Fasce”, dunque, non “bende”: una copertura completa sino al collo. E, soprattutto, non “per terra” (Cei) bensì “distese” (Persili). Il testo greco, in effetti, dice che le othònia erano keĩmena. C’è qui, dunque, il participio del verbo keĩmai, che corrisponde al latino jacere, giacere. Come spiega un vocabolario classico di greco, quello dei Bonazzi, keĩmai “significa giacere, essere disteso, seduto, steso, orizzontale; si dice di una cosa bassa in opposizione ad una elevata, eretta, come per esempio il mare calmo rispetto al mare agitato".

Ne deriva, dunque, Persili: “Il significato che Giovanni vuol dare a questo verbo è far risaltare che prima le fasce erano rialzate (“come un mare agitato’), perché all’interno c’era il corpo; dopo la Risurrezione, invece, le fasce erano abbassate, distese ("come un mare calmo”), giacendo nel medesimo posto in cui si trovavano quando contenevano il cadavere di Gesù. E’ arbitrario farle giacere per terra, come vuole la versione ufficiale. 

La Vulgata traduce con il participio posita, che rende bene l’idea delle fasce distese e vuote, perché il verbo ponere significa appunto “mettere giù”. Perciò le due parole keĩmena tà othònia si devono tradurre come “le fasce distese”, ma intatte, non manomesse, non disciolte (...) Esse costituiscono la prima traccia della Risurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza svolgere quelle fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera”.

Continua il nostro autore: “Questa traccia sarebbe stata sufficiente per credere nella Risurrezione, ma nel sepolcro v’era una traccia ancora più straordinaria, che Pietro ebbe la ventura di vedere per primo: la posizione del sudario. 

Se è importante, per capire la fede immediata di Giovanni, la posizione delle fasce, lo è ancora di più la posizione del sudario, quello che stava al contatto del corpo. E una posizione così sorprendente che all’evangelista è necessario un intero versetto di venti parole per descriverlo”.
Prima di quel versetto, il settimo, c’è ovviamente il sesto che, nella versione Cei, dice: “Giunse intanto Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra”. Qui la sola mutazione da apportare, come sappiamo, sarebbe “le fasce di­stese" al posto di “le bende per terra".

Ma ci sarebbe da aggiungere che sia la Vulgata latina che l’attuale versione cattolica italiana traducono sempre con “vedere” i tre diversi verbi greci impiegati in questi versetti da Giovanni. Si perde così una sfumatu­ra importante, con la quale l’evangeli­sta sembra avere voluto indicare una progressione: dal primo constatare con perplessità, al contemplare suc­cessivo e poi al vedere pienamente, così da comprendere e da credere. 

Non è una osservazione marginale, perché anche in questa scelta attenta di verbi solo apparentemente sinoni­mi Giovanni conferma quale atten­zione richieda al lettore perché colga il significato preciso di ogni parola. Che nulla nei vangeli sia “casuale” è possibile scoprirlo anche in queste “finezze” che stanno dietro al testo originale e che spesso non è possibile apprezzare nelle traduzioni, che hanno reso i tre verbi usati da Giovanni in questi versetti (blépei, theòrei, eìden) tutti con un “vide” [!!].

Ma veniamo al versetto 7 che conti­nua la descrizione di ciò che si trovò davanti Pietro: “e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte”. Così la versione Cei. 
Stando, invece, alla traduzione proposta da Persili: “e il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto in una posizione unica".

Innanzitutto, va ricordato che il ter­mine “sudario” ha assunto per noi, proprio sotto l’influsso delle parole evangeliche, un significato funera­rio, mentre invece altro non era che un pezzo di tela, un fazzoletto (più grande dei nostri attualiusato per detergere il sudore. Come dice, del resto, la parola stessa.
Ricordarlo è importante, perché molti hanno fatto e fanno confusione tra la “sindone” di cui parlano i Sinottici e il “sudario” di Giovanni, magari al punto di identificarli, credendo fosse­ro entrambi “abiti funerari”. In realtà, quel “sudario” era un pezzo - proba­bilmente con un lato dai 6o agli 8o centimetri - che Giuseppe d’Arimatea tagliò, o fece tagliare, da quel rotolo di tela da cui già aveva tratto la sin­dòn e le othònia, il lenzuolo e le fasce.
Sul perché di questa copertura ulte­riore, col sudario, sul capo già rivesti­to dalla sindon abbiamo detto più sopra: una protezione del liquido aro­matico versato in quantità da Nicodemo e dai suoi servi. Né è da escludere l’altro motivo addotto da Persili: non lasciare in disordine le piegature del lenzuolo, visto che tutto il resto del corpo era ordinatamente fasciato. E sia l’Arimateo che Nicodemo, ricchi e autorevoli notabi­li, non erano certo persone da amare lavori approssimativi, soprattutto per un uomo che avevano amato. Forse non è da escludere neppure che le ferite al volto e al capo (la corona di spine, tra l’altro, fonte di una abbon­dante emorragiainzuppassero di san­gue il lenzuolo.

Se Giovanni specifica che era proprio “quel sudario che gli era stato posto sul capo” è probabilmente, dice Persili, per “mettere in guardia il let­tore dal credere che si stia parlando dell’altro sudario, che si trovava all’in­terno della grande tela, come mento­niera, e che perciò non era visibile. Giovanni, insomma, precisa che Pietro ha visto il sudario che stava all’esterno, sul capo di Gesù, e non quello che stava all’interno, intorno al capo di Gesù”. La mentoniera, in effetti, faceva parte pietosa dell’uso funebre per impedire la vista disdice­vole della bocca spalancata a causa del cedimento, nel defunto, dei muscoli della mandibola. Un chiarimento al lettore antico era dunque necessario da parte dell’evangelista: Gesù era stato sepolto rispettandone anche in questo la dignità.

Proseguiamo: quel “sudario”, quel fazzoletto, “ non (era) per terra con le bende” (Gv 20,7): così vorrebbe la traduzione Cei. E qui ritornano, dun­que (per la terza e ultima volta), le othònia keĩmena
Persili: “In realtà, il vangelo vuol dire che il sudario non era appiattito sulla pietra sepolcrale. I geometri dell’antica Grecia usavano l’espressione keĩmenon schéma nel senso di “figura in piano, orizzonta­le”. L’evangelista vuol dire la stessa cosa: le fasce erano distese in piano, sì trovavano in posizione orizzontale, mentre il sudario era in una posizione rialzata”. Da qui, la traduzione pro­posta dal nostro studioso: "non con le fasce disteso”. Il sudario, s’intende, è il soggetto.

Segue subito dopo - in questo stesso cruciale, decisivo ver­setto 7 - un allà  chorìs  entetyligmé­non, che la Cei traduce con un “ma piegato a parte”. Sentiamo ancora il nostro sacerdote biblista: “L’infelice traduzione distrugge la mirabile trac­cia che l’evangelista ha rilevato con grande cura e ha descritto con laco­nicità e chiarezza. Infatti, questa tra­duzione contiene tre errori che stra­volgono la testimonianza di Giovanni".

Secondo don Persili, dunque, “prima di tutto, il participio entetyligménon è stato tradotto, arbitrariamente, con il participio italiano “piegato” invece che con “avvolto”. Il verbo entylìsso corrisponde ai verbi “avvolgo, invol­go, ravvolgo”. Ne è conferma il fatto che deriva dal sostantivo entylé che corrisponde a “coperta, accappatoìo oggetti che servono per avvolgere e non per piegare”.

Ma c’è poi quel chorìs, che è un avverbio: “E vero che, in italiano, significa innanzitutto “separatamen­te, a parte, in disparte”. Ma è anche vero che, in senso traslato, può signi­ficare “differentemente, al contrario”. Può assumere due sensi: quello locale e quello modale, traslato. Qui si vuol dare all’avverbio chorìs il significato traslato, perché la logica della testi­monianza consiste nell’opporre la posizione assunta dalle fasce (distese) a quella, diversa, assunta dal sudario (avvolto)”.

Terzo errore - o fraintendimento che sia - della traduzione ecclesiale italia­na sarebbe il non avere compreso (per motivazioni filologiche che qui sarebbe troppo complesso esporre) i rapporti tra l’avversativo allà (‘ma’) e l’avverbio  chorìs.

Concludendo”, scrive Persili, “la frase si deve tradurre in modo da rendere l’idea che il sudario per il capo si trovava in una posizione diversa da quella delle fasce per il corpo e non in un luogo diverso. Pietro contempla le fasce distese sulla pietra sepolcrale e, sulla stessa pietra, contempla anche il sudario che, al contrario delle fasce, che sono diste­se, è in posizione di avvolgimento, anche se non avvolge più nulla”.
Pertanto, la traduzione corretta sarebbe, invece che il “ma piegato a parte” della Cei: “Ma al contrario avvolto”.

Però, per completare questo versetto 7, ci sono tre altre brevi parole gre­che le quali sarebbero state fraintese più ancora delle altre. Quelle parole sono eis éna topòn: stando alla Cei - e, bisogna pur dire, stando al senso immediato per chiunque sappia anche solo un po’ di greco - il loro significato sembra evidente. E, cioè: “in un luogo”. E con questi tre ter­mini che la traduzione dei vescovi italiani può costruire la frase “in un luogo a parte".

Poiché, però, questo non sembra dare significato sufficiente, le inter­pretazioni si sono sprecate: pensiamo di poterle risparmiare al lettore, arri­vando subito alla proposta di Persili. Proposta certamente inedita, magari “scandalosa” per qualche esperto, ma che in realtà non sembra avere contro motivazioni filologiche serie. Se poi, davvero, si trattasse della traduzione “giusta”, si illuminerebbe in modo plausibile e definitivo il senso di quell’enigmatico “vide e credette”.

Lasciamo dunque ancora la parola a Persili, il quale propone innanzitutto di intendere la parola greca tòpos non come “luogo”, ma come “posi­zione”. Non si tratta di un arbitrio, poiché questo significato è dato anche, tra gli altri, da quel vocabola­rio di Lorenzo Rocci che ha accom­pagnato generazioni di studenti licea­li (il sottoscritto compreso...) e che è ancora oggi tra i più completi e attendibili.

Ma quale è questa posizione del sudario”, continua il nostro parroco biblista, “posizione così importante da dedicargli l’intero versetto 7? Pietro (nel racconto, s’intende, che da lui dovette raccogliere Giovanni che scrive l’evangelo) la precisa con un tocco da artista per mezzo di una preposizione, eis (in italiano, “in’) e di un aggettivo numerale, éna (è l’ac­cusativo accordato con l’accusativo del sostantivo tòpos, e significa “uno”). Abbiamo visto che questo aggettivo numerale éna non può avere il signi­ficato dì pròtos e che perciò non si può tradurre che il sudario stava “nella medesima posizione”; che non si può neanche sostenere che il suda­rio si trovava in un altro luogo, diverso dalla pietra sepolcrale; infine, che non si può neppure affermare che il sudario stava in un luogo inde­terminato, perché tale affermazione sarebbe inutile, pleonastica e addirit­tura assurda. Dobbiamo perciò con­cludere che l’espressione eis éna deve avere un altro significato, che renda viva e precisa la testimonianza di Pietro. Il numerate eis, come si legge nel vocabolario del Bonazzi, può essere usato con il significato di “unico”.

-Interrompendo un momento la cita­zione, aggiungiamo ciò che al Persili sembra essere sfuggito e che rafforza invece notevolmente la sua interpre­tazione. In effetti (come abbiamo con­statato noi stessi, mentre vagliavamo questa proposta di traduzione) la voce eis - firmata dall’autorevole Ethelbert Stauffer, docente di Nuovo Testamento all’Università di Bonn - nei 15 volumi dell’insuperato Grande Lessico del Nuovo Testamento (“il Kittel", per gli addetti ai lavori) inizia così: “ Nel Nuovo Testamento, eis è usato solo raramen­te come numerale. Per lo più signifi­ca solounico,incomparabile, oppu­re dotato di validità unica... “.--
Cioè, esattamente come propone Persili, del quale riprendiamo adesso la cita­zione: “ Unico è il significato che Pietro ha voluto dare a éna. Il suda­rio, il grande fazzoletto che avvolge il capo, al contrario delle bende, era avvolto in una posizione UNICA, nel senso di singolare, eccezionale, irripetibile. Infatti, mentre avrebbe dovuto essere disteso sulla pietra sepolcrale con le fasce, era invece rialzato e avvolto. La posizione del sudario appare unica per eccellenza agli occhi di Pietro e di Giovanni, perché è una sfida alla forza di gra­vita".

Per capire meglio, bisogna ricordare (stando al nostro autore, che ha però dalla sua il Nuovo Testamento: il corpo del Risorto è "materiale“, sì, e si fa per questo “toccare” e mangia e beve, ma al contempo entra nella sala dove sono discepoli a porte chiuse, passando dun­que attraverso la materia), bisogna dunque ricordare che “ Gesù non solo non uscì dal sepolcro (il ribaltamento della pietra all’entrata non fu che un “segno”), ma che non uscì neanche dalle tele perché, dall’inter­no di esse, entrò direttamente nella dimensione dell’eternità. Così che il suo non fu uno spostamento da un luogo all’altro, ma il passaggio miste­rioso da uno stato all’altro, dal tempo all’eterno".

Pur rispettando l’enigma, ciò poté avvenire con una sorta di lampo di luce e di calore: un riflesso “sensibile” del Mistero, che dovette prosciugare di colpo gli aromi che impregnavano le tele. Scomparso il corpo, le fasce che lo avevano avvolto, più pesanti, si abbassarono sulla sindone che esse coprivano e assunsero quella posizio­ne “distesa” che abbiamo visto. Il sudario per il capo, più leggero e più piccolo, per così dire “inamidato” per l’istantaneo essiccarsi dei profumi liquidi, restò - per usare le parole stesse del Nuovo Testamento - “ al contrario “ (rispetto alle fasce) “avvol­to”, come quando cingeva la testa del defunto, apparendo così ai due apo­stoli “in una posizione unica".

È questa situazione straordinaria che giustifica il “credette” di Giovanni dopo che “vide”? 
Di certo, la man­canza di ogni segno di effrazione e di manomissione nelle tele, dalle quali nessuno poteva essere uscito o essere stato estratto, e quella posizione “incomparabile” del sudario, ancora alzato, ma sul vuoto del lenzuolo sot­tostante distesosi sulla pietra del sepolcro; di certo, dunque, tutto questo giustificherebbe l’immediato comprendere di Giovanni e il suo arrendersi - per primo nella storia - alla realtà di una risurrezione che aveva lasciato tracce mute ma così eloquenti.

Per ulteriore chiarezza ripetiamo infi­ne nella loro interezza i versetti dal 5 al 7 del capitolo 20 di Giovanni nella traduzione di Antonio Persili: (Giovanni) chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò. Giunge intan­to anche Simon Pietro che lo seguiva ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese e il sudario, che era sul capo di lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posi­zione unica".

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