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venerdì 4 agosto 2017

LA GUERRA DEI VESCOVI


SI',  VESCOVI 
contro il Motu Proprio “ Summorum Pontificum cura ”

7.7.2007

Un esempio emblematico
L'Arcivescovo di Torino intimidisce i suoi presbiteri

presentazione nota commento


Nostra presentazione
Fin da quando si accennò della possibile pubblicazione di un documento sulla liberalizzazione dell’uso della liturgia tradizionale, or sono quasi 2 anni fa, abbiamo assistito alla massiccia mobilitazione di vescovi e cardinali che, insieme a certi preti da battaglia, si sono impegnati perché una “così grande iattura” non piombasse sulla Chiesa e sui fedeli.
Appena promulgato il Motu Proprio Summorum Pontificum cura, questi signori hanno dovuto prendere atto del fatto compiuto e hanno morso nervosamente il freno per la loro impotenza di fronte alla determinazione del Santo Padre, che ha avuto primariamente in vista il bene della Santa Chiesa e la salvezza delle ànime.
Entrato in vigore il Motu Proprio, i ribelli si sono affrettati a rivestirsi della loro immeritata autorità per lanciare disposizioni e produrre iniziative atte a contrastare e a vanificare la espressa e precisa volontà del Sovrano Pontefice.
Opposizione ad ogni Autorità che non sia la loro: è questa la divisa di lor signori. 
Le notizie relative al vecchio Carlo Maria Martini, scopertosi affetto da una grave forma di allergia da “vecchiume” , o al signor Dionigi Tettamanzi, afflitto da attacchi acuti di contorcimenti pseudo-canonici, o a tale Luca Brandolini, assalito da groppi alla gola e fiotti di lacrime, o al paonazzo Alessandro Plotti sempre dedito alla persecuzione dei cattolici toscani, o all’extraterrestre Sebastiano Dho, che non vede, non sente, ma parla, o ai cattocomunisti dossettiani intenti ad una maniacale  lacerazione delle vesti, hanno riempito le pagine di tanti giornali e di tanti siti internet.
Poco si è saputo invece delle riunioni segrete, o quasi, svoltesi qua e là in tante “regioni pastorali”; e quasi niente si è saputo dei richiami pesanti, delle minacce e dei ricatti a cui sono stati sottoposti tanti sacerdoti desiderosi di celebrare col Vetus Ordo.
La notizia che segue viene dall’Arcidiocesi di Torino e la pubblichiamo perché è emblematicamente riassuntiva della situazione allo stato attuale.
Si tratta di una notizia di “prima mano”, redatta cioè da persone direttamente interessate, le quali, per ovvie ragioni, sono costrette all’anonimato.
La riunione di cui si parla si è tenuta il 2 ottobre scorso.
Ci facciamo carico noi della responsabilità del contenuto e, anzi, aggiungiamo, a parte, qualche precisazione.
La pubblichiamo così come ci è giunta e come l’abbiamo trasmessa ai responsabili della Curia Romana.


CARDINAL POLETTO: 
“A TORINO CI SONO I PICCHIATI DEL LATINO”
In un recente incontro con il clero giovane, dei primi dieci anni di ordinazione sacerdotale, l’arcivescovo di Torino, il Card. Severino Poletto, ha voluto unire la sua voce all’inopportuno coro dei “critici” del Motu Proprio del Santo Padre Benedetto XVI, con il suo dire, non proprio ecclesiale.
Il porporato si è premurato di “intimorire” i giovani preti, mettendoli ben in guardia dal celebrare la Santa Messa nella forma straordinaria del Rito Latino, dicendo: “La liturgia […] non può essere una stravaganza personale [...]. Mi auguro che nella diocesi di Torino nessuno esca con queste richieste ”.
Forse l’Eminenza ha dimenticato che il Motu Propriosottrae definitivamente alla discrezione dei Vescovi la “concessione” della Messa Tridentina, affermando che essa non è che una delle due forme possibili ed attuali del Rito Latino.
Come se non bastasse, con una grave caduta di stile, sono stati definiti "picchiati" (Sic!) quelli che amano il latino, con esplicito riferimento all’Arciconfraternita della Misericordia di Torino.
Ha affermato il Cardinale Poletto, davanti ai suoi giovani preti, in formazione: “A Torino ci sono i picchiati del latino, quelli che vanno alla Misericordia! ”

Nessuno dei partecipanti alla Santa Messa domenicale presso la chiesa tenuta dall’Arciconfraternita della Misericordia, si può riconoscere nella “definizione” del Cardinale Poletto, che è priva di rispetto sia per le persone sia per il loro sentimento religioso. Evidentemente siamo davvero in un’epoca in cui si rispettano, giustamente, i pagani appartenenti ad altre religioni, mentre si scatena la più violenta avversione ideologica contro i fratelli che, semplicemente, desiderano pregare il Signore Gesù.
Ma, soprattutto, una domanda sorge spontanea: che l’illustre porporato non intenda dare del “picchiato del latino” anche al Sommo Pontefice, il Papa Benedetto XVI, il quale è uscito con questa "stravaganza personale"?

Cara Eminenza, i “picchiati del latino”, evidentemente, non sono solo a Torino, ma anche a Roma, nella Santa Sede a cui Lei deve obbedienza.


Un breve commento
Il Cardinale conosce bene i suoi rampolli, poiché non si sarebbe preoccupato di convocare a parte i preti “giovani” se non avesse il sospetto che almeno alcuni di loro potrebbero essere tentati di celebrare la S. Messa tradizionale.
Un rapporto di fiducia alquanto strano, sia con i suoi presbiteri, che lui stesso ha ordinati, sia con sé stesso !
In ogni caso, egli ha commesso un doppio errore.
Da un lato il suo rimbrotto verrà inteso dai probabili fautori della S. Messa tradizionale come una conferma della necessità che qualcuno si decida a celebrarla questa Messa rivalutata dal Santo Padre, se non altro per dar seguito agli stessi auspici del Papa, magari proprio per contrastare le incredibili opinioni personali di certi vescovi e di certi cardinali.
Dall’altro lato, il pesante intervento del Cardinale solleverà non pochi interrogativi nell’ànimo dei restanti “giovani” preti. Essi sanno infatti che il Cardinale usa ricordare che “la Chiesa sono io” (la Chiesa di Torino, ovviamente) ed è inevitabile che finiscano col chiedersi se per caso il Cardinale non esageri un po’. Che si sia messo in testa che lui è anche la Chiesa a Roma ?!
Dopo quest’ultima uscita, chi scommetterebbe sul residuo prestigio del Cardinale?
Come non stupirsi, poi, del richiamo del Cardinale circa “la liturgia [che] non può essere una stravaganza personale”?
Chi è entrato in Duomo a Torino in questi ultimi tre anni ha potuto godere dei risultati della “ristrutturazione” del presbiterio. Il luogo cioè dove il Pastore della Diocesi celebra solennemente la liturgia pontificale della Chiesa cattolica.
- Non solo è scomparsa la balaustra, orribile marchingegno che “separava” il Cardinale dai fedeli.
- Non solo è stato aggiunto un bellissimo nuovo altare che ricorda da vicino le pietre sacrificali dei Maya.
- Ma soprattutto è stato collocato davanti e in mezzo al vecchio obsoleto “altar maggiore” un soppalco ben rialzato su cui è poggiato un gigantesco sedile ove si introna regolarmente il Cardinale.
Finalmente i fedeli possono godere della sua vista proprio guardandolo dal basso in alto, come si addice a sudditi fedeli.
I preti convocati si sono certo meravigliati che il Cardinale definisse “picchiati del latino” i fedeli della sua Diocesi che da 18 anni seguono la S. Messa tradizionale alla chiesa della Misericordia, ma sicuramente perché non sono abituati a sentire le esclamazioni offensive che il Cardinale rivolge a questi fedeli fin da quando è giunto a Torino, nel 1999. Chi lo conosce sa benissimo che il Cardinale si compiace spesso, per esempio, di invitare i fedeli della Misericordia “a vergognarsi”. E tutto perché sono fedeli alla liturgia millenaria della Chiesa, cosa che a Lui non passa neanche per l’anticamera del cervello.
Per ciò che riguarda il rapporto tra il Cardinale di Torino e il Papa, i nostri amici si chiedono se per caso il Cardinale non pensi male anche del Papa.
Evidentemente non sanno che il Cardinale è fra quelli che, obbedendo ad un certo ordine di scuderia, si sono mobilitati, già più di un anno fa, per cercare di impedire che Benedetto XVI pubblicasse il Motu Proprio Summorum Pontificum cura.
Certo, è davvero ridicolo supporre che egli potesse anche solo pensare di bloccare il Papa, ma ciò nonostante non si è affatto risparmiato per fare la sua parte, nel suo piccolo. Da buon gregario ha portato la sua pietruzza al cantiere.
Peccato per lui che, con l’aiuto di Dio, il cantiere sta per essere chiuso e presto resterà disoccupato.
Deo gratias.

pregh. in latino:  http://gerardoms.blogspot.it/2015/01/conchiglia-hortatur-ut-orationes.html

AMDG et BVM

venerdì 7 luglio 2017

VERITATIS SPLENDOR - DOMINUS JESUS - et SUMMORUM PONTIFICUM

È nostro comune dovere, e prima ancora nostra comune grazia, insegnare ai fedeli come Pastori e Vescovi della Chiesa, ciò che li conduce sulla via di Dio, così come fece un giorno il Signore Gesù con il giovane del Vangelo. Rispondendo alla sua domanda: «Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?», Gesù ha rimandato a Dio, Signore della creazione e dell'Alleanza; ha ricordato i comandamenti morali, già rivelati nell'Antico Testamento; ne ha indicato lo spirito e la radicalità invitando alla sua sequela nella povertà, nell'umiltà e nell'amore: «Vieni e seguimi!». La verità di questa dottrina ha avuto il suo sigillo sulla Croce nel sangue di Cristo: essa è divenuta, nello Spirito Santo, la legge nuova della Chiesa e di ogni cristiano.

Papa Benedetto XVI
e il "Summorum Pontificum"

La battaglia per la Tradizione liturgica. Un divino grazie a don Giuseppe Laterza per questo articolo nel X Anniversario del Summorum Pontificum

di... Don Giuliano della Rovere

Per ricordare il decimo anniversario del Motu Proprio Summorum Pontificum pubblichiamo qui di seguito le riflessioni di don Giuseppe Laterza che hanno il merito di individuare, con immediatezza di giudizio, i buoni frutti di un buon albero radicato nella Tradizione della Chiesa e nell’opera della Redenzione, e di indicare ciò che alla sua crescita oggi si oppone. Ben si comprendono le parole del Sacerdote pugliese, se si tiene costantemente presente che il  Summorum Pontificum deve essere contemplato non tanto come un’autorizzazione a celebrare a determinate condizioni un Rito “straordinario” (tutto ciò, se negli articoli del documento è rinvenibile, appartiene più al compromesso con Conferenze episcopali e altri potentati ecclesiastici che alla sostanza del pronunciamento), ma come il riconoscimento da parte di un Pontefice, che così si pronunciò autorevolmente sulla Liturgia della Chiesa, della non abrogabilità della “forma antica” della Messa.

07/07/07 - 07/07/17 
    Sono passati 10 anni dal Summorum Pontificum, legge di Benedetto XVI che - istituita non per riavvicinare i preti della Fraternità San Pio X -prevede la ripresa della celebrazione della Messa di San Pio V. 

Istituita per riprendere l’uso di un messale mai abolito e che ha nutrito per secoli la cattolicità; sdoganare i preti che volessero usare questo messale dalle richieste a vescovi e superiori, che spesso hanno negato nei tempi questi uso. Sono sorte molte messe in Europa e nel Mondo, molti giovani frequentano il rito di San Pio V, pochi anziani... molte vocazioni al sacerdozio. Ringraziamo Dio per quanto opera nella sua Chiesa. 

Al contempo vogliamo anche notare gli aspetti negativi di quanto succede: tanti sacerdoti sono perseguitati e messi al margine delle loro realtà perché hanno scelto di usare questo messale e celebrano. Privati di incarichi parrocchiali e della possibilità di sostentarsi sono messi alle strette, obbligati a non seguire il motu proprio che è una legge della Chiesa. 
Vescovi che parlano di “pastorale” non si curano delle esigenze di una piccola porzione del loro gregge, ma fanno di tutto per estinguere con la forza il nascere e il conoscere questo rito, quasi come Erode si prodigò nel cercare il Fanciullo divino per farlo morire e come il Sinedrio si adoperò per evitare la predicazione Apostolica. Oh! Che temi Erode? Colui che viene non toglie regni umani! Che temete, Eccellenze Serenissime? Forse una Messa non santifica quanto l’altra? Forse una Messa vale più dell’altra? Forse temete venga meno qualcosa?


Ciò che Cristo ha unito nessuno divida: il popolo è di Dio e al sacerdozio ne spetta la guida e l’istruzione con ogni mezzo possibile. Non vorremmo combattere contro Dio nel far guerra alla Messa che per secoli è stata celebrata nelle chiese del mondo! 
Non vogliamo trovarci ad affrontare Dio e San Michele Arcangelo negando alla gente di nutrirsi intorno all’altare... e ai preti di celebrare! Se si danno le chiese ai musulmani per pregare, se si tollerano spettacolini durante le messe, messe aperitivo, balletti e coreografie varie, perché non permettere anche la Messa in Latino? Perché su questo tasto ci si divide in casa? Non si dialoga e non ci si ama? Non ha forse detto Gesù che l’amore è il principio vitale del Cristianesimo? Forse il Concilio Vaticano II non ha spinto il sacerdozio a guardare le nuove sfide pastorali?


Forse ci preoccupiamo troppo di cose umane, di mantenere un potere inutile e di evitare problemi... ma la vera via per il Regno passa solo attraverso un indicare la croce, un amore per l’altro che, discendendo dal nostro amore per Dio, può aprirsi al fratello. Ed il fratello non è il lontano, ma l’uomo che è affidato alle cure pastorali del sacerdozio. 
Quando qualcosa viene da Dio, più la si opprime è più cresce, perché lo Spirito che è nel cuore dell’uomo riconosce nella oppressione l’intervento diabolico che vuole ostacolare la Verità, che non vuole anime vicine a Dio. Fu così ai tempi degli Apostoli, più li opprimevano e più erano felici e più crescevano di numero! Sara così anche ai giorni nostri, perché più si vuol eliminare qualcosa e, se viene da Cristo, più si fortifica, perché lui è il vero Sacerdote, noi siamo solo partecipazione al suo Sacerdozio. Lui è lo Sposo, noi gli amici dello Sposo. Nell’oppressione la forza, perché in noi agisca la morte ed in voi la vita!


Riflettiamo, Chiesa e anime sono di Dio e non nostre, la Messa è opera di Dio che rinnova in modo incruento il sacrificio di Cristo e non un palcoscenico per soubrette mal riuscite, non un palco dove una comunità viene privata della trascendenza e del sacro. Dio ce ne chiederà conto... e sarà molto severo perché con Lui non si scherza...
   

Beato Giovanni Paolo II

La nostra confessione di Cristo come unico Figlio, mediante il quale noi stessi vediamo il volto del Padre (cfr Gv 14,8), non è arroganza che disprezza le altre religioni, ma gioiosa riconoscenza perché Cristo si è mostrato a noi senza alcun merito da parte nostra. Ed Egli, nello stesso tempo, ci ha impegnati a continuare a donare ciò che abbiamo ricevuto e anche a comunicare agli altri ciò che ci è stato donato, perché la Verità donata e l'Amore che è Dio appartengono a tutti gli uomini.

Uscì  nel 2014 un libro con uno scritto inedito di Benedetto XVI. E non si tratta di un testo qualsiasi. Ma di un giudizio che  pronuncia sul suo predecessore Giovanni Paolo II. Un vero e proprio giudizio pubblico non solo sulla persona, ma sulle linee portanti di quel memorabile pontificato.

Con sottolineature che non possono non essere messe a confronto con la situazione attuale della Chiesa.

Alcuni media, nel dar notizia di questo scritto del "papa emerito", hanno messo in evidenza il passaggio nel quale egli racconta come nella prima fase del pontificato di Karol Wojtyla si affrontò la questione della teologia della liberazione.

Ma di passaggi significativi ve ne sono anche altri. In particolare due.

*

Il primo è là dove Benedetto XVI dice quali sono state a suo giudizio le encicliche più importanti di Giovanni Paolo II.

Su quattordici encicliche, egli indica le seguenti:

- la "Redemptor hominis" del 1979, in cui papa Wojtyla "offre la sua personale sintesi della fede cristiana", che oggi "può essere di grande aiuto a tutti quelli che sono in ricerca";

- la "Redemptoris missio" del 1987, che "mette in risalto l'importanza permanente del compito missionario della Chiesa";

- la "Evangelium vitae" del 1995, che "sviluppa uno dei temi fondamentali dell'intero pontificato di Giovanni Paolo II: la dignità intangibile della vita umana, sia dal primo istante del concepimento";

- la "Fides et ratio" del 1998, che "offre una nuova visione del rapporto tra fede cristiana e ragione filosofica".

Ma a queste quattro encicliche, richiamate in poche righe ciascuna, Benedetto XVI ne aggiunge a sorpresa un'altra, alla quale dedica una pagina intera, riprodotta più sotto.

È la "Veritatis splendor" del 1993, sui fondamenti della morale. L'enciclica forse più trascurata e inapplicata tra tutte quelle di Giovanni Paolo II, ma che Ratzinger dice doveroso studiare e assimilare oggi.

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Un secondo passaggio significativo è quello in cui Benedetto XVI parla della dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000.

La "Dominus Iesus" – scrive Ratzinger – "riassume gli elementi irrinunciabili della fede cattolica". Eppure è stato il documento più contestato di quel pontificato, dentro e fuori la Chiesa cattolica.

Per diminuirne l'autorità, gli oppositori usavano attribuire la paternità della "Dominus Jesus" al solo prefetto della congregazione per la dottrina della fede, senza una reale approvazione da parte del papa.

Ebbene, è proprio la piena concordia tra lui e Giovanni Paolo II nel pubblicare la "Dominus Iesus" che il "papa emerito" oggi rivendica. Rivelando l'inedito retroscena che si può leggere più sotto.

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Di papa Wojtyla, Benedetto XVI ammira "il coraggio con il quale assolse il suo compito in un tempo veramente difficile".

E aggiunge:

"Giovanni Paolo II non chiedeva applausi, né si è mai guardato intorno preoccupato di come le sue decisioni sarebbero state accolte. Egli ha agito a partire dalla sua fede e dalle sue convinzioni ed era pronto anche a subire dei colpi. Il coraggio della verità è ai miei occhi un criterio di prim'ordine della santità".

Un giudizio, questo, molto simile a quello espresso già su Paolo VI dallo stesso Ratzinger, nell'omelia funebre da lui pronunciata il 10 agosto 1978 come arcivescovo di Monaco:

"Un papa che oggi non subisse critiche fallirebbe il suo compito dinanzi a questo tempo. Paolo VI ha resistito alla telecrazia e alla demoscopia, le due potenze dittatoriali del presente. Ha potuto farlo perché non prendeva come parametro il successo e l’approvazione, bensì la coscienza, che si misura sulla verità, sulla fede. È per questo che in molte occasioni ha cercato il compromesso: la fede lascia molto di aperto, offre un ampio spettro di decisioni, impone come parametro l’amore, che si sente in obbligo verso il tutto e quindi impone molto rispetto. È per questo che ha potuto essere inflessibile e deciso quando la posta in gioco era la tradizione essenziale della Chiesa. In lui questa durezza non derivava dall’insensibilità di colui il cui cammino viene dettato dal piacere del potere e dal disprezzo delle persone, ma dalla profondità della fede, che lo ha reso capace di sopportare le opposizioni".

*

Ecco dunque qui di seguito i due passaggi del testo di Benedetto XVI sopra menzionati:

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SULLA "VERITATIS SPLENDOR"


L'enciclica sui problemi morali "Veritatis splendor" ha avuto bisogno di lunghi anni di maturazione e rimane di immutata attualità.

La costituzione del Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, di contro all'orientamento all'epoca prevalentemente giusnaturalistico della teologia morale, voleva che la dottrina morale cattolica sulla figura di Gesù e il suo messaggio avesse un fondamento biblico.

Questo fu tentato attraverso degli accenni solo per un breve periodo. Poi andò affermandosi l'opinione che la Bibbia non avesse alcuna morale propria da annunciare, ma che rimandasse ai modelli morali di volta in volta validi. La morale è questione di ragione, si diceva, non di fede.

Scomparve così, da una parte, la morale intesa in senso giusnaturalistico, ma al suo posto non venne affermata alcuna concezione cristiana. E siccome non si poteva riconoscere né un fondamento metafisico né uno cristologico della morale, si ricorse a soluzioni pragmatiche: a una morale fondata sul principio del bilanciamento di beni, nella quale non esiste più quel che è veramente male e quel che è veramente bene, ma solo quello che, dal punto di vista dell'efficacia, è meglio o peggio.

Il grande compito che Giovanni Paolo II si diede in quell'enciclica fu di rintracciare nuovamente un fondamento metafisico nell'antropologia, come anche una concretizzazione cristiana nella nuova immagine di uomo della Sacra Scrittura.

Studiare e assimilare questa enciclica rimane un grande e importante dovere.

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SULLA "DOMINUS JESUS"


Tra i documenti su vari aspetti dell'ecumenismo, quello che suscitò le maggiori reazioni fu la dichiarazione "Dominus Iesus" del 2000, che riassume gli elementi irrinunciabili della fede cattolica. […]

A fronte del turbine che si era sviluppato intorno alla "Dominus Iesus", Giovanni Paolo II mi disse che all'Angelus intendeva difendere inequivocabilmente il documento.

Mi invitò a scrivere un testo per l'Angelus che fosse, per così dire, a tenuta stagna e non consentisse alcuna interpretazione diversa. Doveva emergere in modo del tutto inequivocabile che egli approvava il documento incondizionatamente.

Preparai dunque un breve discorso; non intendevo, però, essere troppo brusco e così cercai di esprimermi con chiarezza ma senza durezza. Dopo averlo letto, il papa mi chiese ancora una volta: "È veramente chiaro a sufficienza?". Io risposi di sì.

Chi conosce i teologi non si stupirà del fatto che, ciononostante, in seguito ci fu chi sostenne che il papa aveva prudentemente preso le distanze da quel testo. [cfr: http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/angelus/2000/documents/hf_jp-ii_ang_20001001.html!!!]

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Il libro:

"Accanto a Giovanni Paolo II. Gli amici e i collaboratori raccontano", con un contributo esclusivo del papa emerito Benedetto XVI, a cura di Wlodzimierz Redzioch, Edizioni Ares, Milano, 2014, pp. 236, euro 15,90.

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I due documenti commentati da Benedetto XVI:

> Veritatis splendor

> Dominus Iesus


> Summorum Pontificum

giovedì 6 luglio 2017

La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem'


La lingua latina, 
la bellezza della liturgia, 
la preghiera 'ad Orientem' 

Pubblichiamo tre importanti contributi di Padre Uwe Michael Lang: 

L'evoluzione storica della lingua liturgica nel rito romano, 

La bellezza materiale e concretissima della liturgia; 

L'orientamento della preghiera nella Messa. 

Il latino vincolo di unità fra popoli e culture 
di Uwe Michael Lang 

L' unità culturale e politica del mondo mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei centri urbani dell'Impero Romano favorì l'annuncio del Vangelo. 
Il greco parlato a Oriente e Occidente non era l'idioma classico, bensì la koiné semplificata, il linguaggio comune delle varie nazioni della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto. 
La koiné greca era anche la lingua del proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori orientali dell'Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco. 
La lingua delle prime comunità cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai Romani di Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che videro la luce a Roma, per esempio la Prima Lettera di Clemente, il Pastore di Erma e gli scritti di Giustino. 

Nei primi due secoli si avvicendarono parecchi papi con nomi greci e le iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo periodo, greca era anche la lingua comune della liturgia romana. 

Lo spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell'Africa settentrionale, dove i convertiti al cristianesimo erano in maggioranza nativi di lingua madre latina piuttosto che immigrati greco parlanti. Verso la metà del terzo secolo questa transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in cui Novaziano compose il suo De trinitate e altre opere, citando una versione latina esistente della Bibbia. Nessun riferimento si fa qui alla cosiddetta Traditio Apostolica, attribuita a Ippolito da Roma, a causa dell'incertezza sulla data, sull'origine e sul vero autore. 

Sembrerebbe che nella seconda metà del terzo secolo il flusso immigratorio dall'Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio demografico comportò un peso crescente dei nativi latino parlanti nella vita della Chiesa di Roma. Ciò nonostante il greco continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno a un certo livello, fino alla seconda metà del IV secolo; questo si evince da una citazione greca della preghiera eucaristica nell'autore latino Mario Vittorino, risalente al 360. 

Intorno a quell'epoca, comunque, la transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si riferisce a Melchisedek come summus sacerdos - un titolo che ci suona familiare dal più tardo Canone della messa. 

La più importante risorsa per la storia della prima liturgia latina è Ambrogio di Milano. Nel suo De sacramentis, una serie di catechesi per i neo battezzati tenute intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica usata a quell'epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. 

Altrove, nel De sacramentis, Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire l'uso della Chiesa romana in tutto; per questa ragione, possiamo ritenere con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di origine romana. Anche nei sermoni di Zeno, vescovo di Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione geografica di questa forma originaria del Canone Romano. La formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è sempre identica al Canone che Gregorio Magno promulgò alla fine del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il vecchio Sacramentario Gelasiano, risalente alla metà dell'VIII secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi. 

In ogni caso le differenze fra questi due testi sono di gran lunga inferiori alle loro somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi furono un periodo di intenso sviluppo liturgico. Il passaggio dal greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu completato sotto il pontificato di Damaso I (366-384). Da allora in poi la liturgia a Roma fu celebrata in latino, con l'eccezione di poche reminiscenze dell'uso più antico, come il Kyrie eleison nell'Ordo e le letture in greco nella messa papale. Stando a Ottato di Milevi, che scrive intorno al 360, c'erano più di quaranta chiese a Roma prima dell'editto di Costantino. Se questa informazione è vera, sarebbe ragionevole opinare che ci fossero comunità latino parlanti nel III secolo, se non prima, che celebravano la liturgia in latino, in particolare la lettura della Sacra Scrittura. 

I Salmi erano stati cantati in latino sin dalle origini e l'antica versione usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli tradusse il Salterio dall'ebraico non per uso liturgico, come disse, ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito. 
Christine Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse tradotta in latino sin dal II secolo. Nessuna certezza si può avere su questi punti, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione e che esso fu lungo. 

Mohrmann introduce una distinzione utile fra, primo, "testi di preghiera", dove la lingua è soprattutto un mezzo di espressione, secondo, testi "destinati a essere letti, l'Epistola e il Vangelo", e, terzo, "testi confessionali", come il credo. 
Nei testi di preghiera ci troviamo di fronte a modi di esprimersi; negli altri primariamente a forme di comunicazione. Recenti ricerche su lingua e rito, come l'opera di Catherine Bell, confermano l'intuizione di Mohrmann che la lingua ha differenti funzioni in differenti parti della liturgia, che vanno oltre la mera comunicazione o informazione. Queste riflessioni teoretiche ci aiutano a capire lo sviluppo della prima liturgia romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano prevalenti, come la lettura delle Scritture, furono tradotte prima, mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco per un periodo molto più lungo. La "sociolinguistica" - una disciplina accademica relativamente nuova - ci mette in guardia sul fatto che la scelta di una lingua rispetto a un'altra non è mai questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei suoi contesti storici, sociali e culturali. Gli storici dell'antichità hanno indicato che la formazione di lingua latina liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di cristianizzazione della cultura e della civiltà romana. 
Nella seconda metà del IV secolo i vescovi più influenti in Italia, soprattutto Damaso a Roma e Ambrogio a Milano, erano impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni. Nella città di Roma c'era una forte presenza pagana e specialmente l'aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro del potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici nella mentalità delle sue elites. Il IV secolo è ora considerato un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per i "classici" della poesia e della prosa romane. Gli imperatori del IV secolo coltivarono questa Latinitas, e ci fu una riscoperta del latino anche ad Oriente. 
Con tenacia caratteristica, Roma mantenne le sue antiche tradizioni. 

In relazione a ciò, i papi del tardo IV secolo promossero un progetto consapevole e comprensivo di appropriazione dei simboli della civiltà romana da parte della fede cristiana. Parte di questo tentativo fu l'appropriazione di spazio pubblico tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli Imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le monumentali basiliche del Laterano e San Pietro, come pure con le basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, i papi continuarono questo programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città dominata da chiese. Il progetto più prestigioso fu la costruzione di una nuova basilica dedicata a San Paolo sulla Via Ostiense, sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa simile per dimensioni a San Pietro. 
Un altro aspetto importante fu l'appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane lungo il corso dell'anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il calendario Filocaliano dell'anno 354). 

La formazione del latino liturgico fece parte di questo sforzo omnicomprensivo di evangelizzare la cultura classica. Christine Mohrmann ravvisa in essa il fortuito combinarsi di un rinnovamento della lingua, ispirato dalla novità della rivelazione, e di un tradizionalismo stilistico fermamente radicato nel mondo romano. 

Il latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l'esuberanza dello stile di preghiera dell'Oriente cristiano, che si ritrova anche nella tradizione gallicana. 
Questa non fu un'adozione della lingua "vernacola" nella liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei prefazi della messa, fu rimosso dall'idioma della gente comune. 
Essa era una lingua fortemente stilizzata che difficilmente avrebbe capito un cristiano medio di Roma della tarda antichità, considerato specialmente che il livello di istruzione era molto basso rispetto ai nostri tempi. 
Inoltre lo sviluppo della Latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Milano o Roma, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l'iberico o il punico. 

È possibile immaginare una Chiesa occidentale con lingue locali nella sua liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il siriano, il copto, l'armeno, il georgiano e l'etiope. 
Ad ogni modo la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza unificatrice del papato era tale che il latino divenne l'unica lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire la coesione ecclesiastica, culturale e politica. 

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Il latino liturgico fu sin dai primordi una lingua sacra separata dalla lingua del popolo; tuttavia la distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. "La prima opposizione al latino liturgico - ha scritto Christine Mohrmann - coincise con la fine del latino medievale come "seconda lingua viva", che fu rimpiazzato da una lingua veramente "morta", il latino degli umanisti. E l'opposizione dei nostri giorni al latino liturgico ha qualcosa a che fare con l'indebolimento dello studio del latino - e con la tendenza al "secolarismo"" 
("The Ever-Recurring Problem of Language in the Church", in Études sur le latin des chrétiens, IV, Roma, 1977)

Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione estendendo l'uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle letture (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2). 

Allo stesso tempo, esso sottolineò che "l'uso della lingua latina ... sia conservato nei riti latini" (Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 1; cfr anche art. 54). I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo. La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes. In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. 
Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001. 
(©L'Osservatore Romano - 15 novembre 2007) 

La bellezza materiale e 
concretissima della liturgia 

di Uwe Michael Lang 

La tradizione sapienziale biblica acclama Dio come "lo stesso autore della bellezza" (Sapienza, 13, 3), glorificandolo per la grandezza e la bellezza delle opere della creazione. 

Il pensiero cristiano, prendendo spunto soprattutto dalla sacra Scrittura, ma anche dalla filosofia classica, ha sviluppato la concezione della bellezza come categoria ontologica, anzi teologica. 

San Bonaventura è stato il primo teologo francescano a includere la bellezza tra le proprietà trascendentali, insieme all'essere, alla verità e alla bontà. I teologi domenicani sant'Alberto Magno e san Tommaso d'Aquino, pur non annoverando la bellezza fra i trascendentali, intraprendono un simile discorso nei loro commentari sul trattato pseudo-dionisiano De divinis nominibus, dove emerge l'universalità della bellezza, la cui prima causa è Dio stesso. 

Nella condizione della modernità, ciò che è contestato è proprio la dimensione trascendente della bellezza, commutabile con la verità e la bontà. La bellezza è stata privata del suo valore ontologico ed è stata ridotta a un'esperienza estetica, addirittura a un mero "sentimento". 

Le conseguenze di questa svolta soggettivista si sentono non solo nel mondo dell'arte. Piuttosto, insieme con la perdita della bellezza come trascendentale, si è persa anche l'evidenza della bontà e della verità. 

Il bene è privo dalla sua forza di attrazione, come il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar ha rilevato con esemplare chiarezza nel suo opus magnum sull'estetica teologica Herrlichkeit (La gloria del Signore). 

Certamente la tradizione cristiana conosce anche un falso tipo di bellezza che non innalza verso Dio e il suo Regno, ma invece trascina lontano dalla verità e bontà e suscita desideri disordinati. Il libro della Genesi rende chiaro che è stata una falsa bellezza a portare al peccato originale. Visto che il frutto dell'albero in mezzo al giardino era un vero piacere per gli occhi (Genesi, 3, 6), la tentazione del serpente provoca Adamo ed Eva alla ribellione contro Dio. Il dramma della caduta dei progenitori fa da sfondo a un passo, ne I Fratelli Karamazov (1880) dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881), dove Mitia Karamazov, uno dei protagonisti del romanzo, dice: 
"La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini". 
Lo stesso Dostoevskij nel suo romanzo L'idiota (1869) mette sulla bocca del suo eroe, il principe Mishkin, le famose parole: "Il mondo sarà salvato dalla bellezza". Dostoevskij non intende qualsiasi bellezza, anzi, si riferisce alla bellezza redentrice di Cristo. 

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Nel suo messaggio magistrale per il Meeting di Rimini nel 2002, l'allora cardinale Joseph Ratzinger rifletteva su questo famoso detto di Dostoevskij, trattando l'argomento dalla prospettiva biblico-patristica. Come punto di partenza, egli si serve del salmo 44, letto nella tradizione ecclesiale "come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa". In Cristo, "il più bello tra gli uomini", appare la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso. 
Nell'esegesi di questo salmo, i Padri della Chiesa, come sant'Agostino e san Gregorio di Nissa, accoglievano anche gli elementi più nobili della filosofia greca del bello, mediante la lettura dei platonici, ma non li ripetevano semplicemente, poiché con la rivelazione cristiana è entrato un nuovo fatto: è lo stesso Cristo, "il più bello tra gli uomini", al quale la Chiesa, ricordandolo come sofferente, attribuisce anche la profezia di Isaia (53, 2 ) "non ha bellezza né apparenza; l'abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore". Nella passione di Cristo si incontra una bellezza che va al di là di quella esteriore e si apprende "che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e (...) anche l'oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell'accettazione del dolore, e non nell'ignorarlo", come accenna l'allora cardinale Ratzinger. Perciò, ha parlato di una "paradossale bellezza", pur notando che il paradosso "è una contrapposizione, ma non una contraddizione", quindi è nella totalità che si rivela la bellezza di Cristo, quando contempliamo l'immagine del Salvatore crocifisso, che mostra il suo "amore sino alla fine" (Giovanni, 13, 1). 
La bellezza redentrice di Cristo si riflette soprattutto nei santi di ogni epoca, ma anche nelle opere d'arte che la fede ha generate: esse hanno la capacità di purificare e di sollevare i nostri cuori e, così, di portarci al di là di noi stessi verso Dio, che è la Bellezza stessa. 

Il teologo Joseph Ratzinger è convinto che questo incontro con la bellezza "che ferisce l'anima e in questo modo le apre gli occhi" sia "la vera apologia della fede cristiana". Da Papa, ha ribadito questi suoi pensieri nell'incontro con il clero di Bolzano-Bressanone dell' 8 agosto 2008 e nel suo messaggio in occasione della recente seduta pubblica delle Pontificie Accademie del 24 novembre 2008: 
"Questo" - ha detto il Santo Padre nella prima circostanza - "è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano". 
Occorre aggiungere che per Benedetto XVI la bellezza della verità si manifesta soprattutto nella sacra liturgia. Infatti, ha ripreso la sua riflessione sulla bellezza redentrice di Cristo nella sua esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis (22 febbraio 2007), dove riflette sulla gloria di Dio che si esprime nella celebrazione del mistero pasquale. 
La liturgia "costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. (...) elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l'azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria" (n. 35). 
La bellezza della liturgia si manifesta anche attraverso le cose materiali di cui l'uomo, fatto di anima e corpo, ha bisogno per raggiungere le realtà spirituali: l'edificio del culto, le suppellettili, le immagini, la musica, la dignità delle cerimonie stesse. La liturgia esige il meglio delle nostre possibilità, per glorificare Dio Creatore e Redentore. 
Nell'udienza generale del 6 maggio 2009, dedicata a san Giovanni Damasceno, noto come difensore del culto delle immagini nel mondo bizantino, Benedetto XVI spiega "la grandissima dignità che la materia ha ricevuto nell'Incarnazione, potendo divenire, nella fede, segno e sacramento efficace dell'incontro dell'uomo con Dio". 

Va riletto in merito anche il capitolo sul "Decoro della celebrazione liturgica" nell'ultima enciclica Ecclesia de Eucharistia del Beato Giovanni Paolo II (17 aprile 2003), dove insegna che la Chiesa, come la donna dell'unzione di Betania, identificata dall'evangelista Giovanni con Maria Maddalena sorella di Lazzaro (Giovanni, 12; cfr. Matteo, 26; Marco, 14), "non ha temuto di "sprecare", investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell'Eucaristia" (47-48). 
La questione liturgica è anche essenziale per la valorizzazione del grande patrimonio cristiano non soltanto in Europa, ma anche nell'America Latina e in altre parti del mondo, dove il Vangelo è stato proclamato da secoli. 

Nel 1904, lo scrittore Marcel Proust (1871-1922) pubblicò un celebre articolo su "Le Figaro", intitolato La mort des cathédrales, contro la progettata legislazione laicista che avrebbe portato a una soppressione dei sussidi statali per la Chiesa e minacciava l'uso religioso delle cattedrali francesi. Proust sostiene che l'impressione estetica di questi grandi monumenti sia inseparabile dai sacri riti per i quali sono state costruite. Se la liturgia non viene più celebrata in esse, saranno trasformate in freddi musei e diventeranno proprio morte. 

Una simile osservazione si trova negli scritti di Joseph Ratzinger, cioè che "la grande tradizione culturale della fede possiede una forza straordinaria che vale proprio per il presente: ciò che nei musei può essere solo testimonianza del passato, ammirata con nostalgia, nella liturgia continua a diventare presente vivo" (Introduzione allo Spirito della Liturgia, p. 152). 

Durante il suo recente viaggio in Francia, il Papa si è riferito a questa idea nella sua omelia per i vespri celebrati il 12 settembre 2008, nella splendida cattedrale Notre-Dame di Parigi, elogiandola come "un inno vivente di pietra e di luce" a lode del mistero dell'Incarnazione del Figlio di Dio nella beata Vergine Maria. Era proprio lì, dove il poeta Paul Claudel (1868-1955) aveva avuto una singolare esperienza della bellezza di Dio, durante il canto del Magnificat ai vespri di Natale 1886, la quale lo condusse alla conversione. È questa via pulchritudinis che può diventare strada dell'annuncio di Dio anche all'uomo di oggi. 

6/7/2017 diocesiportosantarufina.it: La lingua latina, la bellezza della liturgia, la preghiera 'ad Orientem' http://www.diocesiportosantarufina.it/home/news_print.php?neid=822 5/7 (©L'Osservatore Romano - 8-9 giugno 2009) 

Riorientare la Messa 
Padre Lang spiega come si deve essere “rivolti al Signore” 

L’ obiezione che solitamente viene sollevata rispetto alla forma antica di celebrare la Messa è che il sacerdote dà le spalle alla comunità, ma questo è un falso problema, secondo padre Uwe Michael Lang. La postura “ad orientem” - verso oriente - riguarda piuttosto la volontà di assumere una direzione comune (tra comunità e sacerdote) nella preghiera liturgica, aggiunge. 

Padre Lang del London Oratory, recentemente nominato alla Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa, è autore del libro “Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica”

Il libro è stato pubblicato inizialmente in Germania da Johannes Verlag e poi in inglese da Ignatius Press. Successivamente è apparso anche in italiano (ed. Cantagalli), francese, ungherese e spagnolo. 

In questa intervista rilasciata a ZENIT, padre Lang parla della postura “ad orientem” e della possibilità di riscoprire questa antica pratica liturgica. 

Come si è sviluppata, nella Chiesa dei primi secoli, la pratica di celebrare la liturgia “ad orientem”, rivolti verso oriente? 
Qual è il suo significato teologico? 

Padre Lang: Nella maggior parte delle religioni, la posizione che si assume nella preghiera e nell’orientamento dei luoghi sacri è determinata da una “direzione sacra”. La direzione sacra dell'ebraismo è verso Gerusalemme o più precisamente verso la presenza del Dio trascendente “shekinah” nel Sancta Sanctorum del Tempio, come si legge in Daniele 6,11. 

Anche dopo la distruzione del Tempio, l’uso di rivolgersi verso Gerusalemme è rimasto nella liturgia della sinagoga. È così che gli ebrei hanno espresso la loro speranza escatologica per l’arrivo del Messia, per la ricostruzione del Tempio e per il rientro del popolo di Dio dalla diaspora. 
I primi cristiani non si volgevano più verso la Gerusalemme terrena, ma verso la nuova Gerusalemme celeste. La loro ferma convinzione era che con la seconda venuta, nella gloria, il Cristo risorto avrebbe radunato il suo popolo per costituire questa città celeste. Essi vedevano nel sorgere del sole un simbolo della Risurrezione e della seconda venuta. E questo simbolo è stato quindi trasposto anche nella preghiera. 

Vi sono elementi che ampiamente dimostrano che dal secondo secolo in poi, in gran parte del mondo cristiano, la preghiera era rivolta verso oriente. Nel Nuovo Testamento, il significato della preghiera orientata (rivolta verso oriente) non è esplicito. Ciò nonostante la Tradizione ha individuato molti riferimenti testuali a questo simbolismo, come ad esempio: il “sole di giustizia” in Malachia 3, 30; “verrà a visitarci dall'alto un sole che sorge” in Luca 1, 78; l’angelo che sale dall’oriente con il sigillo del Dio vivente in Apocalisse 7, 2; e le immagini di luce nel Vangelo di san Giovanni. 
In Matteo 24, 27-30 il segno della venuta del Figlio dell’Uomo con grande potenza e gloria, come la folgore che viene da oriente e brilla fino a occidente, è la croce. 
Esiste una stretta relazione tra la preghiera orientata e la croce; questo risulta evidente sin dal quarto secolo, se non prima. Nelle sinagoghe di quel periodo, il punto in cui erano collocati i rotoli della Torah indicava la direzione della preghiera “qibla” verso Gerusalemme. 
Tra i cristiani divenne uso comune segnare la direzione della preghiera con una croce sul muro orientale nelle absidi delle basiliche e nei luoghi privati, per esempio, dei monaci e degli eremiti. 

Verso la fine del primo millennio vi sono teologi di diverse tradizioni che osservano come la preghiera orientata sia una delle pratiche che distinguono il Cristianesimo dalle altre religioni del Vicino Oriente: gli ebrei pregano verso Gerusalemme, i musulmani verso la Mecca, mentre i Cristiani verso oriente. 
Anche gli altri riti della Chiesa cattolica adottano l’orientamento liturgico? 

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Padre Lang: La preghiera liturgica orientata (rivolta verso oriente) fa parte anche delle tradizioni bizantina, siriaca, armena, copta ed etiope. Ancora oggi essa è in uso nella maggior parte dei riti orientali, almeno per quanto riguarda la preghiera eucaristica. 
Alcune Chiese cattoliche orientali, come ad esempio quella maronita e quella siro-malabarese, hanno adottato in tempi recenti la Messa rivolta “versus populum”, ma questo è dovuto all’influenza moderna occidentale e non deriva dalle proprie tradizioni. Per questo motivo la Congregazione vaticana per le Chiese orientali ha dichiarato nel 1996 che l’antica tradizione di pregare rivolti verso oriente ha un profondo valore liturgico e spirituale e deve essere preservata nei riti orientali. 

Spesso sentiamo dire che “ad orientem” significa che il sacerdote sta celebrando con le spalle rivolte alla comunità. Ma qual è il significato vero di questo orientamento? Padre Lang: Il luogo comune secondo cui il prete dà le spalle alla gente è un falso problema in quanto il punto essenziale è che la Messa è un atto di culto comune, in cui il sacerdote insieme alla comunità - che rappresentano la Chiesa pellegrina - protendono verso il Dio trascendente. La questione non è se la celebrazione è rivolta “verso” o “contro” la comunità, ma è la comune direzione della preghiera liturgica che conta. E ciò si può avere a prescindere dall’orientamento dell’altare. 
In Occidente molte chiese costruite dopo il XVI secolo non sono più orientate. Il sacerdote all’altare, rivolto nella stessa direzione dei fedeli, guida il popolo di Dio nel cammino della fede. Questo movimento verso il Signore trova la sua massima espressione nei santuari di molte chiese del primo millennio, in cui la rappresentazione della croce o del Cristo glorificato indica la meta del pellegrinaggio terreno dell’assemblea.

Essere rivolti verso il Signore significa mantenere vivo il senso escatologico dell’Eucaristia e ci ricorda che la celebrazione del Sacramento è una partecipazione alla liturgia celeste e la promessa della futura gloria nella presenza del Dio vivente. 
Questo dà all’Eucaristia la sua grandezza, evitando che la singola comunità si chiuda in se stessa, aprendola verso l’assemblea degli angeli e dei santi nella città celeste. 

In che modo può una liturgia orientata promuovere il dialogo con il Signore nella preghiera? 

Padre Lang: L’elemento principale del culto cristiano è il dialogo tra il popolo di Dio nel suo complesso, compreso il celebrante, e Dio verso il quale è rivolta la preghiera. 

È per questo che il liturgista Marcel Metzger sostiene che la diatriba sul verso in cui è rivolto il celebrante rispetto alla comunità esclude del tutto colui verso il quale tutte le preghiere sono dirette, ovvero Dio stesso. L’Eucaristia non è celebrata con il sacerdote rivolto verso i fedeli o dando loro le spalle. Piuttosto è l’intera assemblea che celebra rivolta verso Dio, attraverso Gesù Cristo, nello Spirito Santo. 

Nella premessa al suo libro, l’allora cardinale Ratzinger osserva che nessuno dei documenti del Concilio Vaticano II indica di dover rivolgere l’altare verso i fedeli. 
Come si è verificato allora il cambiamento? Qual è la base per tale importante modifica della liturgia? 

Padre Lang: Solitamente si citano due argomenti principali per sostenere la posizione del celebrante rivolto verso i fedeli. Il primo è che tale pratica corrisponde a quella della Chiesa dei primi secoli e che pertanto deve essere adottata come la norma anche ai tempi nostri. Tuttavia, un’attenta analisi dei documenti non dà conferma a questa ipotesi. 

Il secondo è che la “attiva partecipazione” dei fedeli, un principio introdotto da Papa Pio X e diventato centrale nella “Sacrosanctum Concilium”, impone che il celebrante sia rivolto verso la comunità. 
Ma una riflessione critica sul concetto di “attiva partecipazione” ha di recente rivelato la necessità di una nuova valutazione teologica di questo importante principio. 

Nel suo libro “Lo spirito della liturgia”, l’allora cardinale Ratzinger compie una utile distinzione tra la partecipazione alla liturgia della Parola, che comprende azioni esterne, e la partecipazione alla liturgia eucaristica, in cui le azioni esterne sono del tutto secondarie, poiché è la partecipazione interiore della preghiera che costituisce l’elemento centrale. 
La recente esortazione apostolica post-sinodale del Santo Padre “Sacramentum Caritatis” contiene una importante trattazione di questo argomento al paragrafo 52. 
Il nuovo ordinamento della Messa promulgato da Papa Paolo VI nel 1970 vieta al sacerdote di rivolgersi ad oriente? Esiste qualche ostacolo giuridico che vieta l’uso più ampio di questa antica pratica? 

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Padre Lang: Il Messale di Papa Paolo VI considera come un’opzione legittima quella di combinare la posizione del sacerdote rivolto verso i fedeli durante la liturgia della Parola e la posizione di entrambi rivolti verso l’altare durante la liturgia eucaristica e in particolare per il Canone. 

La versione revisionata delle Istruzioni generali del Messale romano, che sono state pubblicate inizialmente per motivi accademici nel 2000, affronta la questione dell’altare al paragrafo 299, che sembra considerare la posizione del celebrante rivolto “ad orientem” come non opportuna o persino vietata. Tuttavia, la Congregazione per il culto divino e i sacramenti ha rigettato questa interpretazione in risposta ad una domanda sottoposta dal cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna. Ovviamente il paragrafo delle Istruzioni generali deve essere letto alla luce di questa riposta, datata 25 settembre 2000. 

La recente lettera apostolica di Benedetto XVI “Summorum Pontificum” (7-7-2007), che liberalizza l’uso del Messale di Giovanni XXIII, consentirà un più profondo apprezzamento della posizione “rivolti verso il Signore” durante la Messa? 

Padre Lang: Io credo che molte riserve o persino timori sulla Messa “ad orientem” derivino da una scarsa familiarità con essa e che la diffusione dell’ “uso straordinario” del rito romano antico aiuterà molte persone a riscoprire e apprezzare questa forma di celebrazione. 


AMDG et BVM

venerdì 8 luglio 2016

7 luglio 2007

“Ciò che per le
generazioni anteriori
era sacro,
anche per noi
resta sacro e grande”


martedì 7 luglio 2015

Non fu mai abolita.


Editoriale di "Radicati nella fede", foglio di collegamento della chiesa di Vocogno e della cappella dell'Ospedale di Domodossola dove si celebra la Messa tradizionale.
[Radicati nella fede, n° 8 agosto 2012]

 "Il Summorum Pontificum, un'arma a 

doppio taglio. 

 Non vogliamo fare una critica al documento del Santo Padre, state tranquilli, vogliamo solo dire che può essere usato differentemente, a seconda delle intenzioni che si hanno. 
  Di fatto abbiamo assistito a un fenomeno strano, in questi cinque anni: alSummorum Pontificum si sono richiamati tutti o quasi, sia quelli che volevano il ritorno della Tradizione nelle chiese della cattolicità, sia quelli che volevano arginarla, perché non desse fastidio al nuovo corso di violenta modernizzazione, ormai introdotto da quasi mezzo secolo. 

 Tutto questo noi lo constatammo già nel luglio del 2007. Entusiasti iniziammo a celebrare nel Vetus Ordo (la messa tradizionale), lieti della liberalizzazione miracolosamente operata da Benedetto XVI, e le curie intervennero per dire che quello che facevamo non era l'intenzione vera del Santo Padre. Vi risparmiamo tutti i “tira e molla” di quel tempo, con le diatribe su cosa fosse “messa privata” e su cosa non lo fosse: si arrivò a pretendere che i sacerdoti avessero la libertà di celebrare la messa “antica”, da soli, a porte chiuse, con al massimo un inserviente ben preparato... più “privata” di così si muore, è il caso di dirlo!... si arrivò ad esigere i dati di tutti i richiedenti e assistenti alla messa tradizionale, alla faccia della “privacy”, si tentò di vietare catechismo e predicazione. Tutto questo veniva fatto richiamandosi ai vari cavilli giuridici del documento papale, ai cavilli giuridici, non alla sostanza. 

 Poi ci si risolse a screditare dietro le quinte i fedeli della tradizione, con le parole magiche... ”sono dei disobbedienti”, senza specificare oltre. 

 In una Chiesa dove regna il caos su tutto, dove pochissimi accettano ancora tutte le verità del Credo senza esclusione, dove i comandamenti sono accolti o rifiutati a piacimento, dove i parroci non possono chiedere quasi più nulla ai fedeli, pena l'essere sottoposti al giudizio pubblico, dove il Papa è criticato per gusti personali (simpatico-antipatico), dove anche nei confessionali la legge morale è sovente inventata dal sacerdote di turno, più o meno “aperto” alle nuove esigenze umane, è molto strano che gli unici “disobbedienti” siano i sacerdoti e i fedeli amanti della Tradizione! 

 Non è che la questione dell'obbedienza la si tiri fuori solo per fermare il ritorno alla Tradizione? Quanti fedeli sono stati spaventati così, sibilando loro “attento, sono dei disobbedienti”? Ma quelli che così hanno sibilato, si sono poi curati delle loro anime? ...temiamo di no, l'unico desiderio loro era quello di staccarli dalla Tradizione. 

 C'è una cosa che resta il punto centrale del motu proprio Summorum Pontificum, la sostanza: “La messa tradizionale non fu mai abolita” questo è il punto chiaro. Da qui bisogna partire per capirci. Non è una concessione, la messa tradizionale, è una realtà, fa parte della vita della Chiesa. È quindi questione di giustizia non fermarla, la messa di sempre, non impedirne i frutti, né con i mezzi espliciti dei divieti, né con quelli subdoli dell'instillare i dubbi. 

 Non fu mai abolita. E allora, lasciatela libera di operare il bene di sempre in tutti i campi della vita. Non fu mai abolita, è stata la messa di secoli e secoli di cristianità, ha fatto i santi della Chiesa... ma allora di cosa avete paura? Sì, di cosa avete paura? Se la fede della Chiesa è quella di sempre, perché avere paura della messa di sempre? A meno che qualcuno pensi che la fede cambi a seconda delle epoche, ma questa è un'altra storia, si chiama modernismo, è un'eresia bella e buona, anzi è l'insieme di tutte le eresie. 

 E allora, disobbediente è chi pensa che bisogna modernizzare la fede: e questa è la disobbedienza, la sola gravissima, quella non contro le leggi umane, ma contro la fede."

AVE MARIA!