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giovedì 7 maggio 2015

Una voce bellissima disse: "Giuseppe, qui c'è Gesù."


Giuseppe era uomo di colore sulla quarantina che viveva in Sudafrica. Giuseppe era un buon cattolico e lavorava come domestico presso una famiglia olandese. 
In quella casa Giuseppe faceva un po' di tutto, e a volte era obbligato a lavorare talmente tanto che non sempre gli era concesso di andare a messa nei giorni di festa. 
E così, appena poteva si recava in chiesa nei giorni feriali, visto che di pomeriggio un paio d'ore libere le aveva sempre. Di solito dalle cinque alle sei; a quell'ora, generalmente, il missionario-parroco del posto era in chiesa anche lui per la recita del breviario e vedeva Giuseppe seduto in fondo, nell'ombra, immobile. 

Un giorno gli chiese: "Giuseppe, si vede che gusti la preghiera. Ma cosa dici al Signore in tutto questo tempo?"
"Oh padre, cosa posso dirgli io non ho studiato, non so pregare... Lo guardo così semplicemente, e gli dico: Gesù, qui c'è Giuseppe."
"Solo questo gli dici?"
"Eh sì padre, solo questo, non so dirgli altro."
Per il sacerdote questa fu una meditazione molto seria: quel povero servo analfabeta sembrava essere stato elevato alla preghiera di unione con Dio. 

Una sera chiamarono d'improvviso: una disgrazia! Un camion, non si sa come mai, era passato a tutta velocità per una via del centro e aveva travolto due persone. Una delle vittime viveva ancora e aveva supplicato che si avvertisse il parroco per poter ricevere Gesù Eucaristia. 
Il missionario accorse premuroso. Fu condotto a una casetta bassa, oscura vicina alla villa di un uomo bianco inondata di luce. C'erano lì alcune persone che, vedendo il padre si misero in ginocchio intorno al giaciglio su cui agonizzava l'uomo. Una lanterna illuminava debolmente la stanza. Quell'uomo aveva il corpo straziato, ma il suo viso era intatto: era Giuseppe.

Il povero servo morente vedendo il sacerdote abbozzò un sorriso: "Padre, mi ha portato il Signore?"... Parlava a stento, si sentiva appena, le parole si perdevano nel rantolo. Il missionario si affrettò a disporre ogni cosa per l'ultima Comunione a Giuseppe. Non c'era un tavolo, non una sedia. Tra i presenti si trovava una bambina Bantù. Nelle sue manine aperte e accostate al petto il padre pose l'astuccio, vi distese sopra il bianco lino e su di esso la teca con I'Eucaristia. Dopo l'atto di dolore, che tutti recitarono insieme, il padre diede l'assoluzione. Poi aprì la teca, si genuflesse davanti alla bambina-altare e, presa la Particola consacrata, si voltò verso Giuseppe: "Ecco l'Agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo". 
Nel silenzio che seguì, si sentì una voce bellissima dire: "Giuseppe, qui c'è Gesù."
Le parole erano venute dall'Ostia che il padre teneva in mano. Un brivido indefinibile di soprannaturale pervase la cameretta. 
Il povero servo nero, ricevuto il Signore, socchiuse gli occhi felice e non li riaprì più.

"Mi compiaccio con te, o Padre, Signore del cielo e della terra, che hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai saggi e le hai rivelate ai semplici." Matteo 11, 25

giovedì 12 marzo 2015

L'importanza della Preghiera

S. Alfonso Maria de' Liguori:

Avvertimenti necessari...per salvarsi

(S. Alfonso Maria de Liguori, “OPERE ASCETICHE” Vol. II, pp. 197 - 200, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1962)

La teologia di S. Alfonso, la sua ascetica e la sua morale, nascono da una fede incorrotta e da un'anima apostolica.

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Iddio vuole salvi tutti: Omnes homines vult salvos fieri. 1 Tim. 2. 4. E vuol dare a tutti l'aiuto necessario per salvarsi; ma non lo concede se non a coloro che lo dimandano, come scrive S. Agostino: Non dat nisi petentibus. In Psalm. 100 1. Ond'è sentenza comune de' Teologi e Santi Padri, che la Preghiera agli Adulti è necessaria di necessità di mezzo, viene a dire, che chi non prega, e trascura di dimandare a Dio gli aiuti opportuni per vincere le tentazioni, e conservare la grazia ricevuta, non può salvarsi.

Il Signore all'incontro non può lasciare di conceder le grazie a chi le dimanda, perché l'ha promesso. Clama ad me, et exaudiam te. Jer. 33. 3. Ricorri a me, ed Io non mancherò di esaudirti.Quodcunque volueritis, petetis, et fiet vobis. Jo. 15. 7. Dimandate da Me quel che volete, e tutto otterrete. Petite, et dabitur vobis. Matth. 7. 7. Dimandate e vi sarà dato. Queste promesse non però non s'intendono fatte per beni temporali, perché questi Iddio non li dà, se non quando sono per giovare all'Anima; ma per le grazie spirituali le ha promesse assolutamente ad ognuno, che ce le dimanda; ed avendocele promesse, è obbligato a darcele: Promittendo debitorem Se fecit, dice S. Agostino. De Verb. Dom. Serm. 2 2

Bisogna poi avvertire, che Dio ha promesso di esaudir la Preghiera, ma a riguardo nostro è precetto grave il pregare. Petite, et dabitur vobis. Matth. 7. 7. Oportet semper orare. Luc. 18. 1. Queste parole petiteoportet, come insegna S. Tommaso (3. p. q. 39. a. 5.) importano precetto grave, che obbliga per tutta la vita, e specialmente quando l'Uomo si vede in pericolo di morte, o di cadere in peccato; perché allora, se non ricorre a Dio, certamente resterà vinto. E chi trovasi già caduto in disgrazia di Dio, esso commette nuovo peccato, se non ricorre a Dio per aiuto ad uscire dal suo miserabile stato. Ma Dio potrà esaudirlo, vedendolo - 198 - fatto suo nemico? Si, ben l'esaudisce, quando il peccatore umiliato lo prega di cuore a perdonarlo; poiché sta scritto nel Vangelo: Omnis enim qui petit, accipit. Luc. 11. 10. Dicesi omnis, ognuno sia giusto, sia peccatore, quando prega, Dio ha promesso di esaudirlo. In altro luogo dice Dio: Invoca me, et eruam te. Psalm. 49. 15. Chiamami, ed Io ti libererò dall'Inferno, ove stai condannato.

No, che non vi sarà scusa nel giorno del Giudizio, per chi muore in peccato. Né gli gioverà dire, ch'egli non avea forza di resistere alla tentazione, che lo molestava; perché Gesù Cristo gli risponderà: se tu non l'avevi questa forza, perché non l'hai domandata, ch'Io ben te l'avrei data? E se già eri caduto in peccato, perché non sei ricorso a Me, ch'Io te ne avrei liberato?

Pertanto, Lettor mio, se vuoi salvarti, e mantenerti in grazia di Dio, bisogna, che spesso lo preghi a tenerti le mani sopra. Dichiarò il Concilio di Trento (Sess. 6. cap. 13. can. 22.) che a perseverare l'Uomo in grazia di Dio, non basta l'aiuto generale che Egli dona a Tutti, ma vi bisogna un aiuto speciale, il quale non si ottiene se non colla Preghiera. Perciò dicono tutti i Dottori, che ciascuno è tenuto sotto colpa grave a raccomandarsi spesso a Dio con domandargli la santa perseveranza, almeno una volta il mese. E chi si trova in mezzo a più occasioni pericolose, è obbligato a domandare più spesso la grazia della perseveranza.

Molto giova poi per ottenere questa grazia il mantenere una divozione particolare alla Madre di Dio, che si chiama la Madre della Perseveranza. Chi non si raccomanda alla Beata Vergine, difficilmente avrà la perseveranza; mentre dice S. Bernardo 3, che tutte le grazie divine, e specialmente questa della perseveranza, ch'è la maggiore di tutte, vengono a noi per mezzo di Maria.

Oh volesse Dio, ed i Predicatori fossero più attenti ad insinuare ai loro Uditori questo gran mezzo della Preghiera! Alcuni in tutto il lor Quaresimale appena la nomineranno una o due volte, e quasi di passaggio; quando dovrebbero parlarne di proposito più volte, e quasi in ogni Predica; gran conto dovran renderne a Dio, se trascurano di farlo E così anche molti Confessori attendono solo al proposito de' Penitenti di non offender più Dio; e poco si prendono fastidio d'insinuar loro la preghiera, per quando saran tentati di nuovo a cadere; ma bisogna persuadersi, che quando la tentazione è forte, se il Penitente non domanda aiuto a Dio per resistere, poco gli serviranno tutti i propositi fatti, la sola preghiera può salvarlo. È certo che chi prega, si salva, chi non prega, si danna.

E perciò, Lettor mio, replico, se vuoi salvarti, prega continuamente il Signore, che ti dia luce e forza di non cadere in peccato. In ciò bisogna essere importuno con Dio, in domandargli questa grazia.Haec importunitas (dice S. Girolamo) apud Dominum opportuna est 4. Ogni mattina non lasciar di pregarlo a liberarti da' peccati di quel giorno. E quando si affaccia alla mente qualche mal pensiero, o qualche cattiva occasione, subito, senza metterti a discorrere colla tentazione, subito ricorri a Gesù Cristo, e alla Santa Vergine, dicendo: Gesù mio aiutami, Maria SS. soccorrimi. Basta allora nominare Gesù e Maria, per svanir la tentazione; ma se la tentazione persiste, seguita ad invocare Gesù e Maria per aiuto, che non resterai mai vinto.


1 [5-6.] S. AGOST., In Ps. 102, n. 10: «non dat nisi petenti»; PL 37, 1324.  
2 [20-21.] S. AGOST., Sermo 110 (al. 31 De verbis Dom. ), c. IV, n. 4; PL 38, 640-641.
3 [26.] S. BERNARDO, Sermo de aquaeductu, n. 7; PL 183, 441. 
4 [7-8.] Ps.-s. s. GIROL., Epist. 39 (al. Hom. super  Matth., ma Luc. 11), n. 4; PL 30, 277.

AVE MARIA PURISSIMA!

martedì 10 febbraio 2015

“Signore, mio Dio, perdonami


Ma PREGATE, figli Miei !
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18 agosto 2005

JNSR:  ”All’inizio del mese di luglio, ho trascorso una decina di giorni in Alta Provenza, in famiglia.

Durante quei giorni, una notte scoppiò un temporale terribile, il rumore del tuono sembrava spaccare le montagne circostanti, che diventavano di un Colore scintillante, causato dai lampi. che le solcavano senza tregua, le si vedevano brillare attraverso una cortina di pioggia incessante. L’acqua, i. fulmini, il tuono, il vento aggredivano, di notte, quel bel paesaggio dell’Alta Provenza. Si aveva l’impressione di essere coinvolti in un diluvio; ed effettivamente, se l’abitazione non fosse stata costruita in alto, si poteva temere l’inondazione.

Quant’acqua! Quant’acqua scorreva intorno alla casa quella sera! Gli ulivi ne assorbivano a sazietà. Senza tutti quei lampi, e in più, con l’interruzione della corrente elettrica, la notte non avrebbe potuto essere più nera; anche le stelle si erano nascoste.

In quel momento, coricata nella mia camera di fronte alle montagne, io guardavo attraverso la finestra i monti dal colore blu argentato, pensando tristemente che Dio avrebbe potuto dimenticarmi e che forse non mi amava più. Trovandomi in vacanza, pregavo di meno, non facevo grandi cose:certamente ero causa di amarezza per il mio Dio!…  Allora feci questa preghiera al Mio Amato Signore:

“Signore, mio Dio, perdonami se Ti ho offeso, ma non posso
 vivere senza sapere se Tu mi ami ancora e se non mi hai dimenticata.
Dammi un segno: ferma immediatamente questa tempesta, questa pioggia
torrenziale, questo vento violento, questi lampi, questi tuoni! “

Quale stupore! Tutto quel rumore si ferma di colpo e le stelle ricompaiono.

Io non so se sia giusto ritenere incredula la mia famiglia. L’indomani mattina, ognuno diceva: ”Ah! Credevo che quel temporale non finisse più e, all’improvviso un silenzio incredibile, tutto si è fermato come per incanto.”

Ho tenuto per me la mia ”incredibile” preghiera e la risposta sorprendente che ne  ho ricevuto: Dio mi ama, Dio non mi ha mai dimenticata, né nel mio dubbio, né nelle mie mancanze.

Io so che Dio ci ama, piccoli, fiduciosi, senza dubitare del Suo Amore Infinito. Dio mi ha risposto, per ognuno di noi:

“Io vi amo,
ma PREGATE, figli Miei!”

sabato 10 gennaio 2015

La famiglia è Chiesa domestica e deve essere la prima scuola di preghiera. Nella famiglia i bambini, fin dalla più tenera età, possono imparare a percepire il senso di Dio, grazie all’insegnamento e all’esempio dei genitori: vivere in un'atmosfera segnata dalla presenza di Dio.



La preghiera e la Santa Famiglia

Cari fratelli e sorelle,

l’odierno incontro si svolge nel clima natalizio, pervaso di intima gioia per la nascita del Salvatore. Abbiamo appena celebrato questo mistero, la cui eco si espande nella liturgia di tutti questi giorni. 
È un mistero di luce che gli uomini di ogni epoca possono rivivere nella fede e nella preghiera. Proprio attraverso la preghiera noi diventiamo capaci di accostarci a Dio con intimità e profondità. Perciò, tenendo presente il tema della preghiera che sto sviluppando in questo periodo nelle catechesi, oggi vorrei invitarvi a riflettere su come la preghiera faccia parte della vita della Santa Famiglia di Nazaret. La casa di Nazaret, infatti, è una scuola di preghiera, dove si impara ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato profondo della manifestazione del Figlio di Dio, traendo esempio da Maria, Giuseppe e Gesù.

Rimane memorabile il discorso del Servo di Dio Paolo VI nella sua visita a Nazaret. Il Papa disse che alla scuola della Santa Famiglia noi «comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo». E aggiunse: «In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazaret, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri» (Discorso a Nazaret, 5 gennaio 1964).

Possiamo ricavare alcuni spunti sulla preghiera, sul rapporto con Dio, della Santa Famiglia dai racconti evangelici dell’infanzia di Gesù. Possiamo partire dall’episodio della presentazione di Gesù al tempio. San Luca narra che Maria e Giuseppe, «quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme, per presentarlo al Signore» (2,22). Come ogni famiglia ebrea osservante della legge, i genitori di Gesù si recano al tempio per consacrare a Dio il primogenito e per offrire il sacrificio. Mossi dalla fedeltà alle prescrizioni, partono da Betlemme e si recano a Gerusalemme con Gesù che ha appena quaranta giorni; invece di un agnello di un anno presentano l’offerta delle famiglie semplici, cioè due colombi. Quello della Santa Famiglia è il pellegrinaggio della fede, dell’offerta dei doni, simbolo della preghiera, e dell’incontro con il Signore, che Maria e Giuseppe già vedono nel figlio Gesù.

La contemplazione di Cristo ha in Maria il suo modello insuperabile. 
Il volto del Figlio le appartiene a titolo speciale, poiché è nel suo grembo che si è formato, prendendo da lei anche un’umana somiglianza. Alla contemplazione di Gesù nessuno si è dedicato con altrettanta assiduità di Maria. Lo sguardo del suo cuore si concentra su di Lui già al momento dell’Annunciazione, quando Lo concepisce per opera dello Spirito Santo; nei mesi successivi ne avverte a poco a poco la presenza, fino al giorno della nascita, quando i suoi occhi possono fissare con tenerezza materna il volto del figlio, mentre lo avvolge in fasce e lo depone nella mangiatoia. I ricordi di Gesù, fissati nella sua mente e nel suo cuore, hanno segnato ogni istante dell’esistenza di Maria. Ella vive con gli occhi su Cristo e fa tesoro di ogni sua parola. San Luca dice: «Da parte sua [Maria] custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19), e così descrive l’atteggiamento di Maria davanti al Mistero dell’Incarnazione, atteggiamento che si prolungherà in tutta la sua esistenza: custodire le cose meditandole nel cuore. Luca è l’evangelista che ci fa conoscere il cuore di Maria, la sua fede (cfr 1,45), la sua speranza e obbedienza (cfr 1,38), soprattutto la sua interiorità e preghiera (cfr 1,46-56), la sua libera adesione a Cristo (cfr 1,55). E tutto questo procede dal dono dello Spirito Santo che scende su di lei (cfr 1,35), come scenderà sugli Apostoli secondo la promessa di Cristo (cfr At 1,8). Questa immagine di Maria che ci dona san Luca presenta la Madonna come modello di ogni credente che conserva e confronta le parole e le azioni di Gesù, un confronto che è sempre un progredire nella conoscenza di Gesù. Sulla scia del beato Papa Giovanni Paolo II (cfr Lett. ap. Rosarium Virginis Mariae) possiamo dire che la preghiera del Rosario trae il suo modello proprio da Maria, poiché consiste nel contemplare i misteri di Cristo in unione spirituale con la Madre del Signore. La capacità di Maria di vivere dello sguardo di Dio è, per così dire, contagiosa. Il primo a farne l’esperienza è stato san Giuseppe. Il suo amore umile e sincero per la sua promessa sposa e la decisione di unire la sua vita a quella di Maria ha attirato e introdotto anche lui, che già era un «uomo giusto» (Mt 1,19), in una singolare intimità con Dio. Infatti, con Maria e poi, soprattutto, con Gesù, egli incomincia un nuovo modo di relazionarsi a Dio, di accoglierlo nella propria vita, di entrare nel suo progetto di salvezza, compiendo la sua volontà. Dopo aver seguito con fiducia l’indicazione dell’Angelo - «non temere di prendere con te Maria, tua sposa» (Mt 1,20) - egli ha preso con sé Maria e ha condiviso la sua vita con lei; ha veramente donato tutto se stesso a Maria e a Gesù, e questo l’ha condotto verso la perfezione della risposta alla vocazione ricevuta. Il Vangelo, come sappiamo, non ha conservato alcuna parola di Giuseppe: la sua è una presenza silenziosa, ma fedele, costante, operosa. Possiamo immaginare che anche lui, come la sua sposa e in intima consonanza con lei, abbia vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Gesù gustando, per così dire, la sua presenza nella loro famiglia. Giuseppe ha compiuto pienamente il suo ruolo paterno, sotto ogni aspetto. Sicuramente ha educato Gesù alla preghiera, insieme con Maria. Lui, in particolare, lo avrà portato con sé alla sinagoga, nei riti del sabato, come pure a Gerusalemme, per le grandi feste del popolo d’Israele. Giuseppe, secondo la tradizione ebraica, avrà guidato la preghiera domestica sia nella quotidianità – al mattino, alla sera, ai pasti -, sia nelle principali ricorrenze religiose. Così, nel ritmo delle giornate trascorse a Nazaret, tra la semplice casa e il laboratorio di Giuseppe, Gesù ha imparato ad alternare preghiera e lavoro, e ad offrire a Dio anche la fatica per guadagnare il pane necessario alla famiglia.

E infine, un altro episodio che vede la Santa Famiglia di Nazaret raccolta insieme in un evento di preghiera. Gesù, l'abbiamo sentito, a dodici anni si reca con i suoi al tempio di Gerusalemme. Questo episodio si colloca nel contesto del pellegrinaggio, come sottolinea san Luca: «I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa» (2,41-42). Il pellegrinaggio è un’espressione religiosa che si nutre di preghiera e, al tempo stesso, la alimenta. Qui si tratta di quello pasquale, e l’Evangelista ci fa osservare che la famiglia di Gesù lo vive ogni anno, per partecipare ai riti nella Città santa. La famiglia ebrea, come quella cristiana, prega nell’intimità domestica, ma prega anche insieme alla comunità, riconoscendosi parte del Popolo di Dio in cammino e il pellegrinaggio esprime proprio questo essere in cammino del Popolo di Dio. La Pasqua è il centro e il culmine di tutto questo, e coinvolge la dimensione familiare e quella del culto liturgico e pubblico.

Nell’episodio di Gesù dodicenne, sono registrate anche le prime parole di Gesù: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo essere in ciò che è del Padre mio?» (2,49). Dopo tre giorni di ricerche, i suoi genitori lo ritrovarono nel tempio seduto tra i maestri mentre li ascoltava ed interrogava (cfr 2,46). 
Alla domanda perché ha fatto questo al padre e alla madre, Egli risponde che ha fatto soltanto quanto deve fare il Figlio, cioè essere presso il Padre. Così Egli indica chi è il vero Padre, chi è la vera casa, che Egli non fatto niente di strano, di disobbediente. E' rimasto dove deve essere il Figlio, cioè presso il Padre, e ha sottolineato chi è il suo Padre. La parola «Padre» sovrasta quindi l'accento di questa risposta e appare tutto il mistero cristologico. Questa parola apre quindi il mistero, è la chiave al mistero di Cristo, che è il Figlio, e apre anche la chiave al mistero nostro di cristiani, che siamo figli nel Figlio. Nello stesso tempo, Gesù ci insegna come essere figli, proprio nell'essere col Padre nella preghiera. Il mistero cristologico, il mistero dell'esistenza cristiana è intimamente collegato, fondato sulla preghiera. Gesù insegnerà un giorno ai suoi discepoli a pregare, dicendo loro: quando pregate dite «Padre». E, naturalmente, non ditelo solo con una parola, ditelo con la vostra esistenza, imparate sempre più a dire con la vostra esistenza: «Padre»; e così sarete veri figli nel Figlio, veri cristiani.

Qui, quando Gesù è ancora pienamente inserito nella vita della Famiglia di Nazaret, è importante notare la risonanza che può aver avuto nei cuori di Maria e Giuseppe sentire dalla bocca di Gesù quella parola «Padre», e rivelare, sottolineare chi è il Padre, e sentire dalla sua bocca questa parola con la consapevolezza del Figlio Unigenito, che proprio per questo ha voluto rimanere per tre giorni nel tempio, che è la «casa del Padre». 

Da allora, possiamo immaginare, la vita nella Santa Famiglia fu ancora più ricolma di preghiera, perché dal cuore di Gesù fanciullo – e poi adolescente e giovane – non cesserà più di diffondersi e di riflettersi nei cuori di Maria e di Giuseppe questo senso profondo della relazione con Dio Padre. Questo episodio ci mostra la vera situazione, l'atmosfera dell'essere col Padre. Così la Famiglia di Nazaret è il primo modello della Chiesa in cui, intorno alla presenza di Gesù e grazie alla sua mediazione, si vive tutti la relazione filiale con Dio Padre, che trasforma anche le relazioni interpersonali, umane.

Cari amici, per questi diversi aspetti che, alla luce del Vangelo, ho brevemente tratteggiato, la Santa Famiglia è icona della Chiesa domestica, chiamata a pregare insieme. La famiglia è Chiesa domestica e deve essere la prima scuola di preghiera. Nella famiglia i bambini, fin dalla più tenera età, possono imparare a percepire il senso di Dio, grazie all’insegnamento e all’esempio dei genitori: vivere in un'atmosfera segnata dalla presenza di Dio. Un’educazione autenticamente cristiana non può prescindere dall’esperienza della preghiera. Se non si impara a pregare in famiglia, sarà poi difficile riuscire a colmare questo vuoto. E, pertanto, vorrei rivolgere a voi l’invito a riscoprire la bellezza di pregare assieme come famiglia alla scuola della Santa Famiglia di Nazaret. E così divenire realmente un cuor solo e un'anima sola, una vera famiglia. 
Grazie

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana 

martedì 19 agosto 2014

Perseveranza!

SANT'ALFONSO de' Liguori

Motivi 
per cui Dio differisce di concederci la perseveranza finale

Ma dirà taluno: giacché il Signore può e vuole darmi la santa perseveranza, perché non me la concede tutta in una volta, quando gliela domando? Sono molte le ragioni che ne assegnano i santi Padri

Iddio non la concede in una volta, e la differisce: 

primieramente per meglio provare la nostra confidenza; 

inoltre, dice S. Agostino, acciocché maggiormente noi la sospiriamo. Scrive il Santo che i doni grandi richiedono gran desiderio giacché i beni presto ricevuti non si tengono poi in quel pregio, che si tengono quelli che per lungo tempo sono stati desiderati (Serm. 61). 

Inoltre lo fa, acciocché noi non ci scordiamo di Lui: se noi stessimo sicuri già della perseveranza e della nostra salute, e non avessimo continuo bisogno dell’aiuto di Dio, per conservarci nella sua grazia e salvarci, facilmente ci scorderemmo di Dio. Il bisogno fa che i poveri frequentino le case dei ricchi. Onde il Signore per tirarci a sé, come dice S. Giovanni Crisostomo, per vederci spesso ai piedi suoi, affinché possa così maggiormente beneficarci, a questo fine si trattiene di darci la grazia compita della salute sino al tempo della nostra morte (Hom. XXX in Gen.). 

Inoltre lo fa, secondo lo stesso Crisostomo, affinché noi col proseguire nella preghiera ci stringiamo maggiormente a Lui con dolci legami d’amore (In Ps. 4). Quel continuo nostro ricorrere a Dio con le preghiere, e quell’aspettare con confidenza da Lui le grazie che desideriamo, oh, che grande incentivo e vincolo d’amore egli è, per infiammarci e legarci più strettamente con Dio!


Ma sino a quando si ha da pregare? Sempre, risponde il medesimo Santo, sino che riceviamo la sentenza favorevole della salute eterna, vale a dire sino alla morte: Non cessare (di pregare), finché non ottieni (Hom. XXIV in Matth.). E soggiunge che colui il quale dice: Io non lascerò di pregare fintanto che non mi salvo, quegli certamente si salverà. Se dirai: se non otterrò, non cesserò (dal pregare), certamente otterrai. 

Scrive l’Apostolo, che molti corrono al pallio, ma quell’uomo solamente lo riceve, che giunge a prenderlo: Non sapete voi che quelli che corrono nello stadio, corrono veramente tutti, ma uno solo riporta la palma? Correte in guisa da far vostro il premio (1 Cr 9,24). Non basta dunque il pregare per salvarci, bisogna che preghiamo sempre, finché arriviamo a ricevere la corona che Dio promette, ma promette solamente a coloro che sono costanti a pregarlo sino alla fine.

Virgo Maria, Rosa Mistica, 
ora pro nobis

lunedì 6 gennaio 2014

La ricerca della verità era per loro più importante della derisione del mondo, apparentemente intelligente.

Santi Re Magi. Bassorilievo.
Chiesa di Sant'Eustorgio, Milano. Dove si conservano
le Reliquie dei Santi Gasparre Melchiorre e Baldassarre 

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Domenica, 6 gennaio 2013


Cari fratelli e sorelle!
Per la Chiesa credente ed orante, i Magi d’Oriente che, sotto la guida della stella, hanno trovato la via verso il presepe di Betlemme sono solo l’inizio di una grande processione che pervade la storia. Per questo, la liturgia legge il Vangelo che parla del cammino dei Magi insieme con le splendide visioni profetiche di Isaia 60 e del Salmo 72, che illustrano con immagini audaci il pellegrinaggio dei popoli verso Gerusalemme. Come i pastori che, quali primi ospiti presso il Bimbo neonato giacente nella mangiatoia, personificano i poveri d’Israele e, in genere, le anime umili che interiormente vivono molto vicino a Gesù, così gli uomini provenienti dall’Oriente personificano il mondo dei popoli, la Chiesa dei gentili – gli uomini che attraverso tutti i secoli si incamminano verso il Bambino di Betlemme, onorano in Lui il Figlio di Dio e si prostrano davanti a Lui. La Chiesa chiama questa festa “Epifania” – l’apparizione, la comparsa del Divino. Se guardiamo il fatto che, fin da quell’inizio, uomini di ogni provenienza, di tutti i Continenti, di tutte le diverse culture e tutti i diversi modi di pensiero e di vita sono stati e sono in cammino verso Cristo, possiamo dire veramente che questo pellegrinaggio e questo incontro con Dio nella figura del Bambino è un’Epifania della bontà di Dio e del suo amore per gli uomini (cfr Tt 3,4).




Seguendo una tradizione iniziata dal Beato Papa Giovanni Paolo II, celebriamo la festa dell’Epifania anche quale giorno dell’Ordinazione episcopale per quattro sacerdoti che d’ora in poi, in funzioni diverse, collaboreranno al Ministero del Papa per l’unità dell’unica Chiesa di Gesù Cristo nella pluralità delle Chiese particolari. Il nesso tra questa Ordinazione episcopale e il tema del pellegrinaggio dei popoli verso Gesù Cristo è evidente. Il Vescovo ha il compito non solo di camminare in questo pellegrinaggio insieme con gli altri, ma di precedere e di indicare la strada. Vorrei, però, in questa liturgia, riflettere con voi ancora su una domanda più concreta. In base alla storia raccontata da Matteo possiamo sicuramente farci una certa idea di quale tipo di uomini debbano essere stati coloro che, in seguito al segno della stella, si sono incamminati per trovare quel Re che, non soltanto per Israele, ma per l’umanità intera avrebbe fondato una nuova specie di regalità. Che tipo di uomini, dunque, erano costoro? E domandiamoci anche se, malgrado la differenza dei tempi e dei compiti, a partire da loro si possa intravedere qualcosa su che cosa sia il Vescovo e su come egli debba adempiere il suo compito.



Gli uomini che allora partirono verso l’ignoto erano, in ogni caso, uomini dal cuore inquieto. Uomini spinti dalla ricerca inquieta di Dio e della salvezza del mondo. Uomini in attesa, che non si accontentavano del loro reddito assicurato e della loro posizione sociale forse considerevole. Erano alla ricerca della realtà più grande. Erano forse uomini dotti che avevano una grande conoscenza degli astri e probabilmente disponevano anche di una formazione filosofica. Ma non volevano soltanto sapere tante cose. Volevano sapere soprattutto la cosa essenziale. Volevano sapere come si possa riuscire ad essere persona umana. E per questo volevano sapere se Dio esista, dove e come Egli sia. Se Egli si curi di noi e come noi possiamo incontrarlo. Volevano non soltanto sapere. Volevano riconoscere la verità su di noi, e su Dio e il mondo. Il loro pellegrinaggio esteriore era espressione del loro essere interiormente in cammino, dell’interiore pellegrinaggio del loro cuore. Erano uomini che cercavano Dio e, in definitiva, erano in cammino verso di Lui. Erano ricercatori di Dio.



Ma con ciò giungiamo alla domanda: come dev’essere un uomo a cui si impongono le mani per l’Ordinazione episcopale nella Chiesa di Gesù Cristo? Possiamo dire: egli deve soprattutto essere un uomo il cui interesse è rivolto verso Dio, perché solo allora egli si interessa veramente anche degli uomini. Potremmo dirlo anche inversamente: un Vescovo dev’essere un uomo a cui gli uomini stanno a cuore, che è toccato dalle vicende degli uomini. Dev’essere un uomo per gli altri. Ma può esserlo veramente soltanto se è un uomo conquistato da Dio. Se per lui l’inquietudine verso Dio è diventata un’inquietudine per la sua creatura, l’uomo. Come i Magi d’Oriente, anche un Vescovo non dev’essere uno che esercita solamente il suo mestiere e non vuole altro. No, egli dev’essere preso dall’inquietudine di Dio per gli uomini. Deve, per così dire, pensare e sentire insieme con Dio. Non è solo l’uomo ad avere in sé l’inquietudine costitutiva verso Dio, ma questa inquietudine è una partecipazione all’inquietudine di Dio per noi. Poiché Dio è inquieto nei nostri confronti, Egli ci segue fin nella mangiatoia, fino alla Croce. “Cercandomi ti sedesti stanco, mi hai redento con il supplizio della Croce: che tanto sforzo non sia vano!”, prega la Chiesa nel Dies irae. L’inquietudine dell’uomo verso Dio e, a partire da essa, l’inquietudine di Dio verso l’uomo devono non dar pace al Vescovo. È questo che intendiamo quando diciamo che il Vescovo dev’essere soprattutto un uomo di fede. Perché la fede non è altro che l’essere interiormente toccati da Dio, una condizione che ci conduce sulla via della vita. La fede ci tira dentro uno stato in cui siamo presi dall’inquietudine di Dio e fa di noi dei pellegrini che interiormente sono in cammino verso il vero Re del mondo e verso la sua promessa di giustizia, di verità e di amore. In questo pellegrinaggio, il Vescovo deve precedere, dev’essere colui che indica agli uomini la strada verso la fede, la speranza e l’amore.



Il pellegrinaggio interiore della fede verso Dio si svolge soprattutto nella preghiera. Sant’Agostino ha detto una volta che la preghiera, in ultima analisi, non sarebbe altro che l’attualizzazione e la radicalizzazione del nostro desiderio di Dio. Al posto della parola “desiderio” potremmo mettere anche la parola “inquietudine” e dire che la preghiera vuole strapparci alla nostra falsa comodità, al nostro essere chiusi nelle realtà materiali, visibili e trasmetterci l’inquietudine verso Dio, rendendoci proprio così anche aperti e inquieti gli uni per gli altri. Il Vescovo, come pellegrino di Dio, dev’essere soprattutto un uomo che prega. Deve essere in un permanente contatto interiore con Dio; la sua anima dev’essere largamente aperta verso Dio. Le sue difficoltà e quelle degli altri, come anche le sue gioie e quelle degli altri le deve portare a Dio, e così, a modo suo, stabilire il contatto tra Dio e il mondo nella comunione con Cristo, affinché la luce di Cristo splenda nel mondo.



Torniamo ai Magi d’Oriente. Questi erano anche e soprattutto uomini che avevano coraggio, il coraggio e l’umiltà della fede. Ci voleva del coraggio per accogliere il segno della stella come un ordine di partire, per uscire – verso l’ignoto, l’incerto, su vie sulle quali c’erano molteplici pericoli in agguato. Possiamo immaginare che la decisione di questi uomini abbia suscitato derisione: la beffa dei realisti che potevano soltanto deridere le fantasticherie di questi uomini. Chi partiva su promesse così incerte, rischiando tutto, poteva apparire soltanto ridicolo. Ma per questi uomini toccati interiormente da Dio, la via secondo le indicazioni divine era più importante dell’opinione della gente. La ricerca della verità era per loro più importante della derisione del mondo, apparentemente intelligente.



Come non pensare, in una tale situazione, al compito di un Vescovo nel nostro tempo? L’umiltà della fede, del credere insieme con la fede della Chiesa di tutti i tempi, si troverà ripetutamente in conflitto con l’intelligenza dominante di coloro che si attengono a ciò che apparentemente è sicuro. Chi vive e annuncia la fede della Chiesa, in molti punti non è conforme alle opinioni dominanti proprio anche nel nostro tempo. L’agnosticismo oggi largamente imperante ha i suoi dogmi ed è estremamente intollerante nei confronti di tutto ciò che lo mette in questione e mette in questione i suoi criteri. 
Perciò, il coraggio di contraddire gli orientamenti dominanti è oggi particolarmente pressante per un Vescovo. Egli dev’essere valoroso. E tale valore o fortezza non consiste nel colpire con violenza, nell’aggressività, ma nel lasciarsi colpire e nel tenere testa ai criteri delle opinioni dominanti. Il coraggio di restare fermamente con la verità è inevitabilmente richiesto a coloro che il Signore manda come agnelli in mezzo ai lupi. “Chi teme il Signore non ha paura di nulla”, dice il Siracide (34,16). Il timore di Dio libera dal timore degli uomini. Rende liberi!

In questo contesto mi viene in mente un episodio degli inizi del cristianesimo che san Luca narra negli Atti degli Apostoli. Dopo il discorso di Gamaliele, che sconsigliava la violenza verso la comunità nascente dei credenti in Gesù, il sinedrio chiamò gli Apostoli e li fece flagellare. Poi proibì loro di predicare nel nome di Gesù e li rimise in libertà. San Luca continua: “Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno … non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo” (At 5,40ss). Anche i successori degli Apostoli devono attendersi di essere ripetutamente percossi, in maniera moderna, se non cessano di annunciare in modo udibile e comprensibile il Vangelo di Gesù Cristo. E allora possono essere lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per Lui. Naturalmente vogliamo, come gli Apostoli, convincere la gente e, in questo senso, ottenerne l’approvazione. Naturalmente non provochiamo, ma tutt’al contrario invitiamo tutti ad entrare nella gioia della verità che indica la strada. L’approvazione delle opinioni dominanti, però, non è il criterio a cui ci sottomettiamo. Il criterio è Lui stesso: il Signore. Se difendiamo la sua causa, conquisteremo, grazie a Dio, sempre di nuovo persone per la via del Vangelo. Ma inevitabilmente saremo anche percossi da coloro che, con la loro vita, sono in contrasto col Vangelo, e allora possiamo essere grati di essere giudicati degni di partecipare alla Passione di Cristo.



I Magi hanno seguito la stella, e così sono giunti fino a Gesù, alla grande Luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (cfr Gv 1,9). Come pellegrini della fede, i Magi sono diventati essi stessi stelle che brillano nel cielo della storia e ci indicano la strada. I santi sono le vere costellazioni di Dio, che illuminano le notti di questo mondo e ci guidano. San Paolo, nella Lettera ai Filippesi, ha detto ai suoi fedeli che devono risplendere come astri nel mondo (cfr 2,15).



Cari amici, ciò riguarda anche noi. Ciò riguarda soprattutto voi che, in quest’ora, sarete ordinati Vescovi della Chiesa di Gesù Cristo. Se vivrete con Cristo, a Lui nuovamente legati nel Sacramento, allora anche voi diventerete sapienti. Allora diventerete astri che precedono gli uomini e indicano loro la via giusta della vita. In quest’ora noi tutti qui preghiamo per voi, affinché il Signore vi ricolmi con la luce della fede e dell’amore. Affinché quell’inquietudine di Dio per l’uomo vi tocchi, perché tutti sperimentino la sua vicinanza e ricevano il dono della sua gioia. Preghiamo per voi, affinché il Signore vi doni sempre il coraggio e l’umiltà della fede. Preghiamo Maria che ha mostrato ai Magi il nuovo Re del mondo (Mt 2,11), affinché ella, quale Madre amorevole, mostri Gesù Cristo anche a voi e vi aiuti ad essere indicatori della strada che porta a Lui. Amen.





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martedì 17 dicembre 2013

La preghiera era la consolazione e la difesa di san Francesco d'Assisi








1. Francesco, il servo di Cristo, vivendo nel corpo, si sentiva in esilio dal Signore e, mentre ormai all'esterno era diventato totalmente insensibile, per amore di Cristo, ai desideri della terra, si sforzava, pregando senza interruzione, di mantenere lo spirito alla presenza di Dio, per non rimanere privo delle consolazioni del Diletto. 


La preghiera era la sua consolazione, quando si dava alla contemplazione, e quasi fosse ormai un cittadino del cielo e un concittadino degli Angeli, con desiderio ardente ricercava il Diletto, da cui lo separava soltanto il muro del corpo.

La preghiera era anche la sua difesa, quando si dava all'azione, poiché, mediante l'insistenza nella preghiera, rifuggiva, in tutto il suo agire, dal confidare nelle proprie capacità, metteva ogni sua fiducia nella bontà divina, gettando nel Signore la sua ansietà. 
Sopra ogni altra cosa -- asseriva con fermezza -- il religioso deve desiderare la grazia dell'orazione e incitava in tutte le maniere possibili i suoi frati a praticarla con zelo, convinto che nessuno fa progressi nel servizio di Dio, senza di essa.

Camminando e sedendo, in casa e fuori, lavorando e riposando, restava talmente intento all'orazione da sembrare che le avesse dedicato ogni parte di se stesso: non solo il cuore e il corpo, ma anche l'attività e il tempo.



2. Non lasciava passare inutilmente, per sua trascuratezza, nessuna visita dello Spirito: quando gli si presentava, si abbandonava ad essa e ne godeva la dolcezza, finché il Signore glielo concedeva. 

Se, mentre era in viaggio, sentiva il soffio dello Spirito divino, lasciava che i compagni lo precedessero, si fermava, tutto intento a fruire della nuova ispirazione, per non ricevere invano la grazia. 
Molte volte rimaneva assorto in una contemplazione così sublime che, rapito fuori di sé ad esperienze trascendenti la sensibilità umana, ignorava quanto gli accadeva intorno. 
Una volta stava attraversando sopra un asinello, a causa della malattia, Borgo San Sepolcro, che è un paese molto popoloso. Spinto dalla devozione, la gente si precipitò incontro a lui; ma egli, trascinato e trattenuto, stretto e toccato in tanti modi dalla folla, appariva insensibile a tutto: come un corpo senz'anima, non avvertiva assolutamente nulla di tutte quelle manifestazione. 
Quando ormai da lungo tempo si erano lasciati indietro il paese e la folla ed erano giunti vicino a un lebbrosario, il contemplatore delle realtà celesti, come se tornasse da un altro mondo, domandò, preoccupato, quando sarebbero arrivati a Borgo. 
La sua mente, fissa negli splendori celesti, non aveva avvertito il variare dei luoghi, del tempo e delle persone incontrate. I suoi compagni hanno attestato, per lunga esperienza, che questo gli accadeva piuttosto spesso.




3. Nell'orazione aveva imparato che la bramata presenza dello Spirito Santo si offre a quanti lo invocano con tanto maggior familiarità quanto più lontani li trova dal frastuono dei mondani. Per questo cercava luoghi solitari, si recava nella solitudine e nelle chiese abbandonate a pregare, di notte. Là dovette subire, spesso, gli spaventosi assalti dei demoni che venivano fisicamente a conflitto con lui, nello sforzo di stornarlo dall'applicarsi alla preghiera. Ma egli, munito delle armi celesti, si faceva tanto più forte nella virtù e tanto più fervente nella preghiera, quanto più violento era l'assalto dei nemici. 

Diceva confidenzialmente a Cristo: All'ombra delle tue ali proteggimi dai malvagi che tramano la mia rovina. 
E ai demoni: “ Fate pure tutto quello che potete contro di me, o spiriti maligni e ingannatori! Voi non avete potere se non nella misura in cui la mano di Dio ve lo concede e perciò io me ne sto qui con tutta gioia, pronto a sopportare tutto quanto essa ha stabilito di farmi subire ”. 
I demoni superbi non sopportavano simile forza d'animo e si ritiravano sconfitti.




4. E l'uomo di Dio, restandosene tutto solo e in pace, riempiva i boschi di gemiti, cospargeva la terra di lacrime, si percuoteva il petto e, quasi avesse trovato un più intimo santuario, discorreva col suo Signore. Là rispondeva al Giudice, là supplicava il Padre, là dialogava con l'Amico. Là pure, dai frati che piamente lo osservavano, fu udito interpellare con grida e gemiti la Bontà divina a favore dei peccatori; piangere, anche, ad alta voce la passione del Signore, come se l'avesse davanti agli occhi. Là, mentre pregava di notte, fu visto con le mani stese in forma di croce, sollevato da terra con tutto il corpo e circondato da una nuvoletta luminosa: luce meravigliosa diffusa intorno al suo corpo, che meravigliosamente testimoniava la luce risplendente nel suo Spirito. 

Là, inoltre, come testimoniano prove sicure, gli venivano svelati i misteri nascosti della sapienza divina, che egli, però, non divulgava all'esterno, se non nella misura in cui ve lo sforzava la carità di Cristo e lo esigeva l'utilità del prossimo. 
Diceva, a questo proposito: “ Può succedere che, per un lieve compenso, si perda un tesoro senza prezzo e che si provochi il Donatore a non dare più tanto facilmente una seconda volta ”. 
Quando tornava dalle sue preghiere, che lo trasformavano quasi in un altro uomo, metteva la più grande attenzione per comportarsi in uniformità con gli altri, perché non avvenisse che il vento dell'applauso, a causa di quanto lui lasciava trapelare di fuori, lo privasse della ricompensa interiore . 
Quando, trovandosi in pubblico, veniva improvvisamente visitato dal Signore, cercava sempre di celarsi in qualche modo ai presenti, perché gli intimi contatti con lo Sposo non si propalassero all'esterno. 
Quando pregava con i frati, evitava assolutamente le espettorazioni, i gemiti, i respiri affannosi, i cenni esterni, sia perché amava il segreto, sia perché, se rientrava nel proprio intimo, veniva rapito totalmente in Dio. 
Spesso ai suoi confidenti diceva cose come queste: “ Quando il servo di Dio, durante la preghiera, riceve la visita del Signore, deve dire: " O Signore, tu dal cielo hai mandato a me, peccatore e indegno, questa consolazione, e io la affido alla tua custodia, perché mi sento un ladro del tuo tesoro". E quando torna dall'orazione, deve mostrarsi così poverello e peccatore, come se non avesse ricevuto nessuna grazia speciale ”.




5. Mentre, nel luogo della Porziuncola, una volta l'uomo di Dio era intento all'orazione, andò a trovarlo, come faceva di solito, il vescovo di Assisi. Appena fu entrato nel luogo, il vescovo, con più familiarità del dovuto, andò direttamente alla cella in cui il servo di Cristo stava pregando. Spinse la porticina e fece l'atto di entrare. Ma, appena ebbe messo dentro il capo e scorto il Santo in orazione, sconvolto da improvviso terrore, si sentì agghiacciare in tutte le membra, perse anche la parola, mentre, per divina disposizione, veniva cacciato fuori a viva forza e trascinato lontano, a passo indietro. 

Stupefatto, il vescovo si affrettò, come poté, a raggiungere i frati e, appena Dio gli restituì l'uso della parola, se ne servì prima di tutto per confessare la propria colpa. 
L'abate del monastero di San Giustino nella diocesi di Perugia, incontrò una volta il servo di Cristo. Appena lo vide, il devoto abate scese lesto da cavallo, volendo riverire l'uomo di Dio e parlare con lui di problemi inerenti alla salvezza dell'anima. Terminato il soave colloquio, I'abate, nel partire, gli chiese umilmente di pregare per lui. L'uomo caro a Dio gli rispose: “ Pregherò volentieri ”. Quando l'abate si fu allontanato un poco, il fedele Francesco disse al compagno: “ Aspetta un attimo, fratello, perché voglio pagare il debito che ho contratto ”. 
Ebbene, appena egli incominciò a pregare, I'abate sentì nell'anima un insolito fervore e una dolcezza mai provata e, rapito fuori di sé, si perdette totalmente in Dio. 
Fu una piccola, dolce sosta. 
Ritornato in se stesso, capì bene che tutto ciò era dovuto alla potente preghiera di san Francesco. Da allora si sentì infiammato di sempre maggior amore per l'Ordine e riferì a molti il fatto come un miracolo.




6. Aveva, il Santo, I'abitudine di offrire a Dio il tributo delle ore canoniche con timore, insieme, e con devozione. 

Benché fosse malato d'occhi, di stomaco, di milza e di fegato, pure non voleva appoggiarsi al muro e alla parete, mentre salmeggiava, ma recitava le ore stando sempre eretto e senza cappuccio in testa, senza girovagare con gli occhi, senza smozzicare le parole. 
Se gli capitava di trovarsi in viaggio, all'ora dell'ufficio si fermava e non tralasciava questa devota e santa consuetudine, nemmeno sotto lo scrosciare della pioggia.




Diceva, infatti: “ Se il corpo si prende con tranquillità il suo cibo, che sarà con lui esca dei vermi, con quanta pace e tranquillità l'anima deve prendersi il cibo della vita?>. 

Riteneva anche di commettere colpa grave, se gli capitava, mentre era intento alla preghiera, di perdersi con la mente dietro vane fantasie. Quando gli succedeva qualcosa di questo genere, ricorreva alla confessione, pur di riparare immediatamente . 
Questa preoccupazione era divenuta per lui così abituale che assai di raro veniva molestato da siffatte mosche. 
Durante una quaresima, per occupare le briciole di tempo e non perderne nemmeno una, aveva fatto un piccolo vaso. Ma siccome, durante la recita di terza, il pensiero di quel vaso gli aveva procurato un po' di distrazione, mosso dal fervore dello spirito, lo bruciò, dicendo: “ Lo sacrificherò al Signore, al quale mi ha impedito di fare il sacrificio”.

Diceva i salmi con estrema attenzione di mente e di spirito, come se avesse Dio presente, e, quando nella recita capitava di pronunciare il nome del Signore, lo si vedeva leccarsi le labbra per la dolcezza e la soavità. 
Voleva pure che si onorasse questo stesso nome del Signore con speciale devozione, non solo quando lo si pensava, ma anche quando lo si pronunciava o scriveva. Tanto che una volta incitò i frati a raccogliere tutti i pezzettini di carta scritti che trovavano e a riporli in luogo decente per impedire che, magari, venisse calpestato quel nome sacro in essi trascritto. 
Quando, poi, pronunciava o udiva il nome di Gesù, ricolmo di intimo giubilo, lo si vedeva trasformarsi anche esteriormente come se un sapor di miele avesse impressionato il suo gusto, o un suono armonioso il suo udito.




7. Tre anni prima della sua morte, decise di celebrare vicino al paese di Greccio, il ricordo della natività del bambino Gesù, con la maggior solennità possibile, per rinfocolarne la devozione. 

Ma, perché ciò non venisse ascritto a desiderio di novità, chiese ed ottenne prima il permesso del sommo Pontefice. Fece preparare una stalla, vi fece portare del fieno e fece condurre sul luogo un bove ed un asino. 
Si adunano i frati, accorre la popolazione; il bosco risuona di voci e quella venerabile notte diventa splendente di innumerevoli luci, solenne e sonora di laudi armoniose. 
L'uomo di Dio stava davanti alla mangiatoia, ricolmo di pietà, cosparso di lacrime, traboccante di gioia. 
Il santo sacrificio viene celebrato sopra la mangiatoia e Francesco, levita di Cristo, canta il santo Vangelo. Predica al popolo e parla della nascita del re povero e nel nominarlo, lo chiama, per tenerezza d'amore, il “ bimbo di Bethlehem ”.

Un cavaliere, virtuoso e sincero, che aveva lasciato la milizia secolaresca e si era legato di grande familiarità alI'uomo di Dio, il signor Giovanni di Greccio, affermò di aver veduto, dentro la mangiatoia, un bellissimo fanciullino addormentato, che il beato Francesco, stringendolo con ambedue le braccia, sembrava destare dal sonno. 
Questa visione del devoto cavaliere è resa credibile dalla santità del testimone, ma viene comprovata anche dalla verità che essa indica e confermata dai miracoli da cui fu accompagnata. Infatti l'esempio di Francesco, riproposto al mondo, ha ottenuto l'effetto di ridestare la fede di Cristo nei cuori intorpiditi; e il fieno della mangiatoia, conservato dalla gente, aveva il potere di risanare le bestie ammalate e di scacciare varie altre malattie. 
Così Dio glorifica in tutto il suo servo e mostra l'efficacia della santa orazione con l'eloquenza probante dei miracoli .