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lunedì 5 gennaio 2015

Solennità dell'Epifania


EPIFANIA DEL SIGNORE

1. “Essendo nato Gesù in Betlemme di Giuda”... ecc. (Mt 2,1).
In questo brano evangelico considereremo tre avveni­menti:
- l’apparizione della stella,
- il turbamento di Erode,
- l’offerta dei tre Magi.

I. l’apparizione della stella

2. “Essendo nato Gesù a Betlemme” (Mt 2,1), ecc. Nella prima parte c’è questo insegnamento morale: in quale modo uno, dalla vanità del mondo, si converte a vita nuova. Prima però ascoltiamo brevemente la storia, il racconto.
Gesù nacque in una notte di domenica, perché nel giorno in cui Dio disse: “Sia fatta la luce, e la luce fu” (Gn 1,3), “venne a visitarci dall’alto un sole che sorge” (Lc 1,78).
Si racconta che Ottaviano Augusto, su indicazione della Sibilla, abbia veduto in cielo una vergine, gravida di un figlio, e che da allora vietò che lo chiamassero Dominus, Signore, perché era nato “il Re dei re e il Signore dei signori” (Ap 19,16). Perciò il poeta scrisse: “Ecco, una nuova prole scende dall’alto del cielo” (Virgilio, Egloga IV,7). Per tutto il giorno sgorgò da una vecchia taverna un abbondante getto d’olio, perché in quel giorno nasceva sulla terra colui che è consacrato con olio di letizia, a preferenza dei suoi eguali (cf. Sal 44,8). Il tempio della Pace crollò dalle fondamenta. I Romani, infatti, a motivo della pace universale in cui si trovava tutto il mondo sotto Cesare Augusto, avevano costruito un meraviglioso tempio alla Pace. Coloro che vi entravano per consultare la divinità e sapere quanto sarebbe durata quella pace, ebbero questo responso: Finché una vergine partorirà. Essi furono felici perché lo interpretarono così: La pace durerà in eterno, perché mai una vergine potrà partorire. Ma Dio distrusse la sapienza dei sapienti e la prudenza dei prudenti (cf. 1Cor 1,19), perché il tempio crollò dalle fondamenta nell’ora della nascita del Signore.
Tredici giorni dopo la sua nascita, cioè come oggi, “ecco che dall’oriente arrivarono a Gerusalemme dei Magi, che doman­davano: “Dov’è il Re dei Giudei, che è nato? Abbiamo veduto la sua stella” (Mt 2,1-2). Erano chiamati “Magi” per la vastità delle loro cono­scenze; quelli che i Greci chiamano filosofi, i Persiani li chiamano magi. Venivano dai territori dei Persiani e dei Caldei. Forse non fu loro impossibile percorrere in tredici giorni, in groppa ai dromedari, quelle grandi distanze.
La stella che avevano visto si distingueva dalle altre per lo splendore, per la posizione e per il movimento. Per lo splendore, che neppure la luce del giorno faceva scomparire; per la posizione, perché non stava nel firmamento con le stelle minori, e neppure nell’etere con i pianeti, ma faceva il suo viaggio nell’aria, nelle vicinanze della terra; e per il movimento, perché restò dapprima immobile sopra la Giudea, poi diede ai Magi l’indica­zione per arrivarvi; essi presero per loro conto la decisione di entrare in Gerusalemme, che della Giudea era la capitale. Quando ne uscirono, con il primo movimento visibile la stella li precedette. Portato a termine il suo compito scomparve, ritornando alla primitiva materia, dalla quale era stata presa.
Questa festa si chiama Epifania, dai termini greci epì, sopra, e fanè, manifestazione, perché come oggi Cristo fu manifestato con il segno della stella. È detta anche Teofania, sempre dai termini greci Theòs, Dio, e fanè, perché come oggi Cristo, passati trent’anni, fu manifestato dalla voce del Padre, e battezzato nel Giordano. È detta anche Bethfania, dal termine ebraico beth, casa, perché, passato un anno dal battesimo, come oggi compì un miracolo divino tra le mura di una casa, ad una festa di nozze.

3. Vediamo ora che cosa significhino, in senso morale, la stella, i Magi, l’oriente e Gerusalemme.
La stella simboleggia l’illuminazione della grazia divina, o anche la conoscenza della verità. Infatti Gesù, dal quale proviene ogni grazia, dice nell’Apocalisse: “Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino” (Ap 22,16). Gesù Cristo, benché figlio, è anche radice, cioè padre di Davide. Oppure, come la radice sostiene la pianta, così la misericordia di Cristo sostenne Davide peccatore e penitente. Cristo è stella radiosa nella illuminazione della mente; è stella del mattino nella conoscenza della verità.
I Magi rappresentano i sapienti del mondo, dei quali dice Isaia: “I sapienti, i consiglieri del faraone, gli diedero un consiglio stolto” (Is 19,11). Il faraone, nome che s’in­ter­preta “che scopre l’uomo”, è figura del mondo che, dopo aver coperto l’uomo con la sua vanità, lo scopre nella miseria della morte; il mondo non dà, ma solo impresta, e nel momento della massimo bisogno, esige ciò che ha impre­stato e così abbandona l’uomo nella miseria e nella nudità.
Stolto è quindi il consiglio di quei sapienti che esortano ad accumulare le cose altrui, i beni di questo mondo, che non potranno portare con sé, che inducono a caricarsi di cose solo imprestate, che non potranno far passare con sé attraverso il passaggio stretto. Infatti il passaggio della morte è così stretto, che a stento vi può passare l’anima sola e nuda. Quando si arriva a quel passaggio ogni carico di cose temporali dev’essere lasciato: solo i peccati, che non sono sostanza (materiale), vi passano agevolmente insieme con l’anima.
L’oriente è figura della vanità del mondo o della sua prosperità. Dice Ezechiele: “Vidi, ed ecco degli uomini con le spalle rivolte al tempio del Signore, e la faccia ad oriente, che adoravano il sole nascente” (Ez 8,16). Il tempio raffigura l’umanità di Cristo, o anche la vita di ogni giusto. Hanno il dorso rivolto al tempio del Signore e la faccia ad oriente coloro che, dimentichi della passione e della morte di Cristo, orientano alla vanità del mondo tutto ciò che conoscono e tutto ciò che sanno. Per questo il Signore si lamenta per bocca di Geremia: “Voltarono verso di me il dorso, non il volto. Ma al tempo della loro sventura”, cioè della morte, “diranno: Àlzati e salvaci! Dove sono i tuoi dèi”, cioè i piaceri e le ricchezze, “che ti sei procurato? Si alzino loro e ti liberino nel tempo della tua sventura” (Ger 2,27-28). O anche: hanno il dorso contro il tempio e adorano il sole nascente coloro che disprezzano la povertà, l’umiltà e le sofferenze dei giusti, e proclamano felici quelli che abbondano di piaceri e di ricchezze.
Gerusalemme, che significa “pacifica”, raffigura la vita nuova, cioè la vita di penitenza. Dice Isaia: “Il mio popolo dimorerà in una pace meravigliosa, nelle tende della fiducia e nella quiete della ricchezza” (Is 32,18). Felice condizione, nella quale c’è la grazia della coscienza tranquilla, la fiducia della condotta santa, la ricchezza della carità fraterna. Perciò, come la stella richiamò i Magi dall’oriente, così la grazia divina richiama i peccatori dalla vanità del mondo alla penitenza, affinché ricerchino il nato Re, cercandolo lo trovino e trovatolo lo adorino.
“Dov’è il Re dei Giudei, che è nato?”. Vale a dire: Dov’è il Re di coloro che confessano i loro peccati, il Re dei penitenti? Cercano il Re dei penitenti, che è nato in loro, coloro che promettono di fare penitenza. Noi, dicono, che abitavamo in oriente, che eravamo presi dalla vanità del mondo, abbiamo visto la sua stella, cioè abbiamo ricono­sciuto la sua grazia, e così “per mezzo di lui”, per sua grazia, “siamo venuti ad adorarlo” (Mt 2,2).

II. il turbamento di erode

4. “ Il re Erode, sentendo ciò, restò turbato” (Mt 2,3). Il diavolo, il re della turba turbata, si turba! Anche il mondo si turba, quando sente che Cristo è ormai nato nei penitenti e vede anche altri peccatori convertirsi a lui per opera della grazia. Satana freme al vedere che il suo regno si riduce e il Regno di Cristo si allarga ogni giorno di più. Leggiamo nell’Esodo: “Disse il faraone al suo popolo: Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Venite, opprimiamolo in tutti i modi, perché non cresca ancor più di numero” (Es 1,9-10).
L’astuzia del diavolo opprime i figli di Dio con la suggestione, la malizia del mondo li opprime con la bestemmia e con l’ingiuria. Continua infatti l’Esodo: “Gli Egiziani odiavano i figli d’Israele e li facevano soffrire insultandoli, e resero loro amara la vita” (Es 1,13-14). Tormento (in lat. frixorium, padella per friggere, o griglia), tormento dei giusti è la vita dei peccatori! Dice il salmo: “Moab è il vaso della mia speranza” (Sal 59,10). Moab s’interpreta “dal padre”, cioè coloro che vengono da quel padre che è il diavolo; essi sono “il vaso della speranza” perché anche gli empi vivono per i giusti, cioè per la loro utilità, per il loro vantaggio.
Erode dunque restò turbato. Erode s’interpreta “gloria della pelle”. Egli restò turbato perché era nato quel Re povero che dice: “Io non ricevo gloria dagli uomini” (Gv 5,41), e “Io non cerco la mia gloria (Gv 8,50). “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36). Erode, gloria della pelle, resta turbato, perché vede il suo splendore cambiarsi in negrezza, il suo lusso e la sua effeminatezza in ruvidezza, come dice Isaia: “Invece del profumo raffinato ci sarà il fetore, invece della cintura una corda, invece di una chioma ricciuta la calvi­zie, e invece della fascia pettorale il cilicio” (Is 3,24). E queste parole non hanno bisogno di commento perché nei penitenti si avverano alla lettera.
Vedi il sermone della domenica XIV dopo Pentecoste, seconda parte.
Leggiamo ancora nell’Esodo: “Ora tògliti i tuoi ornamenti e poi saprò che cosa dovrò farti” (Es 33,5). Per questo “La regina Ester cercò rifugio presso il Signore, sgomenta per il pericolo che sovrastava. Deposte le vesti regali, indossò vesti adatte al pianto e al lutto; e invece dei vari profumi si cosparse la testa di cenere e di immondi­zie; mortificò con digiuni il suo corpo, e con i capelli sconvolti si aggirava per le stanze nelle quali prima viveva in letizia”(Est 14,1-2).
Ester, nome che s’interpreta “nascosta”, raffigura l’anima penitente che si apparta dalla dissipazione del mondo e si rifugia nella solitudine dello spirito e talvol­ta anche del corpo; si rifugia presso il Signore, perché in nessuno se non in lui c’è rifugio dal pericolo del peccato, che sempre le è presente e la minaccia, e quindi ne ha paura. Si toglie le vesti della gloria, indossa gli indumenti della penitenza e, invece dei profumi dei vari piaceri, si cosparge il capo, cioè la mente, con la cenere della sua fragilità e con le immondizie della propria iniquità; insiste nei digiuni, e ripensa con angoscia a tutti i luoghi nei quali prima si divertiva. Questo è ciò che dice Gregorio della Maddalena: “Quanti erano stati i piaceri provati in se stessa, tanti furono i sacrifici (le espiazioni) che a se stessa impose”.

III. l’offerta dei tre magi

5. “Ed ecco, la stella che avevano visto in oriente...” (Mt 2,9). O misericordia di Dio, che mai dimentica di aver pietà! Infatti è subito vicino a chi ritorna a lui. Dice Isaia: “Tu invocherai, e il Signore ti esaudirà; chiamerai, ed egli dirà: èccomi!” (Is 58,9), “perché io, il Signore Dio tuo, sono misericordioso” (Dt 4,31).
“Ed ecco la stella”. I Magi erano andati da Erode, e avevano perduto di vista la stella. E questo sta ad indicare i recidivi che, ritornando al diavolo, ossia al peccato mortale, perdono la grazia; quando invece se ne liberano, allora la riacquistano. Dice infatti Geremia: “Si dice comunemente: Se un uomo ripudia la moglie ed essa, allontanatasi da lui, si sposa con un altro uomo, forse che ritornerà ancora da lui? Quella donna non è forse immonda e contaminata? Tu invece, che pure hai fornicato con molti amanti”, cioè con i demoni e i peccati, “tuttavia ritorna da me, dice il Signore?” (Ger 3,1).
“Ed ecco che la stella li precedeva” (Mt 2,9). Troviamo la concordanza nell’Esodo: “Il Signore li precedeva per indicare loro la strada: di giorno con una colonna di nubi, di notte con una colonna di fuoco, per essere loro di guida nel cammino in entrambi i tempi” (Es 13,21). Di giorno la colona di nubi era contro l’ardore del sole, di notte la colonna di fuoco era contro le tenebre, perché potessero difendersi dai serpenti. Osserva che l’illuminazione della grazia divina è detta “colonna” perché sostiene, “di nubi”, perché raffredda il calore del sole, cioè il calore della prosperità terrena, “di fuoco”, contro il freddo dell’infedeltà, contro le tenebre delle avversità e contro il veleno della suggestione diabolica.
“Finché giunse e si fermò sopra la casa dov’era il bambino” (Mt 2,9). Ecco la fine della fatica, la meta del viaggio, la gioia di chi cerca, il premio di chi trova. “Gioisca il cuore di coloro che ti cercano” (Sal 104,3, o Gesù; e se gioiscono quelli che ti cercano, quanto più gioiranno quelli che ti trovano? La stella procede, la colonna precede. Quella indica la strada alla culla del Salvatore, questa alla Terra Promessa: e nella culla c’è la Terra Promessa dove scorre il miele della divinità e il latte dell’umanità. Corri dunque dietro alla stella, affrettati dietro alla colonna, perché ti guidano alla vita. Faticherai poco, arriverai presto, e troverai il desiderio dei santi, il gaudio degli angeli.

6. “Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia” (Mt 2,10). Fa’ attenzione, perché in queste parole è indicata una triplice gioia, quella che deve provare colui che riacquista la grazia perduta. Deve gioire perché non è morto mentre era in peccato mortale e si sarebbe dannato eternamente; perché è stato riportato alla grazia, che non ha meritato; perché, se persevererà, sarà condotto alla gloria. Di questa triplice gioia dice Isaia: “Esultando gioirò nel Signore, e l’anima mia si allieterà nel mio Dio” (Is 61,10).
“Ed entrando nella casa” (Mt 2,11). Racconta Luca che “il figlio maggiore, indignato, non voleva entrare in casa” (Lc 15,25.28); invece il figlio prodigo vi era già entrato, perché era già rientrato in se stesso (cf. Lc 15,17). È stato detto agli apostoli: “Per via non salutate nessuno” (Lc 10,4). Chi è sulla via, è fuori, e chi è fuori, è fuori di casa, e quindi è indegno di essere salutato. Anzi, come dice Amos: “In tutte le piazze ci sarà pianto, e a tutti coloro che sono fuori si dirà: Guai, guai!” (Am 5,16).
“Trovarono il fanciullo con Maria, sua Madre, e prostratisi lo adorarono” (Mt 2,11). Poiché entrano, trovano; e perché trovano, si prostrano e adorano. Nel fanciullo e in Maria sono indicate l’innocenza e la purezza; nel fatto che si prostrano il disprezzo di sé; e nel fatto che adorano l’ossequio della fede. Ecco dunque che i penitenti entrano nella casa della propria coscienza e trovano l’innocenza (l’innocuità) nei riguardi del prossimo, la purezza nei riguardi di se stessi; e di ciò non si insuperbiscono, ma si prostrano con la faccia a terra e adorano devotamente e fedelmente colui che ha dato loro tutte queste grazie.
“Ed entrati nella casa” – forse era quel diversorio, albergo, di cui parla Luca –, “trovarono il bambino con Maria, sua madre”. Osserva la Glossa: Perché, insieme con Maria, non fu trovato dai Magi anche Giuseppe? Perché da quel fatto non fosse dato motivo di ingiusto sospetto a quei popoli che sùbito, appena nato il Salvatore, gli avevano mandato sùbito “le loro primizie”, i loro primi rappresentanti, ad adorarlo.
“Aprirono i loro scrigni” (i loro tesori) (Mt 2,11). La Glossa: Guardiamoci bene dallo scoprire i nostri tesori lungo la via; aspettiamo che siano passati i nemici, per poterli offrire solo a Dio dal segreto del cuore. Il re Ezechia, che mostrò agli stranieri i tesori [del tempio], venne punito nei suoi discendenti(cf. 4Re 20,12-19). Desidera essere derubato, colui che porta un tesoro pubblicamente per la via (Gregorio).

7. “Gli offrirono i doni: oro, incenso e mirra” (Mt 2,11). L’oro si richiama al tributo (che si pagava al re), l’incenso ai sacrifici, e la mirra alla sepoltura dei morti. Per mezzo di questi tre doni vengono proclamate in Cristo la potestà regale, la maestà divina e la mortalità umana. In altro senso: nell’oro, che è lucente e compatto, e quando è battuto non scricchiola, è indicata la vera povertà, che non viene oscurata dalla fuliggine dell’avari­zia, non si gonfia al vento delle cose temporali. Una virtù salda (in lat. res solida, una sostanza compatta, un monastero concorde) fa lo stesso: davanti agli scandali non si turba e non replica con mormorazioni.
In Arabia, nome che significa “sacra”, ci sono delle piante dalle quali si ricavano l’in­censo e la mirra. Coloro che ne sono proprietari vengono chiamati in arabo sacri. Quando incidono o vendemmiano queste piante, essi non partecipano a funerali e non si contaminano in rapporti con donne. L’incenso, una pianta grandissima e frondosa, con una corteccia leggerissima, produce un succo aromatico come quello del mandorlo. L’incenso è chiamato in lat.thus, da tùndere, pestare, o anche dal termine greco Theòs, Dio, in onore del quale viene bruciato. L’incenso viene spesso mescolato con resina e altre sostanze gommose, ma si distingue lo stesso per le sue proprietà. Infatti l’incen­so, posto sulla brace, arde, mentre la resina fuma e le sostanze gommose si liquefano.
L’albero dell’incenso raffigura la preghiera devota, che è grandissima per la contemplazione, frondosa per la carità fraterna, giacché intercede sia per l’amico che per il nemico; ha una scorza sottilissima, cioè si manifesta all’esterno con la benevolneza; ed emette il succo delle lacrime, profumatissimo e olezzante al cospetto di Dio.
È detto nel Cantico dei Cantici: “Sorgi, o aquilone!”, vale a dire: Allontànati, o diavolo!, “e vieni tu, o austro”, cioè Spirito Santo; “soffia nel mio giardino”, cioè nella mia mente, “e si effondano i suoi aromi”, cioè le lacrime! (Ct 4,16). Questo succo è il ristoro dei peccatori, come il latte di mandorlo è il ristoro degli ammalati. Colui che prega si batte il petto e la preghiera sale a Dio. Ma ahimè! Oggi l’orazione devota viene guastata con una mescolanza avariata, cioè con la resina della vanagloria, come negli ipocriti, e con la gomma del denaro come nei chierici sventurati che pregano e celebrano le messe per i soldi. La vera devozione si infiamma del fuoco dell’amore divino, mentre quella guastata dalla vanità manda fumo, e quella corrotta dalla cupidigia si squaglia.
L’albero della mirra si spinge fino a cinque cubiti di altezza. Il succo che da esso emana spontaneamente è ritenuto più pregiato, mentre lo è meno quello estratto tagliando la corteccia. La mirra, così chiamata da “amarezza”, simboleggia l’amara sofferenza del cuore o del corpo, il cui primo cùbito è il pensiero della morte, il secondo la presenza del giudice severo nel giudizio, il terzo la sua sentenza irrevocabile, il quarto la geen­na inestinguibile, ilquinto la compagnia di tutti gli uomini perversi e la penitenza (lat. poena tenax), cioè i tormenti assolutamente inevitabili e continui inflitti dai demoni.
Se la sofferenza esce spontaneamente da quest’albero, è più preziosa, cioè più accètta a Dio; invece quella che è prodotta dalle ferite delle infermità o delle avversità, ha minor valore.

8. I Magi dunque “offrirono al Signore oro, incenso e mirra”. Così anche i veri penitenti gli offrono l’oro della totale povertà, l’incenso della devota orazione, la mirra della volontaria sofferenza. E fa’ attenzione che l’incenso della devota orazione e la mirra della salutare penitenza non si trovano se non in Arabia, cioè nella santa chiesa. Quelli che vogliono conservarle e coglierne i frutti, devono allontanare se stessi dal cadavere del denaro accumulato ingiustamente, sul quale gli avari si gettano come il corvo sulla carogna, e dai contatti lussuriosi.
Supplichiamo dunque il Signore che ci conceda di offrirgli questi tre doni, per poter poi regnare con lui, che è benedetto nei secoli. Amen.

IV. sermone allegorico

9 . “In quel tempo saranno portati doni al Signore degli eserciti da un popolo diviso e lacerato, da un popolo terribile, dopo il quale non ce ne fu un altro di uguale; da una gente che attende ed è oppressa, la cui terra è devastata dai fiumi” (Is 18,7). Questa profezia di Isaia si riferisce alla conversione dei gentili, le cui primizie, cioè i Magi, portarono oggi i doni di oro, incenso e mirra a Gesù Cristo, Signore degli eserciti, vale a dire delle schiere angeliche. Dice infatti Malachia: “Dall’oriente all’occi­dente è grande il mio nome tra le genti, e in ogni luogo viene sacrificata e offerta al mio nome un’oblazione pura, dice il Signore degli eserciti” (Ml 1,11).
Ora, per conoscere meglio la miseria del popolo gentile e la misericordia di Dio liberatore, trattiamo brevemente i due argomenti.
Quel popolo gentile (pagano), del quale anche noi siamo figli, era separato da Dio a motivo del culto degli idoli; per questo Osea, parlando dei Giudei idolatri, che si erano uniti a Geroboamo, dice: “Efraim si è alleato agli idoli, màndalo via,” perché “il suo convito è separato” (Os 4,17-18). Geroboamo, il cui nome s’interpreta “divisione del popo­lo", “fabbricò due vitelli d’oro e disse al popolo: Non salite a Gerusalemme; ecco i tuoi dèi, Israele, che ti hanno fatto uscire dalla terra d’Egitto” (3Re 12,28).
Allo stesso modo il popolo pagano era lacerato dall’oppressione del diavolo, come si legge nelle Passioni di alcuni apostoli: il diavolo privava della vista, dell’udito e della capacità di camminare coloro che lo adoravano e li opprimeva con varie tribolazioni. Dice infatti Marco: “E gridando e straziandolo crudelmente [il diavolo] uscì da lui” (Mc 9,25). E altrove: “Coloro che erano tormentati dagli spiriti immondi, venivano guariti” (Lc 6,18).
Il popolo pagano era anche terribile per la ferocia dell’animo. Dice Abacuc: “Ecco, io solleverò i Caldei, popolo feroce e impetuoso, che percorre in lungo e largo la terra per impadronirsi di tende non sue” (Ab 1,6). I tre magi vennero appunto dalle terre dei Persiani e dei Caldei, ad adorare il Signore. Dopo quel popolo, “non ce ne furono altri così terribili; infatti Abacuc continua: “È feroce e terribile. Più veloci dei leopardi sono i suoi cavalli e più agili dei lupi che escono la sera” (Ab 1,7.8.).
“Gente in attesa”. Attendeva che si avverasse quella profezia di Balaam di cui parla la Scrittura: “Spunterà una stella da Giacobbe e sorgerà uno scettro” (Nm 24,17), ossia un uomo, “da Israele”. “Gente oppressa” da tante guerre. Come opprimeva gli altri, così era anche dagli altri oppressa: i Caldei distrussero Gerusalemme e a loro volta furono poi distrutti da Ciro e da Dario. Ed erano oppressi non solo dagli estranei, ma si distruggevano anche tra loro. Continua infatti Isaia: “La loro terra era distrutta dai loro fiumi”, cioè dalle guerre intestine e da spargimento di sangue.
Rendiamo grazie a Gesù Cristo che da un tale popolo, infedele e barbaro, si è degnato di accettare oggi i doni, primizie di fede, e da esso formare la sua chiesa, che siamo noi. A lui onore e gloria nei secoli eterni. Amen.

V. sermone morale

10. “In quel tempo saranno portati doni al Signore degli eserciti da un popolo avulso da Dio”, ecc. In questo passo di Isaia sono indicati i sette peccati mortali nei quali erano invischiati in passato alcuni, che ora per grazia di Dio si sono convertiti a penitenza. Popolo avulso da Dio per la superbia, lacerato per l’avarizia, tremendo per l’ira; gente in attesa per la vanagloria, oppressa per l’invidia; terra distrutta dai due fiumi, che sono la gola e la lussuria. Parliamo di ognuno singolarmente.
“Popolo avulso, staccato”, popolo di superbi. Come il vento sradica la pianta, così la superbia separa l’uomo da Dio; dice infatti Giobbe: “Come un albero sradicato ha strappato, cioè ha permesso che fosse strappata, da me la speranza” (Gb 19,10). La speranza dell’uomo è Dio, dal quale viene separato quando, dal vento della superbia, viene staccato dalla radice dell’umiltà. E non deve far meraviglia, perché la superbia ha questo nome in quanto va al di sopra di sé (lat. super se iens), mentre umiltà vuol dire bassezza della terra (lat. humi vilitas). Il superbo sale, Dio discende. Che cosa c’è di più contrapposto e antitetico? Il superbo in alto, Dio in basso. Il superbo è sradicato da Dio: a lui non è gradito, e a lui non si unisce se non l’umile. La radice è la vita dell’albero, l’umiltà è la vita dell’uomo. Se uno ha nel suo giardino un bell’albero da frutto, non gli dispiacerebbe forse che venisse sradicato dal vento? Ma certamente! Quanto maggior dispiacere, quando il vento della superbia strappa l’anima nostra dal suo creatore, il quale detesta la superbia più di tutti i peccati, resiste ai superbi (cf. 1Pt 5,5) e rovescia i potenti! (cf. Lc 1,52). La superbia infatti è soggetta a crolli; chi è in basso è più sicuro di colui che sta in alto. Dice giustamente Seneca: “Lìmitati alle cose piccole, dalle quali non puoi cadere”.

11. “Popolo lacerato” è il popolo degli avari e degli usurai. Come gli uccelli rapaci e le belve lacerano un cadavere, così i demoni lacerano con l’avarizia il cuore dell’avaro e dell’usuraio. Dice Naum: “Guai a te, città di sangue, tutta falsità, piena di lacerazioni. La rapina non si allontanerà da te” (Na 3,1). L’anima vive per mezzo del sangue (cf. Dt 12,33), il povero delle proprie misere sostanze. Togli all’uomo il sangue, al povero le sue sostanze: entrambi muoiono. I predoni quindi e gli usurai, che si im­padroniscono delle cose altrui, sono detti “città di sangue”.
Si legge nella Storia Naturale che gli elefanti hanno il sangue freddissimo e che i draghi velenosi ardono dalla vo­glia di bere quel sangue e quindi, quando ci sono i grandi calori, si avventano contro gli elefanti per succhiarne il sangue. Così anche gli avari e gli usurai, contagiati dal veleno dell’avarizia, bramano le cose altrui. Il sangue dei poveri è freddo e così tutte le loro povere cose. La pover­tà e la nudità non permettono loro di riscaldarsi, ma quan­do si accende in essi il calore della necessità, allora gli avari sopraggiungono, fanno loro dei prestiti per poi succhiarne il sangue.
“Guai a te, dunque, città di sangue, tutta falsità!” La falsità sta nella lingua, la lacerazione nel cuore, la rapina nelle mani. Leggiamo nel secondo libro dei Maccabei che Giuda, tagliata la lingua del sacrilego Nicànore (dopo avergli tagliato la testa), la fece gettare a pezzetti agli uccelli (cf. 2Mac 15,33). Nicànore, nome che s’interpreta “lucer­na eretta”, raffigura l’usuraio che sembra eretto e luminoso, e invece ben presto crollerà e si spegnerà. Dice Giobbe: “Quante volte si spegne la lampada degli empi?” (Gb 21,17); e ancora: “Non si spegnerà forse la luce del malvagio e mai più brillerà la fiamma del suo focolare? La luce si offuscherà nella sua tenda e la lucerna che sta sopra di lui si spegnerà” (Gb 18,5-6).
La lucerna ha due cose: la luce e il calore. Così l’avaro ha la luce del favore umano, e il calore, la brama del lucro temporale. Quando si spegnerà con la morte, sarà privato di entrambe le cose. E poiché la sua lingua fu divisa e ripartita in molte falsità, sarà tagliata e consegnata ai demoni; oppure, per i peccati della lingua sarà punito in modi diversi. Il suo cuore è lacerato perché accumula con fatica, custodisce con paura e perde con dispiacere. Il diavolo tiene stretto a se tutto intero l’usu­raio: con la rapina lo tiene per le mani perché non faccia elemosine; con il tormento di accumulare lo tiene per il cuore perché non pensi al bene; con la falsità lo tiene per la lingua perché non preghi e non dica mai nulla di buono.

12. “Popolo terribile” sono gli iracondi o i furiosi. Del diavolo o dell’uomo iracondo Giobbe dice: “Concentra tutto il suo furore contro di me; minacciandomi digrigna i denti. Con occhi terribili mi fissa il mio nemico” (Gb 16,10). Vedi quant’è spaventoso un uomo infiammato dall’ira: corruga la fronte, ha la faccia terrea, le narici fremen­ti, gli occhi torvi, le labbra livide, digrigna i denti e nelle mani ha la sferza. Un uomo così ridotto altro non sembra che una bestia feroce. Infatti dice Isaia: “Non ci fu dopo di lui un altro uomo” (Is 18,7) così crudele, così bestiale.
Nel libro di Daniele è detto di Nabucodonosor: “Sia cambiato in lui il cuore di uomo, e gli sia dato un cuore di belva” (Dn 4,13). Non si deve intendere che Nabucodonosor abbia subìto un cambiamento nel corpo, bensì che ebbe un’alienazione mentale, un delirio. Gli fu tolto l’uso della lingua per parlare, e gli sembrava di essere un bue nella parte anteriore e un leone in quella posteriore. Così colui che è infiammato dall’ira subisce un’aliena­zione e non è più capace di parlare rettamente. Prima si agita come un bue con le corna, prorompendo in minacce e bestemmie, poi, come un leone, si avventa e dilania con le mani e con i piedi.

13. “Gente che attende” sono gli ipocriti e i vanagloriosi: per ogni opera che fanno attendono, come i mercenari, la ricompensa della lode. Leggiamo nel vangelo: “Il mercenario vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge” (Gv 10,12). Il lupo è la suggestione diabolica, le pecore sono i pensieri buoni. Chi agisce non per amore della giustizia ma per la ricompensa della vanagloria, cede con facilità alla tentazione, e se si era proposto qualcosa di bene, lascia andare tutto. Di questa attesa è detto nel salmo: “Si disseteranno tutte le bestie della campagna; aspetteranno gli ònagri nella loro sete” (Sal 103,11).
Ci sono due specie di ònagri: uno senza corna in Spagna, e uno con le corna in Grecia. Due sono pure le specie di ipocriti. Alcuni ipocriti sono, per così dire, senza corna: essi, quando ricevono un’ingiuria si mostrano mansueti, sono calmi nella tribolazio­ne, e talvolta rifiutano gli onori; ma fanno tutto questo per calcolo, perché, fingendo di fuggire la gloria, in realtà la cercano. Gli altri ipocriti invece hanno le corna: sono quelli che alla prima parola ingiuriosa puntano le corna della superbia, e mostrano subito al di fuori ciò che sono al di dentro.
L’ònagro deriva il suo nome dal greco onos, asino, e dal latino ager, campo (l’ònagro è l’asino selvatico). “Il campo è il mondo” (Mt 13,38). Quindi gli ipocriti, sia quelli con le corna come quelli senza corna, sono gli asini del mondo, al quale servono; aspettano la ricompensa della lode e del denaro, e tutto questo “nella loro sete”, della quale bruciano, e non si danno pace finché non bevono qualcosa. Invece “le bestie della campagna”, cioè i semplici, “si dissetano in letizia alle fonti del Salvatore” (Is 12,3), che sono due: la grazia e la gloria. Alla prima fonte si dissetano di fatto, alla seconda nella speranza, in attesa di poterlo fare nella visione.

14. “Gente oppressa” sono gli invidiosi, tormentati e oppressi dall’altrui felicità. Neanche i tiranni di Sicilia inventarono un supplizio più tormentoso dell’invidia (Orazio).
Leggiamo nel primo libro dei Re: “Saul ne uccise mille, e Davide diecimila. Saul ne fu molto dispiaciuto e gli parvero cattive quelle parole. Diceva: Ne hanno attribuito a Davide diecimila e a me soltanto mille. Che cosa gli manca, se non il regno? E da quel giorno in poi Saul non guardò più di buon occhio Davide” (1Re 18,7-9). Ecco come era tormentato, ecco come si sentiva oppresso.

15. “I due fiumi” simboleggiano la gola e la lussuria. Il Cobar e il Tigri sono i due fiumi di Babilonia (cf. Ez 1,1.3; Dn 10,4).
Cobar s’interpreta “pesantezza”, e raffigura la gola, della quale Luca dice: “State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in gozzoviglie, ubriachezze e affanni della vita, e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso” (Lc 21,34).
Tigri, fiume che prende il nome da una fiera (la tigre) variamente maculata, di incredibile forza e rapidità di corsa, raffigura la lussuria. Questo vizio è coperto delle macchie dei vari piaceri della vita; è forte quando tenta, ed è veloce, perché anche il piacere passa presto. Dice il beato Bernar­do: Tormenta il futuro, non sazia il presente, non delizia il passato. Questi due fiumi “distruggono la terra”, sconvolgono cioè la mente di chi è loro schiavo e lentamente la di­struggono.
Abbiamo visto la miseria di tutti costoro; consideriamo anche la misericordia che li libera da tanta sciagura. Ecco: in questo tempo di bontà e di misericordia divina, i pecca­tori di cui abbiamo parlato, portano a Gesù Cristo, il Signore degli eserciti, cioè delle celesti schiere, il dono della loro penitenza.
Anche voi, o carissimi, portate, insieme con i magi, i vostri doni: l’oro della contrizione, l’incenso della confessione, la mirra della soddisfazione, ossia dell’opera di penitenza, per poter essere degni di ricevere dallo stesso Gesù Cristo il dono della gloria in cielo.
Ve lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen.

lunedì 6 gennaio 2014

La ricerca della verità era per loro più importante della derisione del mondo, apparentemente intelligente.

Santi Re Magi. Bassorilievo.
Chiesa di Sant'Eustorgio, Milano. Dove si conservano
le Reliquie dei Santi Gasparre Melchiorre e Baldassarre 

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Domenica, 6 gennaio 2013


Cari fratelli e sorelle!
Per la Chiesa credente ed orante, i Magi d’Oriente che, sotto la guida della stella, hanno trovato la via verso il presepe di Betlemme sono solo l’inizio di una grande processione che pervade la storia. Per questo, la liturgia legge il Vangelo che parla del cammino dei Magi insieme con le splendide visioni profetiche di Isaia 60 e del Salmo 72, che illustrano con immagini audaci il pellegrinaggio dei popoli verso Gerusalemme. Come i pastori che, quali primi ospiti presso il Bimbo neonato giacente nella mangiatoia, personificano i poveri d’Israele e, in genere, le anime umili che interiormente vivono molto vicino a Gesù, così gli uomini provenienti dall’Oriente personificano il mondo dei popoli, la Chiesa dei gentili – gli uomini che attraverso tutti i secoli si incamminano verso il Bambino di Betlemme, onorano in Lui il Figlio di Dio e si prostrano davanti a Lui. La Chiesa chiama questa festa “Epifania” – l’apparizione, la comparsa del Divino. Se guardiamo il fatto che, fin da quell’inizio, uomini di ogni provenienza, di tutti i Continenti, di tutte le diverse culture e tutti i diversi modi di pensiero e di vita sono stati e sono in cammino verso Cristo, possiamo dire veramente che questo pellegrinaggio e questo incontro con Dio nella figura del Bambino è un’Epifania della bontà di Dio e del suo amore per gli uomini (cfr Tt 3,4).




Seguendo una tradizione iniziata dal Beato Papa Giovanni Paolo II, celebriamo la festa dell’Epifania anche quale giorno dell’Ordinazione episcopale per quattro sacerdoti che d’ora in poi, in funzioni diverse, collaboreranno al Ministero del Papa per l’unità dell’unica Chiesa di Gesù Cristo nella pluralità delle Chiese particolari. Il nesso tra questa Ordinazione episcopale e il tema del pellegrinaggio dei popoli verso Gesù Cristo è evidente. Il Vescovo ha il compito non solo di camminare in questo pellegrinaggio insieme con gli altri, ma di precedere e di indicare la strada. Vorrei, però, in questa liturgia, riflettere con voi ancora su una domanda più concreta. In base alla storia raccontata da Matteo possiamo sicuramente farci una certa idea di quale tipo di uomini debbano essere stati coloro che, in seguito al segno della stella, si sono incamminati per trovare quel Re che, non soltanto per Israele, ma per l’umanità intera avrebbe fondato una nuova specie di regalità. Che tipo di uomini, dunque, erano costoro? E domandiamoci anche se, malgrado la differenza dei tempi e dei compiti, a partire da loro si possa intravedere qualcosa su che cosa sia il Vescovo e su come egli debba adempiere il suo compito.



Gli uomini che allora partirono verso l’ignoto erano, in ogni caso, uomini dal cuore inquieto. Uomini spinti dalla ricerca inquieta di Dio e della salvezza del mondo. Uomini in attesa, che non si accontentavano del loro reddito assicurato e della loro posizione sociale forse considerevole. Erano alla ricerca della realtà più grande. Erano forse uomini dotti che avevano una grande conoscenza degli astri e probabilmente disponevano anche di una formazione filosofica. Ma non volevano soltanto sapere tante cose. Volevano sapere soprattutto la cosa essenziale. Volevano sapere come si possa riuscire ad essere persona umana. E per questo volevano sapere se Dio esista, dove e come Egli sia. Se Egli si curi di noi e come noi possiamo incontrarlo. Volevano non soltanto sapere. Volevano riconoscere la verità su di noi, e su Dio e il mondo. Il loro pellegrinaggio esteriore era espressione del loro essere interiormente in cammino, dell’interiore pellegrinaggio del loro cuore. Erano uomini che cercavano Dio e, in definitiva, erano in cammino verso di Lui. Erano ricercatori di Dio.



Ma con ciò giungiamo alla domanda: come dev’essere un uomo a cui si impongono le mani per l’Ordinazione episcopale nella Chiesa di Gesù Cristo? Possiamo dire: egli deve soprattutto essere un uomo il cui interesse è rivolto verso Dio, perché solo allora egli si interessa veramente anche degli uomini. Potremmo dirlo anche inversamente: un Vescovo dev’essere un uomo a cui gli uomini stanno a cuore, che è toccato dalle vicende degli uomini. Dev’essere un uomo per gli altri. Ma può esserlo veramente soltanto se è un uomo conquistato da Dio. Se per lui l’inquietudine verso Dio è diventata un’inquietudine per la sua creatura, l’uomo. Come i Magi d’Oriente, anche un Vescovo non dev’essere uno che esercita solamente il suo mestiere e non vuole altro. No, egli dev’essere preso dall’inquietudine di Dio per gli uomini. Deve, per così dire, pensare e sentire insieme con Dio. Non è solo l’uomo ad avere in sé l’inquietudine costitutiva verso Dio, ma questa inquietudine è una partecipazione all’inquietudine di Dio per noi. Poiché Dio è inquieto nei nostri confronti, Egli ci segue fin nella mangiatoia, fino alla Croce. “Cercandomi ti sedesti stanco, mi hai redento con il supplizio della Croce: che tanto sforzo non sia vano!”, prega la Chiesa nel Dies irae. L’inquietudine dell’uomo verso Dio e, a partire da essa, l’inquietudine di Dio verso l’uomo devono non dar pace al Vescovo. È questo che intendiamo quando diciamo che il Vescovo dev’essere soprattutto un uomo di fede. Perché la fede non è altro che l’essere interiormente toccati da Dio, una condizione che ci conduce sulla via della vita. La fede ci tira dentro uno stato in cui siamo presi dall’inquietudine di Dio e fa di noi dei pellegrini che interiormente sono in cammino verso il vero Re del mondo e verso la sua promessa di giustizia, di verità e di amore. In questo pellegrinaggio, il Vescovo deve precedere, dev’essere colui che indica agli uomini la strada verso la fede, la speranza e l’amore.



Il pellegrinaggio interiore della fede verso Dio si svolge soprattutto nella preghiera. Sant’Agostino ha detto una volta che la preghiera, in ultima analisi, non sarebbe altro che l’attualizzazione e la radicalizzazione del nostro desiderio di Dio. Al posto della parola “desiderio” potremmo mettere anche la parola “inquietudine” e dire che la preghiera vuole strapparci alla nostra falsa comodità, al nostro essere chiusi nelle realtà materiali, visibili e trasmetterci l’inquietudine verso Dio, rendendoci proprio così anche aperti e inquieti gli uni per gli altri. Il Vescovo, come pellegrino di Dio, dev’essere soprattutto un uomo che prega. Deve essere in un permanente contatto interiore con Dio; la sua anima dev’essere largamente aperta verso Dio. Le sue difficoltà e quelle degli altri, come anche le sue gioie e quelle degli altri le deve portare a Dio, e così, a modo suo, stabilire il contatto tra Dio e il mondo nella comunione con Cristo, affinché la luce di Cristo splenda nel mondo.



Torniamo ai Magi d’Oriente. Questi erano anche e soprattutto uomini che avevano coraggio, il coraggio e l’umiltà della fede. Ci voleva del coraggio per accogliere il segno della stella come un ordine di partire, per uscire – verso l’ignoto, l’incerto, su vie sulle quali c’erano molteplici pericoli in agguato. Possiamo immaginare che la decisione di questi uomini abbia suscitato derisione: la beffa dei realisti che potevano soltanto deridere le fantasticherie di questi uomini. Chi partiva su promesse così incerte, rischiando tutto, poteva apparire soltanto ridicolo. Ma per questi uomini toccati interiormente da Dio, la via secondo le indicazioni divine era più importante dell’opinione della gente. La ricerca della verità era per loro più importante della derisione del mondo, apparentemente intelligente.



Come non pensare, in una tale situazione, al compito di un Vescovo nel nostro tempo? L’umiltà della fede, del credere insieme con la fede della Chiesa di tutti i tempi, si troverà ripetutamente in conflitto con l’intelligenza dominante di coloro che si attengono a ciò che apparentemente è sicuro. Chi vive e annuncia la fede della Chiesa, in molti punti non è conforme alle opinioni dominanti proprio anche nel nostro tempo. L’agnosticismo oggi largamente imperante ha i suoi dogmi ed è estremamente intollerante nei confronti di tutto ciò che lo mette in questione e mette in questione i suoi criteri. 
Perciò, il coraggio di contraddire gli orientamenti dominanti è oggi particolarmente pressante per un Vescovo. Egli dev’essere valoroso. E tale valore o fortezza non consiste nel colpire con violenza, nell’aggressività, ma nel lasciarsi colpire e nel tenere testa ai criteri delle opinioni dominanti. Il coraggio di restare fermamente con la verità è inevitabilmente richiesto a coloro che il Signore manda come agnelli in mezzo ai lupi. “Chi teme il Signore non ha paura di nulla”, dice il Siracide (34,16). Il timore di Dio libera dal timore degli uomini. Rende liberi!

In questo contesto mi viene in mente un episodio degli inizi del cristianesimo che san Luca narra negli Atti degli Apostoli. Dopo il discorso di Gamaliele, che sconsigliava la violenza verso la comunità nascente dei credenti in Gesù, il sinedrio chiamò gli Apostoli e li fece flagellare. Poi proibì loro di predicare nel nome di Gesù e li rimise in libertà. San Luca continua: “Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno … non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo” (At 5,40ss). Anche i successori degli Apostoli devono attendersi di essere ripetutamente percossi, in maniera moderna, se non cessano di annunciare in modo udibile e comprensibile il Vangelo di Gesù Cristo. E allora possono essere lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per Lui. Naturalmente vogliamo, come gli Apostoli, convincere la gente e, in questo senso, ottenerne l’approvazione. Naturalmente non provochiamo, ma tutt’al contrario invitiamo tutti ad entrare nella gioia della verità che indica la strada. L’approvazione delle opinioni dominanti, però, non è il criterio a cui ci sottomettiamo. Il criterio è Lui stesso: il Signore. Se difendiamo la sua causa, conquisteremo, grazie a Dio, sempre di nuovo persone per la via del Vangelo. Ma inevitabilmente saremo anche percossi da coloro che, con la loro vita, sono in contrasto col Vangelo, e allora possiamo essere grati di essere giudicati degni di partecipare alla Passione di Cristo.



I Magi hanno seguito la stella, e così sono giunti fino a Gesù, alla grande Luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (cfr Gv 1,9). Come pellegrini della fede, i Magi sono diventati essi stessi stelle che brillano nel cielo della storia e ci indicano la strada. I santi sono le vere costellazioni di Dio, che illuminano le notti di questo mondo e ci guidano. San Paolo, nella Lettera ai Filippesi, ha detto ai suoi fedeli che devono risplendere come astri nel mondo (cfr 2,15).



Cari amici, ciò riguarda anche noi. Ciò riguarda soprattutto voi che, in quest’ora, sarete ordinati Vescovi della Chiesa di Gesù Cristo. Se vivrete con Cristo, a Lui nuovamente legati nel Sacramento, allora anche voi diventerete sapienti. Allora diventerete astri che precedono gli uomini e indicano loro la via giusta della vita. In quest’ora noi tutti qui preghiamo per voi, affinché il Signore vi ricolmi con la luce della fede e dell’amore. Affinché quell’inquietudine di Dio per l’uomo vi tocchi, perché tutti sperimentino la sua vicinanza e ricevano il dono della sua gioia. Preghiamo per voi, affinché il Signore vi doni sempre il coraggio e l’umiltà della fede. Preghiamo Maria che ha mostrato ai Magi il nuovo Re del mondo (Mt 2,11), affinché ella, quale Madre amorevole, mostri Gesù Cristo anche a voi e vi aiuti ad essere indicatori della strada che porta a Lui. Amen.





© Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana

domenica 5 gennaio 2014

EPIFANIA DI NOSTRO SIGNORE



 
L'anno liturgico
di dom Prosper
Guéranger


EPIFANIA DI NOSTRO SIGNORE

Il nome della festa.
La festa dell'Epifania è la continuazione del mistero di Natale; ma si presenta, sul Ciclo cristiano, con una sua propria grandezza. Il nome che significa Manifestazione, indica abbastanza chiaramente che essa è destinata ad onorare l'apparizione di Dio in mezzo agli uomini.
Questo giorno, infatti, fu consacrato per parecchi secoli a festeggiare la, Nascita del Salvatore; e quando i decreti della Santa Sede obbligarono tutte le Chiese a celebrare, insieme con Roma, il mistero della Natività il 25 dicembre, il 6 gennaio non fu completamente privato della sua antica gloria. Gli rimase il Nome di Epifania con la gloriosa memoria del Battesimo di Gesù Cristo, di cui la tradizione ha fissato a questo giorno l'anniversario.
La Chiesa Greca dà a questa Festa il venerabile e misterioso nome di Teofania, celebre nell'antichità per significare un'Apparizione divina. Ne parlano Eusebio, san Gregorio Nazianzeno, sant'Isidoro di Pelusio, e, nella Chiesa Greca, è il titolo proprio di questa ricorrenza liturgica.
Gli Orientali chiamano ancora questa solennità i santi Lumi, a motivo del Battesimo che si conferiva un tempo in questo giorno in memoria del Battesimo di Gesù Cristo nel Giordano. È noto come il Battesimo sia chiamato dai Padri illuminazione, e quelli che l'hanno ricevuto illuminati.
Infine, noi chiamiamo comunemente, in Francia, tale festa la Festa dei Re, in ricordo dei Magi la cui venuta a Betlemme è celebrata oggi in modo particolare.
L'Epifania condivide con le Feste di Natale, di Pasqua, della Ascensione e di Pentecoste, l'onore di essere qualificata con il titolo di giorno santissimo, nel Canone della Messa; e viene elencata fra le feste cardinali, cioè fra le solennità sulle quali si basa l'economia dell'Anno liturgico. Una serie di sei domeniche prende nome da essa, come altre serie di domeniche si presentano sotto il titolo di Domeniche dopo PasquaDomeniche dopo la Pentecoste.

Il giorno dell'Epifania del Signore è dunque veramente un gran giorno; e la letizia nella quale ci ha immersi la Natività del divino Bambino deve effondersi nuovamente in questa solennità. Infatti, questo secondo irradiamento della Festa di Natale ci mostra la gloria del Verbo incarnato in un nuovo splendore; e senza farci perdere di vista le bellezze ineffabili del divino Bambino, manifesta in tutta la luce della sua divinità il Salvatore che ci è apparsonel suo amore. Non sono più soltanto pastori che son chiamati dagli Angeli a riconoscere il VERBO FATTO CARNEma è il genere umano, è tutta la natura che la voce di Dio stesso chiama ad adorarlo e ad ascoltarlo.

I misteri della festa.
Nei misteri della divina Epifania, tre raggi del sole di giustizia scendono fino a noi. Questo sesto giorno di gennaio, nel ciclo della Roma pagana, fu assegnato alla celebrazione del triplice trionfo d'Augusto, autore e pacificatore dell'Impero; ma quando il pacifico Re, il cui impero è eterno e senza confini, ebbe con il sangue dei suoi martiri, la vittoria della propria Chiesa, questa Chiesa giudicò, nella sapienza del cielo che l'assiste, che un triplice trionfo dell'Imperatore immortale dovesse sostituire, nel rinnovato Ciclo, i tre trionfi del figlio adottivo di Cesare.
Il 6 gennaio restituì dunque al venticinque dicembre la memoria della Nascita del Figlio di Dio; ma in cambio tre manifestazioni della gloria di Cristo vennero ad adunarsi in una stessa Epifania: il mistero dei Magi venuti dall'Oriente sotto la guida della Stella per onorare la divina Regalità del Bambino di Betlemme; il mistero del Battesimo di Cristo proclamato Figlio di Dio nelle acque del Giordano dalla voce stessa del Padre celeste; e infine il mistero della potenza divina di quello stesso Cristo che trasforma l'acqua in vino al simbolico banchetto delle Nozze di Cana.

Il giorno consacrato alla memoria di questi tre prodigi è insieme l'anniversario del loro compimento? È una questione discussa. Ma basta ai figli della Chiesa che la loro Madre abbia fissato la memoria di queste tre manifestazioni nella Festa di oggi, perché i loro cuori applaudano i trionfi del divin Figlio di Maria.
Se consideriamo ora nei particolari il multiforme oggetto della solennità, notiamo innanzi tutto che l'adorazione dei Magi è il mistero che la santa Romana Chiesa onora oggi con maggior compiacenza. A celebrarlo è impiegata la maggior parte dei canti dell'Ufficio e della Messa, e i due grandi Dottori della Sede Apostolica san Leone e san Gregorio, sembra che abbiano voluto insistervi quasi unicamente, nelle loro Omelie sulla festa, benché confessino con sant'Agostino, san Paolino di Noia, san Massimo di Torino, san Pier Crisologo, sant'Ilario di Arles e sant'Isidoro di Siviglia, la triplicità del mistero dell'Epifania. La ragione della preferenza della Chiesa Romana per il mistero della Vocazione dei Gentili deriva dal fatto che questo grande mistero è sommamente glorioso a Roma che, da capitale della gentilità quale era stata fino allora, è diventata la capitale della Chiesa cristiana e dell'umanità, per la vocazione celeste che chiama oggi tutti i popoli alla mirabile luce della fede, nella persona dei Magi
La Chiesa Greca non fa oggi menzione speciale dell'adorazione dei Magi. Essa ha unito questo mistero a quello della Nascita del Salvatore negli Uffici per il giorno di Natale. Tutte le sue lodi, nella solennità odierna, hanno per unico oggetto il Battesimo di Gesù Cristo.


Questo secondo mistero dell'Epifania è celebrato insieme con gli altri due dalla Chiesa Latina, il 6 gennaio. Se ne fa più volte menzione nell'Ufficio di oggi; ma siccome la venuta dei Magi alla culla del neonato Re attira soprattutto l'attenzione della Roma cristiana in questo giorno, è stato necessario, perché il mistero della santificazione delle acque fosse degnamente onorato, legare la sua memoria a un altro giorno. Dalla Chiesa d'Occidente è stata scelta l'Ottava dell'Epifania per onorare in modo particolare il Battesimo del Salvatore.
Essendo inoltre il terzo mistero dell'Epifania un po' offuscato dallo splendore del primo, benché sia più volte ricordato nei canti della Festa, la sua speciale celebrazione è stata ugualmente rimessa a un altro giorno, e cioè alla seconda Domenica dopo l'Epifania.
Alcune Chiese hanno associato al mistero del cambiamento dell'acqua in vino quello della moltiplicazione dei pani, che ha infatti parecchie analogie con il primo, e nel quale il Salvatore manifestò ugualmente la sua potenza divina; ma la Chiesa Romana tollerando tale usanza nel rito Ambrosiano e in quello Mozarabico, non l'ha mai accolta, per non venir meno al numero di tre che deve segnare nel Ciclo i trionfi di Cristo il 6 gennaio, e anche perché san Giovanni ci dice nel suo Vangelo che il miracolo della moltiplicazione dei pani ebbe luogo nella prossimità della Festa di Pasqua, il che non potrebbe attribuirsi in alcun modo al periodo dell'anno nel quale si celebra l'Epifania.

Diamoci dunque completamente alla letizia di questo bel giorno e nella Festa della Teofania, dei santi Lumi, dei Re Magi, consideriamo con amore la luce abbagliante del nostro divino Sole che sale a passi da gigante, come dice il Salmista (Sal 18) e che riversa su di noi i fasci d'una luce tanto dolce quanto splendente. Ormai i pastori accorsi alla voce dell'Angelo hanno visto accrescere la loro schiera fedele; il Protomartire, il Discepolo prediletto, la bianca coorte degli Innocenti, il glorioso san Tommaso, Silvestro, il Patriarca della Pace, non sono più soli a vegliare sulla culla dell'Emmanuele; le loro file si aprono per lasciar passare i Re dell'Oriente, portatori dei voti e delle adorazioni di tutta l'umanità. L'umile stalla è diventata troppo stretta per un simile afflusso di persone; Betlemme appare vasta come il mondo. Maria, il Trono della divina sapienza, accoglie tutti i membri di quella corte con il suo grazioso sorriso di Madre e di Regina; presenta il Figlio alle adorazioni della terra e alle compiacenze del cielo. Dio si manifesta agli uomini, perché è grande, ma si manifesta attraverso Maria, perché è misericordioso.

Ricordi storici.
Nei primi secoli della Chiesa troviamo due avvenimenti notevoli che hanno illustrato il grande giorno che ci raduna ai piedi del Re pacifico. Il 6 gennaio del 361, l'imperatore Giuliano già apostata nel cuore, alla vigilia di salire sul trono imperiale, che presto la morte di Costanzo avrebbe lasciato vacante, si trovava a Vienna nelle Gallie. Aveva ancora bisogno dell'appoggio di quella Chiesa cristiana nella quale si diceva perfino che avesse ricevuto il grado di Lettore, e che tuttavia si preparava ad attaccare con tutta l'astuzia e tutta la ferocia della tigre. Nuovo Erode, artificioso come il primo, volle inoltre, in questo giorno dell'Epifania, andare ad adorare il Neonato Re. Nella relazione del suo panegirista Ammiano Marcellino, si vede il filosofo incoronato uscire dall'empio santuario dove consultava segretamente gli aruspici, avanzare quindi sotto i portici della Chiesa e in mezzo all'assemblea dei fedeli offrire al Dio dei cristiani un omaggio tanto solenne quanto sacrilego.
Undici anni dopo, nel 372, anche un altro Imperatore penetrava nella chiesa, sempre nel giorno dell'Epifania. Era Valente, cristiano per il Battesimo come Giuliano, ma persecutore, in nome dell'Arianesimo, di quella stessa Chiesa che Giuliano perseguitava in nome dei suoi dei impotenti e della sua sterile filosofia. La liberta evangelica d'un santo Vescovo abbatte Valente ai piedi di Cristo Re nello stesso giorno in cui la politica aveva costretto Giuliano ad inchinarsi davanti alla divinità del Galileo.

San Basilio usciva allora allora dal suo celebre colloquio con il prefetto Modesto, nel quale aveva vinto tutta la forza del secolo con la libertà della sua anima episcopale. Valente giunse a Cesarea con l'empietà ariana nel cuore, e si reca alla basilica dove il Pontefice celebrava con il popolo la gloriosa Teofania. "Ma - come dice eloquentemente san Gregorio Nazianzeno - l'Imperatore ha appena varcato la soglia del sacro tempio, che il canto dei salmi risuona al suo orecchio come un tuono. Egli contempla sbalordito la moltitudine del popolo fedele simile ad un mare.
L'ordine, e la bellezza del santuario risplendono ai suoi occhi con una maestà più angelica che umana. Ma ciò che lo colpisce più di tutto, è l'Arcivescovo ritto davanti al suo popolo, con il corpo, gli occhi e la mente raccolti come se nulla di nuovo fosse accaduto, tutto intento a Dio e all'altare. Valente osserva anche i ministri sacri, immobili nel raccoglimento, pieni del sacro terrore dei Misteri. Mai l'Imperatore aveva assistito a uno spettacolo così sublime. La sua vista si oscura, il capo gli gira, e la sua anima è presa dallo sbigottimento e dall'orrore".
Il Re dei secoli, Figlio di Dio e Figlio di Maria, aveva vinto. Valente sentì svanire i suoi progetti di violenza contro il santo Vescovo, e se in quel momento non adorò il Verbo consustanziale al Padre, confuse almeno i suoi omaggi esteriori a quelli del gregge di Basilio. Al momento dell'offertorio, avanzò verso la balaustra, e presentò i suoi doni a Cristo nella persona del suo Pontefice. Il timore che Basilio non lo volesse ricevere agitava con tanta violenza il principe che la mano dei ministri del santuario dovette sostenerlo perché non cadesse, nel suo turbamento, ai piedi stessi dell'altare.
Così, in questa grande solennità, la Regalità del neonato Salvatore è stata onorata dai potenti di questo mondo che si son visti, secondo la profezia del Salmo, abbattuti e prostrati bocconi a terra ai suoi piedi (Sal 71).
Ma dovevano sorgere nuove generazioni d'imperatori e di re che avrebbero piegato i ginocchi e presentato a Cristo Signore l'omaggio d'un cuore devoto e ortodosso. Teodosio, Carlo Magno, Alfredo il Grande, Stefano d'Ungheria, Edoardo il Confessore, Enrico II Imperatore, Ferdinando di Castiglia, Luigi IX di Francia tennero questo giorno in grande devozione, e furono orgogliosi di presentarsi insieme con i Re Magi ai piedi del divino Bambino e di offrirgli i loro cuori come quelli gli avevano offerto i loro tesori. Alla corte di Francia s'era anche conservata, fino al 1378 e oltre (come testimonia il continuatore di Guillaume de Nangis) l'usanza che il Re cristianissimo, giunto all'offertorio, presentasse dell'oro, dell'incenso e della mirra come un tributo all'Emmanuele.


Usanze.
Ma questa rappresentazione dei tre mistici doni dei Magi non era in uso solo nella corte dei re. Nel medioevo, anche la pietà dei fedeli presentava al Sacerdote, perché lo benedicesse, nella festa dell'Epifania, dell'oro, dell'incenso e della mirra; e si conservavano in onore dei tre Re quei commoventi segni della loro devozione verso il Figlio di Maria, come un pegno di benedizione per le case e per le famiglie. Tale usanza è rimasta ancora in alcune diocesi della Germania.
Più a lungo è durata un'altra usanza, ispirata anch'essa dall'età di fede. Per onorare la regalità dei Magi venuti dall’Oriente verso il Bambino di Betlemme, si eleggeva a sorte, in ogni famiglia, un Re per la festa dell'Epifania. In un banchetto animato da una santa letizia, e che ricordava quello delle nozze di Galilea, si rompeva una focaccia di cui una parte serviva a designare l’invitato al quale era attribuita quella momentanea regalità. Due porzioni della focaccia erano prese per essere offerte al Bambino Gesù e a Maria, nella persona dei poveri che godevano anch'essi in quel giorno del trionfo del Re umile e povero. Le gioie della famiglia si confondevano con quelle della religione; i legami della natura, dell'amicizia, della vicinanza si rinforzavano attorno alla tavola dei Re; e se la debolezza poteva apparire qualche volta nell'abbandono di un banchetto, l'idea cristiana non era lontana e splendeva in fondo ai cuori.

Beate ancor oggi le famiglie nel cui seno si celebra con cristiana pietà la festa dei Re! Per troppo tempo un falso zelo ha trovato da ridire contro queste semplici usanze nelle quali la gravità dei pensieri della fede si univa alle effusioni della vita domestica. Si faceva guerra a queste tradizioni della famiglia con il pretesto del pericolo dell'intemperanza, come se un banchetto privo di ogni linea religiosa fosse meno soggetto agli eccessi. Con uno spirito di ricerca alquanto difficile a giustificarsi, si è giunti fino a pretendere che la focaccia dell'Epifania e la innocente regalità che l'accompagnava non fossero altro che un'imitazione dei Saturnali pagani, come se fosse la prima volta che le antiche feste pagane avessero dovuto subire una trasformazione cristiana. Il risultato di sì imprudenti conclusioni doveva essere ed è stato, infatti, su questo punto come su tanti altri, di isolare dalla Chiesa i costumi della famiglia, di espellere dalle nostre tradizioni una manifestazione religiosa, di favorire quella che è chiamata la secolarizzazione della società.
Ma torniamo a contemplare il trionfo del regale Bambino la cui gloria risplende in questo giorno con tanta luce. La santa Chiesa ci inizierà essa stessa ai misteri che dobbiamo celebrare. Rivestiamoci della fede e dell'obbedienza dei Magi; adoriamo, con il Precursore, il divino Agnello al di sopra del quale si aprono i cieli; prendiamo posto al mistico banchetto di Cana, presieduto dal nostro Re tre volte manifestato, e tre volte glorioso. Ma, nei due ultimi prodigi, non perdiamo di vista il Bambino di Betlemme, e nel Bambino di Betlemme non cessiamo inoltre di vedere il gran Dio del Giordano, e il padrone degli elementi.

MESSA
A Roma, la Stazione è a San Pietro in Vaticano, presso la tomba del Principe degli Apostoli a cui sono state affidate in eredità da Cristo tutte le genti.
EPISTOLA (Is 60, 1-6). - Sorgi, ricevi la luce, o Gerusalemme; la tua luce brilla, e sopra te è spuntata la gloria del Signore. Ecco: le tenebre copriranno la terra, e la caligine i popoli, ma sopra te sorgerà il Signore, e sopra te si vedrà la sua gloria. Le nazioni cammineranno alla tua luce, e i re allo splendore che da te emana. Gira intorno lo sguardo e mira: tutti si radunano per venire a te. Da lungi verranno i tuoi figli, e le tue figlie ti sorgeranno a lato. Allora tu vedrai e sarai piena di gioia; si meraviglierà e si dilaterà il tuo cuore quando verso di te si rivolgeranno i popoli del mare, le potenze delle nazioni a te verranno. Tu sarai inondata da un numero sterminato di cammelli, dai dromedari di Madian e d'Efa; tutti quelli di Saba porteranno oro e incenso e celebreranno le lodi del Signore.


O gloria infinita di questo gran giorno, nel quale comincia il movimento delle genti verso la Chiesa, la vera Gerusalemme! O misericordia del Padre celeste che si è ricordato di tutti i popoli sepolti nelle ombre della morte e del peccato! Ecco che la gloria del Signore si è levata sulla Città santa; e i Re si mettono in cammino per andarlo a contemplare. L'angusta Gerusalemme non può più contenere la calca di gente; è inaugurata un'altra città santa, verso di essa si dirigerà la moltitudine dei gentili di Madian e d'Efa. Apri il seno nella tua materna gioia, o Roma! Le tue armi ti avevano assoggettato degli schiavi; oggi sono dei figli che giungono in folla alle tue porte; solleva gli occhi e guarda: è tutto tuo; l'umanità intera viene a prendere nel tuo seno una nuova nascita. Apri le tue braccia materne, accogli noi tutti che veniamo dal Mezzogiorno e dall'Aquilone portando l'incenso e l'oro a Colui che è il Re tuo e nostro.

VANGELO (Mt 2,1-12). - Nato Gesù in Betlem di Giuda al tempo del re Erode, ecco arrivare a Gerusalemme dei Magi dall'oriente e dire: Dov'è il nato re dei Giudei? Vedemmo la sua stella in oriente e siamo venuti per adorarlo. Udito questo, Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme. E radunati tutti i principi dei sacerdoti e gli Scribi del popolo, domandò loro dove avesse a nascere il Cristo. Ed essi gli risposero: A Betlem di Giuda; così infatti è stato scritto dal profeta: E tu Betlem, terra di Giuda, non sei la minima tra i capoluoghi di Giuda, che da te uscirà il duce che governerà Israele mio popolo. Allora, chiamati nascostamente i Magi, Erode volle sapere da loro minutamente il tempo della stella che era loro apparsa, e indirizzandoli a Betlem, disse : Andate e cercate con diligenza il fanciullo, e quando l'avrete trovato fatemelo sapere affinché io pure venga ad adorarlo. Essi, udito il re, partirono; ed ecco la stella, che avevano veduta in oriente, precederli, finché, giunta sopra il luogo ov'era il fanciullo, si fermò. Vedendo la stella, provarono grande gioia; ed entrati nella casa, trovarono il bambino con Maria sua Madre, e prostratisi lo adorarono; poi, aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. E avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per altra via.

I Magi, primizie della Gentilità, sono stati introdotti presso il gran Re che cercavano, e noi tutti li abbiamo seguiti. Il Bambino ha sorriso a noi come a loro. Tutte le fatiche di quel lungo viaggio che porta a Dio sono dimenticate; l'Emmanuele rimane con noi, e noi con lui. Betlemme, che ci ha ricevuti, ci custodisce per sempre, perché a Betlemme possediamo il Bambino, e Maria Madre sua. In quale posto del mondo troveremmo tesori così preziosi? Supplichiamo questa Madre incomparabile di presentarci essa stessa il Figlio che è la nostra luce, il nostro amore, il nostro Pane di vita nel momento in cui ci avvicineremo all'altare verso il quale ci conduce la Stella della fede. Fin da questo momento apriamo i nostri tesori; teniamo in mano il nostro oro, il nostro incenso e la nostra mirra, per il Neonato. Egli gradirà questi doni con bontà, e non sarà in ritardo con noi. Quando ci ritireremo come i Magi, lasceremo come loro i nostri cuori sotto il dominio del divino Re, e anche noi per un'altra strada, per una via del tutto nuova, rientreremo in quella patria mortale che deve ancora trattenerci, fino al giorno in cui la vita e la luce eterna verranno a far sparire in noi tutto ciò che vi è di ombra e di tempo.

L'ANNUNCIO DELLA PASQUA
Nelle cattedrali e nelle altre chiese insigni, dopo il canto del Vangelo si annuncia al popolo il giorno della prossima festa di Pasqua. L'usanza, che risale ai primi secoli della Chiesa, ricorda il misterioso legame che unisce le grandi solennità dell'Anno liturgico, come pure l'importanza che i fedeli devono attribuire alla celebrazione della Pasqua che è la più importante di tutte, e il centro di tutta la religione. Dopo aver onorato il Re delle genti nell'Epifania, ci rimarrà dunque da celebrare, a suo tempo, il Trionfatore della morte. Ecco la forma nella quale si dà il solenne annuncio:

Sappiate, o fratelli carissimi, che, come abbiamo gustato, per la divina misericordia, l'allegrezza della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, così noi vi annunziamo oggi le prossime gioie della Risurrezione del medesimo Dio e Salvatore. Il giorno ... sarà la Domenica di Settuagesima. Il ... sarà il giorno delle Ceneri e l'inizio del digiuno della santissima Quaresima. Il ... celebreremo con gaudio la santa Pasqua di nostro Signore Gesù Cristo. La seconda domenica dopo Pasqua si terrà il Sinodo Diocesano. Il ... si celebrerà l'Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo. Il ... la festa di Pentecoste. Il ... la festa del Corpus Domini. Il ... sarà la prima Domenica dell'Avvento di Nostro Signore Gesù Cristo, al quale va l'onore e la gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.


 Veniamo anche noi, a nostra volta, ad adorarti, o Cristo, in questa regale Epifania che raduna oggi ai tuoi piedi tutte le genti. Ricalchiamo le orme dei Magi, perché anche noi abbiamo visto la stella, e siamo accorsi. Gloria a te, o nostro Re, a te che dici nel Cantico di David: "Io sono stato fatto Re su Sion, sulla montagna santa, per annunciare la legge de] Signore. Il Signore m'ha detto che mi avrebbe dato in eredità le genti, e l'impero fino ai confini della terra. Or dunque, ascoltate, o re; istruitevi, o arbitri del mondo!" (Sal 2).
Presto, o Emmanuele, dirai con la tua stessa bocca: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra" (Mt 28), e qualche anno più tardi il mondo intero sarà sotto le tue leggi. Gerusalemme è già scossa; Erode trema sul suo trono; ma è vicina l'ora in cui gli araldi della tua venuta andranno ad annunciare alla terra intera che Colui che era l'atteso delle genti è arrivato. Partirà la parola che deve sottometterti il mondo, e si estenderà lontano come un immenso incendio. Invano i potenti della terra tenteranno di arrestarne il corso. Un Imperatore per farla finita, proporrà al Senato di iscriverti solennemente nel novero di quegli stessi dei che tu vieni a rovesciare; altri crederanno che sia possibile scalzare il tuo dominio con la carneficina dei tuoi soldati. Vani sforzi! Verrà il giorno in cui il segno della tua potenza adornerà le insegne pretoriane, il giorno in cui gli Imperatori vinti deporranno il loro diadema ai tuoi piedi e in cui la Roma così fiera cesserà di essere la capitale dell'impero della forza per diventare per sempre il centro del tuo impero pacifico e universale.
Noi vediamo spuntare l'alba di quel giorno meraviglioso. Le tue conquiste cominciano oggi stesso, o Re dei secoli! Dalle lontananze dell'Oriente infedele, tu chiami le primizie di quella gentilità che avevi abbandonata, e che costituirà d'ora in poi la tua stessa eredità. Non più distinzioni di Giudeo e di Greco, di Scita e di Barbaro. Se, per tanti secoli, la tua predilezione fu rivolta alla stirpe di Abramo, la tua preferenza andrà d'ora in poi a noi Gentili. Israele non fu che un popolo, e noi siamo numerosi come la sabbia del mare, come le stelle del firmamento. Israele fu posto sotto la legge del timore; a noi hai riservato la legge dell'amore. Fin da oggi tu cominci, o divino Re, ad allontanare da tè la Sinagoga che disprezza il tuo amore; oggi stesso accetti per Sposa la Gentilità, nella persona dei Magi. Presto la tua unione con essa sarà proclamata sulla croce, dall'alto della quale, volgendo le spalle all'ingrata Gerusalemme, stenderai le braccia verso la moltitudine dei popoli. O gioia ineffabile della tua Nascita! Ma ancora gioia ineffabile della tua Epifania, nella quale è concesso a noi, finora abbandonati, di accostarci a te, di offrirti i nostri doni e di vederli graditi dalla tua misericordia, o Emmanuele!
Ti siano rese grazie, o Bambino onnipotente, "per l'inenarrabile dono della fede" (2Cor 9,15), che ci porta dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce! Ma fa' che comprendiamo sempre tutto il significato di un dono così magnifico, e la santità di questo giorno in cui stringi alleanza con tutta la stirpe umana, per giungere con essa a quel sublime matrimonio di cui parla il tuo eloquente Vicario Innocente III: "Matrimonio - egli dice - che fu promesso al patriarca Abramo, giurato al re David, compiuto in Maria divenuta Madre, e oggi consumato, confermato e proclamato: consumato nell'adorazione dei Magi, confermato nel Battesimo del Giordano e proclamato nel miracolo dell'acqua mutata in vino". In questa festa nuziale in cui la Chiesa tua Sposa, appena nata, riceve già gli onori di Regina, canteremo, o Cristo, con tutto l'entusiasmo dei nostri cuori, la sublime Antifona delle Laudi in cui i tre misteri si fondono meravigliosamente in uno solo, quello della tua Alleanza con noi.

ANT. - Oggi la Chiesa si unisce al celeste Sposo: i suoi peccati sono lavati da Cristo nel Giordano; i Magi accorrono alle regali Nozze portando doni; l'acqua è mutata in vino e gli invitati del banchetto sono nella gioia. Alleluia.

PREGHIAMO
O Dio, che in questo giorno per mezzo di una stella rivelasti ai Gentili il tuo Unigenito, concedi a noi, che già ti conosciamo per mezzo della fede di giungere a contemplare lo splendore della tua gloria.


da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 202-212