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domenica 4 maggio 2014

Benedetto XVI e il latino


Benedetto XVI e il latino

Piace richiamare l'attenzione sul Latino, lingua sacra da preservare. Per chi dovesse affacciarsi solo ora al blog aggiungo il link a questo testo.

Intervista a Ivano Dionigi, magnifico rettore dell'Università di Bologna
Nello scrigno dei tesori che il pontificato di Benedetto XVI lascia in eredità alla Chiesa c’è anche una rinnovata attenzione al latino. Un amore, quello per la classicità, coltivato a lungo dal teologo Joseph Ratzinger e culminato nell’istituzione della Pontificia Accademia di latinità. Secondo il presidente del nuovo organo, Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna, quella auspicata dal Pontefice tedesco non è un’attività da archeologi ma un’opera «di cultura» in grado di dare solide fondamenta a tutta la Chiesa e di rispondere alle domande del tempo attuale.

Professore, da dove nasce questa premura per il latino da parte di Ratzinger?
Da uomo colto quale è, nasce di certo dalla sua sensibilità, dal suo gusto estetico letterario. Ma a questo si aggiunge la consapevolezza che il latino nella storia è stato la lingua dell’«imperium», dello «studium» e dell’«ecclesia». Inoltre questa lingua ha in sé tre proprietà che trovano corrispondenza nelle caratteristiche della fede: l’eredità, l’universalità e l’immutabilità. Innanzitutto, infatti, essa è stata la lingua dei Padri della Chiesa, la lingua dei teologi, la lingua del diritto canonico, la lingua dei Concili, la lingua della liturgia. Poi è la lingua con cui la Chiesa si è rivolta a tutti i popoli. Infine, nella fissità di quella che tutti considerano una lingua morta si rispecchia l’immutabilità del nucleo della fede. È chiaro quindi che alcune letture della scelta di Ratzinger di rilanciare il latino sono limitate e banali. A spingere Benedetto XVI in questa direzione non è stata, come qualcuno ha detto, la volontà di ricomporre la frattura con i lefebvriani o un semplice ritorno al passato, ma qualcosa di più grande e complesso, qualcosa che viene da lontano. D’altra parte l’attenzione alla lingua e alla cultura latine – che andrebbero accompagnate anche con quelle greche classiche – è un’eredità che Benedetto XVI ha raccolto dai Pontefici suoi predecessori. E forse l’allarme è partito anche dal fatto che oggi pure tra il clero il latino è poco conosciuto.

Ma a cosa può servire il latino oggi alla Chiesa?
Negli ultimi tre lustri a forza di chiederci cosa serve e cosa non serve, in realtà, ci siamo tutti impoveriti. A forza di ragionare in questo modo ci siamo creati un deficit di pensiero e di attenzione all’anima, come ha ben compreso Benedetto XVI. Certo si potrebbe obiettare che oggi la Chiesa ha ben altre priorità, come l’evangelizzazione. Ma con il "benaltrismo" si fa poco, anche perché io credo che oggi la riscoperta del latino non abbia solo un valore fondativo, di ritorno alle radici. In realtà questo rilancio può offrire un contraltare alla modernità, può essere sanamente e positivamente antagonistico al presente.

E in che modo questo sarebbe costruttivo?
Il latino è una lingua tutta imperniata sulla temporalità, sul verbo, è una lingua «sub specie temporis». Questo è il «di più» della riscoperta della lingua e della cultura latina oggi, in un momento in cui tutto è sincronico e c’è la dittatura del presente. In latino anche l’«ordo verborum», l’ordine delle parole, ti fa riscoprire la dimensione del tempo e la vita dell’uomo è tempo. Noi oggi abbiamo bisogno della storia. Inoltre il latino insegna la complessità.

Lei auspica, insomma, che tutti studino il latino?
No, non penso che tutti obbligatoriamente debbano sapere il latino. Ma credo che, come ha saputo ben cogliere anche Ratzinger, il latino sia una ricchezza da spendere. Per questo sono convinto della necessità che nella Chiesa e nelle università ci sia ancora chi capisce il latino, lo insegna e lo sa scrivere. È necessario per permetterci di continuare oggi a essere mediatori culturali: per tradurre i padri, gli autori classici e tutto il patrimonio della Chiesa bisogna sottoporre i testi alle sollecitazioni del tempo attuale e allora a domande nuove bisogna dare risposte nuove. È falsa, insomma, la contrapposizione tra i «progressisti» che sono per l’inglese e internet e i «conservatori» che sono per il latino.     Continua a leggere... 

domenica 1 dicembre 2013

BINOMIO INSCINDIBILE

R. DE MATTEILATINO E CHIESA CATTOLICA, BINOMIO INSCINDIBILE.

Il prof. de Mattei  -al Convegno Summorum Pontificum- ha affrontato un argomento che, potremmo dire, è coessenziale al nome stesso del nostro blog (Messainlatino): Il latino, lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità.

La tesi dello storico, sostenuta con dovizia di riferimenti documentali  che qui, ovviamente, non possiamo riportare, è che la lingua latina sia costitutiva della stessa liturgia cristiana: non, quindi, elemento accidentale che possa essere tranquillamente abrogato o modificato.

E' vero che la prima liturgia cristiana fu espressa nel greco della koiné, ma fin dai primi secoli a Roma l'utilizzo del latino si diffonde, secondo quanto possiamo ricostruire dai resti epigrafici.

Papa San Damaso, nel IV secolo, benché spagnolo di nascita, rafforzò la romanità, nelle sue due articolazioni: da un lato la petrinitas, cioè il primato del romano pontefice, dall'altro la latinitas, ossia la romanità della Chiesa . A lui si deve l'adozione della lingua latina come lingua universale della Chiesa, che esprime una rinnovata Weltanschauung della Chiesa.

Quando Teodosio il Grande vinse la battaglia del Frigido contro i pagani barbari, si saldò definitivamente l'unione tra il romano impero e la Fede cristiana. Fino alla riforma liturgica (1970), si continuò quindi a pregare per il romanus imperator, anche se il Sacro Romano Impero era stato dissolto nel 1806 e la stessa casa di Asburgo, che aveva per secoli cinto il serto imperiale, era decaduta nel 1918.

La liturgia della Chiesa non nasce nel IV-V secolo, ma in quel tempo essa fu codificata in stretta aderenza al traditum: in un rescritto del 416 Innocenzo I attesta come la Liturgia romana rappresentava l'antico costume fedelmente conservato. E' la tradizione di sempre, però romanamente sfrondata delle ampollosità che in Oriente ebbero tanto successo.

Il latino arrivò con la fede là dove le legioni romane non misero mai piede, come in Irlanda: ecco la risposta migliore contro chi crede che la Fede si sia inculturata nella latinità, e non viceversa. Le genti irlandesi non parlavano affatto il latino, e l'evangelizzazione avvenne in gaelico, ma accolsero la liturgia nella sua pura forma latina, la fecero propria e la difesero nei secoli contro le più dure persecuzioni.

Lungi dall'inculturarsi nella (inesistente) latinità irlandese, la Fede trapiantò la latinità nell'Irlanda e da là, grazie ai 40 benedettini irlandesi, si diffuse alla Scozia e pure in Inghilterra a sud del Vallo di Adriano, dove era quasi estinto perfino il ricordo dell'Impero romano. Da lì, ulteriormente, in Germania, altro territorio ove le legioni erano state fermate nella selva di Teutoburgo e la latinità romana non era prima pervenuta.

Il greco ambì a divenire come il latino lingua universale, a causa del nazionalismo del patriarcato di Costantinopoli. Il patriarca ambiva a soppiantare il Papa, sul rilievo del primato politico della Seconda Roma (Costantinopoli) rispetto alla decaduta Roma che non aveva più imperatori. Ma in Oriente il Patriarca era soggetto al cesaropapismo imperiale e non valeva molto più di un funzionario imperiale. Il greco scomparve gradualmente, poi, per effetto delle invasioni musulmane.

Quando l'Impero romano rinacque con Carlo Magno, la latinitas riassunse anche un ruolo politico di unificazione; e quando nel Basso Medioevo iniziarono a diffondersi le lingue nazionali, l'uso del latino non declinò, e restò la lingua internazionale fino al XVIII secolo, la lingua della Chiesa, della scienza, della diplomazia.

Vi è una necessità, sia pure storica e non metafisica, di relazione tra il cattolicesimo e la lingua latina. Quel binomio che il padre Chénu, alla vigilia del Concilio, si proponeva di spezzare eliminando il latino dalla vita della Chiesa. Il movimento liturgico pure auspicava un rinnovamento in tal senso in nome di una maggior partecipazione dei fedeli alla liturgia. 
Ma a questi aneliti rispondeva Giovanni XXIII con la Veterum Sapientia, promulgata con la massima solennità (il giorno della Cattedra di Pietro, in San Pietro, davanti a numerosi cardinali e vescovi), che alla vigilia del Concilio, e come ad orientarne gli esiti, chiedeva non solo di conservare l'uso del latino, ma di incrementarne e restaurarne l'utilizzo. Il documento riconosce che la Chiesa ha necessità di una sua lingua propria, non nazionale ma universale, sacra e non ordinaria e volgare, e dal significato univoco e non mutevole nel tempo, per trasmettere la medesima dottrina: unica, per il suo governo, e sacra, per il suo rito. La Chiesa, ontologicamente immutabile, non può affidare alla fluttuazione linguistica la trasmissione delle sue Verità.

E' significativo che anche il codice canonico per le chiese orientali sia sempre stato in lingua latina.

Nessun'altra lingua al mondo possiede del latino le caratteristiche di universalità e, al tempo stesso, di essere aliena ai nazionalismi. La massoneria internazionale da sempre ricerca una società perfetta che parli un'unica lingua ed ha escogitato l'esperanto, però miseramente fallito; mai ha pensato di utilizzare allo stesso fine il latino, per odio alla Chiesa.

L'uso della lingua volgare è una caratteristica di tutte le eresie di questo millennio, a cominciare da quella catara.

*L'intervento del prof. de Mattei è stato interrotto a questo punto dall'arrivo dal card. Castrillòn Hoyos, che è stato accolto da un calorosissimo applauso.*

Ricorda la Genesi che la divisione delle lingue è conseguenza del peccato degli uomini. Gli Apostoli necessariamente evangelizzarono in tutte le lingue, ma il giorno di Pentecoste lo Spirito riportò tutti alla compresione unitaria delle lingue: logico quindi che la Chiesa di Dio si serva di un'unica lingua per tutti. 

La lingua latina, ricordava Giovanni XXIII, fu scelta dalla Provvidenza come lingua della Chiesa, portata ovunque dalle antiche vie consolari. L'unità linguistica resta un modello e un ideale; e se nella predicazione è giocoforza utilizzare la lingua vernacola, il rito e la liturgia richiedono l'unica lingua sacra. // Fu un grave errore del postconcilio che la Chiesa si facesse immanente al mondo rinunziando alla sua lingua, proprio quando l'incipiente mondializzazione avrebbe richiesto un gesto in senso esattamente contrario.

Oggi la Chiesa dovrebbe riaffermare la sua romanitas latinitas; e in esse trova pieno spazio il rito romano antico riportato alla Chiesa dal motu proprio Summorum Pontificum. Ricordando che Pio XII scriveva che il sacerdote che misconoscesse il latino era afflitto da una "deplorevole miseria intellettuale".
Lunga standing ovation finale.

SABATO 14 MAGGIO 2011                                           ENRICO

venerdì 13 settembre 2013

Preziosa intervista



Intervista fatta da Raymond Arroyo, direttore di EWTN News (Eternal Word Television Network -Global Catholic Network USA), e mandata in onda il 5 settembre 2003. Estratti

Raymond: Parliamo un poco del Concilio Vaticano II, in particolare dell' applicazione del Concilio. Lei ne ha parlato e scritto così tanto. Ritengo che per la gente della mia generazione la cosa che risalta di più nella fede, anche in quella dei nostri padri e dei padri dei nostri padri, è la liturgia, la Messa. Lei ha parlato di riforma della riforma, di riformare la riforma. Come pensa di attuarla? Come ritiene che possa concretamente prendere forma via via che andiamo avanti ?
Cardinale Ratzinger: In generale, ritengo che la riforma liturgica non sia stata applicata bene, perché si trattava di una idea generale. Oggi la liturgia è una cosa della comunità. La comunità rappresenta se stessa, e con la creatività dei preti o di altri gruppi si creano le loro liturgie particolari. Si tratta più della presenza delle loro esperienze ed idee personali, che dell'incontro con la Presenza del Signore nella Chiesa; e con questa creatività e questa auto-presentazione della comunità sta scomparendo l'essenza della liturgia.
Con l'essenza della liturgia noi possiamo superare le nostre proprie esperienze e ricevere ciò che non deriva da esse, ma che è un dono di Dio. Così penso che dobbiamo restaurare non tanto certe cerimonie, ma l'idea essenziale della liturgia - capire che nella liturgia non rappresentiamo noi stessi, ma riceviamo la grazia della presenza del Signore nella Chiesa del cielo e della terra. E mi sembra che l'universalità della liturgia sia essenziale. Definire la liturgia e ripristinare questa idea aiuterebbe anche ad essere più ubbidienti alle norme, non nel senso di un positivismo giuridico, ma proprio come condivisione, partecipazione a quello che ci è dato dal Signore nella Chiesa .

Raymond: E quel senso di sacrificio e di culto di cui Lei ha parlato così eloquentemente, come lo vede ripristinato in concreto? Assisteremo al ritorno della disposizione del prete "ad orientem", rivolto verso Est, che volge le spalle al popolo durante il Canone, al ritorno del latino, a più latino nella Messa?
Cardinale Ratzinger: "Versus orientem", direi che potrebbe essere un aiuto, perché si tratta realmente di una tradizione dei tempi apostolici. Non è solo una norma, ma è anche l'espressione della dimensione cosmica e della dimensione storica della liturgia. Noi celebriamo con il cosmo, con il mondo. È la direzione del futuro del mondo, della nostra storia rappresentata dal sole e dalle realtà cosmiche.
Io penso che oggi questa nuova scoperta del nostro rapporto con il mondo creato può essere capita anche dalla gente, forse meglio di 20 anni fa. E ancora, si tratta di una direzione comune - prete e popolo orientati insieme verso il Signore. Per questo penso che potrebbe essere un aiuto.
Da sempre, i gesti esteriori non sono semplicemente un rimedio in se stessi, ma possono essere un aiuto, perché si tratta della classica interpretazione di cos'è la direzione nella liturgia. In generale io penso che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: "io sono nella stessa Chiesa".


domenica 12 maggio 2013

Il latino e la Pontificia Accademia di Latinità



Benedetto XVI  usava il latino non solo nelle occasioni più solenni e ufficiali, come l’omelia tenuta in Sistina con i cardinali elettori il giorno dopo l’elezione al Soglio pontificio, ma anche nei suoi viaggi internazionali. 
Sorprese non poco sentire il Papa esprimersi in latino in Benin e in Camerun, due delle sue tappe nel continente africano.
Ci teneva così tanto, il teologo tedesco, che diede al mondo notizia della sua rinuncia al ministero petrino leggendo un breve testo in latino scritto personalmente con l’aiuto di pochi e fidati collaboratori. 
Qualche mese prima, a novembre, Benedetto XVI aveva istituito con un moto proprio la Pontificia Accademia di Latinità, affidandola a Ivano Dionigi, latinista di fama e attuale rettore dell’Università di Bologna. I motivi che avevano spinto Ratzinger a costituire quell’organo li spiegava proprio Dionigi in un’intervista ad Avvenire pubblicata a marzo: “C’è la consapevolezza che il latino nella storia è stato la lingua dell’imperium, dello studium e dell’ecclesia. Questa lingua ha in sé tre proprietà che trovano corrispondenza nelle caratteristiche della fede: l’eredità, l’universalità e l’immutabilità. E’ la lingua dei teologi, del diritto canonico, dei concili, della liturgia”. 

Ratzinger rifiutava l’idea che fosse una lingua per pochi eletti, simbolo del potere e retaggio di un passato che il Concilio Vaticano II aveva cercato di archiviare: “Il latino è l’idioma con cui la Chiesa si è rivolta a tutti i popoli. Rispecchia l’immutabilità della fede, continuava il presidente dell’Accademia. 

AMDG et BVM

domenica 11 novembre 2012

"Cari seminaristi, studiate il latino!"

Tibi gratias agimus, Pater sancte!

"Cari seminaristi, studiate il latino!"
Benedetto XVI



Mentre tutti pensavano che ormai le sorti del latino ecclesiastico fossero segnate per il peggio, ecco che nuovamente Benedetto XVI estrae un ... dinosauro dal suo cappello! Tira fuori un Motu proprio che viene, prima di tutto, ad istituire una Pontificia Accademia per lo studio e la diffusione della Lingua Latina, ma politicamente - mi si passi il termine - viene ad insistere presso quanti sono impegnati nella formazione del clero sull'importanza della conoscenza della lingua della Chiesa occidentale. E questo, come ricorda il Papa, per poter accedere alle fonti teologiche, cioè per non trovarsi domani una Chiesa tagliata fuori dalle proprie radici culturali e in balia di pochi, in alto, che potrebbero inventarsi via via nuove "tradizioni" o far filtrare verso la base ignara del suo passato, qualunque novità, spacciandola per antichissima (ma non serve che andate a vedere nei documenti... fidatevi....).
Il Papa non vuole che il latino sia considerato una conoscenza elitaria. Proprio in virtù della democratizzazione del sapere e dell'accesso più ampio possibile ai tesori del passato (e del presente), Benedetto XVI sottolinea ancora e ancora che la Chiesa riconosce il latino come lingua propria, non solo nella Liturgia (soprattutto lì), ma anche in ogni settore della sua vita culturale.
Speriamo che i rettori dei seminari e preposti alle istituzioni accademiche ecclesiali non facciano orecchio da mercante, e si convincano che è più importante insegnare il latino e l'inglese, che non martellare i chierici di corsi e corsetti che spezzettano il sapere e non mettono in mano gli strumenti culturali (cioè le lingue) perché ognuno possa continuare anche dopo gli studi i propri approfondimenti personali, sia volti alla storia (con il latino), sia al presente che va al di là del proprio naso nazionale (con l'inglese).

Leggete qui le anticipazioni già fatte ad Agosto e i commenti...
Qui la notizia da RadioVaticana e qui sotto, ecco il Motu Proprio, insieme a due articoli dallo Statuto dell'Accademia sugli gli scopi e mezzi della nuova istituzione oggi fondata:

LITTERAE APOSTOLICAE
MOTU PROPRIO DATAE
"LATINA LINGUA"
De Pontificia Academia Latinitatis condenda

1. Latina Lingua permagni ab Ecclesia Catholica Romanisque Pontificibus usque est aestimata, quandoquidem ipsorum propria habita est lingua, qui eandem cognoscendam et diffundendam assidue curaverunt, cum Evangelii nuntium in universum orbem transmittere valeret, quemadmodum in Constitutione Apostolica Veterum sapientia Decessor Noster beatus Ioannes XXIII iure meritoque edixit.
Enimvero inde a Pentecoste omnibus hominum linguis locuta et precata est Ecclesia. Attamen christianae communitates primorum saeculorum linguam Graecam Latinamque affatim usurpaverunt, cum illis locis in quibus morabantur universalia essent communicationis instrumenta, quorum ope Christi Verbi novitas hereditati obviam ivit Romani et Hellenistici cultus.
Romano Imperio occidentali exstincto, Romana Ecclesia non modo lingua Latina uti perrexit, verum etiam quodammodo custos eiusdem et fautrix fuit, sive in Theologiae ac Liturgiae, sive in institutionis et scientiae transmittendae provincia.


2. Nostris quoque temporibus Latinae linguae et cultus cognitio perquam est necessaria ad fontes vestigandos ex quibus complures disciplinae ceteroqui hauriunt, exempli gratia Theologia, Liturgia, Patrologia et Ius Canonicum, quemadmodum Concilium Oecumenicum Vaticanum II docet (cfr Decretum de Institutione sacerdotali, Optatam totius, 13).
In hac praeterea lingua, ut universalis Ecclesiae natura pateat, typica forma sunt scripti liturgici libri Romani Ritus, praestantiora Magisterii pontificii Documenta necnon sollemniora Romanorum Pontificum officialia Acta.


3. In hodierno tamen cultu, humanarum litterarum extenuatis studiis, periculum adest levioris linguae Latinae cognitionis, quae in curriculis philosophicis theologicisque futurorum presbyterorum quoque animadvertitur. Sed contra, in nostro ipso orbe, in quo scientia ac technologia praecipuum obtinent locum, renovatum culturae et linguae Latinae studium invenitur, non illis in Continentibus dumtaxat quae proprias culturales radices in patrimonio Graeco et Romano habent. Id diligentius est animadvertendum eo quod non modo academiarum provincia et institutionum implicatur, sed ad iuvenes inquisitoresque etiam attinet, qui ex diversissimis Nationibus et traditionibus proveniunt.


4. Quapropter necessitas instare videtur ut linguae Latinae altius cognoscendae eiusque congruenter utendae fulciatur cura, sive in ecclesiali sive in patentiore cultus campo. Ut hic nisus extollatur et evulgetur, consentaneum prorsus est docendi rationes adhibere aptas ad novas condiciones et provehere item necessitudines inter Academicas institutiones et inquisitores, ut copiosum ac multiforme Latini cultus patrimonium efferatur.

Ad haec proposita assequenda, Decessorum Nostrorum semitas calcantes, hasce per Litteras Apostolicas Motu Proprio datas hodie Pontificiam Academiam Latinitatis condimus, quae Pontificio Consilio de Cultura erit obnoxia. Eam regit Praeses, quem Secretarius iuvat et ii a Nobis nominantur, dum Consilium Academicum illis auxilium fert.
Opus Fundatum Latinitas, quod Pauli PP. VI chirographo Romani Sermonis die XXX mensis Iunii anno MCMLXXVI est constitutum, exstinguitur.
Decernimus ut hae Litterae Apostolicae Motu Proprio datae, quibus ad experimentum in quinquennium adnexum Statutum comprobamus, per editionem in actis diurnis "L’Osservatore Romano" evulgentur.

Datum Romae, apud Sanctum Petrum, die X mensis Novembris, in memoria S. Leonis Magni Papae, anno MMXII, Pontificatus Nostri octavo.
BENEDICTUS PP XVI
* * *
Pontificiae Academiae Latinitatis Statutum
Art. I
Pontificia Academia Latinitatis conditur, cuius sedes in Statu Civitatis Vaticanae locatur, quae linguam Latinam et cultum promoveat extollatque. Academia cum Pontificio Consilio de Cultura copulatur, cui est obnoxia.
Art. II
§ 1. Haec sunt Academiae proposita:
a) ut linguae litterarumque Latinarum, quae ad classicos, Christianos, mediaevales, humanisticos et recentissimos pertinent auctores, cognitionem iuvet studiumque provehat, praesertim apud catholica instituta, in quibus vel Seminarii tirones vel presbyteri instituuntur atque erudiuntur;
b) Ut provehat diversis in provinciis Latinae linguae usum, sive scribendo sive loquendo.


§ 2. Ut haec proposita consequatur, Academia studet:

a) scripta, conventus, studiorum congressiones, scaenica opera curare;
b) curricula, seminaria aliaque educationis incepta procurare, etiam iunctis viribus cum Pontificio Instituto Altioris Latinitatis;
c) hodierna quoque communicationis instrumenta in discipulis instituendis adhibere, ut sermonem Latinum perdiscant;
d) expositiones, exhibitiones et certamina apparare;
e) alia agere ac suscipere ad hoc Institutionis propositum assequendum.

LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI MOTU PROPRIO
"LATINA LINGUA"
con la quale viene istituita la Pontificia Accademia di Latinità


1. La lingua latina è sempre stata tenuta in altissima considerazione dalla Chiesa Cattolica e dai Romani Pontefici, i quali ne hanno assiduamente promosso la conoscenza e la diffusione, avendone fatto la propria lingua, capace di trasmettere universalmente il messaggio del Vangelo, come già autorevolmente affermato dalla Costituzione Apostolica Veterum sapientia del mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII.
In realtà, sin dalla Pentecoste la Chiesa ha parlato e ha pregato in tutte le lingue degli uomini. Tuttavia, le Comunità cristiane dei primi secoli usarono ampiamente il greco ed il latino, lingue di comunicazione universale del mondo in cui vivevano, grazie alle quali la novità della Parola di Cristo incontrava l’eredità della cultura ellenistico-romana.
Dopo la scomparsa dell’Impero romano d’Occidente, la Chiesa di Roma non solo continuò ad avvalersi della lingua latina, ma se ne fece in certo modo custode e promotrice, sia in ambito teologico e liturgico, sia in quello della formazione e della trasmissione del sapere.

2. Anche ai nostri tempi, la conoscenza della lingua e della cultura latina risulta quanto mai necessaria per lo studio delle fonti a cui attingono, tra le altre, numerose discipline ecclesiastiche quali, ad esempio, la Teologia, la Liturgia, la Patristica ed il Diritto Canonico, come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II (cfr Decr. Optatam totius, 13).
Inoltre, in tale lingua sono redatti, nella loro forma tipica, proprio per evidenziare l’indole universale della Chiesa, i libri liturgici del Rito romano, i più importanti Documenti del Magistero pontificio e gli Atti ufficiali più solenni dei Romani Pontefici.

3. Nella cultura contemporanea si nota tuttavia, nel contesto di un generalizzato affievolimento degli studi umanistici, il pericolo di una conoscenza sempre più superficiale della lingua latina, riscontrabile anche nell’ambito degli studi filosofici e teologici dei futuri sacerdoti. D’altro canto, proprio nel nostro mondo, nel quale tanta parte hanno la scienza e la tecnologia, si riscontra un rinnovato interesse per la cultura e la lingua latina, non solo in quei Continenti che hanno le proprie radici culturali nell’eredità greco-romana. Tale attenzione appare tanto più significativa in quanto non coinvolge solo ambienti accademici ed istituzionali, ma riguarda anche giovani e studiosi provenienti da Nazioni e tradizioni assai diverse.


4. Appare perciò urgente sostenere l’impegno per una maggiore conoscenza e un più competente uso della lingua latina, tanto nell’ambito ecclesiale, quanto nel più vasto mondo della cultura. Per dare rilievo e risonanza a tale sforzo, risultano quanto mai opportune l’adozione di metodi didattici adeguati alle nuove condizioni e la promozione di una rete di rapporti fra Istituzioni accademiche e fra studiosi, al fine di valorizzare il ricco e multiforme patrimonio della civiltà latina.
Per contribuire a raggiungere tali scopi, seguendo le orme dei miei venerati Predecessori, con il presente Motu Proprio oggi istituisco la Pontificia Accademia di Latinità, dipendente dal Pontificio Consiglio della Cultura. Essa è retta da un Presidente, coadiuvato da un Segretario, da me nominati, e da un Consiglio Accademico.
La Fondazione Latinitas, costituita dal Papa Paolo VI, con il Chirografo Romani Sermonis, del 30 giugno 1976, è estinta.
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La presente Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio, con la quale approvo ad experimentum, per un quinquennio, l’unito Statuto, ordino che sia pubblicata su L’Osservatore Romano.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 10 novembre 2012, memoria di S. Leone Magno, anno ottavo di Pontificato.
BENEDICTUS PP XVI

* * *
Statuto della Pontificia Accademia di Latinità
Articolo 1 È istituita la Pontificia Accademia di Latinità, con sede nello Stato della Città del Vaticano, per la promozione e la valorizzazione della lingua e della cultura latina. L’Accademia è collegata con il Pontificio Consiglio della Cultura, dal quale dipende.
Articolo 2§ 1. Scopi dell’Accademia sono:
a) favorire la conoscenza e lo studio della lingua e della letteratura latina, sia classica sia patristica, medievale ed umanistica, in particolare presso le Istituzioni formative cattoliche, nelle quali sia i seminaristi che i sacerdoti sono formati ed istruiti;
b) promuovere nei diversi ambiti l’uso del latino, sia come lingua scritta, sia parlata.

§ 2. Per raggiungere detti fini l’Accademia si propone di:
a) curare pubblicazioni, incontri, convegni di studio e rappresentazioni artistiche;
b) dare vita e sostenere corsi, seminari ed altre iniziative formative anche in collegamento con il Pontificio Istituto Superiore di Latinità;
c) educare le giovani generazioni alla conoscenza del latino, anche mediante i moderni mezzi di comunicazione;
d) organizzare attività espositive, mostre e concorsi;
e) sviluppare altre attività ed iniziative necessarie al raggiungimento dei fini istituzionali.

venerdì 27 luglio 2012

"... La Chiesa sussiste e cade con la Liturgia”


“La liturgia della Chiesa nell’epoca della secolarizzazione” 

di Roberto de Mattei


 L’argomento del pamphlet è di quelli densi: “La liturgia della Chiesa nell’epoca della secolarizzazione”. Sotto c’è un problema che, raccontato in breve, è questo: la Chiesa si è lasciata turbare da un’ansia illusoria di rinnovamento e ha modificato la propria liturgia. Ma il gioco non è valso la candela di cera.

Ha abbandonato l’eterno per incontrare il proprio tempo, ha deviato dalla tradizione per abbracciare la società del progressismo: e dopo, con orrore, che cosa ha scoperto? Che il suo è stato l’abbraccio catastrofico con un’età postmoderna già imputridita all’interno e che all’esterno porta segni sempre più evidenti di fallimento.
Ora rimediare non sarà facile. La Chiesa si è allontanata dalle proprie premesse più salde, si è in parte tramutata in una versione light di se stessa per dimostrarsi non-passatista e ha indebolito il suo messaggio più autentico e attraente. Lo prova la crisi delle vocazioni religiose con tutta la forza dei fatti: la Riforma del Concilio non l’ha risolta, ma anzi l’ha decisamente aggravata. 
Per citare Joseph Ratzinger: “Quello che sapevamo solo teoreticamente è diventato per noi esperienza concreta: la Chiesa sussiste e cade con la liturgia”.
Nella storia recentissima della Chiesa c’è stato quindi un Prima, quando ancora questa crisi poteva essere evitata. Ma a noi tocca vivere nel Dopo: nel tempo presente, quando ormai la crisi deve essere affrontata. Roberto de Mattei – “sono uno storico, un cattolico laico che vive però con partecipazione i problemi della Chiesa” – propone allora il ritorno alla tradizione come antidoto all’idea, filtrata all’interno della Chiesa, che la secolarizzazione è comunque un processo storico irreversibile, e quindi, poiché irreversibile, anche “vero”. E avanza un progetto di risacralizzazione della società: dove “l’esperienza di sacro” di cui la società ha disperatamente bisogno si raggiunge attraverso il sacrificio e lo spirito di penitenza. “Al principio dell’edonismo e dell’autocelebrazione dell’Io che costituisce il nucleo del processo rivoluzionario plurisecolare che aggredisce la nostra società – scrive De Mattei – bisogna contrapporre il principio vissuto del sacrificio”.
Il capitolo iniziale sull’abbandono del latino durante la liturgia, argomento di una delle tre conferenze da cui è tratto questo pamphlet, è il manifesto convincente del Grande equivoco. Credevamo di essere moderni e anche di farvi un favore, abbiamo invece sperperato il nostro tesoro comune. Il latino non è stato abolito dal Concilio – come si crede grossolanamente – ma non è più usato, anche se una costituzione apostolica del 1962, la Veterum Sapientia, raccomanda il contrario con precise disposizioni.
Eppure il latino era per sua natura la lingua della Chiesa, perché possiede tutte le caratteristiche che servono. E’ lingua universale, che supera i confini delle nazioni. Si può ribattere che non è più in uso – ma per De Mattei si tratterebbe di un’obiezione povera.
Una lingua non muore quando non è parlata, ma quando svanisce dalla cultura e dalla memoria di un popolo. Altrimenti, e per assurdo, dovremmo chiamare lingue morte anche l’ebraico, risorto nel Ventesimo secolo con il sionismo, e l’arabo classico, che oggi è parlato soltanto in alcuni contesti formali. Il latino è una lingua stabile dal punto di vista lessicale e grammaticale, quindi è anche un vettore solido, capace di sfidare il passare dei secoli e di conservare l’integrità e l’immutabilità della dottrina cattolica.
Il latino è infine lingua sacra: la lingua della liturgia tra l’assemblea e Dio. E non importa afferrarne tutte le parole: la liturgia non è orizzontale, non lega i fedeli tra loro, ma è verticale, è diretta verso Dio. Come dice al linguista Beccaria la vecchietta alzando il dito verso il cielo, l’importante è che capisca lui.

(Il Foglio del 1/05/2009 di Daniele Raineri).

"Ave MARIA!"

giovedì 9 febbraio 2012

IL LATINO!!! la lingua in cui hanno scritto Seneca, Sant’Agostino, Tommaso d’Aquino e generazioni di scienziati...



Il latino è ancora vivo!


Un convegno celebra il 50° anniversario della "Veterum Sapientia"

di Salvatore Cernuzio

ROMA, lunedì, 6 febbraio 2012 (ZENIT.org) - Il 22 febbraio 1962 Giovanni XXIII firmò la Costituzione apostolica Veterum Sapientia sullo studio e l’uso del latino, in cui auspicava, tra l’altro, la creazione di un Academicum Latinitatis Institutum.

Quest'ultimo verrà, poi, istituito da Paolo VI con la Lettera apostolica Studia Latinitatis del 22 febbraio 1964, affidando alla Società Salesiana il compito di «promuoverne la prosperità».
Dopo mezzo secolo, il Pontificium Institutum Altioris Latinitatis vuole ripercorrere, quindi, con il convegno del 23 febbraio, 50° Veterum Sapientia – Storia, cultura e attualità, alcuni elementi significativi di tale storia, per rispondere alle sfide di impegno culturale che oggi lo studio delle lingue classiche pone.

Don Roberto Spataro, docente presso la Facoltà di Lettere Cristiane e Classiche dell’Università Pontificia Salesiana, intervistato da ZENIT, ne approfondisce i contenuti.

Prof. Spataro da cosa nasce l’idea di questo convegno e quali obiettivi si pone?
Don Spataro: Il convegno nasce dal 50° anniversario della promulgazione di un documento solenne, la Veterum Sapientia, purtroppo presto ingiustamente dimenticata.
Intendiamo rileggere quel documento e mostrare come sia ancora molto attuale nel proporre la necessità che nella Chiesa, soprattutto tra i sacerdoti, siano conosciuti i grandi valori etici, spirituali, religiosi che il mondo antico elaborò e il Cristianesimo perfezionò, costruendo così le basi della civiltà contemporanea.
La Veterum Sapientia dice, infatti, ciò che ci insegna Benedetto XVI: la ragione che ispirò gli autori classici antichi e gli umanisti moderni, oltre alla fede dei Padri e Dottori della Chiesa che hanno scritto e pensato in latino, sono “amiche e alleate per il bene dell’uomo”.

Molti sostengono che il latino sia una “lingua morta”. Qual è la sua opinione in proposito?
Don Spataro: Questa è un’espressione veramente infelice. Mi chiedo come possa definirsi morta la lingua in cui hanno scritto Seneca, Sant’Agostino, Tommaso d’Aquino e generazioni di scienziati, da Galvani, inventore dell’elettricità, a Gauss, il “principe dei matematici”…
Come può ritenersi “morta” una lingua che, se studiata come è studiata oggi da tante persone, alimenta pensieri alti e nobili? Senza dimenticare che è la lingua sovranazionale della Santa Sede; che circoli di umanisti l’adoperano come strumento di comunicazione orale e che la liturgia in lingua latina raccoglie, in numero sempre crescente, fedeli, per la maggior parte giovani.

Negli ultimi tempi, invece, sembrava che la lingua latina si stesse estinguendo: i seminaristi non la studiavano più e non veniva usata in liturgia. Cosa sta facendo il vostro Istituto per questa situazione?
Don Spataro: Negli ultimi anni all’interno della Chiesa cattolica, si sono registrati timidi segnali di ripresa per l’interesse e lo studio del latino. Tra questi: la nascita di comunità religiose e movimenti laicali che hanno compreso bene come alla Tradizione, alla vita stessa della Chiesa, appartenga un patrimonio preziosissimo di espressioni liturgiche, canoniche, magisteriali, teologiche, il cui contenuto è comprensibile solo nella sua forma linguistica, cioè il latino. Il nostro Istituto desidera, perciò, formare sempre più ecclesiastici e laici in grado di apprezzare e attualizzare questo patrimonio, in modo che ogni Chiesa possa avvalersi di persone che amano il vero e il bello armoniosamente coniugati in questa lingua.

In molte parti del mondo, sembra che stia rinascendo un grande interesse per il latino. E' vero?
Don Spataro: È vero! Tempo fa, un illustre professore universitario tedesco mi disse che in Germania sono più di 800.000 gli studenti delle scuole superiore e degli istituti universitari che si occupano di latino. Nel nostro istituto, ad esempio, accogliamo studenti della Cina, inviati dalle loro università, perché sentono il bisogno di conoscere la civiltà europea e le sue radici culturali espresse in lingua latina.

Quali sono le ragioni di questo rinnovato interesse?
Don Spataro: Parlando con professori e studenti provenienti da tutto il mondo, ho maturato questa convinzione: si sente il bisogno di studiare il latino per accedere a un mondo, una res publica litterarum, di elevatissimo livello spirituale. La crisi economica e finanziaria attuale non è più grave di quella etica ed antropologica. I giovani che in tante parti del mondo studiano le opere scritte in latino, da Cicerone a Cipriano a Erasmo da Rotterdam, sono stanchi e delusi dai “cattivi maestri” dell’epoca contemporanea e vogliono riappropriarsi di un pensiero puro, vero. Lo studio del latino consente di riacquistare questa ‘innocenza spirituale’.

Anche nelle scuole media italiane c'è un ritorno dello studio del latino…
Don Spataro: Il latino è una lingua molto piacevole da apprendere, ad una condizione: che si abbandoni il metodo che grava morbosamente nelle scuole, imposto dal filologismo tedesco a partire dal secolo XIX. Se insegnato, invece, con i metodi dei grandi umanisti - ad esempio quello praticato per secoli nelle scuole dei Gesuiti, ovvero il ‘metodo-natura’ appreso in 150 ore - uno studente, senza eccessive fatiche e soprattutto senza noia, è in grado di leggere già i classici. C’è bisogno di una nuova generazione d’insegnanti che conoscano questo metodo e lo adottino con entusiasmo perché fa miracoli!

Ci sono esempi del successo di questo metodo?
Don Spataro: Certamente! Un esempio è l’Accademia Vivarium Novum, un’istituzione con la quale la nostra Facoltà collabora da tempo e che opera a Roma. Giovani provenienti da tutto il mondo si fermano lì, uno o due anni, per studiare latino e greco. Arrivano senza conoscere una parola della lingua di Cesare e di Platone e dopo pochi mesi sono in grado di parlare fluentemente in latino, acquisendo, alla fine del percorso, una vera conoscenza della civiltà umanistica, cioè degli autentici valori dell’uomo che vengono dalla Veterum Sapientia.

AVE MARIA!
Laudetur Iesus Christus! 
Laudetur cum Maria! Semper laudentur