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domenica 12 maggio 2013

Il latino e la Pontificia Accademia di Latinità



Benedetto XVI  usava il latino non solo nelle occasioni più solenni e ufficiali, come l’omelia tenuta in Sistina con i cardinali elettori il giorno dopo l’elezione al Soglio pontificio, ma anche nei suoi viaggi internazionali. 
Sorprese non poco sentire il Papa esprimersi in latino in Benin e in Camerun, due delle sue tappe nel continente africano.
Ci teneva così tanto, il teologo tedesco, che diede al mondo notizia della sua rinuncia al ministero petrino leggendo un breve testo in latino scritto personalmente con l’aiuto di pochi e fidati collaboratori. 
Qualche mese prima, a novembre, Benedetto XVI aveva istituito con un moto proprio la Pontificia Accademia di Latinità, affidandola a Ivano Dionigi, latinista di fama e attuale rettore dell’Università di Bologna. I motivi che avevano spinto Ratzinger a costituire quell’organo li spiegava proprio Dionigi in un’intervista ad Avvenire pubblicata a marzo: “C’è la consapevolezza che il latino nella storia è stato la lingua dell’imperium, dello studium e dell’ecclesia. Questa lingua ha in sé tre proprietà che trovano corrispondenza nelle caratteristiche della fede: l’eredità, l’universalità e l’immutabilità. E’ la lingua dei teologi, del diritto canonico, dei concili, della liturgia”. 

Ratzinger rifiutava l’idea che fosse una lingua per pochi eletti, simbolo del potere e retaggio di un passato che il Concilio Vaticano II aveva cercato di archiviare: “Il latino è l’idioma con cui la Chiesa si è rivolta a tutti i popoli. Rispecchia l’immutabilità della fede, continuava il presidente dell’Accademia. 

AMDG et BVM