mercoledì 8 febbraio 2023

Sette Regole che reggono

Uniamoci carissimi fratelli al Santo Papa Giovanni Paolo I,
così umile e pieno di bontà,
chiedendoGli di intercedere per noi presso il Padre 


«SETTE REGOLE» CHE REGGONO


A san Bernardino da Siena

Caro Santo sorridente,

Papa Giovanni apprezzava talmente le tue prediche scritte

che voleva proclamarti dottore della chiesa. Morì e non se ne

fece, sinora, nulla. Peccato!

Quelle che il buon papa apprezzava, non erano però le tue

prediche in latino, studiate, limate, ben suddivise, bensì le prediche

in italiano, raccolte dalla tua voce, tutte sprizzanti vita,

fervore religioso, umorismo e saggezza pratica. Egli ti vagheggiava,

forse, «Dottore Sorridente» accanto al «Mellifluo» Bernardo,

all’«Angelico» Tommaso, al «Serafico» Bonaventura, al «Consolante» 

Francesco di Sales.

Pensava che in tempi in cui parole difficili, irte di ismi nebulosi,

sono usate ad esprimere perfino le cose più facili di questo

mondo, fosse opportuno mettere in risalto il fraticello che aveva

insegnato: «Parla chiarozzo, acciò che chi ode, ne vada contento

e illuminato, e non imbarbagliato»!

E tutt’altro che «imbarbagliati» rimasero, davanti alla tua

predica, i professori e gli studenti dell’università di Siena nel giugno

del 1427. Tu parlasti loro del «modo di studiare», proponesti

«sette regole» e concludesti: «Le quali sette regole se le osservi

e vi continui, in poco tempo diventerai valent’uomo o valente

donna».

Col tuo permesso, abbreviandole e... addomesticandole, io

tento ora di richiamare le tue «sette regole» in vista degli studenti

di oggi.

I quali sono brava e simpatica gente, che non corrono nessunissimo

pericolo di venire «imbarbagliati», per il semplice motivo

che vogliono fare da sé la propria esperienza delle cose. Né da te

né da me gradiscono «modelli di comportamento», che odorino

di moralismo a un chilometro di distanza. E probabilmente non

leggeranno queste righe, ma io le scrivo lo stesso; scrivo a te.

Anche Einaudi ha scritto le Prediche inutili, che, tuttavia, a

qualcuno sono riuscite utili.

* * *

Prima regola, la estimazione. Uno non arriva a studiare sul

serio, se prima non stima lo studio. Non arriva a farsi una cultura,

se prima non stima la cultura.

Quello studente fa arco della schiena sui libri. Tu scrivi: «Bene!

così non ti grilla il cervello come altri zovincelli, che non

attendono a studio niuno, ma a forbire le panche!». Ama i libri,

sarai a contatto con gli uomini grandi del passato: «Parlerai loro

ed essi parleranno con te; udiranno te, e tu udirai loro, e gran

diletto ne piglierai».

Cosa diventa, invece, lo studente scioperato? Diventa «come

uno porco in istia che pappa e bee e dorme». Diventa «Messer

Zero», che non combinerà nulla di grande e di bello nella vita.

Intendiamoci: per una vera cultura sono da apprezzare, oltre

che i libri, anche la discussione, il lavoro di gruppo, lo scambio

di esperienze. Tutte queste cose ci stimolano ad essere attivi oltre

che ricettivi; ci aiutano ad essere noi stessi nell’imparare, a manifestare

agli altri il nostro pensiero in modo originale; favoriscono

l’attenzione cortese verso il prossimo.

Mai però venga meno l’estimazione verso i grandi «maestri»;

essere i confidenti di grandi idee vale più che essere gli inventori

di idee mediocri. Diceva Pascal: «Colui che è salito sulle spalle

di un altro, vedrà più lontano dell’altro, anche se è più piccolo

di lui!».

* * *

Seconda regola, la separazione. Separarsi, almeno un pochino!

Altrimenti non si studia sul serio. Gli atleti devono pur

astenersi da molte cose: lo studente è un po’ atleta e tu, caro fra

Bernardino, gli hai preparato tutta una lista di cose «proibite».

Ne riporto qui solo due: cattive compagnie, cattive letture.

«Uno libertino tutti li guasta. Una mela fracida, accostata alle

buone, tutte l’altre corrompe». «Occhio – tu scrivi – anche ai

libri di Ovidio e altri libri di innamoramenti». Senza disturbare

Ovidio, oggi tu parleresti esplicito di libri, di rotocalchi indecenti,

cinema cattivi e droga. Intatta, invece, conserveresti la seguente

apostrofe: «Quando tu, padre, hai un figliolo a studio, a

Bologna, o dove si sia, e tu senti che egli è innamorato, non gli

mandare più denari. Fallo tornare, ché egli non imparerà nulla,

se non canzonette e sonetti... e sarà poi Messer coram-vobis».

Efficace quest’ultimo rimedio, di «tagliare i viveri». Ma oggi

esso non scatta più: lo stato, infatti, si sostituisce, se occorre, ai

papà, snocciolando agli universitari il presalario.

Rimane una speranza: che lo studente si applichi da sé il

«rimedio del saltimbanco».

Ti è noto: salito su una sedia, il saltimbanco, ai contadini

che l’attorniavano attoniti e a bocca aperta in giorno di mercato,

mostrava una scatoletta chiusa: «Qui dentro – diceva – c’è il rimedio

efficacissimo per i calci dei muli: costa poco, pochissimo,

acquistarlo è una fortuna». E di fatto, molti acquistavano. Ma

ad uno dei compratori venne voglia di aprire la scatola: vi trovò

nient’altro che due metri di sottile spago. Alzò la voce a protestare:

«È una truffa!». «Niente truffa – rispose l’imbonitore – tu

sta’ distante quanto è lungo lo spago e nessun calcio sprangato da

mulo ti potrà raggiungere!».

È il rimedio classico e radicale suggerito da voi predicatori;

vale per tutti, vale specialmente per gli studenti esposti oggi a

mille insidie. Separazione! Da tutti i “muli», che sprangano calci

morali!

* * *

Terza regola, quietazione. «L’anima nostra è fatta come l’acqua.

Quando sta quieta, la mente è come un’acqua quieta; ma

quando è commossa, s’intorbida». Va dunque fatta riposare e

quietare, questa mente, se si vuol imparare, approfondire e ritenere.

Com’è possibile riempire la testa di tutti i personaggi dei

rotocalchi, del cinema, del «video», degli sport, così vivaci, invadenti

e talvolta avvilenti e inquinanti, e poi pretendere ch’essa

ritenga, insieme, le nozioni dei libri di scuola, al confronto così

scolorite e scialbe?

Una fascia di silenzio occorre proprio attorno alla mente di

chi studia, perché si conservi quieta e pulita. Tu, piissimo frate,

suggerisci di chiederla al Signore; suggerisci perfino la giaculatoria

adatta: «Quietaci, messer Domeneddio, la mente». Gli studenti

nostri, a questo punto, sorrideranno; sono abituati spesso

a ben altre giaculatorie! Ma tant’è: un po’ di silenzio e un pizzico

di preghiera in mezzo a tanto quotidiano fracasso non guasta in

alcun modo!

* * *

Quarta regola, ordinazione, cioè ordine, equilibrio, giusto

mezzo, sia nelle cose del corpo che dello spirito. Mangiare? «Sì –

tu scrivi – ma non troppo né poco. Tutti gli estremi sono viziosi,

la via del mezzo ottima. Non si può portare due some: lo studio

e il poco mangiare, il troppo mangiare e lo studio: ché l’uno ti

farà intisichire e l’altro ti ingrosserà il cervello». Dormire? Anche,

ma «non troppo né poco... più utile è levarsi per tempo... con la

mente sobria».

Pur lo spirito ha bisogno di ordinare e tu continui: «Non

mandare il carro davanti ai buoi... impara piuttosto meno scienza

e sàppila bene, che assai e male!». Salvator Rosa è d’accordo

con te, quando scrive: Se infarinato se’, vatti a far friggere. L’imparaticcio,

la semplice infarinatura, la superficialità, il pressappochismo

non sono cose serie. Tu consigli anche di avere simpatie

personali tra i vari autori o le varie materie: «Fa’ istima in te più

d’uno dottore che d’un altro, o d’un libro che d’un altro... Non

ne dispregiare però niuno».

* * *

Quinta regola, continuazione, ossia perseveranza. «La mosca

si posa appena sul fiore e passa, volubile e agitata, ad un altro

fiore; il calabrone si ferma un po’ di più, ma gli preme far rumore;

l’ape, invece, silenziosa e operosa, si ferma, succhia a fondo

il nettare, porta a casa e ci dà il miele dolcissimo». Così scriveva

san Francesco di Sales e mi pare che tu convenga in pieno: niente

studenti-mosca, niente studenti-calabrone, ti piace la volitività

tenace e realizzatrice e hai ragione da vendere.

Nella scuola e nella vita, non basta desiderare, bisogna volere.

Non basta cominciare a volere, ma occorre continuare a

volere. E non basta neppure continuare, ma è necessario saper ricominciare

a volere da capo tutte le volte che ci si è fermati o per

pigrizia o per insuccessi o per cadute. La sfortuna di un giovane

studente, più che la scarsa memoria, è una volontà di stoppa. La

fortuna, più che il forte ingegno, è una volontà robusta e tenace.

Ma questa si tempra soltanto al sole della grazia di Dio, si scalda

al fuoco delle grandi idee e dei grandi esempi!

* * *

Sesta regola, discrezione. Vuol dire: fare il passo secondo la

gamba; non prendere il torcicollo a forza di mirare a mete troppo

alte; non mettere mano a troppe cose insieme; non pretendere i

risultati dalla sera alla mattina.

Essere il primo della classe è interessante, ma non è per me,

se ho i soldi dell’ingegno contati in tasca; lavorerò con ogni impegno

e sarò contento anche se arrivo quarto o quinto. Mi piacerebbe

prendere lezioni di violino, ma tralascio, se esse danneggiano

i miei studi e fanno dire di me: «Chi due lepri insieme caccia,

una non prende e l’altra lascia!».

* * *

Settima regola, dilettazione, cioè prendere gusto. Non si può

studiare a lungo, se non si prende un po’ di gusto allo studio. E

il gusto non capita subito, ma dopo. Nei primi tempi c’è sempre

qualche ostacolo: la pigrizia da superare, occupazioni piacevoli

che ci attirano di più, la materia difficile. Il gusto viene più tardi,

quasi premio per lo sforzo fatto.

Tu scrivi: «Sanza essere ito a Parigi a studiare, impara dall’animale

ch’ha l’unghie fèsse (cioè il bue), che prima mangia e insacca,

e poi ruguma, a poco a poco». Ruguma significa rumina,

ma per te, caro e saggio santo, vuol dire qualcosa di più, cioè: il

bue va assaporandosi il fieno piano piano, quando è saporabile e

godibile, e fino in fondo. E così dovrebbe avvenire per i libri di

studio, cibo delle nostre menti.

* * *

Caro san Bernardino! Enea Silvio Piccolomini, tuo concittadino

e papa con il nome di Pio II, scrisse che, alla tua morte,

i signori più potenti d’Italia si divisero le tue reliquie. Ai poveri

senesi, che tanto ti amavano, nulla rimase di te. Restava solo

l’asinello, sulla cui groppa eri qualche volta salito, quando ti sentivi

stanco dal viaggio negli ultimi anni di tua vita. Le donne di

Siena videro un giorno passare la povera bestia, la fermarono, la

depilarono tutta e conservarono quei peli come reliquia.


Al posto dell’asinello, io ho spelacchiato e “spennato», rovinandola,

una delle tue bellissime prediche. Queste «penne» andranno

tutte disperse al vento o qualcuna, almeno da qualcuno,

sarà raccolta?

Settembre 1972

AMDG et DVM



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