martedì 14 luglio 2015

SAN CAMILLO DE LELLIS

UN UOMO CHE SAPEVA AMARE

SAN CAMILLO DE LELLIS

(Patrono dei malati e degli operatori sanitari)

UN UOMO A TERRA

L'alba del 2 febbraio 1575 spuntò, come tutte le altre, fredda, pallida, sorniona illu­minando di toni lividi il Gargano che si svegliava pi­gramente al nuovo giorno, rivestito del suo abito inver­nale. Nell'aria vibrava quel sacro silenzio che incute pau­ra e rispetto verso gli stra­ni misteri dei boschi e delle selve e induce l'uomo ad in­terrogarsi sui grandi perché della vita.
Se li poneva anche un gio­vane sui venticinque anni, male in arnese e congestio­nato in volto, che, alto e ner­boruto com'era, troneggiava a cavalcioni di uno striminzi­to asinello, il quale, carico di qua e di là del basto di due otri di vino, ora arrancando ora annaspando, procedeva fa­ticosamente per il sentiero che si snodava lungo la val­le detta «dell'inferno».
Un uomo qualunque, ora, anche se le sue dimensioni lo avvicinavano a un gigan­te e il suo passato era sta­to abbastanza avventuroso. Camillo lo chiamavano gli a­mici e nessuno sembrava ri­cordarsi della famiglia «de Lellis» dalla quale pure di­scendeva e che vantava an­cora un certo prestigio tra la nobiltà fedele alla Corte di Spagna.
Perché si era ridotto in quello stato? Che senso ave­va avuto la sua vita? Vale­va la pena ostinarsi a conti­nuarla così, esposta all'incer­tezza del domani e soprattut­to priva di valori e di inte­ressi che non fossero la pas­sione per le armi e per il gioco,? Gli interrogativi si accavallavano esasperanti nel­la sua mente già stanca per una notte insonne e tormen­tata e si esprimevano in bri­vidi e in scossoni che l'asi­nello incassava pazientemente.

DIO E' TUTTO, IL RESTO E' NULLA

Glieli aveva messi in te­sta un frate cappuccino, Pa­dre Angelo, la sera prima do­po la magra cena, seduti sot­to un pergolato di viti nell'or­to del Convento a S. Giovan­ni Rotondo dov'era giunto da Manfredonia per uno scam­bio di merci tra le due co­munità francescane. Gli ave­va parlato con semplicità ma anche con fervore: «Dio è tutto; il resto, tutto il resto, è nulla! Salvare l'anima che non muore è l'unico impegno per chi vive una vita breve e sospesa come quella dell'uo­mo sulla terra!». Le parole e il viso luminoso del frate che le diceva si erano infil­trate profondamente in lui ed erano scese lungo tutto il cor­po per rimescolargli il san­gue. E sì che ne aveva sen­tite di prediche!...
A dire il vero qualche co­sa di nuovo, di strano aveva già avvertito dentro di sè in quegli ultimi tempi: un desi­derio di pace interiore, un'a­spirazione alla tranquillità, un più intenso interesse per le occupazioni che gli permet­tevano di guadagnarsi vitto e alloggio dai Cappuccini di Manfredonia, dov'era appro­dato stanco, povero e sfidu­ciato dopo aver passato un sacco di avventure e aver giocato l'ultima carta che gli rimaneva, quella dell'elemo­sina.
Anche la vecchia passione per il gioco d'azzardo e l'an­sia di evadere da una vita di doveri precisi si erano un po' affievolite, lasciando il posto ad una più sensibile attenzio­ne per l'amicizia e la cordia­lità dei suoi ospiti e a qual­che timido segno di risveglio religioso. L'ultimo Natale poi era stato un po' diverso dal solito, e i frati se n'erano accorti, quasi per istinto, an­che senza l'aiuto di partico­lari manifestazioni esteriori.
C'era dunque una certa disponibilità, ma questa vol­ta Camillo sentiva che gli si chiedeva di cambiare non più soltanto qualcosa, ma tutto; e avvertiva un malessere stra­no, indefinibile, un senso d' angoscia e di paura che s'in­trecciava misteriosamente e dolorosamente con la ten­sione verso un mutamento di rotta, verso Qualcuno che l'aspettava con le braccia a­perte.

IL GIORNO DELLA CANDELORA

«E se poi...» Già altre vol­te aveva fatto promesse e l'esperienza negativa lo porta­va a diffidare di sè e degli impegni troppo precisi e gra­vosi. Le occasioni, le tenta­zioni potevano riapparire bef­farde a intralciargli la strada e lui sarebbe nuovamente sprofondato, ancora più in giù, defraudato e avvilito. «Sputa in faccia al diavolo», l'aveva incoraggiato P. Ange­lo mentre l'accompagnava al­la cella per il riposo nottur­no, quasi intuendo la lotta interiore che le sue parole a­vevano scatenato nel giovane.
«Sputare in faccia al dia­volo!»: l'espressione era ri­suonata talmente forte e pre­cisa nel suo animo angoscia­to da aprirgli uno spiraglio di luce. Mai più se la sareb­be dimenticata. «Padre, pre­gate per me il Signore che m'illumini a conoscere e a fa­re ciò che devo per il suo servizio e la salute dell'anima mia», fu tutto quello che e­ra riuscito a dire nel chiude­re la porta, nascondendo la commozione sotto un sorriso amichevole; e non era stato poco per uno come lui.
La notte era passata in un rivoltarsi continuo tra paure accecanti e timide speranze e l'alba lo aveva sorpreso in bilico nell'incertezza di un giorno che poteva essere tut­to diverso. La campanella del convento aveva chiamato la Comunità a celebrare di buon'ora la liturgia della «Candelora» e fin qui era ar­rivato anche lui, seppure con un po' di sforzo.
Dopo colazione si era af­frettato a caricare il somarel­lo e a baciare la mano a P. Angelo in segno di sincero ringraziamento e di saluto. Nessuno sa quali furono le ultime parole o se tutto fu affidato agli occhi che, incro­ciandosi, possono dire di più e di meglio: certamente in Camillo stava affiorando a poco a poco una visione di­versa della vita, una volontà nuova di impegnarsi per qualche cosa di più valido, una tensione verso un avve­nire ancora incerto e nebulo­so ma senz'altro riscattato dal male e dedicato al bene, mentre si allontanava dal con­vento e s'inoltrava nella val­le.

UNA SENSAZIONE NUOVA...
All'intorno tutto sembrava sparito come per incanto o forse erano i suoi occhi soc­chiusi e impegnati nell'appro­fondimento interiore dei pen­sieri a non vedere nulla? Ad un tratto sentì una sensazio­ne nuova, mai provata, lievi­tare e farsi strada tra mille titubanze: il senso doloroso del tempo perduto, la consa­pevolezza amara di un'esisten­za vuota e sciupata in cose banali o addirittura malvage, la coscienza pungente del vec­cato come rifiuto di un A­more vero e autentico per in­golfarsi in piaceri immediati o degradanti. «Dio è tutto; il resto, tutto il resto è nul­la!»: le parole del frate gli martellavano il cervello e sembravano fargli scoppiare il cuore.
Se Dio è tutto, allora è lui solo che può dare un sen­so definitivo e assoluto alla vita e riempirla pienamente. Avverti una presenza nuova, soprannaturale, che lo invita­va amorosamente a sè a lascia­re il passato, a sfidare il fu­turo. Una commozione spasi­mante lo prese. Era Dio, il Tutto, che voleva entrare nel­la sua vita: bastava fargli un po' di spazio.
Capì che non c'era tempo da perdere. Balzò a terra con movimento brusco da far tra­ballare il povero asino e, gettandosi sul sentiero ruvido, scoppiò a piangere. Erano la­crime di pentimento o di gioia? Neppure lui lo sape­va. Di certo sentiva che tut­to il suo essere si stava cam­biando sotto la forza rigene­ratrice dello Spirito di Dio e che la sua volontà si rinfran­cava sempre più in un propo­sito serio e preciso: «Signo­re, ho peccato! Perdona que­sto gran peccatore! Misero e infelice me, che per tanto tempo non ti ho conosciuto, mio Dio, e non ti ho amato! Dammi tempo di far peniten­za e di piangere a lungo i miei peccati, fino a lavare con le lacrime ogni macchia di essi... Non più mondo... non più mondo!...».
Si sentiva lentamente rina­scere mano mano che le pa­role gli uscivano dalla boc­ca. Quando rialzò da terra gli occhi ancor umidi di pianto, gli parve che anche attorno tutto fosse cambiato, tutto gli fosse diventato amico, il paesaggio invernale, la valle deserta, il cielo pallido, per­fino l'asinello che lo guarda­va paziente con due occhio­ni curiosi e rassegnati. Sem­brava che volesse dire: «Ne ho viste tante in vita mia, ma questa poi!...».

UN NEONATO DA MANDARE A SCUOLA

L'uomo che si alzava dalla polvere della strada di Man­fredonia portava ancora i se­gni di un passato difficile da scrollarsi di dosso: i brandel­li della divisa militare, i pen­denti della spada che non voleva mai togliersi dai fian­chi nonostante gli sberleffi dei monelli e, dentro a far capolino sorniona, la vecchia passione, accesa e bruciante, per il gioco delle carte e dei dadi. Ma adesso c'era una vo­lontà nuova e sotto la scor­za dell'uomo rude e caparbio vibrava un cuore grosso così, trasformato dalla Grazia.
Mentre l'asino procedeva paziente lungo la tortuosa via del ritorno, nella pace del mattino, ebbe tutto il tempo di tuffarsi nel suo passato per riscattarlo mano mano con propositi fermi e decisi, solidi come i monti del suo Abruzzo, a cui sempre si era sentito tanto legato, pur lon­tano, in giro per il mondo a tentare la fortuna.

NELLA MANGIATOIA DI UNA STALLA

Perché Camilla era «tutto» abruzzese, di Bucchianico, u­na rocca appollaiata su una collina protetta dal Gran Sas­so e dalla Maiella. Il mondo poi lo conosceva bene anche nei suoi aspetti più ributtan­ti, avendo gustato con avidi­tà giovanile il piacere di mil­le avventure, scioperato e spendaccione, soldato di ven­tura e giocatore impenitente d'azzardo, proprio come ave­va temuto sua madre, Camil­la de Compellis, che durante la gestazione l'aveva visto in sogno capeggiare un drappel­lo di giovani segnati da una croce rossa. Briganti? ladri? malfattori? si era chiesta an­gosciata.
Forse anche per sfatare il sogno l'aveva deposto come Gesù, come Francesco d'Assi­si nella mangiatoia della stal­la sotto casa, quando il 25 maggio 1550, uscita frettolo­sa dalla chiesa durante la «messa piccola» della sagra di S. Urbano in preda alle doglie, l'aveva dato alla luce nel tempo in cui si faceva l' elevazione della «messa gran­de», in un clima di ammira­zione generale.
E ce n'era motivo: lei qua­si sessantenne (S. Elisabetta, la chiamavano le comari); lui, il neonato, tanto grosso e vigoroso da «poter essere mandato a scuola», come an­dava dicendo a tutti, fuori di sè dalla gioia, suo padre Giovanni, appena tornato dal­l'ennesima spedizione di guer­ra ed allora comandante del locale presidio militare.
Il nome l'aveva già bell'e pronto e voleva essere un grato omaggio alla sposa: Camil­lo. Gli insegnò i primi passi, lo trastullò nei momenti li­beri, forse facendogli annu­sare la polvere da sparo o lasciandogli maneggiare le ar­mi come amano tanto i bam­bini. Di più non poté fare perché ben presto la guerra nuovamente lo portò lonta­no sui campi di battaglia.
Tutta l'educazione del fi­glio rimase così sulle vecchie spalle di mamma Camilla, buona e paziente, ma sem­pre meno capace di frenare le scappatelle e le bizzarie di quel monello che, vivacissi­mo e alto molto più del nor­male, preferiva gli amici alla madre e i giochi sulla piazza del paese alla casa. Se poi non vi andava, venivano lo­ro, i compagni, ridanciani e insistenti a cercarlo perché la sua presenza animava il gioco e accresceva la baldoria.

UN MONELLO VIVACE MA SENSIBILE

Per mamma Camilla passa­rono quattordici anni di preoc­cupazioni più che di soddisfa­zioni. Solo quando ormai e­sausta morì, Camillo, che in fondo sotto le vesti del mo­nello aveva un cuore molto sensibile, s'accorse di quanto l'amava e la pianse sincera­mente.
Ora toccava a Giovanni occuparsi del figlio e per met­terlo un po' al sicuro gli die­de un maestro che lo educas­se e gli insegnasse almeno a leggere, a scrivere, a far di conto. Ma ben presto si ac­corse che lui, Camillo, forse attratto anche dal suo catti­vo esempio, preferiva i dadi e le carte ai libri e amava più la compagnia dei soldati che quella dei condiscepoli.
Così nelle giornate di o­zio, al bivacco delle soldate­sche, s'incalliva nel gioco e imparava volgarità e malizia. Solo un piccolo spiraglio di luce restava in quel buio che si andava addensando nel suo cuore: una innata carità ver­so i poveri e i forestieri.

VOGLIA DI VIVERE

Ormai aveva vent'anni e questi significavano voglia di vivere, libertà, avventura. Venne a proposito il bando di arruolamento della Repubblica Veneziana ad aprirgli le strade del mondo, a toglier­lo dall'aria ormai irrespirabi­le di Bucchianico.
Con il padre settantenne e due cugini si mise in cammi­no pieno di speranze, ma ad Ancona, dove avrebbero do­vuto imbarcarsi per Venezia, li attendeva una triste sor­presa: prima un malessere, poi una febbre insistente li costrinse a riprendere la via del ritorno. A S. Elpidio a mare (Ascoli Piceno) Giovan­ni morì.
Camillo ora si trovava ve­ramente libero da ogni tute­la, ma non si sentiva felice: il senso angoscioso della soli­tudine gli opprimeva lo spi­rito e una pruriginosa piaga al collo del piede destro gli dava fastidio causandogli una febbre intermittente. Prova­va poi una irrequietezza inte­riore strana e un sentimento che non aveva mai avvertito gl'invase l'anima: un deside­rio vago ma sincero di cam­biare vita.
A Fermo nel vedere due Cappuccini per la strada pen­sò perfino di farsi frate, ob­bligandosi con voto. Ne fu dispensato dallo zio P. Pao­lo, guardiano del convento di S. Bernardino all'Aquila, al quale aveva chiesto ospi­talità ormai sfinito dalla feb­bre: «non era quella una vi­ta per lui... appena ritrovate le forze avrebbe certamente cambiato idea...».

A ROMA PER FARSI CURARE

Così infatti avvenne e... ad­dio convento, addio propositi! La voglia di libertà, l'istinto dell'avventura, la passione per il gioco lo spingevano a farsi una «sua» vita. Biso­gnava però levarsi di dosso quella maledetta piaga che impicciava i movimenti e gli dava terribilmente fastidio.
Ai primi di marzo del 1571 si presentò all'ospedale di S. Giacomo a Roma per farsi curare e subire il trat­tamento terapeutico dell'ac­qua del legno. Non aveva molti soldi e, appena si sentì un po' rinfrancato, per mezzo scudo al mese, vitto, allog­gio, si adattò a fare il garzo­ne.
Per dimostrare la sua buo­na volontà si iscrisse anche alla «Compagnia di S. Gia­como», ma non aveva fatto i conti con la passione del gioco che, nonostante i divie­ti, lo trascinava ad impegnar­si in accanite partite a carte con i compagni, tutto a sca­pito dei malati. Di notte lo si vide perfino calarsi furtivo dalla finestra per raggiungere i barcaioli di Ripetta sul Te­vere e abbandonarsi con loro al piacere dell'azzardo.
Non poteva più restare al­l'ospedale e glielo sputarono in faccia malamente verso la fine di dicembre, indicando­gli la porta d'uscita, anche se la piaga non si era completa­mente rimarginata.
Il nuovo anno lo vide ar­ruolato tra le truppe al soldo di Venezia in lotta con i Tur­chi per una vittoria comple­ta dopo il trionfo di Lepan­to. Ormai aveva fatto la sua scelta e quella era la sua vo­cazione, o almeno tutto sem­brava indicarglielo: tutto fuor­chè quella piaga che ogni tan­to faceva sentire i suoi mor­si e pareva rimettere ogni cosa in discussione.
Rischiò anche la vita, co­me quel giorno a Zara quan­do, per un alterco nel gioco, sfidò a duello un suo compa­gno; oppure quella volta a Corfù, quando arrivò ad un passo dalla morte per una epidemia di tifo navale: allo­ra si era nuovamente risve­gliato in lui un certo senti­mento religioso e aveva ac­cettato anche i sacramenti con sincerità e devozione. Ma, una volta guarito, fu nuovamen­te travolto dalla passione del­la guerra e del gioco. A Cat­taro combatté da valoroso, ma si astenne disgustato dal macabro banchetto che i com­pagni affamati avevano im­bandito con il fegato dei vin­ti.

IN GIRO A GIOCARSI LA VITA E I SOLDI

Quel gruzzolo che aveva ra­cimolato in guerra lo sper­però presto, appena congeda­to, riducendosi a vendere per­fino la cappa. A Napoli, do­po essersi giocata anche la camicia, ritentò la fortuna con la compagnia malfamata di capitano Fabio al soldo della Spagna e s'imbarcò per l'Africa. Durante la traversa­ta e poi nel ritorno incappò in una furiosa tempesta che per poco non lo ingoiò: si raccomandò a Dio e fece vo­to di mutare vita, di farsi fra­te.
Promessa da marinaio. Toc­cato sano e salvo il suolo di Napoli, si ricordò solo del gioco e non perse un bricio­lo di piacere fino all'ultimo soldo. Solo per un innato sen­so di dignità non scese mai certi gradini della degradazio­ne morale: in fondo era ri­masto abruzzese, duro di ca­rattere, sensibilissimo di cuo­re.
Con la divisa a brandelli e i pendenti della spada ai fianchi all'approssimarsi del­l'inverno del 1574 si staccò da Napoli dove si era fatto un nome nelle bettole degli angiporti e con l'amico Ti­berio attraversò l'Appennino per raggiungere il mare a Manfredonia nelle Puglie, in attesa della primavera e di un nuovo arruolamento.
Ma intanto bisognava sbar­care il lunario. Il 30 novem­bre non sembrandogli digni­toso per la sua professione mettersi a lavorare, preferì mendicare sulla porta della Chiesa Maggiore. Alto di sta­tura, vigoroso, ma bianco in volto per la fame e il fred­do non poteva non attirare l'attenzione.
Così lo vide Antonio Nica­stri, capomastro dei lavori nel convento dei Cappuccini. Gli propose di guadagnarsi da vivere lavorando alle sue dipendenze. Per Camillo si trattava di una scelta vera­mente imbarazzante: da una parte la sua dignità, dall'al­tra la fame. Fuggì verso Bar­letta. Ma quando seppe che non era in vista nessun ar­ruolamento, come spinto da una forza sovrumana, abban­donò Tiberio e ritornò a Man­fredonia dal signor Antonio, disposto ad ingaggiarsi.

QUALCUNO L'ASPETTAVA

Non era un grande lavo­ro il suo, ma umiliante sì, soprattutto per lui, il solda­to di ventura alto due metri: con due asini doveva portare pietre, calce e acqua ai mu­ratori. Aveva tanta rabbia in corpo che avrebbe scannato quelle due povere bestie, e poi la passione del gioco ri­masta da troppo tempo in­soddisfatta gli urlava dentro.
Portò pazienza fiducioso che con la primavera tutto sareb­be tornato come prima e per non lasciarsi accalappiare ri­fiutò perfino del saio per far­si un vestito e ripararsi dal freddo. Ma anche Qualcun Altro aspettava la primavera e attendeva proprio lui, il soldataccio, su una strada tortuosa del Gargano.
Frattanto era arrivato l'anno nuovo, Anno Santo, e Ca­millo lavorava ancora per i Cappuccini che gli volevano bene, ammirando in partico­lare la sua onestà e notando che qualcosa maturava in lui. Il 1° febbraio l'avevano in­viato a S. Giovanni Rotondo con un incarico di fiducia.
Il resto era storia recente, storia di ieri e di oggi. Chi ne faceva maggiormente le spese era il povero asino che subiva i contraccolpi della lotta vigorosa scatenatasi nel­l'animo di Camillo, mentre scendeva lungo il terreno sca­broso della valle dell'inferno verso il mare.
Quando Camillo rientrò al Convento di Manfredonia, un sussurrio corse tra i frati: non era più quello di prima. Qualcosa era mutato in lui, ma cosa, come, quando? Le domande restavano a mezz'a­ria mormorate nell'ombra del­le celle o biascicate tra una preghiera e l'altra, nel vede­re quel giovanottone che si adattava ora ai servizi più u­mili della casa e partecipava devotamente alla liturgia del­le ore nel cuore della notte e nei vari momenti della gior­nata.

ADESSO FACEVA SUL SERIO

Solo P. Francesco, il guar­diano, era stato messo al cor­rente dell'accaduto e a sten­to riusciva a frenare la pas­sione di Camillo che ora si era tutta convertita agli atti di penitenza, alla mortifica­zione dei sensi, alla discipli­na della regola francescana. Nell'entusiasmo di quei mo­menti d'intensa grazia aveva anche supplicato l'abito fran­cescano che prima aveva te­muto, ma la prudenza del Su­periore prese tempo... non si sa mai!
Camillo però faceva sul se­rio: frequentava settimanal­mente la Comunione: «sputa­va in faccia al diavolo», co­me gli aveva suggerito P. An­gelo, e spesso non solo me­taforicamente; s'era impegna­to in una quaresima di asti­nenze e digiuni quasi feroce.
Spesso, soprattutto al ter­mine di una giornata di duro lavoro, gli tornava alla men­te il passato con le sue lu­singhe di piaceri, di gioco, di avventure: i muscoli del­la faccia si tendevano in uno sforzo atroce e lo spasimo as­sumeva toni drammatici, ma l'uomo nuovo non cedeva e il vecchio era costretto a bat­tere in ritirata.

FRATE CAPPUCCINO

Quando finalmente, dopo quattro lunghi mesi di aspet­tativa, poté indossare il saio di S. Francesco, gli parve di aver ormai centrato il suo ve­ro destino, la sua vocazione.
I cento e più chilometri a piedi per recarsi a Trivento nel Molise per la vestizione e i quaranta abbondanti per raggiungere Torremaggiore presso S. Severo ai bordi del Tavoliere delle Puglie per il Noviziato, gli sembrarono un volo; i pericoli superati du­rante il viaggio (quasi ci la­sciava la vita nel guadare il Biferno... ) gli parvero una si­cura garanzia del Cielo.
Era veramente felice ora, di una felicità nuova, inten­sa, fatta di piccole cose, di umili lavori. «Frate Umile» l'avevano ribattezzato i com­pagni, e Camillo ne gioiva si­curo di aver scoperto final­mente la volontà di Dio.
Invece... non aveva fatto i conti con quella maledetta piaga alla gamba destra. Il sa­io ruvido sbattendo con vio­lenza sul collo del piede l'a­veva inasprita e resa nuova­mente purulenta. Un giorno fu chiamato dal Padre Pro­vinciale: ci andò con il cuo­re in gola e tanta tanta pau­ra. Non furono necessarie molte parole per spiegare al Novizio che quella non pote­va essere la sua vita, parla­va da sola la piaga. Come? Camillo non capiva. Per così poco?
Eppure si trovava bene, era contento, aveva ormai impa­rato che il Signore si può ama­re anche nel silenzio e nel servizio umile della comuni­tà... avrebbe dovuto lasciare tutto... L'unica assicurazione che riuscì a strappare al Pa­dre Provinciale fu quella di essere riammesso appena la piaga si fosse rimarginata.

CON I MALATI DI S. GIACOMO

Con il fagottino dei suoi panni in spalla si diresse ver­so Roma: si era ricordato di S. Giacomo e della guarigio­ne ottenuta qualche anno pri­ma. Pieno di speranza varcò la soglia dell'ospedale il 23 ottobre 1575 dopo aver ac­quistato il giubileo dell'Anno Santo. Chissà se si ricordava­no di lui?
Tutti ricordavano il gioca­tore impenitente e le sue scap­patelle notturne, ma ora non lo riconoscevano più, lo ve­devano umile e pio, fedele ai doveri, premuroso con tut­ti. Solo gli era rimasto del­l'uomo vecchio il «terribile cervello» e questo era fisso là, nel convento dei Cappuccini dove voleva tornare al più presto. E ci tornò infatti do­po quasi quattro anni, nono­stante il parere sfavorevole di Filippo Neri che gli face­va da Direttore spirituale.
Questa volta pensava pro­prio di farcela e ce la mise tutta per approfondire e as­similare lo spirito di S. Fran­cesco. Ora si chiamava «Fra Cristoforo», per la sua gi­gantesca statura, e tutti era­no edificati dal suo compor­tamento... Ma un giorno, un brutto giorno, ebbe un'ama­ra sorpresa: la piaga ricomin­ciava a suppurare; non ci fu verso di farla guarire nono­stante gli unguenti e le cure. La dimissione dal conven­to non si fece attendere e stavolta fu definitiva. Non valsero i ripetuti e accorati appelli di Camillo per far­si riprendere dopo un breve periodo trascorso a S. Giaco­mo di Roma. Tentò allora dai Francescani Minori Os­servanti, ma invano: la mas­sima concessione ottenuta fu una dichiarazione di inabilità alla vita religiosa per malat­tia così da tranquillizzare la sua coscienza.
Ma allora la sua vocazio­ne? la volontà di Dio? la sua via? Domande angoscian­ti che rimanevano senza ri­sposta nelle laboriose giorna­te trascorse in corsia o nel­le lunghe notti di veglia al capezzale dei malati a S. Gia­como dov'era tornato per far­si curare. Dava una mano agli inservienti tanto per gua­dagnarsi il pane e le cure, ma il suo cuore era sempre nel convento dei Cappuccini.
Aveva bisogno di un segno, un piccolo segno della volon­tà di Dio e lo chiedeva con l'intensità della preghiera da­vanti al Crocefisso della sua camera o con la premurosa assistenza ai crocefissi viven­ti, coperti di piaghe purulen­ti e fetide o deliranti per la febbre, che serviva nei letti sempre sudici: poveri rifiuti umani, affetti da malattie in­curabili, mal serviti, trascu­rati dagli inservienti prezzo­lati o pezzi da galera, dimen­ticati da tutti, senza affet­to e senza speranza.
A poco a poco sentiva cre­scere in sé una pietà accora­ta, un sentimento profondo di solidarietà, una volontà di servizio totale per quei pove­ri «cristi» piagati (ormai co­sì li vedeva e credeva) e la sua carità non ebbe più limiti.

UN MAESTRO DI CASA INTRANSIGENTE

Lo invitarono a fare il «Maestro di casa», una spe­cie di economo-padre della famiglia ospedaliera, ed egli accettò sicuro di poter servi­re ancor meglio i malati. Nes­suno fu deluso perché Camil­lo prese sul serio il suo uffi­cio e si faceva in quattro per­ché non mancasse nulla e tut­ti fossero soddisfatti nei limi­ti del possibile.
I fornitori si accorsero ben presto che era cambiato... il manico e dovettero rasse­gnarsi presto ad essere più giusti e a fornire le cose mi­gliori. Un giorno, uno di que­sti andò in bestia perché Ca­millo aveva rifiutato della merce avariata, ma alla fine dovette cedere. Anche gli am­malati sentirono il beneficio della sua presenza attenta e della sua direzione attiva: gli inservienti dovevano filar di­ritto e le cure erano un poco migliorate.
Quando poi scadeva il tem­po per la cura chiamata «ac­qua del legno» (maggio-luglio ad anni alternati) provvede­va ogni cosa pur di dare al­meno l'illusione di un sollie­vo alla folla che accorreva da ogni parte per sottomettersi a quel rimedio sbandierato come «miracoloso». Ma anche adesso non trascurava mai di servire con le sue stesse ma­ni gli ammalati più schifosi che gli altri fuggivano, im­mergendosi in una carità sen­za riserve, pescando dal suo cuore ormai totalmente le­gato a quegli infelici le paro­le più dolci di conforto e di speranza.
Per sé non voleva nulla, nemmeno la paga di due scu­di al mese che gli spettava di diritto. Ormai si sentiva di casa e giorno dopo gior­no, vivendo, lui stesso am­malato, tra quelle sofferenze, andava maturando un vivo senso di paternità spirituale, una vocazione nuova, tutta sua.
Finalmente capì... «poiché Dio non mi ha voluto Cap­puccino, né in quello stato di penitenza che tanto desi­deravo di stare e di morire, è segno dunque che mi vuo­le qui, al servizio di questi poveri suoi infermi». Ora sì che tutto si era fatto chia­ro: le mani dentro la pasta della carità, questa era la sua vocazione.

UNA COMPAGNIA DI BUONI UOMINI

Adesso le cose sembravano andar meglio, ma Camillo non era soddisfatto: bisognava rompere con certi modi di fare, certe strutture, certi in­terventi che si risolvevano soltanto in una beneficenza consolatoria o, peggio anco­ra, gratificante solo per chi la compiva, lasciando le co­se com'erano. Bisognava pun­tare decisamente sull'uomo ­malato e subordinare al suo bene ogni cosa.
Sapeva per esperienza che a chi soffre non bisogna chie­dere pazienza, ma offrirgliela aprendogli il cuore in un at­teggiamento di completa at­tenzione e disponibilità. Tut­to nell'ospedale doveva esse­re per il malato: strutture, medici, inservienti, medicine. Nulla poteva essere riserva­to a se stessi ed egli ne dava l'esempio trascurando anche la sua piaga per soddisfare «i diritti» dei malati.

TUTTO PER UN'ASSISTENZA RISPETTOSA

Anche l'assistenza religiosa richiedeva un intervento de­ciso per garantire il rispetto fondamentale dell'uomo. Era costume che ogni malato en­trando in ospedale si doves­se confessare e comunicare prima di ricevere qualsiasi cura. Camillo, pur senza tra­scurare questa norma che era in sintonia con i tempi, ca­povolse il metodo e si preoc­cupò anzitutto che il malato fosse accolto con premura, la­vato, ristorato e collocato in un letto pulito.
L'assistenza cordiale e la parola amorosa facevano il re­sto: quasi spontaneamente cresceva nel cuore dell'infer­mo il bisogno di Dio che si esprimeva nell'accettazione fervorosa dei sacramenti.
La reazione non si fece at­tendere: coloro che avevano speculato fin allora sulla pel­le dei malati, sentendo vacil­lare i propri profitti, prote­starono; gli inservienti indo­lenti cominciarono a mostra­re una certa insofferenza; gli stessi amministratori, pur sti­mando Camillo, rimasero piut­tosto sconcertati e incerti sul da farsi. Per fortuna Camillo ebbe dalla sua parte il pro­tomedico dell'ospedale Fran­cesco Ginnasi e poi, dal lu­glio del 1580, suo figlio Ales­sandro che appoggiarono le sue iniziative. Anche alcuni nobili, tra cui il guardiano dell'ospedale Virgilio Crescen­zi, gli diedero una mano, as­sicurandogli protezione e so­stegno.

UN'IDEA

Tuttavia ben presto Camil­lo si rese conto che se vole­va incidere profondamente sul sistema e operare una ve­ra riforma doveva circondar­si di «uomini nuovi» forniti della sua stessa mentalità e a lui legati da vincoli non so­lo di amicizia ma anche di fe­deltà nel celibato consacrato ai malati.
Una notte, la vigilia del­l'Assunta del 1582, mentre vegliava in corsia ed esami­nava con particolare sofferen­za i difetti del servizio e le necessità dei malati, ebbe un' intuizione, un'ispirazione di Dio: «Perché non organizza­re una compagnia di uomini pii e dabbene, che non per mercede, ma volontariamente e per amor d'Iddio, servisse­ro gli infermi con quella ca­rità e amorevolezza che so­gliono far, le madri verso i lor propri figlioli infermi?».
L'idea poteva anche non apparire eccezionale nel cli­ma fervoroso del '500 eccle­siale quando le istituzioni ri­formatrici sorgevano un po' dovunque e le iniziative per portare una boccata d'aria nuova nella società e nella Chiesa si moltiplicavano. Ma per Camillo non si trattava di una semplice adesione al­la moda del tempo bensì di un atto maturato nella sof­ferenza interiore e nella pre­ghiera ardente di ogni giorno consumato in una realtà di miseria e di dolore.
Non faticò molto a trova­re alcuni uomini ben dispo­sti nell'ambiente stesso del­l'ospedale: Francesco Profe­ta prete siciliano e cappella­no di S. Giacomo da pochi giorni, Bernardino Norcino, Curzio Lodi, Lodovico Alto­belli, Benigno Sauri, quattro laici inservienti che Camillo apprezzava per le loro quali­tà di cuore e di spirito. Quan­do scendeva la sera e si al­lentava un po' l'urgenza del servizio, li radunava insieme in una cameretta e davanti a un crocifisso che campeggia­va su un altarino improvvisa­to li infervorava nella pre­ghiera e nello spirito di una carità totale.

REAZIONI RABBIOSE

Nell'ospedale si notò su­bito che qualcosa di nuovo era successo, non solo perché non potevano restare nasco­sti quei raduni serali, ma so­prattutto perché il compor­tamento pieno di fervore e di disinteresse di quegli uomi­ni metteva concretamente in crisi un certo sistema abitu­dinario.
Alcuni inservienti fecero gli «offesi», per essere stati esclusi, come dicevano, ma in realtà per mascherare la loro poca disponibilità a rin­novarsi. Gli stessi Guardiani dell'ospedale, fiutando un cer­to pericolo di contestazione pratica che avrebbe potuto creare delle noie, si mostra­rono più infastiditi che con­tenti. Mons. Salviati, loro pre­lato, avrebbe voluto mettere tutto a tacere con una pa­terna reprimenda a quel suo Maestro di casa troppo fer­voroso e «sognatore».
Ma Camillo era fin troppo realista e le cose le guarda­va in faccia senza paura: a­veva capito le vere motiva­zioni di quella opposizione e si sentiva più che mai in di­ritto di lavorare come vole­va in quella casa che ormai considerava «sua» a tutti gli effetti.
Non lo fermarono nemme­no i motteggi di Mons. Cu­sano, succeduto nel 1583 al Salviati. «Quando smettere­te l'idea di questa vostra com­pagnia di baia?», gli chiede­va causticamente quando l'incontrava, sicuro che prima o poi tutto sarebbe rientrato nel nulla. Ma lui milanese e­nergico e autoritario non co­nosceva ancora bene il «terri­bile cervello» dell'abruzze­se Camillo.
Come del resto non lo a­veva capito neppure il «san­to» apprezzato e venerato da tutta Roma, il fiorentino Fi­lippo Neri, a cui anche il «penitente» Camillo si era rivolto già da tempo per la direzione spirituale, giovando­si molto della serenità dell' uomo e dell'ambiente orato­riano per raddolcire le asprez­ze del suo carattere e attenua­re la durezza della sua vo­lontà penitente. Quando Ca­millo si presentò per il con­sueto incontro settimanale P. Filippo, avvisato dal Cusano, gli ordinò in tono deciso di non pensare che a sè e agli ammalati, lasciando perdere la «compagnia», perché «uo­mo rozzo e senza lettere qual'era» non sarebbe stato adatto a dirigerla.
Camillo incassò il colpo e promise di non intervenire nelle faccende interne dell'o­spedale, accontentandosi di raccogliere i compagni per la preghiera nella chiesa di S. Giacomo durante i turni di riposo.
Nel frattempo tutta l'invi­dia dell'ambiente e l'ira mal repressa del Cusano si erano potute sfogare su Camillo e i suoi compagni con bas­se insinuazioni («vogliono im­padronirsi dell'amministrazio­ne dell'ospedale», si mormo­rava in giro) e con un at­tentato diretto alla loro ope­ra. Entrando un giorno nel­la cappellino che aveva adat­tata per la preghiera comu­ne, l'aveva trovata tutta a soqquadro. Non gli era rima­sto che prendere il suo croci­fisso e portarlo nella propria cameretta, pieno di dolore e di costernazione. Ma di not­te in sogno il suo crocifisso l'aveva consolato e spronato a continuare senza paura.

PRETE PER I MALATI

Adesso Camillo pensava al modo migliore di portare a­vanti senza ingerenze indi­screte la sua iniziativa. Alcu­ni gentiluomini romani e P. Francesco Tarugi, braccio de­stro di P. Filippo, lo consi­gliavano a lasciare S. Gia­como per dedicarsi a tutti i malati, anche ai contagiosi in tempo di peste, allargan­do il campo della sua cari­tà. Camillo rimase un po' perplesso, convinto che S. Giacomo fosse ormai la sua casa, tuttavia si riservò di pensarci meglio. Intanto su una decisione era d'accordo con i suoi amici, farsi pre­te: sarebbe stato senz'altro un titolo di prestigio, utile per acquistare una certa in­dipendenza e mandare avanti l'opera a favore dei malati.
A trentadue anni si tro­vò chino sui libri con i ra­gazzetti della scuola di gram­matica, ma non ebbe difficol­tà ad imparare il minimo in­dispensabile per quei tempi: aveva una discreta intelligen­za e soprattutto una volontà di ferro che lo portava a sor­ridere bonariamente ai mot­teggi dei giovani condiscepo­li, che in fondo però gli vo­levano bene. Così superate altre difficoltà di ordine pa­trimoniale, il 26 maggio 1584 veniva ordinato prete nella basilica di S. Giovanni in La­terano.
Alla sua prima Messa nella chiesa di S. Giacomo all'al­tare della Madonna gli face­vano corona i compagni e gli amici più cari, ma il suo cuo­re era tra gli ammalati.

PAROLE CHE DANNO LA CARICA

Ora poteva dedicarsi con più libertà alla sua piccola compagnia. Aveva ricevuto dai Guardiani dell'ospedale la cappellanìa di una chieset­ta in riva al Tevere, chiama­ta la «Madonnina dei miraco­li», con annesse due cameret­te: qui Camillo trasportò il suo crocifisso, dopo aver dato le dimissioni da Maestro di casa, e qui raccolse i suoi compagni Bernardino e Cur­zio che con P. Profeta gli e­rano rimasti fedeli e che, u­no alla volta, si erano licen­ziati da S. Giacomo.
L'otto settembre li rivestì dell'abito religioso: tutti e tre ora frequentavano l'ospedale di S. Spirito. P. Profeta, pur venendoli spesso a trovare, continuava provvisoriamente la sua opera a S. Giacomo: li avrebbe raggiunti più tardi.
Alla Madonnina dei Mira­coli la piccola compagnia vive­va in un ambiente malsano e nell'estrema povertà, non a­vendo nessuna entrata fissa.
Nel giro di due settimane Cur­zio e Camillo si ammalarono, ma non si persero di corag­gio. «Dio ci ha mandato que­sta infermità perché, fatti buo­ni e perfetti maestri nel pati­re, sappiamo poi con più ca­rità e compassione servire e compatire gli infermi», diceva Camillo ai suoi compagni dal suo letto di malattia.
Appena si furono ristabili­ti, deludendo le aspettative dei Guardiani di S. Giacomo che avevano ormai pronostica­to con soddisfazione il falli­mento dell'impresa, tutti ri­presero il servizio a S. Spirito sicuri ormai d'aver imboccato la strada giusta.
Mons. Cusano andò su tut­te le furie: non era un pia­cere vedersi privato di quelle forze valide tanto più che ciò poteva essere solo un ini­zio... Fece pressioni, interpo­se l'autorità di P. Filippo, minacciò, ma Camillo aveva ormai fatto la sua scelta. Tut­to questo l'addolorava e gli costava immensamente, ma sapeva di avere dalla sua par­te il crocifisso.
L'aveva udito in un'estasi profonda proprio il giorno della maggior burrasca, quan­do era stato rifiutato anche da P. Filippo, e le sue pa­role ormai le portava scolpite nel cuore: «Continua, pau­roso, che io t'aiuterò: que­sta è opera mia e non tua».

IL "SEGNO" DI MAMMA CAMILLA

Ci voleva veramente un gran coraggio per continuare quel tipo di esistenza: tre stuoia per terra, poco cibo, molto lavoro. Un giovane at­tirato dalla carica di carità che li animava chiese di u­nirsi alla piccola famiglia, ma, pur accolto con simpatia, non resistette più di un giorno a quella vita impossibile. Anche Camillo capì di pretendere troppo dalle sue forze e da quelle dei suoi compagni: cercò e trovò in una zona più centrale, via delle Botteghe O­scure, un alloggio più salubre e vi si trasferì il 12 febbraio 1585.
Adesso più nessun vincolo, nemmeno di riconoscenza, lo teneva legato a S. Giacomo, ma il distacco definitivo, pur necessario per acquistare in­dipendenza e libertà d'azione, gli costò moltissimo. In fon­do vi aveva speso quasi die­ci anni e vi lasciava ricordi e amicizie. Proprio lì si era manifestata la volontà di Dio ed era scaturito il suo pri­mo interesse per i malati, che era poi maturavi nella picco­la Compagnia dei Servi degli infermi. Per essa nei momen­ti di quiete aveva buttato giù anche delle regole pratiche senza grandi pretese o proget­ti ambiziosi, ma sature di ca­rità e totalmente finalizzate ai malati. «Desideriamo, con la grazia di Dio, servir a tut­ti gl'infermi con ogni cari­tà», scriveva nella regola 27.
Ormai il campo era aper­to: ognuno che fosse povero e infermo aveva diritto di es­sere servito come «signore e padrone», anzi come «la per­sona stessa del Signore»; se poi fosse stato colpito dalla peste, poteva esigere anche il rischio della vita. L'ospedale rimaneva il luogo privilegia­to del servizio, ma anche le case private entravano nel «grande mare» della carità.
Naturalmente restava paci­fico che nessun compenso po­tesse venir accettato e che si dovesse fuggire persino l'ombra del sospetto di voler sfruttare l'ospedale o di desi­derarne l'amministrazione. Su questo punto in particolare Camillo si mostrò sempre in­transigente fino al punto di scacciarne alcuni dalla Com­pagnia perché avevano osa­to mangiare e bere qualcosa dell'ospedale.
S. Spirito li aveva accolti in sordina, quasi come «rifu­giati politici», ma ben presto avvertì la ventata d'aria nuo­va che vi avevano portato. Alcuni giovani attratti dal lo­ro spirito di totale dedizio­ne ai malati, chiesero ed ot­tennero di aggregarsi.
Se ne sentiva veramente il bisogno perché proprio nel­l'estate di quell'anno Bernar­dino moriva quasi improvvi­samente sfinito dalle fatiche e dai disagi. Camillo perdeva un aiuto prezioso e un ami­co carissimo proprio mentre la Compagnia stava attraver­sando il momento delicato dell'assestamento e del rico­noscimento ufficiale da parte dell'autorità Ecclesiastica.
Se si fosse potuto farne a meno, Camillo certamente a­vrebbe preferito lavorare nel silenzio e nella spontaneità, refrattario com'era per carat­tere a mendicare appoggi e protezioni. Ma poiché un mi­nimo di struttura era pur ne­cessario e Sisto V non scher­zava, una via bisognava tro­varla per ottenere l'approva­zione senza scendere a com­promessi umilianti o suscitare gelosie.
Fu anche fortunato. Un giorno quasi per caso ebbe l'occasione di avvicinare il Cardinale Vincenzo Lauro, uomo molto influente alla Corte pontificia, e senza tan­te parale espose la faccenda. Colpito dalla semplicità e dal­l'onestà di Camillo, il Cardi­nale si fece consegnare il te­sto delle regole e ne parlò al Papa. Nonostante la sua umiltà, Camillo non era poi uno sconosciuto e la sua opera così preziosa per i malati si raccomandava da sola.

LA CROCE ROSSA SUL PETTO

Il 18 marzo 1586 vennero ufficialmente autorizzati a vi­vere insieme in povertà, ca­stità e obbedienza «senz'ob­bligo di voto» formando tra loro una Congregazione deno­minata dei «Ministri degli In­fermi» impegnati a servire «con speciale fervore di cari­tà i malati anche in tempo di contagio».
Il 20 aprile Camillo fu e­letto primo superiore e per dimostrare a tutti come l'in­tendesse quel giorno stesso prese le bisacce a tracolla e andò in giro per Roma a mendicare il pane, raccoglien­do molti insulti e pochissi­me pagnotte. Ma questo non aveva grande importanza: ciò che lo rendeva felice era il fatto di poter ora servire i malati con pieno diritto sen­za più bastoni fra le ruote.
Volle anche un segno ester­no di questa consacrazione. Quando alcuni giorni dopo fu ricevuto in udienza da papa Sisto, superando l'istintivo sentimento di soggezione, chiese il privilegio di portare sopra l'abito una croce ros­sa che testimoniasse la sua «crociata» per i più poveri ed emarginati.
Il 29 giugno i Romani li videro così lungo la strada che portava a S. Pietro, do­ve Camillo aveva voluto con­durre i suoi compagni per un atto sincero di fede e di rin­graziamento. Al momento non capirono e si ponevano domande curiose, ma ben presto si abituarono a .vederli così caratterizzati lungo le corsie dell'ospedale o per le vie della città alla ricerca dei malati più abbandonati; in fretta impararono ad amarli come si amano gli amici più cari nel momento della sven­tura, chiamandoli i «padri del bel morire».
Nella mente di Camillo quel segno non doveva esse­re affatto un distintivo d'o­nore, anzi non si stancava mai di ripetere ai suoi com­pagni una specie di ritornel­lo appassionato: «La croce che portiamo sul petto signi­fica che tutti noi, segnati di questa santa impronta, sia­mo come schiavi venduti e dedicati al servizio dei poveri infermi e che questa che ab­biamo abbracciata è congre­gazione di croce, cioè di mor­te, di patimento, di fatica...». Con un'immagine colorita pa­ragonava poi i ministri degli infermi che si pavoneggiava­no del distintivo senza posse­dere un'autentica carità ad «asini macilenti ricoperti di una bellissima e ricchissima gualdrappa».
Si avverava il sogno di Mamma Camilla. Lì per lì Camillo non ci fece caso, ma alcuni anni dopo ritornando a Bucchianico con alcuni com­pagni sorprese sulle labbra dei più vecchi una «oh!» di meraviglia: si ricordavano del sogno che a suo tempo ave­va fatto il giro del paese. O­ra il significato era veramen­te chiaro. Cosa avrebbero dato perché Mamma Camilla fosse presente! Questa volta il suo Camillo l'avrebbe resa certamente felice.

UNA CASA TUTTA SUA

Frattanto la famiglia au­mentava e urgeva una nuova sistemazione che comprendes­se anche una chiesetta dove i sacerdoti potessero celebra­re la Messa. Passando un giorno davanti alla chiesa di S. Maria Maddalena vicina al Pantheon, Bernardino aveva fortemente sorpreso il com­pagno dicendogli quasi a bru­ciapelo: «Fratello, questa chie­sa sarà nostra», ma poi tutto era finito lì.
Anche Camillo vi aveva fat­to un pensierino sia perché ri­spondeva alle nuove esigenze sia perché nei dintorni si dava­no convegno gli abruzzesi che venivano a Roma. Un giorno prese il coraggio a due mani e chiese in affitto alla Confra­ternita del Confalone la chie­setta e le poche casupole che la circondavano. Egli stesso si rimboccò le maniche e aiutò i muratori nell'eseguire le ripa­razioni più urgenti e nell'a­dattare i locali.
Il grattacapo permanente erano i soldi che non si fa­cevano trovare troppo pun­tuali per pagare l'affitto che diventava di anno in anno più salato. Una volta dovette in­tervenire persino il Papa. Quelli del Confalone ave­vano più volte minacciato di «buttargli le robe dalla fine­stra», ma Camillo ormai era certo che di lì non si sareb­be più mosso; anzi dopo al­cuni anni, sfidando tutto e tutti, decise di comperare le tre casette affittate. «O forse che Dio non può mandare anche subito a questa casa sacchi di quattrini? ...», anda­va ripetendo agli increduli e ai maliziosi. Poco ci manca­va che gli facessero la per­nacchia, ma non si rifiutava­no la soddisfazione di rim­beccarlo: «Oh, Padre Camil­lo, la stagione dei miracoli è passata».
Invece qualcosa successe. Il 17 dicembre 1592 il Cardinal Lauro morendo lasciava par­te della sua eredità alla Con­gregazione, che poteva estin­guere definitivamente il debi­to.
Camillo si sentiva finalmen­te a casa sua e poteva anche programmare qualcosa di più stabile e di meglio organizza­to. Soprattutto bisognava provvedere alla vita comunita­ria e ai turni di lavoro di co­loro che chiedevano di unirsi per il servizio ai malati. Fosse stato per lui avrebbe sempli­ficato molto le cose, ma le leggi c'erano e non poteva i­gnorarle, anche perché i nuo­vi arrivati incominciavano ad essere numerosi, di diversa nazionalità e di mentalità dif­ferenti.

LA FAMIGLIA CRESCE

Ne aveva portati con sè una dozzina nella nuova casa della Maddalena, ma in pochi anni erano aumentati considerevol­mente in quanto egli non chiudeva la porta in faccia a nessuno e si faceva premura, dopo un anno di prova, di «donare la croce» a chi resi­steva al ritmo massacrante della carità.
E non erano tutti poverac­ci o disoccupati; parecchi pro­venivano da nobili famiglie e abbandonavano carriere sicu­re o posti ambiti, pur di se­guire Camillo che li affasci­nava, con quanto piacere del­le rispettive parentele è faci­le immaginarlo. Si narrano fat­ti impressionanti di giovani fi­niti male perché costretti dai familiari ad abbandonare la comunità, o di padri morti in circostanze sconcertanti men­tre tentavano di ostacolare la vocazione dei figli.
Francesco Aldimando, di­ciottenne di Napoli, pieno di entusiasmo aveva raggiunto Roma dove era stato ammesso all'anno di prova, ma suo pa­dre era riuscito con insistenze e minacce a farlo ritornare a casa, infischiandosene degli avvertimenti di Camillo. Nove anni dopo però si avverarono le sue previsioni: si seppe con raccapriccio che era stato decapitato sulla piazza del mercato di Napoli per tripli­ce omicidio.
Un nobile di Roma, irrita­to perché suo figlio aveva ab­bandonato una felice carriera per servire i poveri tra i Mi­nistri degli infermi, progettò nientemeno che un rapimento mentre si recava all'ospedale; ma la notte precedente morì improvvisamente. Questi fat­ti suscitavano profonda emo­zione e lasciavano un certo segno...
Alcuni, nove per l'esattez­za, nei primi due anni di per­manenza alla Maddalena, era­no morti vittime della foro intensa carità e Camillo, pur nel dolore della loro perdita, vedeva nel sacrificio di queste vite un segno palese della pre­ziosità dell'opera e del suo al­to valore umano e soprannatu­rale: nessuno avrebbe rischia­to la vita se non ne fosse val­sa la pena.

NECESSITA' DI PRETI

Restava ancora aperta una grossa questione che turbava non poco Camillo: ogni volta che qualcuno chiedeva di es­sere ordinato prete sorge­va quell'ostacolo del «titolo patrimoniale» richiesto dalle leggi canoniche vigenti di fronte al quale lui stesso ave­va rischiato grosso, e sarebbe stato certamente bloccato se non fossero sopraggiunti prov­videnziali quei benedetti sei­cento scudi di Fermo Calvi.
Non solo era difficile tro­vare i soldi o i «benefici ecclesiastici» esigiti, ma tutto questo cozzava fortemente con il suo concetto di povertà comunitaria. E di preti a­desso ne sentiva veramente il bisogno, perché aveva capito che per riorganizzare tutto il sistema del servizio ai malati dentro e fuori l'ospedale non poteva farne a meno.
La... bomba scoppiò quan­do il Cardinal Paleotti, arcive­scovo di Bologna, ammirato per il tipo di assistenza pre­stato ad un suo familiare di Roma, chiese a Camillo di in­viare alcuni compagni nella sua città. Camillo fece presen­te la difficoltà di trovare i preti necessari per presie­dere la nuova fondazione, ma il Cardinale non sembrò darle molto peso. Conosceva bene gli intrichi curiali e aveva bel­l'e pronta un'onorevole via d'uscita: bastava ottenere la professione dei voti religiosi e farsi ordinare prete a «titolo di povertà».
Camillo rimase perplesso: adesso gli pareva che le cose andassero oltre le sue inten­zioni e rischiassero di impe­golarlo in una istituzione uffi­ciale che poteva anche tarpare le ali alla spontaneità della ca­rità. E poi di Ordini religiosi ne esistevano già parecchi, al­cuni anzi erano stati soppressi e la Curia romana non si mo­strava troppo incline ad ap­provarne altri. D'altra parte però un riconoscimento di quel genere significava mag­gior sicurezza, più stabile in­serimento nella Chiesa e so­prattutto la soluzione ideale del suo problema.
Pregò, digiunò, fece voto di pellegrinare fino a Loreto, mentre con i suoi più stretti collaboratori stendeva un «programma di vita». La tra­fila burocratica fu piuttosto elaborata, ma alla fine con l'appoggio dei Cardinali Paleot­ti e Lauro e soprattutto per la testimonianza concreta di carità offerta da lui stesso e dai suoi in occasione della ter­ribile peste e carestia di quel­l'anno, ne venne felicemente a capo.
Il 21-9-1591 papa Sfrondati (Gregorio XIV), un suo ammi­ratore, firmò la «bolla» di isti­tuzione dell'Ordine religioso dei Ministri degli infermi, nel­la quale riconosceva l'opera di Camillo non solo utile ma ne­cessaria, ne ricordava lo scopo di carità e di assistenza totale ai malati anche appestati e le elargiva favori ed indulgenze.

LA PROFESSIONE SOLENNE

Fu eletto all'unanimità pri­mo generale, nonostante la sua professione di inettitudi­ne e la sua insistente richiesta di essere messo in disparte come «zappa fuori uso» per poter servire meglio i malati. Gli volevano troppo bene per privarsi del suo esempio a ca­po della famiglia religiosa che aveva ormai raggiunto le cin­quanta unità ed era già scia­mata a Napoli per una fonda­zione di assistenza negli ospe­dali di quella città. Nessuno meglio di lui poteva mante­nere la freschezza dello spirito iniziale impedendo che si ap­pesantisse o si intiepidisse per l'aumento del numero e il pas­sare degli anni.
Quando l'otto dicembre di quello stesso anno Camillo con venticinque compagni pro­fessò i voti religiosi in una cornice di serena festività e di cordiale amicizia circonda­to da simpatizzanti e benefat­tori, sentì che l'opera adesso era veramente compiuta e rin­graziò profondamente il Signo­re d'essersi servito di un uo­mo «rozzo e illetterato» co­me lui.
La sera stessa tutti si accor­sero con ammirazione che nul­la era mutato di quel «terri­bile cervello» che prendeva tutto terribilmente sul serio e alla lettera: in mezzo al refet­torio in ginocchio, dopo aver abbracciato uno per uno i suoi confratelli, dichiarò di rinun­ciare ad ogni cosa che posse­deva cominciando dai seicento scudi del titolo patrimoniale fino al vestito che aveva ad­dosso, e chiese in prestito per elemosina alla comunità le ve­sti, il letto, una sedia, un ta­volo e alcune immagini di car­ta. Non si alzò prima di esse­re stato accontentato.
Qualche mese più tardi e­gli stesso ricevette la profes­sione religiosa dei quindici ap­partenenti alla comunità di Napoli, tra cui l'amico caro della prima ora, Curzio Lodi. E poi... via con lui verso Lo­reto, seminando la strada di preghiere e di giaculatorie, per sciogliere il voto fatto e con­sacrare alla Madonna la sua ormai numerosa famiglia.

IL MOMENTO DELLE AUTOCRITICHE

Fu il momento magico delle «autocritiche» e dei «rico­noscimenti» ufficiali. Parecchi di coloro che l'avevano ostaco­lato si ricredettero e non gli risparmiarono lodi e incorag­giamenti.
Primo fra tutti lo stesso Filippo Neri che non si ver­gognò di riconoscere il pro­prio errore e di vedere nel­l'opera di Camillo l'intervento misterioso di Dio. Ma anche Mons. Cusano che aveva deri­so il primo gruppetto di S. Giacomo come «compagnia da baia» volle manifestare la sua ammirazione per Camillo e il suo Istituto professandosi «af­fezionatissimo». Scherzi della Provvidenza! ...
Camillo però non si lasciò montare la testa: era convin­to, e ci teneva a dirlo, che «prima Dio e poi la sua gam­ba impiagata avevano fonda­to l'Istituto». Non c'era quin­di alcun motivo né per glo­riarsi né per temere; bisogna­va solo darsi da fare perché quanto era stato iniziato e portato avanti con l'aiuto del Crocifisso continuasse nel se­gno di una totale dedizione ai poveri e ai malati.
L'aveva detto quasi con to­no ispirato ai compagni un mezzogiorno di ritorno dal gi­ro delle sette chiese di Roma alcuni giorni dopo la profes­sione dei voti: «Dio s'è com­piaciuto di affidare a noi, pur così pochi, il suo grande re­gno della carità; ma non te­mere piccolo gregge perché verrà tempo in cui questa pic­cola famigliola si spargerà per tutto il mondo e questo isti­tuto santificherà molti».

IL GIARDINO FIORITO E DELIZIOSO

Le pastoie burocratiche non avevano minimamente incep­pato l'attività di Camillo al­l'ospedale: un po' di tempo, sì, gliel'avevano rubato, ma c'erano pur sempre le ore del­la notte per testimoniare ai malati che li amava intensa­mente.
Così Santo Spirito divenne mano mano la sua casa pre­ferita, anzi il suo giardino fio­rito dove si recava appena po­teva per tuffarsi quasi con vo­luttà nei servizi più umili e ributtanti.
Una sera, incrociando a me­tà strada un medico suo gran­de amico, lo lasciò di stucco dicendogli che stava recandosi a spasso «in un giardino bel­lissimo, tutto pieno di fiori e frutti, vicino a Castel S. An­gelo». Vicino a Castel S. An­gelo?, il medico non riusciva a raccapezzarsi. Certo, c'erano i Giardini Vaticani, c'erano le ville dei Signori Cardinali o dei Nobili Romani, ma gli pa­reva strano che Camillo vi bazzicasse e per di più a quel­l'ora: inoltre non erano pro­prio da quelle parti! Camillo lo lasciò almanaccare un poco, poi divertito gli svelò l'enig­ma: «Il mio giardino è l'o­spedale di Santo Spirito».

TRA S. PIETRO E CASTEL S. ANGELO

L'aveva fatto costruire In­nocenzo III, un po' come se­gno di prestigio del suo ponti­ficato teocratico e un po' co­me palestra di carità cristia­na per tutti quelli che, roma­ni o no, avessero voluto dedi­care un'ora, un giorno, un an­no, la vita intera all'assisten­za dei malati.
Alto, imponente, sulla riva sinistra del Tevere tra Castel S Angelo e la Basilica di S. Pietro, doveva rappresentare la volontà della Chiesa roma­na di abbracciare tutti gli in­fermi, poveri, malati, vecchi, orfani, perfino le prostitute ravvedute e i «proietti» figli di nessuno. E in realtà ce n' era per tutti i gusti, dal no­bile decaduto al piccolo trova­tello, dal malato febbricitante o cronico al forestiero senza speranza.
Vi provvedeva per volontà dello stesso Papa l'Arciconfra­ternita di Santo Spirito, che annoverava tra i suoi membri uomini illustri e personaggi blasonati accanto a gente sen­za nome e senza titoli. Subì nel tempo varie involuzioni e trasformazioni, ma restò sem­pre intatta la sua funzione-pi­lota nel campo della carità e dell'assistenza cristiana.
Dieci anni prima che Camil­lo vi entrasse era stato ogget­to di una coraggiosa riforma da parte del Commendatore Bernardino Cirillo che vi ave­va profuso tutta la sua pas­sione di uomo colto del Rina­scimento e il suo coraggio di autentico abruzzese perché le cose si mettessero meglio o almeno «andassero manco ma­le». Arrivò perfino ad acqui­stare medicine rare e costose, ma non riuscì a riformare l'as­sistenza ai malati che rimase affidata ai servi «tutta india­volata gente e anormale», che prestavano un servizio «pessi­mo e abbominevole», come scriveva nelle sue memorie.
«Quando uno di essi - rac­conta egli stesso - si presenta ad un infermo per dargli il brodo e trova il poveretto af­flitto, svogliato e tanto debo­le che appena il letto lo reg­ge, invece di aiutarlo con ca­rità e pazienza lo redarguisce imprecando: bevi su, manda giù che ti possi strangolare, che io devo darne ad altri...; e spesso non risparmia al po­veretto nemmeno le busse».
Con la sua opera instanca­bile e intelligente Bernardino poté almeno ottenere un no­tevole aggiornamento tecnico-­organizzativo, ma dovette bat­tere in ritirata di fronte a quella «repubblicaccia» di ser­vi prezzolati e indocili che ba­davano solo ai propri como­di. Così mori con in cuore il cruccio di non essere riuscito ad animarla con lo spirito del­la vera carità, nonostante le visite assidue di persone pie e di uomini santi e l'interesse costante dei Papi.
I suoi successori pensarono più ad abbellire il proprio pa­lazzo che ad alleviare le mi­serie dei poveri ricoverati, i quali talvolta superavano le trecento unità.

POVERTA' E SUDICIUME

Camillo vi trovò una situa­zione allarmante e precaria. L'ospedale raccoglieva i po­veri, solo i poveri, perché i ricchi si facevano curare nelle proprie case: gente con scarsi guadagni o incerte entrate, proletari e sottoproletari, men­dicanti di mestiere e di neces­sità, «burini» e servi della gleba, pellegrini e avventurie­ri, febbricitanti o semplice­mente bisognosi: molti vi ve­nivano a morire.
La corsia principale, la Si­stina, alta e solenne (lunga 120 m, alta 13, larga 12), sormontata nel mezzo da una elegante cupola ottagonale si faceva ammirare per le sue forme armoniose, ma era mol­to triste per il disordine che vi regnava e l'aria irrespira­bile che vi stagnava.
I servizi igienici primitivi, la sporcizia e il sudiciume im­pressionanti, la mancanza di deodoranti e di detersivi ener­gici, le stesse consuetudini di vita estremamente rozze dei malati, la puzza del sudore e degli escrementi, l'andirivieni disordinato degli estranei, il vociare e l'agitarsi irrequieto dei ricoverati, tutto contribui­va a inquinare l'aria e a crea­re un'atmosfera di profondo disagio e di grande sofferenza.
Questo era il giardino fio­rito e delizioso di Camillo, la sua miniera d'oro, il suo nido, il suo cuore, il suo paradiso in terra, come andava dicen­do, convinto e trasfigurato nei sensi dalla magia della carità, a chi gli raccomandava pru­denza e moderazione. Mode­razione? Ormai era tutto e solo per i malati.
Gli sembravano cent'anni i minuti che lo tenevano lon­tano da Santo Spirito e gli pareva di essere «legato alla catena» quando i suoi impe­gni di Superiore Generale lo costringevano a stare in casa alla Maddalena. Appena pote­va essere libero, sgusciava si­lenzioso dalla porta e quasi di corsa lungo via dei Coronari e per ponte di Castel S. An­gelo raggiungeva il suo ospe­dale.
Se il compagno non riusciva a tenere il passo, lo rim­proverava: «Che passo di for­mica è mai il vostro, fratel­lo!»; se l'orologio suonava le ore si lamentava che corresse troppo e gli rubasse il tempo da dedicare ai malati. Piutto­sto che niente, quando non poteva entrare, si accontenta­va di passare rasente le mura e di accarezzarle con le mani. «Mi sento attirato da esso co­me da una potente calamita», confessava candidamente ai suoi compagni, e mille fioret­ti giravano di bocca in bocca sui suoi viaggi diurni e not­turni a Santo Spirito.

UNA CHIAVE CHE APRE IL CIELO

Ma il suo momento magico fu quando ottenne dal Papa la dispensa dalla carica di Ge­nerale dell'Ordine e potè ri­manere giorno e notte all'o­spedale usufruendo di una stanzetta piccola piccola, ma sufficiente per un breve ripo­so notturno. Solo una volta alla settimana ritornava alla Maddalena per un po' di sol­lievo spirituale, e gli pareva un'eternità quella lontananza forzata dal letto dei suoi ami­ci infermi.
Non riusciva nemmeno a concepire che non ci si potes­se trovare bene. «Come non posso star bene qui, stando nel paradiso terrestre, con spe­ranza e caparra di avere an­che il celeste?», rispondeva a quelli che si meravigliavano della sua resistenza fisica e morale. E non c'era alcuna no­ta di esibizionismo in questo suo atteggiamento che scatu­riva da una trasfigurazione to­tale della sua persona, spirito i e sensi, sotto la forza della Grazia e del suo carattere. Quando poi stremato di forze e avanti negli anni do­vette mettersi a letto egli stes­so alla Maddalena, non poten­do andarvi di persona vi man­dava ogni giorno il suo infer­miere perché gli portasse no­tizie sempre fresche e fino al­l'ultimo custodì sotto il guan­ciale la chiave della sua came­retta, illudendosi in tal modo di essere ancora tra i suoi ma­lati. «Questa chiave mi aprirà il cielo», andava ripetendo senza mai stancarsi, e forse proprio così immaginava il pa­radiso: un luogo fiorito e de­lizioso come il suo ospedale di Santo Spirito.

PIU’ ANIMA ALLE MANI

Il lavoro non mancava, anzi ci sarebbero volute mille brac­cia per poter soddisfare tutte le esigenze; ed era un lavoro umile, fatto di fatica, di silen­zio, di profonda mortificazio­ne dei sensi. Camillo non si risparmiava: appena metteva piede all'ospedale si trasfigu­rava e tutto passava in secon­do ordine, anche gli affari e le preoccupazioni più gravi, di fronte ai bisogni dei malati.
Giunto in corsia, correva ai piedi dell'altare che fron­teggiava l'ingresso per recitare la sua preghiera consueta, quindi, indossata la sopravve­ste di tela nera e appesi alla cintola gli oggetti indispensa­bili del mestiere, si presentava a tutti con viso sorridente e con tale disponibilità da di­sarmare anche i più restii e riservati. «Fratello - susurra­va amorevolmente - non portarmi rispetto: comanda­mi pure perché io non solo sono tuo servo, ma mi sono fatto schiavo tuo, e per que­sto sono obbligato a servirti e ad obbedirti ogni volta che mi comandi».
Così tutti i servizi erano suoi, senza discriminazioni o gerarchie, senza limiti di tem­po o di fatica: l'unico privile­gio che rivendicava per sé era di poter riservarsi i casi più «brutti», gli emarginati per le loro condizioni ributtanti, i segnati a dito per il loro ca­rattere violento, gli inconten­tabili a oltranza.
Chi ne godeva maggiormen­te erano i servi, a cui non sembrava vero di poter scari­care quei ruderi umani sulle spalle di Camillo. Girava una battuta scherzosa ma signifi­cativa: «Lasciamo questi tordi al padre Camillo». Loro, i mercenari, forse pensavano di fare i furbi, ma in realtà gli procuravano un vero piacere dandogli la possibiltà di sod­disfare sino in fondo la sua esigenza di sentirsi totalmente «venduto» ai malati.
Ciò che lo scocciava mag­giormente era di non arrivare sempre ad indovinare pronta­mente i desideri dei più gravi e bisognosi. Non era certa­mente colpa sua se qualcuno aveva la lingua così impastata da non riuscire ad espri­mersi chiaramente, o se qual­che altro stava talmente fuori di sé per la febbre da esigere cose assurde: ma Camillo non si dava pace ed escogitava tut­te le maniere, anche le più ri­dicole, pur di captare ciò che volevano. Non sempre gli an­dava liscia e allora si tormen­tava e chiedeva perdono in ginocchio.
Stramberie isteriche le giu­dicavano i «saggi» dell'ospe­dale, quelli che erano abituati a misurare tutto con il metro della ragione e non potevano capire che Camillo agiva su un'altra lunghezza d'onda. Lui, no, faceva terribilmente sul serio e nemmeno certe ri­spostacce e certi insulti da far rabbrividire anche Giobbe lo turbavano,
Qualche malato, esasperato dal male, arrivò perfino a spu­targli in faccia il cibo che a­veva appena ingoiato, o a col­pirlo con i pugni e con quan­to aveva in mano, non sen­tendosi capito e assecondato subito nei suoi desideri: l'uo­mo vecchio, quello dei campi di battaglia o delle risse al gioco fremeva sotto la ruvida veste nera e i presenti impau­riti aspettavano che da un momento all'altro esplodesse. Quando lo vedevano chinarsi sul malato e, per tutta rispo­sta, baciarlo, rimanevano for­temente impressionati e non sapevano più se ammirarlo o considerarlo un pazzo.
Qui, secondo le loro cate­gorie umane, qualcosa non quadrava, ma... andate a fare i conti in tasca a certa gente...

I LEGITTIMI PADRONI

Anche i nuovi compagni, gli aspiranti, i novizi or­mai non si meravigliavano più e accettavano con grande edi­ficazione perfino le verità più crude e certe confessioni che Camillo spiattellava loro in faccia con schiettezza campa­gnola per disilluderli da ogni puerile sentimentalismo o fal­so entusiasmo. «Ho ricevuto spesso pugni, schiaffi, sputi, villanie d'ogni genere dagli in­fermi, con mio grande conten­to del resto allegria, perché gli infermi mi possono non solo comandare, ma dirmi in­giurie e villanie come miei veri e legittimi padroni», di­ceva convinto senza una bri­ciola di retorica.
Se la pensava così, allora non stupivano più nemmeno certi suoi atteggiamenti, certe sue prese di posizione quasi assurde, come quella di non accettare neppure un bicchie­re «d'acqua cotta» perché «tutto quello che l'ospedale possiede è dei poveri». Allora si potevano capire anche le sue delicatezze quasi raffina­te che facevano a pugni con la sua rozza corporatura: cia­batte scamosciate per non far rumore, conserva di rose e acqua di cedro per spruzzare le piaghe e allontanare dai ma­lati i cattivi odori, mele cot­te, arance, uova, frutta pri­maticce o di stagione per ac­contentare anche i più capric­ciosi.
Soprattutto si spiegava il suo accanimento per la puli­zia, l'ordine del servizio, il rispetto profondo del malato. Quando un giorno vide dei servi che ridevano a crepapel­le alle spalle di un povero febbricitante che in preda al delirio se ne andava nudo per la corsia, non seppe trattener­si: allora sì che l'uomo vec­chio si alleò con quello nuo­vo e fece sentire la sua voce fremente di sdegno, ma c'era un debole da difendere.
Nulla lo trattenne dal pren­dere la scopa per spazzare la corsia o il raschietto e il bru­schino per raschiare i pavi­menti sudici; tanto meno cre­dette di disonorare il suo sa­cerdozio prestando ai malati anche i servizi più umili e delicati.
Così lo si vide spesso girare per la corsia portando alla cintola un orinale per rispar­miare ai malati lo sforzo di scendere dal letto. Medicava con le sue stesse mani le pia­ghe purulenti, imboccava quel­li che non erano autosuffi­cienti, sosteneva pazientemen­te i deboli che camminavano con fatica, lavava e cambiava di biancheria chi si era spor­cato, rassettava i letti e ri­metteva i malati a loro agio. Arrivava persino a ripulire con una palettina di osso av­volta in una pezza di lino le lingue dei febbricitanti rico­perte di patina o bruciate dal mughetto. Condiva tutte le azioni con parole di affetto e di speranza.
Una carità così premurosa, così attenta non poteva non arrivare al cuore dei malati ed essere già per se stessa, senza aggiunta di grandi di­scorsi, un sollievo e una cari­ca di fiducia: tutti quelli che ne beneficiavano, riportavano un'impressione così forte che spesso cambiava perfino il corso della loro vita.
Ma Camillo sapeva anche parlare, un parlare semplice, franco, senza tanti concetti dottrinali o fronzoli retorici, che agganciava immediatamen­te l'interlocutore e lo conqui­stava soavemente, perché ve­niva da una fede serena e da una sincera partecipazione al­la sofferenza dell'altro. «Ha l'intelligenza della carità», si diceva in giro con ammirazio­ne, ma lui più semplicemente affermava di seguire «la via dei carrettieri», quella, per in­tenderci, comune, popolare che usano gli uomini per ca­pirsi al primo contatto, senza tante parole, nel segno dell'a­micizia, o che percorrono le mamme per arrivare efficace­mente al cuore dei figli.
Del resto con una cultura molto limitata e una prepara­zione teologica approssimativa non poteva permettersi il lus­so di intavolare discussioni dotte o improvvisare discorsi eruditi. I suoi scritti faticosi e spesso sgrammaticati rivela­no la sua scarsa dimestichezza con la lingua italiana. «Sono come un povero parroco di campagna - si schermiva scivolando nel paradosso - e non so leggere che sul mio messale».
Eppure le sue parole cala­vano dritte al cuore come un refrigerio e sapevano restitui­re al malato quella serenità e quella pace interiore che tal­volta valevano più della gua­rigione
In fondo però un libro di grande valore l'aveva anche lui, un libro prezioso che solo pochi occhi riescono a leggere sapientemente ed interpretare autenticamente. Era il "suo" crocifisso davanti al quale ini­ziava e concludeva la giornata.
Lo aiutava a capire gli al­tri crocifissi che incontrava nelle corsie dell'ospedale o per le strade, uomini senza avvenire e senza speranza che bisognava saper leggere sulla stessa falsariga del dolore e dell'amore per ricuperarli alla vita e alla grazia. Camillo era diventato un maestro anche di questa scuola e non c'era nes­suno che lo batteva nel coglie­re il momento giusto per dire la parola giusta, quella che scuote senza fare violenza e salva.
Un giorno, mentre rifaceva il letto a un vecchio paraliz­zato, ascoltava pazientemente i ricordi di gioventù che co­stui snocciolava esaltando le sue imprese militari nella guerra di Fiandra e la sua snellezza nel saltare per primo dentro le mura d'Anversa. Era la buona occasione. «Fratello mio - gli disse - ora che sei vecchio ti resta da fare un altro bel salto... da qui a las­sù», e indicò il cielo. Il vec­chio capì e fu l'inizio di un colloquio che lo dispose a una morte serena.
Erano incontri d'ogni gior­no, cordiali nel contatto, di­screti ma stimolanti nella pro­posta, sempre aperti alla fidu­cia che l'ora della grazia, se si sapeva attendere vigilanti e premurosi, sarebbe arrivata puntuale. Talvolta era neces­sario forzare un po' la mano, quando si vedeva che l'infer­mo stesso desiderava essere aiutato spiritualmente senza avere il coraggio di fare il pri­mo passo, ma sempre con de­licatezza e rispetto.
Soprattutto quando le ore erano contate e rimaneva ben poco tempo da vivere, Camil­lo sapeva essere nello stesso tempo tempestivo e discreto nel suo intervento, acquistan­do ben presto fama di «padre del bel morire». Molti de­sideravano averlo accanto in quel momento decisivo per affrontarlo con serenità e co­raggio ed egli sfruttava saggia­mente questo "dono" di farsi richiedere per portare il mori­bondo al di là della sua per­sona, accostarlo a Dio e di­sporlo interiormente all'incon­tro finale.
Specialmente a S. Spirito imparò l'arte preziosa e deli­cata di preparare i malati al­la morte. Il tempo che tra­scorreva al capezzale dei mori­bondi era per lui il più pre­zioso. Lo condiva di preghie­re sommesse, lo riempiva di atti di particolare delicatezza, alternando all'aiuto spirituale il sollievo fisico, specialmente d'estate quando le labbra e la gola si seccavano facilmente e le mosche, le zanzare, le cimi­ci prendevano d'assalto il po­veretto che non poteva difen­dersi.

UN PO' DI CALORE E DI VITA

La stessa cura e la stessa delicatezza usò nel dare ai malati i Sacramenti: offriva, non imponeva com'era pur­troppo nell'usanza del tempo; anzi faceva in modo che fos­sero i malati stessi a richie­derli, attratti dalla testimo­nianza di carità cristiana che davano coloro che li assiste­vano.
Questo suo comportamento rompeva decisamente gli sche­mi tradizionali e creava un certo malumore tra i cappel­lani dell'ospedale che ligi al dovere d'ufficio di esigere dal malato la confessione e comu­nione al momento dell'entra­ta, lo trascuravano poi quasi completamente una volta col­locato in corsia. Camillo li metteva alla frusta e li avreb­be volentieri sostituiti con i suoi preti se non gli fosse stato impedito da una legisla­zione ben attenta a difendere i benefici ecclesiastici e le pre­bende, ma poco sensibile alla voce dei deboli e dei bisogno­si. Si arrangiò come potè, sup­plendo dov'era possibile, insi­stendo e minacciando quand'era necessario. Alla fine qual­cosa ottenne, ma certamente non come avrebbe voluto.
Si aggrappò a tutte le oc­casioni per creare una maggio­re sensibilità verso i valori spirituali e per dare ai ma­lati tutti i conforti della fede.
C'era a Santo Spirito l'u­sanza della comunione gene­rale mensile, che spesso però si riduceva ad una scadenza puramente formale, utile per tranquillizzare la coscienza dei cappellani, ma poco giovevo­le agli interessati per la scarsa preparazione e la frettolosa celebrazione. Camillo volle ri­valorizzarla premettendole un' efficace catechesi e celebran­dola con particolare solenni­tà così da creare un'atmosfera di spiritualità e di fervore a cui era difficile sottrarsi.
Proseguendo nella sua opera di riforma, chiese ed otten­ne dal Papa il permesso, al­lora eccezionale, di portare ogni settimana l'eucaristia ai malati che la desideravano. Se di fatto non riuscì mai ad attuare questa iniziativa fu per la poca disponibilità dei cappellani, a cui spettava di diritto, e per l'ostilità più generale dell'ambiente che non voleva essere troppo scomo­dato. Lui ci soffriva e cerca­va almeno di far felici i ma­lati con la sua presenza sa­cerdotale celebrando per loro la Messa all'altare collocato sotto la cupola della corsia Sistina, ogni volta che si fer­mava di notte all'ospedale.

UNA CAMERETTA TUTTA PER SÈ

Oggi a noi, abituati a un clima di libertà e responsabi­lità personale, tutte queste iniziative potrebbero apparire ovvie, ma ai tempi di Camil­lo le cose stavano ben diver­samente.
Dovette superare un muc­chio di pregiudizi e di incom­prensioni per imporre il suo stile e il suo ritmo. Venne giudicato « scrupoloso e fasti­dioso » da chi era scocciato dal suo zelo apostolico e fu gratificato di titoli non certa­mente gentili, tra cui « testa ferrata » e « insopportabile sfrattaguardaroba » passavano per i meno offensivi. Camil­lo però non si turbava per così poco: se bisognava rim­boccarsi le maniche per i ma­lati tanto valeva farlo sino in fondo.
Una consolazione però l'eb­be prima di morire e fu quan­do a testimonianza della loro fiducia i Priori di Santo Spi­rito gli offrirono l'alloggio nel­l'ospedale: una cameretta ri­cavata da un angolo del cor­ridoio del piano superiore con dei tavolati. Era una cosa ec­cezionale.
Camillo ne fu felice e vide in questo « privilegio » un se­gno che la sua opera riforma­trice stava acquistando dei so­stenitori e che qualcosa si sta­va muovendo tra le secche del­la tradizione a favore dei suoi malati. Quando morì, la ca­meretta rimase vuota e a nes­suno fu permesso di dormirvi, quasi a significare che si era perso qualcosa d'insostituibile.
La famiglia nel frattempo era cresciuta e nuove Comu­nità erano sorte in diverse parti d'Italia. Camillo non si stancava di portare in giro la sua « gamba marcia » e il suo cuore per spronare ciascuno a dare tutto per i poveri e i malati e a prestare loro ogni servizio con lo stesso amore e la stessa dedizione con cui avrebbero servito Gesù Cri­sto che in loro si era piena­mente identificato, come dice Matteo nel suo Vangelo (c. 25).
E lui ci credeva veramente e veramente vedeva Gesù nel malato, nel povero, non per­ché avesse provato delle e­sperienze straordinarie o aves­se ricevuto rivelazioni parti­colari, ma per una conquista sua, frutto di fede semplice e profonda, di un amore auten­tico e gioioso. Era felice di crederlo: ecco tutto! E tale felicità lo portava anche a co­municarla agli altri e a porre gesti incomprensibili per chi non riusciva ad entrare nella sua ottica.

SIGNORE MIO, ANIMA MIA

Quando il primo lunedì di Quaresima partecipando alla predicazione serale sentiva spiegare il passo del Vangelo di Matteo, lo assaporava in tutta la sua intensità. Se poi il predicatore non si sofferma­va, come avrebbe desiderato, sul « Venite benedetti al Pa­dre mio, perché ero infermo e mi avete visitato», restava un po' deluso. Allora nel ri­tornare a casa non si stancava di ripetere ai compagni che « quella predica era come un anello prezioso a cui però mancava il rubino ».
E mentre ripeteva agli al­tri « di fare attenzione, ser­vendo i malati, alla persona del Signore », egli stesso si poneva davanti a loro « co­me alla presenza del Signore, a capo scoperto, e non ces­sava di baciargli le mani e i piedi, arrivando persino a do­mandare loro perdono dei suoi peccati ».
« Signore mio, anima mia che posso io fare per te? » domandava preoccupato ad un infermo ributtante e in­contentabile un giorno. Una volta nell'« ospedaletto, » do­ve si portavano i malati or­mai spacciati e per di più puzzolenti per le piaghe o le cancrene, ne trovò uno così pieno di « brutture » da su­scitare orrore e ribrezzo. Ca­millo non perse tempo. Te­mendo di non ricevere l'oc­corrente dai responsabili del­l'ospedale, corse a casa, alla Maddalena, prese in cucina la catinella più grande, un bel pezzo di sapone, un asciuga­toio, un mazzetto di erbe aro­matiche e tornò velocemente all'ospedale per lavare e ri­pulire dalla testa ai piedi quell'infelice, asciugandogli poi le membra doloranti «co­sì caramente e delicatamente come fossero quelle stesse di nostro Signore ».
Una notte lo sorpresero in ginocchio al letto di un in­fermo, isolato nello stesso o­spedaletto per un puzzolente cancro in bocca da non po­ter essere sopportato da nes­suno: Camillo standogli so­pra « fiato a fiato », gli dice­va parole tanto affettuose da « parer impazzito d'amore co­me fosse l'amato suo Signo­re ».
Ma la risposta più signifi­cativa la diede proprio al Di­rettore dell'Ospedale di San­to Spirito, Monsignor Commendatore, quando un giorno lo mandò a chiamare urgen­temente mentre era impegna­to a servire un malato piut­tosto difficile: « Dite a Mon­signore ch'io sto occupato con Gesù Cristo, ma come avrò finita la carità, sarò da sua signoria illustrissima ».
Nè si può dire che gli in­fermi e i poveri che curava l'aiutassero a vedere facilmen­te in loro la persona di Ge­sù Cristo. Al contrario lo rappresentavano piuttosto ma­le in quanto proprio all'ospe­dale veniva a rifugiarsi e a morire la gente più povera e disgraziata, i senza casa, i senza famiglia, gli emarginati della società, spesso difficili nel carattere e nelle reazio­ni per le miserie e il male che li tormentava.
Perciò Camillo non si stan­cava di ripetere e raccoman­dare ai suoi compagni pazien­za e amore, fede e coraggio: « non bisogna mai perdere di vista Dio, ma contemplare il Creatore nella, Creatura ».

NAPOLI, GENOVA E LA «CARA» MILANO

Nel 1587 Camillo aveva ac­cettato di aprire una Casa a Napoli, la prima fuori Roma, per il servizio all'ospedale de­gli Incurabili e vi aveva man­dato a dirigerla il primo prete novello della Compa­gnia, P. Biagio Oppertis, na­tivo della stessa città. Con lui appena ventisettenne scambiava frequentemente delle lettere per guidarlo e chiedergli consigli, ma anda­va spesso anche a trovarlo perché lo stimava e lo amava teneramente. In diciotto anni l'esempio di carità eroica dei Religiosi nelle case private, negli ospedali degli Incurabi­li, dell'Annunziata e di San Giacomo degli Spagnoli, ma soprattutto durante la peste in Napoli e a Nola (1600), suscitò molte vocazioni e P. Biagio si trovò circondato da una numerosa comunità: ot­tanta professi e altrettanti no­vizi.
Se la fondazione di Napo­li era stata un po' una sor­presa per tutti e poteva sem­brare un'avventura, dalla fi­ne del 1591 in poi una vo­lontà cocente di espandersi per raggiungere il maggior numero possibile di infelici prese prepotentemente Camil­lo. Così nel giro di pochi an­ni, confortato dalla benevo­lenza di Papa Clemente VIII, decise due fondazioni al Nord Italia: Milano e Genova.
Soprattutto Milano gli era cara per il ricordo di carità squisita che vi aveva lasciato Carlo Borromeo. Vi giunse quasi alla chetichella nel 1594 contro il parere di molti e senza raccomandazioni che non fosse la sua carità e quel­la dei suoi compagni. Prese alloggio in piazza Borromeo e subito offerse la sua opera ai Signori dell'Ospedale Mag­giore, la « Ca' Granda », tan­to cara al cuore dei Milanesi. Intercorsero parecchie tratta­tive mentre Camillo coraggio­samente faceva la spola tra Roma, Napoli, Genova e Mi­lano per consolidare le varie fondazioni. E proprio a Mi­lano gli fu offerta la « gran­de occasione »: assumersi il servizio completo dell'ospe­dale, sostituendo « i serven­ti delle crocere » e prenden­do stabile dimora all'interno del luogo di cura.
Questo era sempre stato il suo sogno e corrispondeva pienamente alla sua intenzio­ne iniziale. Perciò superando ostacoli non indifferenti sia all'esterno che all'interno del­l'Istituto, accettò la propo­sta: il 3 luglio 1595 tredici religiosi si stabilirono nell'ospedale costituendo la prima comunità al completo servi­zio dei malati con fissa re­sidenza interna.

LA CONTROVERSIA DEGLI OSPEDALI

Era un impegno che richie­deva continuità di servizio, dedizione straordinaria e su­perava la tradizione sino al­lora seguita di recarsi all'o­spedale mattina e sera per prestare la propria opera sen­za responsabilità diretta e senza essere in nessun modo legati ad esso. E qui scop­piò... la bomba! Camillo si trovò di fronte la resistenza dei suoi religiosi che giudi­carono quella decisione con­traria alle Costituzioni appro­vate da Papa Gregorio XIV.
Non tutti infatti, e lo si può ben capire, potevano se­guirlo per una strada che li legava totalmente all'ospedale e li esponeva a tutte le fati­che, anche le più gravose, no­nostante fossero mossi da un autentico spirito di sacrificio. Loro dovevano fare i conti con una natura più debole e con una reazione dei sensi che non sempre la fede po­teva sublimare. Non era egoi­smo o paura: era semplice­mente un guardare la realtà con un po' di buon senso e non solo con il cuore.
Camillo, e fu questo un suo limite anche se spiegabi­le con la forza del suo ca­rattere e la straordinarietà della Grazia ricevuta, non ar­rivò a capire immediatamente certe loro « riserve » che, a suo parere, minavano la to­talità della donazione esigita. Talvolta intervenne con una certa durezza, altre volte si mostrò ostinato nel suo pro­posito, ma più spesso li in­ fervorava con il suo esempio e li spronava con parole amo­revoli e forti nello stesso tempo.
Solo quelli che cadevano ammalati avevano il diritto ad un'attenzione particolare e per loro si faceva in quattro per accontentarli e incorag­giarli. « Un buon soldato muore in guerra, un buon marinaio muore in mare, un buon ministro degli infermi muore all'ospedale»,         soleva ripetere con la cadenza di uno slogan.

FORTI TENSIONI E RESISTENZE

Si crearono delle forti ten­sioni. Accettare significava il suicidio degli individui e del­l'Istituto stesso, proclamava­no i più prudenti. Parecchi infatti morivano ogni anno vittime della loro generosità. Altri, pur accettando il ser­vizio completo, avrebbero vo­luto lasciare agli inservienti gli uffici più faticosi e umi­li. Alcuni, che avevano pre­cise responsabilità nell'Istitu­to, approfittando dell'amici­zia e della confidenza che li legava a Camillo, cercavano di moderare quella « testa ferrata » portando le motiva­zioni di una carità che dove­va rivolgersi anche ai confra­telli per non buttarli allo sba­raglio con il rischio di bru­ciare presto e totalmente le loro energie lasciando i ma­lati senza quell'assistenza di­retta che sembrava loro la più importante.
La « controversia degli o­spedali », come venne chia­mata, si trascinò con fasi al­terne per alcuni anni impe­gnando mente e cuore di tut­ti per trovare una soluzione che non mortificasse l'ardore del Fondatore e nello stesso tempo riportasse la pace e la serenità nell'Istituto.
P. Oppertis, forte del so­stegno della sua numerosa comunità e del suo prestigio tra i confratelli, legato da una tenera amicizia a Camil­lo, cercò una mediazione e chiese che la questione fos­se trattata dal primo Capito­lo Generale convocato per l'aprile del 1596. Lo scontro fu inevitabile.
Camillo convinto che la decisione presa a Milano ed estesa a Genova apparteneva di fatto « all'anima dell'Isti­tuto», resistette; gli altri ven­titré religiosi guidati da P. Oppertis la ritenevano inve­ce contraria alla tradizione e non conforme al documento papale di approvazione. Fu chiesto anche il parere di e­sperti e persino il giudizio e l'arbitrato di Papa Clemente, il quale rispose che « non si prendessero altri ospedali, ma si continuasse nel servizio de­gli infermi di giorno e di notte come in passato ».
Camillo dovette rassegnar­si al momento e arrivò per­sino a scusarsi umilmente da­vanti al Capitolo « di non aver saputo far più e meglio, però d'aver agito senz'altra mira che la gloria di Dio e l'aiuto dei poverelli ».

MALIGNE INSINUAZIONI

Si poteva pensare che tut­to fosse finito e Camillo stes­so lo sperava; ma le richieste e i bisogni dei malati, l'espe­rienza felice di Milano e di Genova rimisero ben presto tutto in discussione: erano per lui la vera voce di Dio e valevano più delle questio­ni di diritto o delle riserve dei suoi religiosi più pruden­ti. In fondo era lui il fonda­tore e quindi (pensava) po­teva anche imporre a chi vo­lesse seguirlo una forma di vita come l'aveva intuita al­l'inizio davanti al suo croci­fisso: ora la Provvidenza gli concedeva finalmente di at­tuarla.
Adesso però doveva fare i conti con P. Oppertis e i quattro Consultori che gli a­vevano messo vicino per trat­tare tutte le faccende di una certa importanza. Convinto che Papa Clemente non fos­se pregiudizialmente contra­rio, si mise a persuadere i suoi religiosi più con i suoi esempi che con le parole. Vis­se in quegli anni quasi inin­terrottamente alla «Ca' Gran­da » quand'era a Milano e a S. Spirito quando si trova­va a Roma. Intanto pregava, faceva penitenze e si dava da fare per ottenere il con­senso dei suoi collaboratori.
Stava già per avere un certo successo, trovando una via d'accordo con P. Opper­tis, quando qualcuno insinuò malignamente che il « servi­zio completo » voleva essere il primo passo per impadro­nirsi delle amministrazioni de­gli ospedali. Persino il Papa si lasciò influenzare e lo disse apertamente a Camillo che soffrì immensamente e respin­se decisamente l'insinuazione.
Convinto che la carità non conosce riserve ritornò alla carica nel secondo Capitolo Generale del maggio 1599, ma tutto rimase sospeso co­me prima: Camillo nel vo­ler « pigliare » gli ospedali in considerazione del bene u­nico dei malati, gli altri nel resistere in nome del buon senso e di un'assistenza più diretta agli infermi, senza sfi­brarsi in lavori di facchinag­gio e legarsi totalmente all'o­spedale.

UNA VIA D'USCITA ONOREVOLE

Nel 1600 P. Oppertis, sempre impegnato a supera­re la « controversia », pro­pose una nuova « formula » con la quale si concedeva a Camillo l'abitazione e il ser­vizio completo negli ospedali, fatta riserva per « le fatiche grosse », e l'esonero dalle nuove disposizioni per i già professi che non si sentivano di accettarle. Fu convenuto di farla sottoscrivere da tutti i religiosi e di presentarla poi al Papa per l'approva­zione.
Camillo stesso con i Con­sultori si mise a viaggiare per spiegare ai suoi religiosi i contenuti del compromesso e ottenere la sottoscrizione. Riuscì quasi miracolosamente a farla accettare da tutti. Quando tornò a Roma, anche se aveva dovuto rinunciare a qualche cosa, si sentiva or­mai sicuro di aver partita vinta sull'essenziale. Infatti il 29 dicembre 1600 Papa Clemente VIII, dopo il pa­rere favorevole di una com­missione di studio, in cui Camillo profuse tutte le sue energie e fece pesare le sue esperienze, approvò la « nuo­va formula di vita».
Camillo ottenne che i suoi religiosi, padri e fratelli, ser­vissero spiritualmente e cor­poralmente i malati degli o­spedali abitando in essi gior­no e notte e li impegnò a non mutare questo modo di servire gli infermi se non per renderlo ancor più im­pegnativo. E per dissipare ogni dubbio o insinuazione di particolari interessi, li ob­bligò con voto «a non ope­rare, né per nessuna ragione consentire, di avere la dire­zione né curare l'amministra­zione degli ospedali, per dar­si interamente e puramente al servizio dei malati».

NUOVE FONDAZIONI

Terminava così «la batta­glia dei giganti» con una fe­cile conciliazione tra il «cuo­re» di Camillo e la «mente» degli altri: l'Istituto ne usci­va rinvigorito e rilanciato. In poci anni le fondazioni si moltiplicarono: Bologna, Fi­renze, Ferrara, Messina, Pa­lermo, Mantova, Viterbo, Bucchianico, Chieri, Borgo­novo, Caltagirone. Quando nel 1607 Camillo rinunzia­va al generalato, si contavano ben 242 religiosi professi di cui 88 preti e altrettanti, o poco più, fratelli infermieri, il resto chierici studenti. I novi­zi erano più di 80.
A dimostrazione che nono­stante la «controversia» tutti si erano impegnati a fare il proprio dovere con carità squisita e spesso anche eroica, soprattutto in tempo di peste, rimane il fatto che in questi 23 anni dalla fondazione ben 135 religiosi erano morti of­frendo la propria vita per i malati.
Camillo frattanto non ave­va mai cessato di dedicare an­che i più piccoli ritagli di tem­po ai suoi malati, senza la­sciarsi frenare dalle questioni o dalle pratiche burocratiche: lo spingeva quasi una forza so­vrumana che meravigliava e trascinava all'azione. Ma fino a quando ce l'avrebbe fatta?

MORIRE D’AMORE

Proprio bene non stava nemmeno lui, e non solo per la piaga al collo del piede de­stro che con il tempo si era talmente inasprita da obbligar­lo a trascinare la gamba come poteva e a scuoterla per terra con forza illudendosi di vin­cere il dolore, ma anche per altre infermità che si erano mano mano aggiunte procu­randogli grandi sofferenze.

LE CINQUE CAREZZE DIVINE

Ancora a S. Giacomo aveva rimediato un'ernia inguinale che tentò di contenere con un cinto di lamine di piombo sno­dabili applicate a una striscia di ruvida canapa: «segno del­la schiavitù ai malati», lo chia­mava scherzosamente. Costret­to dal suo stesso ufficio a un continuo movimento, per 25 anni patì le pene dell'inferno per certi grossi calli sotto le piante dei piedi, ma, secondo le sue categorie spirituali, do­vevano ricordargli ad ogni pas­so di essere in croce con i pie­di trafitti, «volendo Nostro Signore che mi ricordi - di­ceva - che questa terra non è la mia patria e perciò aspi­rando al cielo mi affretti con le buone opere a guadagnar­mi il palio e la corona».
Dal 1604 alla morte per die­ci anni andò soggetto a coliche renali che lo rendevano uno straccio nei momenti più acuti delle crisi, ma - secondo lui - gli andavano bene perché «lo avvezzavano a servire il Si­gnore senza alcuna sorta di diletto». A forza poi di ingi­nocchiarsi per terra nei vari servizi ai malati gli erano cre­sciute certe protuberanze car­tilaginose alle ginocchia che gli rendevano assai faticoso il piegarsi.
Camillo chiamava questi malanni, con un'immagine ti­picamente sua, «le cinque mi­sericordie o carezze divine», e sapeva anche scherzarci sopra con spirito bonario e faceto: «Il Signore mi ha lasciato senza piaghe solamente le ma­ni, perché se avessi avute im­piagate anche queste, non a­vrei potuto esercitarmi in be­neficio dei poveri».

GLI STRAORDINARI DELLA CARITA'

Non mancavano di tanto in tanto nemmeno gli... straordi­nari per completare il conto, come quando si prese, duran­te un'epidemia; una infezione cutanea tormentosa che non lo lasciava dormire né di giorno, né di notte. Ci volle tutta l'autorità del Superiore per co­stringerlo a fermarsi a letto e per fargli capire che aveva bi­sogno di riposo.
Riposo? roba di lusso, roba da signori, non certamente per lui che aveva fatto voto di «servire tutti con ogni carità». E se non tutti, moltissimi riu­scì a raggiungere e a benefi­care, su e giù per l'Italia, no­nostante la «gamba marcia», a fondare nuove comunità o­spedaliere e a donare ai ma­lati, ai poveri quello di cui avevano diritto: assistenza e pane.
Napoli, Milano, Genova, Bologna, Firenze, Ferrara, la Sicilia e altre città della peni­sola potrebbero ancora raccon­tare i gesti, le parole, i sospi­ri angosciati di fronte a una miseria e a una sofferenza che superavano le sue umane capacità e gli dilatavano anche fisicamente il cuore per la passione e il tormento di non poter arrivare a tutto. «lo sto mangiando pane di cordoglio - sbottava ogni tanto sconso­lato - a vedere soffrire que­ste membra di Cristo, senza poter prestare loro quell'aiuto di cui abbisognano».
Eppure non si dava mai vin­to di fronte agli ostacoli e al­le difficoltà che gli si presen­tavano nel servire i sofferenti, nemmeno davanti agli ordini drastici di alcuni Prelati roma­ni i quali non avrebbero vo­luto che si interessasse dei po­veri e mendicanti sfrattati da Roma in modo inumano du­rante la carestia del 1590, e riuscì a salvarne parecchi mo­dificando non poco la situazio­ne. Nei momenti più gravi mise a loro disposizione per­fino la casa della Maddalena e non badò a spese pur di rifo­cillarli e vestirli.
A Milano nella Ca' Gran­da, come a Roma, spesse vol­te lo si vide raschiare sotto i letti con una paletta di ferro di sua invenzione il pavimen­to sudicio per i rifiuti incro­stati e maleodoranti.

LE SAGRE DELLA CARITA'

Durante le epidemie anda­va di persona a scovare i ma­lati rintanati nelle grotte o ne­gli anfratti dei vecchi monu­menti romani in decadenza.
Le epidemie, questi flagelli che si abbattevano sulle popo­lazioni indifese sotto forma di peste, tifo petecchiale, febbri putride e le decimavano, rap­presentavano per lui e i suoi religiosi i «momenti forti» della testimonianza evangelica. Le chiamava scherzosamente «sagre della carità», anche se spesso ci si giocava la vita e qualcuno soccombeva.
La prima si celebrò a Roma nell'estate del 1590 ed ebbe per teatro le Terme di Diocle­ziano dove erano sistemati alla rinfusa in pietose condizioni igieniche i lavoratori della la­na e della seta chiamati dal Nord da Sisto V. Favorite dal caldo e dalla sporcizia scop­piarono febbri malariche e ti­foidee. Camillo e i suoi furo­no i primi a rendersene conto e a organizzare i soccorsi, non dando tregua alle Autorità perché intervenissero decisa­mente con sussidi e rimedi efficaci e buttandosi senza ri­sparmio nell'assistenza ai col­piti.
Un Cardinale lo fermò un pomeriggio per strada chie­dendogli come stessero i suoi malati, Camillo se ne sbrigò in fretta: «meglio», rispose riprendendo il cammino. Ma poiché il Cardinale voleva sa­perne di più, «Monsignore - gli disse alzando il mantello e mostrando un pentolino - la prego di non trattenermi di più perché passa l'ora di que­sto rimedio che porto a un malato», e prosegui la sua corsa verso chi in quel mo­mento aveva più bisogno.

PER QUESTO CI ANDIAMO

Alle febbri estive seguì la carestia che riversò sulla città ondate di mendicanti in cerca di cibo. Non riuscendo spesso a trovarne nemmeno tra i ri­fiuti di chi poteva, si amma­lavano e morivano per le stra­de o tra i ruderi del Palatino, del Foro, del Colosseo, delle Terme di Caracalla dove cer­cavano un rifugio. Camillo li andava a cercare tra le rovine con torce accese per esplorare anche gli angoli più bui e, sa­lutandoli amorevolmente con un «Dio vi salvi, figlioli di Dio», li aiutava a uscire, li ripuliva, li rifocillava e spedi­va i più gravi all'ospedale.
Era tale la fame che talvolta doveva strappare loro di bocca la paglia o l'erba che masticavano come bestie. Era­no sforzi sovrumani da cui si usciva stremati di forze e nau­seati per i miasmi. Cinque compagni ci lasciarono la vita, ma anche lui pagò la sua parte di sofferenze.
Altre «sagre» seguirono nel­la stessa Roma, in altre città d'Italia (Napoli, Milano, No­la) e perfino sui campi di bat­taglia di Ungheria e di Croa­zia dove la Croce Rossa fece la sua prima apparizione ac­canto ai feriti e ai moribondi.
A Milano nel novembre 1593 si parlava di peste. Ca­millo, appena lo seppe, prese sette compagni e a cavallo si diresse in gran fretta verso la città lombarda temendo che i «cordoni sanitari» gli chiu­dessero il passaggio. Per stra­da gli abitanti dei paesi che attraversavano sentendo che erano diretti a Milano si pre­muravano di avvertirli che a­vrebbero incontrato la peste. Camillo spronando il caval­lo rispondeva invariabilmente trasfigurato: «Per questo ci andiamo!», lasciando di stuc­co i presenti.
Tante fatiche e tanti con­tatti con il male non poteva­no non lasciare il segno. Gli ultimi sette anni furono un vero calvario. Un nuovo di­sturbo nel frattempo si era ag­giunto ai precedenti: ogni vol­ta che doveva prendere cibo provava nausea e vomito e la digestione era accompagnata da terribili dolori di stomaco. «Ti valga per quando hai man­giato con tanto tuo gusto», diceva ironicamente a «fràte asino» indicando il suo corpo, ma intanto questo deperiva a vista d'occhio.
Capiva che ormai gli resta­va ben poco da vivere e, fa­cendo forza a se stesso, na­scondeva per quanto poteva il suo male per paura che il me­dico gli ordinasse un regime particolare di vita e soprattut­to gli proibisse di esercitare la carità. Ma la malattia allo stomaco lo indebolì talmente da non riuscire più a reggersi in piedi. Si mise a letto con­trariato ma non rassegnato: la mente era lucida, così po­teva sempre colloquiare con il crocifisso che si era fatto di­pingere su un piccolo quadro tenuto ai piedi del letto ed interessarsi dei suoi malati.
Un giorno di sole ebbe il permesso di fare una visita a S. Spirito. La voce si diffuse immediatamente: «È tornato P. Camillo!». Tutti volevano vederlo, toccarlo. «Fratelli miei - rispondeva ai loro sa­luti - volesse Dio che io mo­rissi qui tra voi, che questo è stato ed è tutto il mio desi­derio», Nel congedarsi non poté trattenere le lacrime: «Parto col corpo, ma vi lascio il mio cuore», disse alzando le braccia come per abbracciare tutti.

LA SERA DEL 14 LUGLIO

Tornò alla Maddalena di­sposto a fare anche quest'ul­timo sacrificio. Ogni giorno, finché non si indebolì anche la voce, ritornava a raccoman­dare ai suoi religiosi la fedel­tà ai malati. Ai primi di lu­glio ricevette in forma solen­ne il Viatico dalle mani del Card. Ginnasi, protettore del­l'Ordine.
Poi una sera, il 14 luglio 1614, poco dopo 1'Ave Ma­ria, mentre tutti pregavano in­torno al suo letto, silenziosa­mente si spense. Aveva 64 an­ni. Quando la stessa notte due medici di S. Spirito aprirono il cadavere per le operazioni di conservazione, trovarono lo stomaco ripieno di un mi­sterioso liquido nerastro accu­mulato nei lunghi anni di ser­vizio al letto dei malati e un cuore «bello da sembrare un rubino e così grande da mera­vigliare tutti».
Soltanto nel 1746, dopo mi­nuziosi esami canonici, la Chiesa riconobbe ufficialmen­te il suo eroismo e la sua santità. Ma i poveri, i malati, quelli che con il linguaggio poetico della carità chiamava «pupilla degli occhi di Dio», l'avevano intuito molto prima.
Ogni uomo è figlio del suo tempo, e Camillo della sua epoca assimilò ed espresse tutti i caratteri e le contrad­dizioni: il senso dell'avven­tura e l'angosciosa ricerca di Dio, la passione per la guer­ra e il gioco e la sincerità della conversione e della pe­nitenza, il disprezzo dell'uo­mo comune umiliato da una classe godereccia e privilegia­ta e l'amore per l'uomo po­vero ed infermo ricercato e curato da una carità cristia­na senza riserve. Raggiunto dalla Grazia di Dio, non fe­ce più questione di prezzo o di misura, ma concentrò tut­te le sue energie sul più de­bole e indifesa per dedicargli non solo la sua vita, ma an­che un'intera Istituzione che gli sopravvisse nel segno del­la consacrazione al malato.
Così proiettò anche nel fu­turo un'opera che, iniziata quasi per caso e ostacolata alle sue origini, si presentò nei secoli come testimonian­za concreta del Cristo che «passò facendo del bene e ri­sanando gli infermi, recando il lieto annunzio ai poveri, la libertà ai prigionieri e curan­do le piaghe dei cuori af­franti» (dal Vangelo di Luca).

LUNGO I SECOLI

Da quel lontano luglio 1614, ora correndo fedelmen­te lungo la pista tracciata da Lui, ora sbandando sotto la pressione di fatti e avveni­menti storici che toccarono da vicino tutte le strutture della Chiesa e della società, i suoi figli riuscirono a man­tenere viva questa fiamma della fedeltà al malato. Essa si ridusse a lucignolo fumigan­te verso la fine del secolo XVIII, ma ritornò a splende­re luminosa nella seconda me­tà del secolo seguente (XIX) per opera di un dinamico sa­cerdote veronese Cesare Bre­sciani che volle identificarsi in Camillo anche nel nome e ne riprodusse i gesti e ne ri­generò l'opera.
Nel 1842 proprio da Vero­na che, secondo la tradizio­ne, era stata solo lambita dal passaggio di Camillo, si spri­gionò una nuova carica di interesse per i malati e i po­veri degli ospedali, dei rico­veri, delle case private e in breve tempo la croce rossa di Camillo ritornò ad essere se­gno di conforto e di speran­za.
E si trattò veramente di u­na rinascita prodigiosa, anche se l'Ordine Camilliano era riuscito, soprattutto per ope­ra del Generale P. Luigi To­gni, a sopravvivere alle debo­lezze interne e alle violenze esterne in alcune comunità dell'Italia centro-meridionale e della Liguria-Piemonte. In­fatti in poco più di cento an­ni ebbe un risveglio e uno sviluppo meraviglioso che lo portò a rifiorire dove già e­ra piantato e a radicarsi for­temente e a diffondersi nel Lombardo - Veneto, Trentino, Emilia - Romagna sotto la spinta di uomini generosi che nei luoghi di cura o dove spesso imperversava il colera cercarono in tutti i modi di essere presenti e di supplire alle gravi deficienze delle strutture statali.
Le stesse soppressioni de­gli Istituti religiosi che ac­compagnarono i primi passi del nuovo Regno d'Italia non solo non riuscirono a spegnere
questa nuova carica di carità, ma quasi provvidenzialmente la trapiantarono fuori d'Ita­lia, nelle vicine nazioni eu­ropee e persino, per un cer­to periodo, nel Sudan africa­no.

AL SERVIZIO DELLA PERSONA UMANA

Il resto è storia recente, quasi cronaca di un'espansio­ne a largo raggio che ha rag­giunto mano mano in questi ultimi settant'anni tutti i Con­tinenti recando il «segno» di una consacrazione specifica ai malati e ai sofferenti di ogni genere.
E' vero, oggi gli ospedali sono stati modernizzati, le strutture socio-sanitarie po­tenziate, le tecniche medico­chirurgiche portate ad un al­to livello di specializzazione, l'assistenza pubblica in molti Stati provvede a quasi tutti i cittadini, ma non è stato ri­solto il problema del malato-­uomo, anzi spesso si è acu­tizzato sotto la pressione di forze che l'hanno ridotto a un «caso clinico» o aggravato per l'insufficienza dimostrata da un sistema scientificamen­te evoluto ma umanamente povero.
Spento lo spirito animato­re della carità o della sensi­bilità umana, gli interventi sul malato si riducono spes­so a fredde applicazioni di tecniche e di terapie che, se curano l'organismo, mortifica­no il senso umano del pazien­te trascurato nei suoi diritti fondamentali di uomo che soffre, che vuol «sapere», che ha bisogno di una «persona» che gli sia vicina anche spiri­tualmente.
Ecco perché l'opera dei fi­gli di S. Camillo non è fi­nita: la loro presenza negli ambienti di cura o accanto ai poveri e agli emarginati è testimonianza di fede nei va­lori più profondi dell'uomo, di qualunque uomo; è una ri­sposta concreta alle sue esi­genze spirituali e un ricono­scimento della sua dimensio­ne religiosa însopprimibile.

DIMOSTRAZIONE CONCRETA DI DIO

«Con noi e attraverso noi Dio vuole entrare nel mondo, essere benevolo per mezzo no­stro - scrive Ladislaus Bo­ros - si è lasciato prende­re da questo rischio inaudito. Ed è qui che sta il compito essenziale del cristiano: es­sere la bontà di Dio, perché gli uomini riconoscano che c'è in generale bontà e benevo­lenza, che l'essere, «nono­stante tutto», è buono. Nella misura in cui siamo cristia­ni, dobbiamo procurare agli altri la prova che il domani sarà un giorno migliore.
Dio si fa conoscere come infinita bontà e infinito af­fetto. Ci sono prove di Dio che confutano l'incredulità in maniera logicamente perfetta. Ma nelle crisi difficili dell'e­sistenza umana del nostro tempo e più ancora forse del futuro, non significano nulla o solo molto poco.
In tempi simili ci deve es­sere un uomo, la cui esisten­za almeno sia un «indice», un «segno» che l'umanità è ri­spettata, onorata, accolta in una amicizia incondizionata; che quindi esiste veramente Colui che rende tutto ciò pos­sibile: Dio. Perciò in un tem­po in cui l'immagine di Dio si oscura, è così importante che il nostro donarsi all'altro, la nostra esistenza per l'altro, divengano per gli altri la «di­mostrazione di Dio» (L. Bo­ros, Incontrare Dio nell'uo­mo, Queriniana Brescia 1971).

PROVOCAZIONE EVANGELICA

Il Camilliano, nella sua specificità di prete o di fratel­lo infermiere, accanto al mala­to, che fra tutti è il più de­bole ed esposto al rischio del­la negazione di Dio, accoglie questa sfida dei tempi e si offre come l'uomo la cui pre­senza è «testimonianza» del­la benevolenza di Dio, «se­gno» che l'umanità, anche nella situazione di maggior debolezza e inefficienza, è rispettata, accolta, onorata in un'amicizia incondizionata.
La sua è una scelta volon­taria e specifica di fedeltà al malato-uomo sull'esempio di Camillo e nello stesso tempo è una provocazione evangelica di giustizia e di carità in am­bienti e fra uomini spesso di­sumanizzanti. Così la sua vita consacrata al servizio dei ma­lati nella povertà, castità, ob­bedienza si fa garanzia dei valori umani e cristiani del sof­ferente e continua a dispensa­re il «dono della carità» rice­vuto da Camillo in un mon­do che, nonostante i suoi in­negabili progressi, sta diven­tando insensibile, freddo e povero di amore autentico.
Ci sono ancora giovani, e meno giovani, disposti a rac­cogliere coraggiosamente que­sta sfida ed essere «uomini che sanno amare»? Sulla Pa­rola, di Dio credo proprio di si. Tu che stai per concludere questa lettura potresti essere uno di loro.

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