sabato 4 aprile 2020

Aldo Fabrizi - Il maestro (film)




Il maestro Aldo Fabrizi



AMDG et DVM

LA VIOLETTA

LA VIOLETTA



croce
Mi pare che sia quasi inutile scrivere ancora avendo detto tutto1. Ma lei si raccomanda di scrivere le cose che più mi colpiscono e io ubbidisco.
È la sera del Giovedì Santo.2 Parlando di Gesù non  mi distraggo perciò da Lui, ma anzi mi concentro in Lui. Le dirò dunque come ho passato queste ultime ventiquattro ore. Lei ieri sera mi ha visto sfinita. Ero realmente sfinita. Ma quando tocco il fondo della resistenza umana, e a chi mi vede do l’impressione di essere un povero essere incapace persino di pensare, è proprio allora che ho delle – dirò così – illuminazioni.

Ieri sera avevo letto il giornale; poi, stanca anche di quello, avevo chiuso gli occhi e stavo così… inerte.

D’un tratto ho visto, mentalmente, un terreno molto sassoso e brullo. Pareva la cima di un poggetto, come se ne vedono tanti sulle nostre colline. Nudo di vegetazione, solo ricco di pietre e selci ruvide e biancastre, aveva tutt’intorno un vasto orizzonte.
Proprio sulla cima era nata una pianta di mammole. Unica cosa che vivesse in tanto squallore.

Vedevo distintamente il ciuffo delle foglie ben folto e riunito come per opporre resistenza ai venti che battevano la cima. Qualche boccio di viola, più o meno aperto, sporgeva il capino dal cespo verde. Ma di completamente sbocciata non ce n’era che una. Bella, di un colore pieno, aperta e protesa verso l’alto.

Fu il suo stare così ritta, quasi fosse attirata da una forza speciale, che mi colpì l’attenzione e mi fece cercare con lo sguardo. E vidi un’asse, una grossa asse infissa nel suolo. Pareva un tronco appena piallato, quasi grezzo e scabro. A un mezzo metro dal suolo, forse meno, stavano due piedi trafitti… Non ho visto che quelli ieri sera. Due piedi torturati. E che fossero torturati acerbamente lo diceva la contrattura degli stessi con le dita quasi ripiegate verso la pianta come per spasimo tetanico.

Del sangue, scivolando lungo i calcagni,scendeva sull’asse scabra e la rigava sino al suolo. Altre gocce cadevano dalle dita contratte e piovevano sul cespo di viole. Ecco a che tendeva la violetta tutta tesa verso l’alto! A quel sangue che la nutriva come, fra tanto squallore di suolo, nutriva quell’unico cespo, saputo nascere contro quel legno.

Molte cose mi ha detto quella vista… E quando lei è venuto, io ero dietro a vedere quel segno che era la mia predica del Mercoledì Santo. Non si è dileguata la figurazione. Non dileguano facilmente. Restano nel cervello, nitide anche se le cose abituali le soverchiano, o tentano di soverchiarle.

Stamane poi, anche prima che lei venisse, ho intravisto il resto del corpo. Dico: intravisto, peché mi appariva e spariva come fra il fluttuare di veli di nebbia. Molto più nitido è stato altre volte… Ma allora mi pareva morto. Ora mi pare vivo. E penso sia una grande pietà di Gesù non mostrarmi oggi il suo viso. Gesù è talmente addolorato, la sua tristezza ha aggiunto una intensità così forte per tutta la nequizia umana che non si stanca d’esser tale – ma anzi sempre più diviene nequizia – che non potremmo sopportare, senza morirne di dolore, l’espressione del suo divino volto.

Gesù, il mio Maestro, con la sua parola senza suono, mi dice che il mio posto è più che mai ai piedi della sua croce. Dal suo Sangue solo, io devo trarre vita… e il mio compito è solo quello di essere incenso ai piedi del suo trono di Redentore. Incenso che copre, col suo profumo, il lezzo del peccato, della cattiveria, della ferocia che la terra esala. L’incenso non profuma che ardendo e consumandosi, E io devo fare la stessa cosa.

Mi dice anche che il fiore può attirare altri sguardi alla sua Croce, può far curvare altre creature sotto la pioggia del suo Sangue. Questo il compito del fiore verso il prossimo e verso Dio. Riparazione d’amore verso Gesù e attrazione a Gesù di molti cuori, accettando di vivere, per questo, in un brullo deserto, sola con la croce.

Potrei dire che sono rimasta con le labbra appoggiate a quei piedi trafitti come bevendo ad una sorgente che è freschezza e ardore insieme. Una sensazione spirituale, ma così viva da parere reale…

Stamane poi alle 10 mi è giunta da Roma una lettera di una mia Suora, lettera che le mostrerò e nella quale si parla proprio di questa missione ai piedi della croce, e alla lettera è unita una immagine con un Crocifisso e sotto un turibolo ardente e la scritta: ‘Si elevi la mia orazione come l’incenso al tuo cospetto’. Ho preso tutto questo come un muto discorso del mio Gesù alla sua piccola ostia che si consuma piano piano più d’amore che di malattia.

Penso che domani è il Venerdì Santo: il giorno dei giorni per me. Vorrei accumulare sacrifici a sacrifici per fare di esso un vero giorno di espiazione. Ma può fare così poche cose ormai Maria! Ebbene, faremo quelle poche cose. Del resto… può darsi che domani ci pensi Gesù a darmi la mia parte di dolore espiatorio. Io sto qui, ben stretta alla Croce. E’ il posto delle Marie, del resto. Così non mi sfuggirà neppure un cenno del mio Redentore…



Mattina del Venerdì Santo.3

Dice Gesù:
«La prima volta mio Padre per purificare la terra mandò un lavacro d’acque, la seconda mandò un lavacro di sangue, e di che Sangue! Né il primo né il secondo lavacro sono valsi a fare degli uomini dei figli di Dio. Ora il Padre è stanco, e a far perire la razza umana lascia che si scatenino i castighi dell’inferno, perché gli uomini hanno preferito l’inferno al Cielo e il loro dominatore: Lucifero, li tortura per spingerli a bestemmiarCi per farne dei suoi completi figli.

Io verrei una seconda volta a morire, per salvarli da una morte più atroce ancora… Ma il Padre mio non lo permette… Il mio Amore lo permetterebbe, la Giustizia no. Sa che sarebbe inutile. Perciò verrò soltanto all’ultima ora. Ma guai a quelli che in quell’ora mi vedranno  avendo eletto a loro signore Lucifero! Non vi sarà bisogno di armi nelle mani dei miei angeli per vincere la battaglia contro gli anticristi. Basterà il mio  sguardo.

Oh! Se gli uomini sapessero ancora volgersi a Me che sono la salvezza! Non desidero che questo e piango perché vedo che niente è capace di fare loro alzare il capo verso il Cielo da dove Io tendo loro le braccia.

Soffri, Maria,e dì ai buoni di soffrire per sopperire al mio secondo martirio che il Padre non vuole Io compia. Ad ogni creatura che si immola è concesso di salvare qualche anima. Qualche… e non è a stupirsi siano poche le concesse ad ogni piccolo redentore se si pensa che Io, il Redentore divino, sul Calvario, nell’ora dell’immolazione, di tutte le migliaia di persone presenti al mio morire sono riuscito a salvare il ladrone, Longino, e pochi, pochi altri…»



1 Maria Valtorta: ‘Autobiografia’, pag. 64 (Centro Ed. Valtortiano) dove la mistica parla a Padre Migliorini, suo Direttore spirituale.
2 22 aprile 1943
3 E’ il primo dettato ricevuto da Maria Valtorta. Marta Diciotti riferisce che avvenne verso mezzogiorno del 23 aprile 1943, venerdì santo…

AMDG et DVM

Alla mia veste nera

Alla mia veste nera



Alcune commoventi considerazioni sulla talare da parte di mons. Francesco Olgiati (1886-1962), uno dei fondatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

O cara veste nera, da alcune settimane tutti parlano di te. Nel volume su L'attività della Santa Sede nel 1958 era detto: "Attese le varie richieste pervenute circa l'abito talare, è stata iniziata una vasta indagine sulla questione della forma dell'abito ecclesiastico, ed è stata concessa agli ordinari diocesani (cioè ai Vescovi) qualche facoltà di dispensa, in casi particolari, ferma sempre restando la regola di usare la veste talare nell'esercizio della potestà di ordine e di giurisdizione".

Queste poche righe hanno dato origine a mille discussioni, anche sulla stampa nostra. E le fantasie hanno galoppato.

Alcuni si sono appellati alla storia, dal secolo V ai Concili Lateranense IV (213) e Viennese (1312), che agli ecclesiastici imposero un abito diverso dal comune, da Sisto V a Pio IX.

Altri hanno fatto ricorso alla moda dei paesi tedeschi ed anglosassoni, che concedono ai sacerdoti l'abito cosidetto alla "clergyman", pur imponendo la "talare", come esige il Codice di Diritto canonico, nelle funzioni sacerdotali.
Altri hanno rievocato i tempi della Rivoluzione francese, quando anche in Paesi latini - come oggi nelle terre comuniste - il clero, a causa della persecuzione, non si distingueva affatto per i suoi abiti dai laici.

Altri, infine, hanno osservato che "la veste talare, oltre ad essere fastidiosa d'estate e ingombrante sempre, diventa un ridicolo intralcio ed anche un reale pericolo quando, proprio per ragioni del suo ministero, il prete deve usare la bicicletta e la motoreta", mezzi diventati, ormai, indispensabili per chi è in cura d'anime. Nè è da omettersi, hanno aggiunto, "la tendenza del clero non ad isolarsi in una torre d'avorio, ma ad accostarsi il più possibile alla vita del popolo cristiano affidato alle sue cure, a dividerne le sofferenze e le contrarietà".

Cara mia veste nera, pur sapendo che non si tratta di una questione sostanziale, ma solo d'una materia disciplinare di esclusiva competenza dell'autorità ecclesiastica, io non ho potuto fare a meno di guardarti e di meditarti.Sono vecchio e ti voglio bene.

Tu mi perdonerai se io non mi interesso degli argomenti accennati. Non voglio discuterli. Solo voglio dire a te una parola. Ti porto da tanti decenni. Quando ero fanciullo e, prima degli undici anni, entrai in Seminario, si usava indossarti fin dalla prima ginnasiale e tenerti anche nelle vacanze. Ricordi, mia cara veste nera, il giorno della mia vestizione? Ti aveva preparata la mia santa mamma, povera ed inesperta, aiutata da una vecchia sarta volenterosa. Assisteva al rito e pianse quando il vecchio Prevosto me ne rivestì e asperse. Con la benedizione del Parroco e con le lacrime materne uscii dalla chiesa. Com'ero felice, o mia cara veste nera! Potevo io concepire un tesoro più grande e più prezioso di te? Lo fosti sempre durante i miei dodici anni di Seminario e in seguito per tutta la mia vita.
In Seminario subito mi hanno insegnato a baciarti, quando alla sera mi spogliavo per andare al riposo. Quanti baci e di che cuore!

O veste nera della mia prima Messa e di tante Messe celebrate e di tanti azioni sacerdotali compiute! O veste nera, che accanto al letto dei morenti avevi un significato ed un tuo singolare linguaggio! O veste nera, che non mi hai mai costretto ad isolarmi in una torre d'avorio, pur ricordandomi in ogni occasione il mio sacerdozio, anche nel fervore di dispute accese e nelle battaglie per la difesa della verità, in congressi, in associazioni, nelle scuole!

Tu hai conosciuto talvolta, soprattutto in alcuni tempi, l'insulto villano del teppista; ma quanto in quei momenti sono stato fiero di te e ti ho amato!
T'ho riguardata sempre come una bandiera...bandiera nera, sì. Simbolo di morte. ma non potevo vergognarmi, perchè mi simboleggiavi il Crocifisso, che, appunto perchè tale, è risurrezione e vita.

Ora che sono al tramonto, sentendo discorrere di te, ho capito sempre più e sempre meglio che ti amo tanto.

Non so se ti modificheranno, se ti sostituiranno, se ti cambieranno. Avranno le loro ragioni. Anzi, se scoppiasse una persecuzione, ti strapperebbero da me. Non importa. Persino in questo caso tu saresti nel mio cuore. E vi rimarrai per sempre.

Quando tra breve chiuderò gli occhi, voglio che tu scenda con me nella tomba. Rivestito di te, avvolto nelle tue pieghe, dormirò più tranquillo il sonno della morte. Più non potrò darti il bacio del mio affetto. Il mio cuore più non batterà. Ma se qualcuno potesse leggere nelle sue fibre più profonde, troverebbe scolpita una parola di amore e di fierezza per te, o cara e dilettissima veste nera...

Maggio 1959

venerdì 3 aprile 2020

Omelia pasquale

Risorto “secondo le Scritture”. Un’inedita omelia pasquale di Joseph Ratzinger.
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Dopo la clamorosa pubblicazione dei suoi “appunti” sullo scandalo degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica, dopo la pubblicazione del suo carteggio con il rabbino capo di Vienna, ecco a ritmo serrato una nuova uscita pubblica del papa emerito Benedetto XVI, con la pubblicazione di venticinque sue omelie quasi tutte edite per la prima volta.

La maggior parte di esse risalgono agli anni Settanta ed Ottanta, la più recente è del 2003. Sono ripartite per tempo liturgico: l’Avvento, il Natale, la Quaresima, la Pasqua, e infine il tempo ordinario.
Ne ha curato la pubblicazione Pierluca Azzaro, che è anche autore della traduzione italiana di questa e di altre opere di Joseph Ratzinger.
L’edizione del volume in lingua italiana è la prima uscita in libreria, dal 2 maggio, affidata dal papa emerito all’editore Davide Cantagalli:
> Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, “Per Amore”, a cura di Pierluca Azzaro, Edizioni Cantagalli, Siena, 2019.
Ma presto seguiranno le edizioni in lingua inglese con Ignatius Press, in lingua francese con Parole et Silence, in lingua spagnola con Herder Spagna, in lingua portoghese con Principia, in lingua tedesca con Johannes Verlag, e poi ancora in croato, polacco, serbo.
Non solo. In settembre uscirà nelle librerie – di nuovo a cominciare dall’Italia – una seconda raccolta di omelie inedite di Ratzinger, dal titolo: “Sacramenti. Segni di Dio nel mondo”, questa volta a cura di Elio Guerriero.
Non deve sorprendere questo interesse del papa emerito Benedetto a pubblicare questi testi. I molti grossi volumi dei suoi “opera omnia”, in avanzata fase di pubblicazione in più lingue, mancano infatti delle omelie, che pure hanno un posto di assoluto rilievo nella vita di Ratzinger teologo, vescovo, cardinale e papa. Non è azzardato dire che, come papa Leone Magno, anche papa Benedetto passerà alla storia per le sue omelie.
Le omelie del suo pontificato sono tutte agli atti. Ma quelle degli anni precedenti erano state finora pubblicate solo in quantità minima e con difficile reperibilità. Ratzinger ha dunque voluto che almeno una parte di esse sia ora consegnata al grande pubblico.
Il testo che segue ne è un assaggio. É la parte iniziale di un’omelia da lui pronunciata il 15 aprile 1990, domenica di Pasqua, nel villaggio bavarese di Wigratzbad.
Il testo completo dell’omelia è tre volte più lungo. Ma in questo inizio c’è già in pieno il suo stile. Che sempre muove dai testi liturgici del giorno, in questo caso dai salmi e dall’antifona d’ingresso.
Buona lettura!
“SONO RISORTO, E ORA SONO SEMPRE CON TE”
“Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso” (Sal 118, 24). Queste luminose parole pasquali, con le quali oggi la Chiesa risponde al lieto annuncio della Risurrezione, sono tratte da una liturgia di ringraziamento antico-testamentaria celebrata alla porta del Tempio e tramandataci in un Salmo totalmente illuminato dal Mistero di Cristo. È il Salmo dal quale è tratto anche il “Benedictus” e l’”Osanna”; è anche il Salmo della “pietra scartata dai costruttori”, che “è divenuta testata d’angolo” (Sal 118, 22).
La peculiarità di questo Salmo sta però nel fatto che la salvezza di un personaggio sconosciuto, che dalla morte è risalito di nuovo alla vita, apre di nuovo le porte della salvezza per il popolo; in questo modo la salvezza di un singolo diventa liturgia di ringraziamento, un nuovo inizio, un nuovo raduno del popolo di Dio a favore di tutti.
All’interno dell’Antico Testamento non si trova risposta alla domanda su chi sia questo personaggio. Solamente a partire dal Signore, a partire da Gesù Cristo, l’intero Salmo acquista una sua logica, un suo chiaro senso.
È lui, in effetti, che è disceso nella notte della morte, che è stato avvolto e annientato da tutta la tribolazione del peccato e della morte. È lui che, risalendo, ha spalancato le porte della salvezza e ora ci invita a varcare le porte della salvezza e a rendere grazie insieme a lui. È lui, lui stesso in persona, il nuovo giorno che Dio ha creato per noi; per mezzo di lui il giorno di Dio risplende nella notte di questo mondo. Il giorno di Pasqua e ogni domenica è questo giorno che diviene presente, è incontro con il Risorto vivo, che come giorno di Dio viene in mezzo a noi e ci raduna.
Ma vediamo ora come l’Evangelista, il cui annuncio abbiamo appena ascoltato, descrive il sorgere e l’inizio di questo nuovo giorno (Mc 16, 1-7).
Ci sono le donne che vanno al sepolcro, le uniche che, ben oltre la morte, hanno l’audacia della fedeltà: anime semplici e umili che non hanno un nome da difendere, una carriera cui aspirare, possessi da salvaguardare; e che perciò hanno il coraggio dell’amore per andare ancora una volta da chi è stato oltraggiato e ora è fallito, per prestargli l’ultimo servizio di amore.
Nella fretta del giorno della Parasceve, all’approssimarsi del giorno della festa, avevano potuto fare solo le prime e le più necessarie cose della sepoltura, ma non avevano potuto portare a termine i riti che soltanto ora vogliono terminare: i lamenti funebri, che durante la festa non potevano risuonare e che ora, quale accompagnamento d’amore, lo conducono nell’ignoto, lo devono proteggere come forza di bontà; e poi l’unzione, che è come un vano gesto d’amore che vorrebbe dare immortalità (l’unzione mira infatti a preservare dalla morte, a preservare dalla putrefazione, come se volesse tenere in vita il morto con tutta l’inermità dell’amore, e tuttavia non può). Le donne sono venute dunque per dimostrargli ancora una volta un amore che non svanisce e, d’altra parte, per dargli il saluto di congedo verso la terra da cui non si torna più, la notte della morte da cui non si torna indietro.
Ma quando arrivano, scoprono che un Altro, un altro e più forte amore lo ha unto, che per lui si sono avverate le parole del Salmo: “Non lascerò che il mio Santo veda la corruzione” (Sal 16, 10). Dato che egli stesso sta nel circuito dell’amore trinitario, era unto con l’amore eterno e perciò non poteva rimanere nella morte. Infatti, esso solo è la potenza che è vita e dà vita per l’eternità.
E così per lui si compiono anche le altre parole del Salmo che la Chiesa tuttora pone come antifona d’ingresso della Messa del giorno di Pasqua: “Resurrexi, et adhuc tecum sum”… “Mi risveglio e sono ancora con te […] poni su di me la tua mano […] Tu mi scruti e mi conosci» (Sal 139, 18b.5.1).
Nell’Antico Testamento questa è la preghiera di un orante per metà spaventato e per metà meravigliato, il quale, nel suo confronto con Dio, diviene consapevole che in nessun luogo può fuggire dalla presenza di Dio. Se navigasse fino all’estremità del mare e se riuscisse a scendere negli inferi credendo di essere definitivamente lontano da Dio, tanto più egli sarebbe al cospetto di Dio, il quale tutto abbraccia e dal quale in nessun luogo si può sfuggire.
Ma quello che qui era rimasto per metà oscuro, per metà era timore e per metà gioia, ora è definitivamente compiuto nella grande grazia dell’amore divino, perché Gesù è stato capace dell’impossibile: egli con il suo amore ha raggiunto tutti i confini della terra. Egli è disceso nel regno della morte. E poiché egli stesso è il Figlio, insieme a lui è disceso ed è divenuto presente ovunque l’amore di Dio; per questo proprio nel discendere, e come colui che discende, egli è colui che risorge, che è risorto e che ora può dire: “Resurrexi, et adhuc tecum sum”… “Sono risorto e sono sempre con te, per sempre.”
Dal blog Settimo cielo, Sandro Magister
AMDG et DVM

Raccolta di testi di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: Card. Ratzinger: "I detentori del potere d'opinion...

Raccolta di testi di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI: Card. Ratzinger: "I detentori del potere d'opinion...: Ottimismo moderno e odio alla Chiesa Nella prima metà degli anni settanta, un amico del nostro gruppo fece un viaggio in Olanda, dove la ...