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giovedì 30 giugno 2022

Per trasmettere un messaggio

 


La coraggiosa testimonianza dell’abito

22 Febbraio 2007Il santo abito

LETTERA DI GIOVANNI PAOLO II
AL CARDINALE VICARIO UGO POLETTI

Al venerato fratello
Cardinale Ugo Poletti
Vicario Generale per la diocesi di Roma.

 

La cura dell’amata diocesi di Roma pone al mio animo numerosi problemi, tra i quali appare meritevole di considerazione, per le conseguenze pastorali da esso derivanti, quello relativo alla disciplina dell’abito ecclesiastico.

Più volte negli incontri con i sacerdoti ho espresso il mio pensiero al riguardo, rilevando il valore ed il significato di tale segno distintivo, non solo perché esso contribuisce al decoro del sacerdote nel suo comportamento esterno o nell’esercizio del suo ministero, ma soprattutto perché evidenzia in seno alla Comunità ecclesiastica la pubblica testimonianza che ogni sacerdote è tenuto a dare della propria identità e speciale appartenenza a Dio. E poiché questo segno esprime concretamente il nostro “non essere del mondo” (cf. Gv 17,14), nella preghiera composta per il Giovedì Santo di quest’anno, alludendo all’abito ecclesiastico, mi rivolgevo al Signore con questa invocazione: “Fa’ che non rattristiamo il tuo Spirito… con ciò che si manifesta come una volontà di nascondere il proprio sacerdozio davanti agli uomini e di evitarne ogni segno esterno” (Giovanni Paolo II, Precatio feria V in cena Domini anno MCMLXXXII recurrente, universis Ecclesiae sacerdotibus destinata, 4, die 25 mar. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 1 [1982] 1064).

Inviati da Cristo per l’annuncio del Vangelo, abbiamo un messaggio da trasmettere, che si esprime sia con le parole, sia anche con i segni esterni, soprattutto nel mondo odierno che si mostra così sensibile al linguaggio delle immagini. L’abito ecclesiastico, come quello religioso, ha un particolare significato: per il sacerdote diocesano esso ha principalmente il carattere di segno, che lo distingue dall’ambiente secolare nel quale vive; per il religioso e per la religiosa esso esprime anche il carattere di consacrazione e mette in evidenza il fine escatologico della vita religiosa. L’abito, pertanto, giova ai fini dell’evangelizzazione ed induce a riflettere sulle realtà che noi rappresentiamo nel mondo e sul primato dei valori spirituali che noi affermiamo nell’esistenza dell’uomo. Per mezzo di tale segno, è reso agli altri più facile arrivare al Mistero, di cui siamo portatori, a Colui al quale apparteniamo e che con tutto il nostro essere vogliamo annunciare.

Non ignoro le motivazioni di ordine storico, ambientale, psicologico e sociale, che possono essere proposte in contrario. Potrei tuttavia dire che motivazioni di eguale natura esistono in suo favore.

Devo però soprattutto rilevare che ragioni o pretesti contrari, confrontati oggettivamente e serenamente col senso religioso e con le attese della maggior parte del Popolo di Dio, e con il frutto positivo della coraggiosa testimonianza anche dell’abito, appaiono molto più di carattere puramente umano che ecclesiologico.

Nella moderna città secolare dove si è così paurosamente affievolito il senso del sacro, la gente ha bisogno anche di questi richiami a Dio, che non possono essere trascurati senza un certo impoverimento del nostro servizio sacerdotale.

In forza di queste considerazioni, sento il dovere, come Vescovo di Roma, di rivolgermi a lei, signor Cardinale, che più da vicino condivide le mie cure e sollecitudini nel governo della mia diocesi, perché, d’intesa con le Sacre Congregazioni per il Clero, per i Religiosi e gli Istituti Secolari e per l’Educazione Cattolica, voglia studiare opportune iniziative destinate a favorire l’uso dell’abito ecclesiastico e religioso, emanando a tale riguardo le necessarie disposizioni e curandone l’applicazione.

Nell’invocare su di lei, signor Cardinale, e sull’intera diocesi di Roma l’onnipotente aiuto del Signore, per l’intercessione della Vergine santissima “Salus Populi Romani”, di cuore imparto l’apostolica benedizione.

Dal Vaticano, 8 Settembre 1982.

sabato 4 aprile 2020

Alla mia veste nera

Alla mia veste nera



Alcune commoventi considerazioni sulla talare da parte di mons. Francesco Olgiati (1886-1962), uno dei fondatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

O cara veste nera, da alcune settimane tutti parlano di te. Nel volume su L'attività della Santa Sede nel 1958 era detto: "Attese le varie richieste pervenute circa l'abito talare, è stata iniziata una vasta indagine sulla questione della forma dell'abito ecclesiastico, ed è stata concessa agli ordinari diocesani (cioè ai Vescovi) qualche facoltà di dispensa, in casi particolari, ferma sempre restando la regola di usare la veste talare nell'esercizio della potestà di ordine e di giurisdizione".

Queste poche righe hanno dato origine a mille discussioni, anche sulla stampa nostra. E le fantasie hanno galoppato.

Alcuni si sono appellati alla storia, dal secolo V ai Concili Lateranense IV (213) e Viennese (1312), che agli ecclesiastici imposero un abito diverso dal comune, da Sisto V a Pio IX.

Altri hanno fatto ricorso alla moda dei paesi tedeschi ed anglosassoni, che concedono ai sacerdoti l'abito cosidetto alla "clergyman", pur imponendo la "talare", come esige il Codice di Diritto canonico, nelle funzioni sacerdotali.
Altri hanno rievocato i tempi della Rivoluzione francese, quando anche in Paesi latini - come oggi nelle terre comuniste - il clero, a causa della persecuzione, non si distingueva affatto per i suoi abiti dai laici.

Altri, infine, hanno osservato che "la veste talare, oltre ad essere fastidiosa d'estate e ingombrante sempre, diventa un ridicolo intralcio ed anche un reale pericolo quando, proprio per ragioni del suo ministero, il prete deve usare la bicicletta e la motoreta", mezzi diventati, ormai, indispensabili per chi è in cura d'anime. Nè è da omettersi, hanno aggiunto, "la tendenza del clero non ad isolarsi in una torre d'avorio, ma ad accostarsi il più possibile alla vita del popolo cristiano affidato alle sue cure, a dividerne le sofferenze e le contrarietà".

Cara mia veste nera, pur sapendo che non si tratta di una questione sostanziale, ma solo d'una materia disciplinare di esclusiva competenza dell'autorità ecclesiastica, io non ho potuto fare a meno di guardarti e di meditarti.Sono vecchio e ti voglio bene.

Tu mi perdonerai se io non mi interesso degli argomenti accennati. Non voglio discuterli. Solo voglio dire a te una parola. Ti porto da tanti decenni. Quando ero fanciullo e, prima degli undici anni, entrai in Seminario, si usava indossarti fin dalla prima ginnasiale e tenerti anche nelle vacanze. Ricordi, mia cara veste nera, il giorno della mia vestizione? Ti aveva preparata la mia santa mamma, povera ed inesperta, aiutata da una vecchia sarta volenterosa. Assisteva al rito e pianse quando il vecchio Prevosto me ne rivestì e asperse. Con la benedizione del Parroco e con le lacrime materne uscii dalla chiesa. Com'ero felice, o mia cara veste nera! Potevo io concepire un tesoro più grande e più prezioso di te? Lo fosti sempre durante i miei dodici anni di Seminario e in seguito per tutta la mia vita.
In Seminario subito mi hanno insegnato a baciarti, quando alla sera mi spogliavo per andare al riposo. Quanti baci e di che cuore!

O veste nera della mia prima Messa e di tante Messe celebrate e di tanti azioni sacerdotali compiute! O veste nera, che accanto al letto dei morenti avevi un significato ed un tuo singolare linguaggio! O veste nera, che non mi hai mai costretto ad isolarmi in una torre d'avorio, pur ricordandomi in ogni occasione il mio sacerdozio, anche nel fervore di dispute accese e nelle battaglie per la difesa della verità, in congressi, in associazioni, nelle scuole!

Tu hai conosciuto talvolta, soprattutto in alcuni tempi, l'insulto villano del teppista; ma quanto in quei momenti sono stato fiero di te e ti ho amato!
T'ho riguardata sempre come una bandiera...bandiera nera, sì. Simbolo di morte. ma non potevo vergognarmi, perchè mi simboleggiavi il Crocifisso, che, appunto perchè tale, è risurrezione e vita.

Ora che sono al tramonto, sentendo discorrere di te, ho capito sempre più e sempre meglio che ti amo tanto.

Non so se ti modificheranno, se ti sostituiranno, se ti cambieranno. Avranno le loro ragioni. Anzi, se scoppiasse una persecuzione, ti strapperebbero da me. Non importa. Persino in questo caso tu saresti nel mio cuore. E vi rimarrai per sempre.

Quando tra breve chiuderò gli occhi, voglio che tu scenda con me nella tomba. Rivestito di te, avvolto nelle tue pieghe, dormirò più tranquillo il sonno della morte. Più non potrò darti il bacio del mio affetto. Il mio cuore più non batterà. Ma se qualcuno potesse leggere nelle sue fibre più profonde, troverebbe scolpita una parola di amore e di fierezza per te, o cara e dilettissima veste nera...

Maggio 1959