giovedì 15 dicembre 2016

Francia: Cattolici ringiovaniti. In rito antico.

Francia: Cattolici ringiovaniti. In rito antico.

Leggiamo su Blondet & Friends.

“Aiuto, torna Gesù!”, titolava  giorni fa Libération, il quotidiano della gauche (editore Rotschild, naturalmente), sentinella sempre attenta ai possibili  disturbi dello status quo. Nessun pericolo in realtà: in Francia i cattolici sono, come sempre, il 5 per cento della popolazione, una minoranza assoluta. La novità è che hanno abbandonato i socialisti e la sinistra, di cui erano i satelliti obbedienti, ed hanno determinato la vittoria alle primarie di François Fillon.
Il candidato di centro destra, filorusso, ha dichiarato che “la famiglia deve essere al centro delle politiche pubbliche”; Hollande ha deliberatamente e sistematicamente smantellato le notevoli (ed efficaci) misure di sostegno alla natalità e alla famiglia: ridotta di un terzo  la durata del congedo maternità, sostanziale cancellazione di una maggiorazione di pensione per le donne che hanno allevato tre figli o più, rincaro delle mense scolastiche per famiglie numerose, tagli al sostegno all’affitto per tali famiglie, abbassamento del tetto per il quoziente familiare…”. Risultato: 19 mila nascite in meno nel 2015”, denuncia Ludovine de la Rochère.

mercoledì 14 dicembre 2016

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II, SAN GIOVANNI DELLA CROCE

VIAGGIO APOSTOLICO IN SPAGNA
CELEBRAZIONE DELLA PAROLA IN ONORE DI SAN GIOVANNI DELLA CROCE
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Segovia, 4 novembre 1982

1. “Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore di esse . . . se sono
colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati . . .; se, stupiti per la loro bellezza . . . pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza” (Sap 13, 5.4.3).
Abbiamo proclamato queste parole del libro della Sapienza, cari fratelli e sorelle, nel corso di
questa celebrazione in onore di san Giovanni della Croce, accanto al suo sepolcro. Il libro della Sapienza ci parla della conoscenza di Dio per mezzo delle creature; della conoscenza dei beni visibili che rivelano il loro Artefice; della notizia che porta fino al Creatore partendo delle sue opere.

Potremmo benissimo mettere queste parole sulle labbra di Giovanni della Croce e comprendere il
senso profondo che ad esse ha voluto dare l’autore sacro. Sono parole di un saggio e di un poeta che ha conosciuto, amato e cantato la bellezza delle opere di Dio; ma soprattutto, parole di un teologo e di un mistico che ha conosciuto il suo Autore; e che attinge con incredibile radicalità alla fonte della bontà e della bellezza, addolorato per lo spettacolo del peccato che rompe l’originario equilibrio, offusca la ragione, paralizza la volontà, impedisce la contemplazione e l’amore verso
l’Autore della creazione.

2. Rendo grazie alla Provvidenza che mi ha concesso di venire a venerare le reliquie e ad evocare la figura e la dottrina di san Giovanni della Croce, al quale debbo tanto nella mia formazione spirituale. Ho imparato a conoscerlo sin dalla mia giovinezza e sono entrato in un dialogo intimo con questo maestro della fede, con il suo linguaggio e il suo pensiero, fino a culminare con l’elaborazione della mia tesi di dottorato su “La fede in san Giovanni della Croce”. Fin d’allora ho trovato in lui un amico e maestro, che mi ha indicato la luce che brilla nell’oscurità, per camminare sempre verso Dio, “senza altra luce né guida / che quella che nel cuore ardeva / Codesta mi guidava / più certo che la luce del meriggio” (S. Giovanni della Croce, Notte Oscura, 3-4).
In questa occasione saluto cordialmente i membri della provincia e diocesi di Segovia, il loro Pastore, i sacerdoti e i religiosi e religiose, le autorità e tutto il popolo di Dio che vive qui, sotto il cielo limpido della Castilla, così come coloro che sono venuti dai dintorni e dalle altre parti della Spagna.

3. Il santo di Fontiveros è il grande “maestro dei sentieri che conducono all’unione con Dio”. I suoi scritti continuano ad essere attuali e in certo qual modo spiegano e complementano i libri di santa Teresa di Gesù. Egli indica le vie della conoscenza mediante la fede, perché soltanto tale
conoscenza nella fede dispone l’intelletto “all’unione col Dio vivente”.
Quante volte, con una convinzione che sgorga dall’esperienza ci dice che la fede è il mezzo
proprio e adatto per l’unione con Dio!
È sufficiente citare un celebre testo del secondo libro della Salita al Monte Carmelo: “La fede è
essa sola il mezzo più vicino e proporzionato perché l’anima si unisca a Dio . . . perché così come Dio è infinito, essa ce lo propone infinito; e così come Egli è Trino e Uno, ce lo propone Trino e Uno . . . e così per questo solo mezzo, si manifesta Dio all’anima in divina luce, che eccede ogni intendimento. E perciò quanta più fede ha l’anima in Dio, tanto più unita è a Lui” (S. Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, II, 9, 1)
Con questa insistenza sulla purezza della fede, Giovanni della Croce non vuol negare che la
conoscenza di Dio si possa raggiungere gradualmente partendo dalle creature, come insegna il libro della Sapienza e ripete san Paolo nella Lettera ai Romani (cf. Rm 1, 18-21; cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 4, 1). Il dottore mistico insegna che nella fede è anche necessario privarsi delle creature, sia di quelle che si percepiscono per mezzo dei sensi che di quelle che si raggiungono con l’intelletto, per unirsi in una maniera conoscitiva con lo stesso Dio. Questa via che conduce all’unione, passa attraverso la “notte oscura” della fede.

4. L’atto di fede si concentra, secondo il santo, in Gesù Cristo, il quale, come ha affermato il
Vaticano II, “è contemporaneamente il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (Dei
Verbum, 2). Tutti conoscono la meravigliosa pagina del dottore mistico su Cristo come Parola
definitiva del Padre e totalità della rivelazione, in quel dialogo tra Dio e gli uomini: “Egli è tutto il
mio parlare e la mia risposta, Egli è tutta la mia visione e la mia rivelazione. In Lui vi ho già
parlato, risposto, manifestato e rivelato, donandolo a voi come fratello, compagno e maestro, prezzo e premio” (S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II, 22, 5).

E così raccogliendo noti testi biblici (cf. Mt 17, 5; Eb 1, 1), riassume: “Perché nel donarci, come ci ha dato, il Figlio suo, che è una Parola sua e non ne ha un’altra, ci ha detto tutto ed in una volta sola in questa unica Parola, e non ha più niente da dire” (S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II, 22, 3). Per questo la fede è la ricerca amorosa del “Dio nascosto” che si rivela in Gesù Cristo, l’Amato (cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, I, 1-3.11).
Per di più, il dottore della fede non tralascia di puntualizzare che “Il Cristo lo troviamo nella
Chiesa”, Sposa e Madre; e che nel suo magistero troviamo la norma sicura della fede, la medicina
delle nostre ferite, la fonte della grazia: “E così”, scrive il santo, “in tutto ci dobbiamo lasciar
guidare dalla legge di Cristo uomo e della Chiesa e i suoi ministri, umanamente e visibilmente, e
tramite questa via rimediare alla nostra ignoranza e pigrizia spirituale; poiché in questa via
troveremo abbondante medicina per ogni cosa” (S. Giovanni della Croce, Salita del Monte
Carmelo, II, 22, 7).

5. In queste parole del dottore mistico troviamo una dottrina di assoluta coerenza e modernità.
Giovanni della Croce invita l’uomo di oggi, angosciato dal significato dell’esistenza, spesso
indifferente alla predicazione della Chiesa, forse scettico riguardo alle mediazioni della rivelazione di Dio, ad una ricerca onesta, che lo conduca fino alla fonte stessa della rivelazione che è il Cristo, la Parola e il Dono del Padre. Lo persuade a prescindere da tutto quello che potrebbe essere un ostacolo per la fede e lo colloca davanti a Cristo. Davanti a Colui che rivela e offre la verità e la vita divina nella Chiesa, la quale nella sua visibilità e nella sua umanità è sempre Sposa di Cristo,
il suo Corpo Mistico, garanzia assoluta della verità della fede (cf. S. Giovanni della Croce, Fiamma viva d’amore, Prol., 1).
Per questo esorta ad intraprendere una ricerca di Dio nella preghiera, affinché l’uomo “si renda
conto” della sua limitatezza temporale e della sua vocazione all’eternità (cf. S. Giovanni della
Croce, Cantico spirituale, 1, 1). Nel silenzio della preghiera si realizza l’incontro con Dio e si
ascolta quella Parola che Dio ci dice in eterno silenzio e che nel silenzio deve essere ascoltata (cf. S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 104). Un grande raccoglimento e un
abbandono interiore, uniti al fervore della preghiera, aprono le profondità dell’anima “al potere purificatore dell’amore divino”.

6. Giovanni della Croce seguì le orme del Maestro, che si ritirava a pregare in luoghi solitari (cf. S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, III, 44, 4). Amò la solitudine sonora dove si ascolta la musica silente, il rumore della fonte che sgorga e zampilla anche se è notte. Lo ha fatto durante le lunghe veglie di preghiera ai piedi dell’Eucarestia, quel pane vivo che dona la vita e che porta fino alla sorgente dell’amore trinitario.
Non si possono dimenticare le immense solitudini del Duruelo, l’oscurità e nudità del carcere di Toledo, i paesaggi andalusi della Peñuela, del Calvario, de los Mártires, a Granada. La bella e sonora solitudine segoviana dell’eremo, nelle rocce di questo convento fondato dal santo. Qui si sono consumati dialoghi d’amore e di fede; fino a quell’ultimo, commovente, che il Santo confidava con queste parole dette al Signore che gli offriva il premio per le sue opere: “Signore, quello che voglio è che Voi mi doniate di patire per Voi, e che sia io disprezzato e tenuto in poco conto”.
Così fino alla consumazione della sua identificazione con Cristo Crocifisso e della sua gloriosa pasqua a Ubeda, quando annunziò che andava a cantare il mattutino in cielo.

7. Una delle cose che più attirano l’attenzione negli scritti di san Giovanni della Croce è la lucidità con cui ha descritto la sofferenza umana, quando l’anima è investita dalla tenebra luminosa e purificatrice della fede.
Le sue osservazioni sorprendono il filosofo, il teologo e perfino lo psicologo. Il dottore mistico ci insegna la necessità di una purificazione passiva, di una notte oscura che Dio provoca nel
credente, affinché sia più pura la sua adesione nella fede, speranza e amore. Infatti è così. La
forza purificatrice dell’anima umana viene da Dio stesso. E Giovanni della Croce fu cosciente,
come pochi, di questa forza purificatrice. Dio stesso purifica l’anima fino ai più profondi abissi del suo essere, accendendo nell’uomo la fiamma viva d’amore: il suo Spirito.
Egli ha contemplato con un’ammirabile profondità di fede, e a partire dalla sua propria esperienza della purificazione della fede, il mistero di Cristo Crocifisso; fino al culmine del suo abbandono sulla croce, dove viene offerto a noi, come esempio e luce dell’uomo spirituale. Lì, il Figlio amato del Padre “ha avuto bisogno di esclamare: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato? (Mt 27, 46)
Quello fu l’abbandono più grande che mai aveva provato nella sua vita. E in esso Gesù ha operato
il miracolo più grande che mai avesse potuto operare nella sua vita, né in terra né in cielo, e che consistette nel riconciliare ed unire il genere umano con Dio” (cf. S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II, 7, 11).

8. Anche l’uomo moderno, nonostante le sue conquiste, sfiora nella sua esperienza personale e
collettiva l’abisso dell’abbandono, la tentazione del nichilismo, l’assurdità di tante sofferenze
fisiche, morali e spirituali. La notte oscura, la prova che fa toccare il mistero del male ed esige
l’apertura della fede, acquisisce a volte dimensioni di epoca e proporzioni collettive.
Anche il cristiano e la stessa Chiesa possono sentirsi identificati con il Cristo di San Giovanni della Croce, nel culmine del suo dolore e del suo abbandono. Tutte queste sofferenze sono state
assunte dal Cristo nel suo grido di dolore e nella sua fiduciosa consegna al Padre. Nella fede, la
speranza e l’amore, la notte si converte in giorno, la sofferenza in gioia, la morte in vita.
Giovanni della Croce, con la sua esperienza, ci invita alla fiducia, a lasciarci purificare da Dio;
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nella fede intessuta di speranza e di amore, la notte comincia a conoscere “le luci dell’aurora”; si
fa luminosa come una notte di Pasqua - “O vere beata nox”, “Oh notte amabile più dell’alba” - e
annuncia la risurrezione e la vittoria, la venuta dello Sposo che unisce a sé e trasforma il cristiano:
“Amata nell’Amato trasformata”.
Magari le notti oscure che si addensano sulle coscienze individuali e sulle collettività del nostro tempo fossero vissute nella fede pura; nella speranza “che tanto ottiene quanto spera”; nell’amore ardente della forza dello Spirito, affinché si convertano in giornate luminose per la nostra umanità addolorata, in vittoria del Risorto che libera col potere della sua croce!

9. Abbiamo ricordato nella lettura del Vangelo le parole del profeta Isaia, che Cristo fece sue: “Lo
Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19).
Anche il “santo Fraticello Giovanni” - come lo chiamava la madre Teresa - fu, come Cristo, un
povero che evangelizzò con immensa gioia e amore i poveri; e la sua dottrina è come una
spiegazione di quel vangelo della liberazione dalle schiavitù e oppressioni del peccato, della
luminosità della fede che guarisce ogni cecità. Se la Chiesa lo venera come dottore mistico sin
dall’anno 1926, è perché riconosce in lui il gran maestro della verità vivente riguardo a Dio e
all’uomo.
La “Salita del Monte” e la “Notte oscura” culminano nella gioiosa libertà dei figli di Dio nella partecipazione alla vita di Dio e alla comunione con la vita trinitaria (cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 39, 3-6). Soltanto Dio può liberare l’uomo; questi acquisisce totalmente dignità e libertà soltanto quando sperimenta in profondità, come san Giovanni della Croce indica, la grazia redentrice e trasformante di Cristo. La vera libertà dell’uomo è la comunione con Dio.

10. Il testo del libro della Sapienza ci avvertiva “Se tanto poterono sapere da scrutare l’universo,
come mai non ne hanno trovato più presto il padrone?” (Sap 13, 19). Ecco una nobile sfida per l’uomo contemporaneo che ha esplorato le vie dell’universo. Ed ecco la risposta del mistico che
dall’altura di Dio scopre l’orma del Creatore nelle sue creature e contempla in anticipo la
liberazione della creazione (cf. Rm 8, 19-21).
Tutta la creazione, dice San Giovanni della Croce, è come bagnata dalla luce dell’Incarnazione e
della Resurrezione: “In questo innalzamento della Incarnazione del suo Figlio e della gloria della sua Resurrezione secondo la carne non soltanto il Padre ha abbellito in parte le creature, ma possiamo dire che le ha completamente vestite di bellezza e dignità” (S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 39, 5.4). Il Dio che è “Bellezza” si riflette nelle sue creature.
In un abbraccio cosmico che in Cristo unisce il cielo e la terra, Giovanni della Croce ha potuto
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esprimere la pienezza della vita cristiana: “Non mi toglierai, Dio mio, quello che una volta mi
donasti nel tuo unico figlio Gesù Cristo in cui mi hai dato tutto quello che voglio . . . Miei sono i cieli
e mia è la terra; miei sono le genti; i giusti sono miei, e miei i peccatori; gli angeli sono miei, e la
Madre di Dio e tutte le cose sono mie, e lo stesso Dio è mio ed è per me, perché Cristo è mio e
tutto per me” (S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 29-31).
11. Fratelli e sorelle: ho voluto con queste mie parole rendere un omaggio di gratitudine a San
Giovani della Croce, teologo e mistico, poeta e artista, “uomo celestiale e divino” - come lo ha
chiamato Santa Teresa di Gesù - amico dei poveri e saggio direttore spirituale delle anime. Egli è
padre e maestro spirituale di tutto il Carmelo Teresiano, il plasmatore di quella fede viva che brilla nei figli più illustri del Carmelo: Teresa di Lisieux, Elisabetta della Trinità, Raffaele Kalinowski, Edith Stein.
Chiedo alle figlie di Giovanni della Croce, le carmelitane scalze, che sappiano vivere l’essenza
contemplativa di quell’amore puro che è eminentemente fecondo per la Chiesa (cf. S. Giovanni
della Croce, Cantico spirituale, 29, 2-3). Raccomando ai suoi figli, i carmelitani scalzi, fedeli custodi di questo convento e animatori del Centro di Spiritualità dedicato al Santo, la fedeltà alla sua dottrina e la dedizione alla direzione spirituale delle anime, così come allo studio e
approfondimento della teologia spirituale.
Per tutti i figli di Spagna e di questa nobile terra segoviana, come garanzia di rigenerazione
ecclesiale, lascio queste magnifiche consegne di san Giovanni della Croce universalmente valide:
intelligenza perspicace per vivere la fede: “Un pensiero dell’uomo vale più di tutto il mondo;
pertanto solo Dio è degno di esso” (S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 32).
Volontà impavida per esercitare la carità: “Dove non c’è amore, metti amore ed otterrai amore” (S.Giovanni della Croce, Lettera 25, a Maria dell’Incarnazione). Una fede solida e confortante, che muova costantemente ad amare veramente Dio e l’uomo; perché alla fine della vita, “quando giungerà la sera sarai giudicato sull’amore” (S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 64).
Con la mia benedizione apostolica per tutti.

San Giovanni della Croce - BENEDETTO XVI - UDIENZA GENERALE

DE  - EN  - ES  - FR  - HR  - IT  - PT ]
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 16 febbraio 2011

San Giovanni della Croce
Cari fratelli e sorelle,
due settimane fa ho presentato la figura della grande mistica spagnola Teresa di Gesù. Oggi vorrei parlare di un altro importante Santo di quelle terre, amico spirituale di santa Teresa, riformatore, insieme a lei, della famiglia religiosa carmelitana: san Giovanni della Croce, proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Pio XI, nel 1926, e soprannominato nella tradizione Doctor mysticus, “Dottore mistico”.

Giovanni della Croce nacque nel 1542 nel piccolo villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nella Vecchia Castiglia, da Gonzalo de Yepes e Catalina Alvarez. La famiglia era poverissima, perché il padre, di nobile origine toledana, era stato cacciato di casa e diseredato per aver sposato Catalina, un'umile tessitrice di seta. Orfano di padre in tenera età, Giovanni, a nove anni, si trasferì, con la madre e il fratello Francisco, a Medina del Campo, vicino a Valladolid, centro commerciale e culturale. Qui frequentò il Colegio de los Doctrinos, svolgendo anche alcuni umili lavori per le suore della chiesa-convento della Maddalena. Successivamente, date le sue qualità umane e i suoi risultati negli studi, venne ammesso prima co­me infermiere nell'Ospedale della Concezione, poi nel Collegio dei Gesuiti, appena fondato a Medina del Campo: qui Giovanni entrò diciottenne e studiò per tre anni scienze umane, retorica e lingue classiche. Alla fine della formazione, egli aveva ben chiara la propria vocazione: la vita religiosa e, tra i tanti ordini presenti a Medina, si sentì chiamato al Carmelo.
Nell’estate del 1563 iniziò il noviziato presso i Carmelitani della città, assumendo il nome religioso di Giovanni di San Mattia. L’anno seguente venne destinato alla prestigiosa Università di Salamanca, dove studiò per un triennio arti e filosofia. Nel 1567 fu ordinato sacerdote e ritornò a Medina del Campo per celebrare la sua Prima Messa circondato dall'affetto dei famigliari. Proprio qui avvenne il primo incontro tra Giovanni e Teresa di Gesù. L’incontro fu decisivo per entrambi: Teresa gli espose il suo piano di riforma del Carmelo anche nel ramo maschile dell'Ordine e propose a Giovanni di aderirvi “per maggior gloria di Dio”; il giovane sacerdote fu affascinato dalle idee di Teresa, tanto da diventare un grande sostenitore del progetto. I due lavorarono insieme alcuni mesi, condividendo ideali e proposte per inaugurare al più presto possibile la prima casa di Carmelitani Scalzi: l’apertura avvenne il 28 dicembre 1568 a Duruelo, luogo solitario della provincia di Avila. Con Giovanni formavano questa prima comunità maschile riformata altri tre compagni. Nel rinnovare la loro professione religiosa secondo la Regola primitiva, i quattro adottarono un nuovo nome: Giovanni si chiamò allora “della Croce”, come sarà poi universalmente conosciuto. Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora. Furono anni di stretta collaborazione e amicizia spirituale, che arricchì entrambi. Α quel periodo risalgono anche le più importanti opere teresiane e i primi scritti di Giovanni.

L’adesione alla riforma carmelitana non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze. L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell'Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa. Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali. Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale. Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città. Santa Teresa e i compagni riformati celebrarono con immensa gioia la sua liberazione e, dopo un breve tempo di recupero delle forze, Giovanni fu destinato in Andalusia, dove trascorse dieci anni in vari conventi, specialmente a Granada. Assunse incarichi sempre più importanti nell'Ordine, fino a diventare Vicario Provinciale, e completò la stesura dei suoi trattati spirituali. Tornò poi nella sua terra natale, come membro del governo generale della famiglia religiosa teresiana, che godeva ormai di piena autonomia giuridica. Abitò nel Carmelo di Segovia, svolgendo l'ufficio di superiore di quella comunità. Nel 1591 fu sollevato da ogni responsabilità e destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico. Mentre si preparava per il lungo viaggio con altri dieci compagni, si ritirò in un convento solitario vicino a Jaén, dove si ammalò gravemente. Giovanni affrontò con esemplare serenità e pazienza enormi sofferenze. Morì nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, mentre i confratelli recitavano l'Ufficio mattutino. Si congedò da essi dicendo: “Oggi vado a cantare l'Ufficio in cielo”. I suoi resti mortali furono traslati a Segovia. Venne beatificato da Clemente X nel 1675 e canonizzato da Benedetto XIII nel 1726.

Giovanni è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola. Le opere maggiori sono quattro: Ascesa al Monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale Fiamma d'amor viva.
Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui. La Fiamma d'amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio. Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e “pulisce” l'anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma. La vita dell'anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell'unione con Dio nell'eternità.

L’Ascesa al Monte Carmelo presenta l'itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell'anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo. Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l'azione divina, per liberare l'anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio. La purificazione, che per giungere all'unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l'intenzione, la memoria e la volontà. La Notte oscura descrive l'aspetto “passivo”, ossia l'intervento di Dio in questo processo di “purificazione” dell'anima. Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente. Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all'unione d'amore con Lui. San Giovanni definisce “passiva” tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall'anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità. In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura.

Queste indicazioni sulle opere principali del Santo ci aiutano ad avvicinarci ai punti salienti della sua vasta e profonda dottrina mistica, il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi. Secondo Giovanni della Croce, tutto quello che esiste, creato da Dio, è buono. Attraverso le creature, noi possiamo pervenire alla scoperta di Colui che in esse ha lasciato una traccia di sé. La fede, comunque, è l’unica fonte donata all'uomo per conoscere Dio così come Egli è in se stesso, come Dio Uno e Trino. Tutto quello che Dio voleva comunicare all'uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne. Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14,6). Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all'amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino. Da qui deriva l'insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione. Questa “purificazione” non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l'anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose. Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita. Il lungo e faticoso processo di purificazione esige certo lo sforzo personale, ma il vero protagonista è Dio: tutto quello che l'uomo può fare è “disporsi”, essere aperto all'azione divina e non porle ostacoli. Vivendo le virtù teologali, l’uomo si eleva e dà valore al proprio impegno. Il ritmo di crescita della fede, della speranza e della carità va di pari passo con l’opera di purificazione e con la progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui. Quando si giunge a questa meta, l'anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo. Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria. In questo stato supremo l'anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui. L’anima si sente ormai inondata dall'amore divino e si rallegra completamente in esso.

Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell'ascesa mistica? Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell'ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici. E’ stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle. E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l'andare con Cristo, “la Via”, non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello. Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù. Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno. E la santità non è un'opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa “apertura”: aprire e finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell'apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione. Grazie.

Saluti:
Je salue cordialement les pèlerins francophones, en particulier les jeunes et les formateurs du séminaire de Bayonne, accompagnés de leur Évêque, Monseigneur Marc Aillet! Recueillant le message de saint Jean de la Croix, je vous invite à approfondir votre vie chrétienne et à expérimenter les vertus théologales, source d’une vraie transformation de vos vies et d’une progressive union avec Dieu. Avec ma Bénédiction!
I extend a warm welcome to all the English-speaking pilgrims and visitors, especially those students from Saint Benedict’s School, Saint Aloysius College, Saint Patrick’s Grammar School, and students and parishioners from the United States. Upon you all, I invoke God’s blessings of joy and peace!
Sehr herzlich heiße ich alle Brüder und Schwestern deutscher Sprache willkommen, besonders die Pilger aus der Diözese Eisenstadt in Begleitung von Bischof Ägidius Zsifkovics. Der heilige Johannes vom Kreuz lädt uns ein, unser ganzes Dasein mit allen Freuden und Mühsalen im Licht des Herrn zu sehen und mit ihm den Aufstieg zum wahren Leben in Gott zu wagen. Lassen wir uns also von der Liebe Christi formen, damit Er in uns und durch uns wirkt. Die Heiligkeit ist kein Privileg weniger, sondern Berufung und Geschenk eines jeden Christen. Gottes Gnade führe euch auf allen euren Wegen.
Saludo cordialmente a los fieles de lengua española. En particular, a las Esclavas del Sagrado Corazón de Jesús, así como a los peregrinos de España, México y otros países latinoamericanos. Siguiendo las enseñanzas de san Juan de la Cruz, os exhorto a que recorráis el camino hacia la santidad, a la que el Señor os ha llamado con el bautismo, abriendo vuestro corazón al amor de Dios y dejándoos transformar y purificar por su gracia. Muchas gracias.
Amados peregrinos de língua portuguesa: a todos saúdo cordialmente e recordo, com São João da Cruz, que a santidade não é privilégio de poucos, mas vocação a qual todo cristão é chamado. Por isso, exorto-vos a entrardes de modo sempre mais decidido no caminho de purificação do coração e da vida, para irdes ao encontro de Cristo. Somente nele jaz a verdadeira felicidade. Ide em paz!
Saluto in lingua ceca:
Srdečně vítám skupinu kněží a mladých ministrantů z Prahy a okolí, kteří na své pouti do Říma prosí Pána o nová kněžská povolání.
Rád žehnám vám i vašim drahým!
Chvála Kristu!
Traduzione italiana:
Un cordiale benvenuto al gruppo di Sacerdoti e di giovani ministranti, di Praga e dintorni, che sono venuti in pellegrinaggio a Roma a pregare il Signore per le nuove vocazioni sacerdotali!
Volentieri benedico voi e i vostri cari!
Sia lodato Gesù Cristo!
Saluto in lingua polacca:
Z serdecznym pozdrowieniem zwracam się do Polaków. Św. Jan od Krzyża uczy, że nasze życie jest drogą ku spotkaniu z Chrystusem. Wszystkie nasze radości i troski, całe nasze istnienie powinniśmy widzieć w Jego świetle, otwierając serce na działanie Jego łaski, abyśmy byli coraz bardziej z Nim zjednoczeni. Świętość nie jest przywilejem nielicznych, ale powołaniem każdego chrześcijanina. Na tej drodze niech Bóg wam błogosławi.
Traduzione italiana:
Con un cordiale saluto mi rivolgo ai polacchi. San Giovanni della Croce insegna che tutta la nostra vita è un cammino verso l’incontro con Cristo. Dobbiamo vedere nella sua luce tutte le nostre gioie e preoccupazioni, tutta la nostra esistenza, aprendo i cuori all’azione della sua grazia, affinché siamo sempre più uniti a Lui. La santità non è privilegio di pochi, ma è la vocazione di ogni cristiano. In questo cammino Dio vi benedica.
* * *
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i partecipanti al Capitolo generale dei Chierici Mariani dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, augurando di continuare con generosità il servizio a Cristo e alla Chiesa, seguendo fedelmente la via tracciata dal venerato Fondatore. Saluto con affetto le Missionarie della Carità e le ringrazio per la gioiosa testimonianza cristiana che rendono nei diversi Continenti, sulle orme della loro indimenticabile Fondatrice la beata Teresa di Calcutta. Saluto i coordinatori regionali dell’Apostolato del mare, in occasione del convegno promosso dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti e li incoraggio a individuare adeguate risposte pastorali ai problemi dei marittimi e delle loro famiglie. Saluto i rappresentanti della Banca di Viterbo Credito Cooperativo ed auspico che il centenario di fondazione dell’Istituto susciti sempre maggiore impegno a servizio degli autentici bisogni sociali.
Il mio pensiero va, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Voi, cari giovani, fate spazio nel vostro cuore a Gesù e diffondete la sua gioia e la sua pace. Voi, cari malati, offrite al Signore i vostri momenti di prova perché si aprano le porte dei cuori all'annuncio del Vangelo. E voi, cari sposi novelli, siate sempre testimoni dell'amore di Cristo, che vi ha chiamati a realizzare un comune progetto di vita.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana


Volgetevi a Me. Saprete, conoscerete e sarete salvi perché conoscerete la Verità. ... Oggi sta accadendo una grande eresia, una sacrilega al sommo eresia. …..


  • Io come possente zampillo di sorgente eterna, trabocco da ogni lato della Cattolica Chiesa di Cristo e con la Grazia, con i sette doni e con i sette sacramenti, faccio, dei cattolici fedeli, dei servi del Signore, degli eletti al Regno, dei figli di Dio, dei fratelli del Cristo, degli dèi la cui sorte e così infinitamente sublime che merita qualunque sacrificio per possederla.
    Volgetevi a Me. Saprete, conoscerete e sarete salvi perché conoscerete la Verità. Staccatevi, staccatevi dall’errore che non vi dà gioia e pace. Curvate il ginocchio davanti al Dio vero. Al Dio che ha parlato sul Sinai e che ha evangelizzato in Palestina. Al Dio che vi parla attraverso la Chiesa da Me, Spirito di Dio, fatta Maestra. 10.1.44

  • Oggi sta accadendo una grande eresia, una sacrilega al sommo eresia. …..
    Si bandisce un nuovo vangelo, si fonda una nuova Chiesa, si eleva un nuovo altare, s’innalza una nuova croce, si celebra un nuovo sacrificio. Vangelo, chiesa, altare, croce, sacrificio di uomo. Non di Dio.
    Uno è il Vangelo: il mio.
    Una è la Chiesa: la mia, cattolica romana.
    Uno è l’Altare: quello consacrato dall’olio, dall’acqua e dal vino; quello fondato sulle ossa di un martire e di un santo di Dio.
    Una è la Croce: la mia. Quella da cui pende il Corpo del Figlio di Dio: Gesù Cristo; quella che ripete la figura del legno che Io ho portato con infinito amore e con tanta fatica sino alla cima del Calvario. Non ci sono altre croci. 17.1.44
AVE MARIA PURISSIMA!
MATER ECCLESIAE
ORA PRO NOBIS

martedì 13 dicembre 2016

IL SANTO NATALE

Profezia di San Francesco


Profezia di San Francesco sulla tribolazione della Chiesa futura

Poco prima della sua morte, radunati i confratelli, li avvertì delle future tribolazioni dicendo: Andate avanti con coraggio e trovate conforto e sostegno nel Signore. Si affretteranno a venire incontro gravi tempi di tribolazione e di afflizione nei quali dilagheranno oscurità e pericoli sia materialmente che spiritualmente, la carità di molti si raffredderà, e sovrabbonderà l’iniquità dei malvagi. Sarà slegata più dell’ordinario la potenza dei demoni, sarà deturpata la purezza immacolata del nostro culto e di quello di altri, fino al punto che pochissimi fra i cristiani obbediranno al vero Sommo Pontefice e alla Chiesa romana: un tale, non eletto canonicamente, elevato al Papato nel momento della sua tribolazione, macchinerà di consegnare a molti la morte del suo delirio. 
Allora si moltiplicheranno gli scandali, la nostra Religione si dividerà, molti saranno da altri del tutto fiaccati tanto che non si opporranno ma si accorderanno con lo sviamento. Saranno le opinioni e gli scismi tanti e tanti nel popolo e nei religiosi e fra gli ecclesiastici che se non fossero abbreviati quei giorni secondo la parola del Vangelo indurrebbero in errore (se fosse possibile) anche gli eletti, se non che essi saranno guidati in così terribile tempesta dall’immensa misericordia di Dio. 

La nostra Regola e la nostra vita allora saranno da certuni violentissimamente attaccate. Piomberanno addosso tentazioni potenti. Coloro che allora resisteranno nella prova riceveranno la corona della vita. Guai invece a coloro che diventeranno tiepidi sentendosi sicuri nella sola speranza della religione, non resisteranno con costanza alle tentazioni permesse per provare gli eletti. Quelli che ferventi di carità con vero spirito e zelo per la verità staranno attaccati all’amor di Dio, subiranno persecuzioni e punizioni come fossero disobbedienti e scismatici. 

Infatti coloro che li perseguitano mossi da spiriti maligni diranno essere un grande omaggio a Dio annientare e togliere dalla terra uomini tanto nocivi. Allora tuttavia sarà il Signore sarà rifugio per gli afflitti e salverà coloro che spereranno in Lui. E per conformarsi al loro capo si comporteranno con fede e sceglieranno di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, e non volendo accordarsi con la falsità e la perfidia non temeranno in nessun modo la morte. La verità allora sarà da alcuni predicatori seppellita nel silenzio, da altri si negherà col disprezzo. La santità di vita sarà derisa da coloro che la professano e per questa ragione il Signore Gesù Cristo lascerà a loro non un degno pastore ma uno sterminatore.

AMDG et BVM

lunedì 12 dicembre 2016

Santa Lucia Vergine e martire 13 dicembre


Santa Lucia Vergine e martire
Siracusa, III secolo - Siracusa, 13 dicembre 304

La vergine e martire Lucia è una delle figure più care alla devozione cristiana. Come ricorda il Messale Romano è una delle sette donne menzionate nel Canone Romano. Vissuta a Siracusa, sarebbe morta martire sotto la persecuzione di Diocleziano (intorno all'anno 304). Gli atti del suo martirio raccontano di torture atroci inflittele dal prefetto Pascasio, che non voleva piegarsi ai segni straordinari che attraverso di lei Dio stava mostrando. Proprio nelle catacombe di Siracusa, le più estese al mondo dopo quelle di Roma, è stata ritrovata un'epigrafe marmorea del IV secolo che è la testimonianza più antica del culto di Lucia. Una devozione diffusasi molto rapidamente: già nel 384 sant'Orso le dedicava una chiesa a Ravenna, papa Onorio I poco dopo un'altra a Roma. Oggi in tutto il mondo si trovano reliquie di Lucia e opere d'arte a lei ispirate. (Avvenire)
Patronato: Siracusa, ciechi, oculisti, elettricisti, contro le malattie degli occhi e le ca
Etimologia: Lucia = luminosa, splendente, dal latino
Emblema: Occhi su un piatto, Giglio, Palma, Libro del Vangelo
Martirologio Romano: Memoria di santa Lucia, vergine e martire, che custodì, finché visse, la lampada accesa per andare incontro allo Sposo e, a Siracusa in Sicilia condotta alla morte per Cristo, meritò di accedere con lui alle nozze del cielo e di possedere la luce che non conosce tramonto.

Gli atti del martirio di Lucia di Siracusa sono stati rinvenuti in due antiche e diverse redazioni: l’una in lingua greca il cui testo più antico risale al sec. V (allo stato attuale delle ricerche); l’altra, in quella latina, riconducibile alla fine del sec. V o agli inizi del sec. VI ma comunque anteriore al sec. VII e che di quella greca pare essere una traduzione.

La più antica redazione greca del martirio contiene una leggenda agiografica edificante, rielaborata da un anonimo agiografo due secoli dopo il martirio sulla tradizione orale e dalla quale è ardua impresa sceverare dati storici. Infatti, il documento letterario vetustiore che ne tramanda la memoria è proprio un racconto del quale alcuni hanno messo addirittura in discussione la sua attendibilità. Si è giunti così, a due opposti risultati: l’uno è quello di chi l’ha strenuamente difesa, rivalutando sia la storicità del martirio sia la legittimità del culto; l’altro è quello di chi l’ha del tutto biasimata, reputando la narrazione una pura escogitazione fantasiosa dell’agiografo ma non per questo mettendo in discussione la stessa esistenza storica della v. e m., come sembrano comprovare le numerose attestazioni devozionali, cultuali e culturali in suo onore.


Sia la redazione in greco sia quella in latino degli atti del martirio hanno avuto da sempre ampia e ben articolata diffusione, inoltre entrambe si possono considerare degli archetipi di due differenti ‘rami’ della tradizione: infatti, dal testo in greco sembrano derivare numerose rielaborazioni in lingua greca, quali le Passiones più tardive, gli Inni, i Menei, ecc.; da quello in latino sembrano, invece, mutuare le Passiones metriche, i Resumé contenuti nei Martirologi storici, gli Antifonari, le Epitomi comprese in più vaste opere, come ad es. nello Speculum historiale di Vincenzo da Beauvais o nella Legenda aurea di Iacopo da Varazze.
I documenti rinvenuti sulla Vita e sul martirio sono vicini al genere delle passioni epiche in quanto i dati attendibili sono costituiti solo dal luogo e dal dies natalis. Infatti, negli atti greci del martirio si riscontrano elementi che appartengono a tutta una serie di composizioni agiografiche martiriali, come ad es. l’esaltazione delle qualità sovrumane della martire e l’assenza di ogni cura per l’esattezza storica. Tuttavia, tali difetti, tipici delle passioni agiografiche, nel testo greco di Lucia sono temperate e non spinte all’eccesso né degenerate nell’abuso. Proprio questi particolari accostano gli atti greci del martirio al genere delle passioni epiche.


Sul piano espositivo l’andamento è suggestivo ed avvincente, non  mancando di trasmettere al lettore emozioni e resoconti agiografici inconsueti attraverso un racconto che si snoda su un tessuto narrativo piuttosto ricco di temi e motivi di particolare rilievo: il pellegrinaggio alla tomba di Agata (con il conseguente accostamento Agata/Lucia e Catania/Siracusa); il sogno, la visione, la profezia e il miracolo; il motivo storico; l’integrità del patrimonio familiare; la lettura del Vangelo sull’emorroissa; la vendita dei beni materiali, il Carnale mercimonium e la condanna alla prostituzione. Infatti è stretta la connessione tra la dissipazione del patrimonio familiare e la prostituzione per cui la condanna al postrìbolo rappresenta una legge di contrappasso sicché la giovane donna che ha dilapidato il patrimonio familiare è ora condannata a disperdere pure l’altro patrimonio materiale, rappresentato dal proprio corpo attraverso un’infamante condanna, direttamente commisurata alla colpa commessa; infine, la morte.


Il martirio incomincia con la visita di Lucia assieme alla madre Eutichia, al sepolcro di Agata a Catania, per impetrare la guarigione dalla malattia da cui era affetta la madre: un inarrestabile flusso di sangue dal quale non era riuscita a guarire neppure con le dispendiose cure mediche, alle quali si era sottoposta. Lucia ed Eutichia partecipano alla celebrazione eucaristica durante la quale ascoltano proprio la lettura evangelica sulla guarigione di un’emorroissa. Lucia, quindi, incita la madre ad avvicinarsi al sepolcro di Agata e a toccarlo con assoluta fede e cieca fiducia nella guarigione miracolosa per intercessione della potente forza dispensatrice della vergine martire. Lucia, a questo punto, è presa da un profondo sonno che la conduce ad una visione onirica nel corso della quale le appare Agata che, mentre la informa dell’avvenuta guarigione della madre le predice pure il suo futuro martirio, che sarà la gloria di Siracusa così come quello di Agata era stato la gloria di Catania. Al ritorno dal pellegrinaggio, proprio sulla via che le riconduce a Siracusa, Lucia comunica alla madre la sua decisione vocazionale: consacrarsi a Cristo! A tale fine le chiede pure di potere disporre del proprio patrimonio per devolverlo in beneficenza. Eutichia, però, non vuole concederle i beni paterni ereditati alla morte del marito, avendo avuto cura non solo di conservarli orgogliosamente intatti e integri ma di accrescerli pure in modo considerevole. Le risponde, quindi, che li avrebbe ereditati alla sua morte e che solo allora avrebbe potuto disporne a suo piacimento. Tuttavia, proprio durante tale viaggio di ritorno, Lucia riesce, con le sue insistenze, a convincere la madre, la quale finalmente le da il consenso di devolvere il patrimonio paterno in beneficenza, cosa che la vergine avvia appena arrivata a Siracusa. Però, la notizia dell’alienazione dei beni paterni arriva subito a conoscenza del promesso sposo della vergine, che se ne accerta proprio con Eutichia alla quale chiede anche i motivi di tale imprevista quanto improvvisa vendita patrimoniale. La donna gli fa credere che la decisione era legata ad un investimento alquanto redditizio, essendo la vergine in procinto di acquistare un vasto possedimento destinato ad assumere un alto valore rispetto a quello attuale al momento dell’acquisto e tale da spingerlo a collaborare alla vendita patrimoniale di Lucia. In seguito il fidanzato di Lucia, forse esacerbato dai continui rinvii del matrimonio, decide di denunciare al governatore Pascasio la scelta cristiana della promessa sposa, la quale, condotta al suo cospetto è sottoposta al processo e al conseguente interrogatorio. Durante l’agone della santa e vittoriosa martire di Cristo Lucia, emerge la sua dichiarata e orgogliosa professione di fede nonché il disprezzo della morte, che hanno la caratteristica di essere arricchiti sia di riflessioni dottrinarie sia di particolari sempre più cruenti, man mano che si accrescono i supplizi inflitti al fine di esorcizzare la v. e m. dalla possessione dello Spirito santo. Dopo un interrogatorio assai fitto di scambi di battute che la vergine riesce a contrabbattere con la forza e la sicurezza di chi è ispirato da Cristo, il governatore Pascasio le infligge la pena del postrìbolo proprio al fine di operare in Lucia una sorta di esorcismo inverso allontanandone lo Spirito santo. Mossa dalla forza di Cristo, la vergine Lucia reagisce con risposte provocatorie, che incitano Pascasio ad attuare subito il suo tristo proponimento. La vergine, infatti, energicamente gli  dice che, dal momento che la sua mente non cederà alla concupiscenza della carne, quale che sia la violenza che potrà subire il suo corpo contro la sua volontà, ella resterà comunque casta, pura e incontaminata nello spirito e nella mente. A questo punto si assiste ad un prodigioso evento: la vergine diventa inamovibile e salda  sicché, nessun tentativo riesce a trasportarla al lupanare, nemmeno i maghi appositamente convocati dallo spietato Pascasio. Esasperato da tale straordinario evento, il cruento governatore ordina che sia bruciata, eppure neanche il fuoco riesce a scalfirla e Lucia perisce per spada! Sicché, piegate le ginocchia, la vergine attende il colpo di grazia e, dopo avere profetizzato la caduta di Diocleziano e Massimiano, è decapitata.


Pare che Lucia abbia patito il martirio nel 304 sotto Diocleziano ma vi sono studiosi che propendono per altre datazioni: 303, 307 e 310. Esse sono motivate dal fatto che la profezia di Lucia contiene elementi cronologici divergenti che spesso non collimano fra loro: per la pace della chiesa tale profezia si dovrebbe riferire al primo editto di tolleranza nei riguardi del cristianesimo e quindi sarebbe da ascrivere al 311, collegabile, cioè, all’editto di Costantino del 313; l’abdicazione di Diocleziano avvenne intorno al 305; la morte di Massimiano avvenne nel 310. È, invece, accettata dalla maggioranza delle fonti la data relativa al suo dies natalis: 13 dicembre. Eppure, il Martirologio Geronimiano ricorda Lucia di Siracusa in due date differenti: il 6 febbraio e il 13 dicembre.  L’ultima data ricorre in tutti i successivi testi liturgici bizantini e occidentali, tranne nel calendario mozarabico, che la celebra, invece, il 12 dicembre. Nel misterioso calendario latino del Sinai il dies natalis di Lucia cade l’8 febbraio: esso fu redatto nell’Africa settentrionale e vi è presente un antico documento della liturgia locale nel complesso autonoma sia dalla Chiesa di Costantinopoli che da quella di Roma, pur rivelando fonti comuni al calendario geronimiano.
Assai diffusa è a tutt’oggi la celebrazione del culto di Lucia quale santa patrona degli occhi. Ciò sembra suffragato anche dalla vasta rappresentazione iconografica, che, tuttavia, è assai variegata, in quanto nel corso dei secoli e nei vari luoghi si è arricchita di nuovi simboli e di varie valenze. Ma è stato sempre così? Quando nasce in effetti questo patronato e perché?  Dal Medioevo si va sempre più consolidando la taumaturgia di Lucia quale santa patrona della vista e dai secc. XIV-XV si fa largo spazio un’innovazione nell’iconografia: la raffigurazione con in mano un piattino (o una coppa) dove sono riposti i suoi stessi occhi. Come si spiega questo tema? È, forse, passato dal testo orale all’iconografia? Oppure dall’iconografia all’elaborazione orale? Quale l’origine di un tale patronato? Esso è probabilmente da ricercare nella connessione etimologica e/o paretimologica di Lucia a lux, molto diffusa soprattutto in testi agiografici bizantini e del Medioevo Occidentale. Ma, quali i limiti della documentazione e quali le cause del proliferare della tradizione relativa all’iconografia di Lucia, protettrice della vista? Si può parlare di dilatazione dell’atto di lettura nell’immaginario iconografico, così come in quello letterario? E tale dilatazione nei fenomeni religiosi è un atto di devozione e fede? È pure vero che la semantica esoterica data al nome della v. e m. di Siracusa è la caratteristica che riveste, accendendola di intensa poesia, la figura e il culto di Lucia, la quale diventa, nel corso dei secoli e nei vari luoghi una promessa di luce, sia materiale che spirituale. E proprio a tale fine l’iconografia, già a partire dal sec. XIV, si fa interprete e divulgatrice di questa leggenda, raffigurando la santa con simboli specifici e al tempo stesso connotativi: gli occhi, che Lucia tiene in mano (o su un piatto o su un vassoio), che si accompagnano sovente alla palma, alla lampada (che è anche uno dei simboli evangelici più diffuso e più bello, forse derivato dall’arte sepolcrale) e, meno frequenti, anche ad altri elementi del suo martirio, come ad es. il libro, il calice, la spada, il pugnale e le fiamme. È anche vero che le immagini religiose possono essere intese sia come ritratti che come imitazione ma non bisogna dimenticare che prima dell’età moderna sono mancati riferimenti ai suoi dati fisiognomici, per cui gli artisti erano soliti ricorrere alla letteratura agiografica il cui esempio per eccellenza è proprio la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, che rappresenta il testo di riferimento e la fonte di gran parte dell’iconografia religiosa. In tale opera il dossier agiografico di Lucia -che si presenta  come un testo di circa tre pagine di lunghezza- è preceduto da un preambolo sulle varie valenze etimologiche e semantiche relative all’accostamento Lucia/luce: Lucia è un derivato di luce esteso anche al valore simbolico via Lucis, cioè cammino di luce.
I genitori di Lucia, essendo cristiani, avrebbero scelto per la figlia un nome evocatore della luce, ispirandosi ai molti passi neotestamentari sulla luce. Tuttavia, il nome Lucia in sé non è prerogativa cristiana, ma è anche il femminile di un nome latino comune e ricorrente tra i pagani. Se poi Lucia significhi solo «luce» oppure più precisamente riguarda i «nati al sorger della luce (cioè all'alba)», rivelando nel contempo anche un dettaglio sull'ora di nascita della santa, è a tutt’oggi, un problema aperto. Forse la questione è destinata a restare insoluta? Il problema si complica se poi si lega il nome di Lucia non al giorno della nascita ma a quello della morte (=dies natalis): il 13 dicembre era, effettivamente, la giornata dell'anno percentualmente più buia. Per di più, intorno a quella data, il paganesimo romano festeggiava già una dea di nome Lucina. Queste situazioni hanno contribuito ad alimentare varie ipotesi riconducibili, tuttavia, a due filoni: da un lato quello dei sostenitori della teoria, secondo la quale tutte le festività cristiane sarebbero state istituite in luogo di preesistenti culti pagani, vorrebbero architettata in tale modo anche la festa di Lucia (come già quella di Agata). Per i non credenti tale discorso può anche essere suggestivo e accattivante, trovando terreno fertile. Da qui a trasformare la persona stessa di Lucia in personaggio immaginifico, mitologico, leggendario e non realmente esistito, inventato dalla Chiesa come calco cristiano di una preesistente divinità pagana, il passo è breve (persino più breve delle stesse già brevi e pallide ore di luce di dicembre!). Dall’altro lato quello dei credenti,secondo i quali, invece, antichi e accertati sono sia l’esistenza sia il culto di Lucia di Siracusa, che rappresenta così una persona storicamente esistita, morta nel giorno più corto dell'anno e che riflette altresì il modello femminile di una giovane donna cristiana, chiamata da Dio alla verginità, alla povertà e al martirio, che tenacemente affronta tra efferati supplizi.
Nel Breviario Romano Tridentino, riformato da papa Pio X (ed. 1914), che prima di salire al soglio pontificio era patriarca di Venezia, è menzionata la traslazione delle reliquie di Lucia alla fine della lettura agiografica, così come ha evidenziato Andreas Heinz nel suo recente contributo.


A Siracusa un’inveterata tradizione popolare vuole che, dopo avere esalato l’ultimo respiro, il corpo di Lucia sia stato devotamente tumulato nello stesso luogo dell martirio. Infatti, secondo la pia devozione dei suoi concittadini, il  corpo della santa fu riposto in un arcosolio, cioè in una nicchia ad arco scavata nel tufo delle catacombe e usata come sepolcro. Fu così che le catacombe di Siracusa, che ricevettero le sacre spoglie della v. e m., presero da lei anche il nome e ben presto attorno al suo sepolcro si sviluppò una serie numerosa di altre tombe, perché tutti i cristiani volevano essere tumulati accanto all’amatissima Lucia. Ma, nell'878 Siracusa fu invasa dai Saraceni per cui i cittadini tolsero  il suo corpo da lì e lo nascosero in un luogo segreto per sottrarlo alla furia degli invasori. Ma, fino a quando le reliquie di Lucia rimasero a Siracusa prima di essere doppiamente traslate (da Siracusa a Costantinopoli e da Costantinopoli a Venezia)? Fino al 718 o fino al 1039? È certo che a Venezia il suo culto era già attestato dal Kalendarium Venetum del sec. XI, nei Messali locali del sec. XV, nel Memoriale Franco e Barbaresco dell’inizio del 1500, dove era considerata festa di palazzo, cioè festività civile. Durante la crociata del 1204 i Veneziani lo trasportarono nel monastero di San Giorgio a Venezia ed elessero santa Lucia compatrona della città. In seguito le dedicarono pure una grande chiesa, dove il corpo fu conservato fino al 1863, quando questa fu demolita per la costruzione della stazione ferroviaria (che per questo si chiama Santa Lucia); il corpo fu trasferito nella chiesa dei SS. Geremia e Lucia, dove è conservato tutt’oggi.

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La duplice traslazione delle reliquie di Lucia è attestata da due differenti tradizioni.
La prima tradizione risale al sec. X ed è costituita da una relazione, coeva ai fatti, che Sigeberto di Gembloux († 1112) inserì nella biografia di Teodorico, vescovo di Metz. Tale relazione tramanda che il vescovo Teodorico, giungendo in Italia insieme all’imperatore Ottone II, abbia trafugato molte reliquie di santi –fra cui anche quella della nostra Lucia- che allora erano nell’Abruzzo e precisamente a Péntima (già Corfinium).  La traslazione a Metz delle reliquie di Lucia pare suffragata dagli Annali della città dell’anno 970 d.C. Ma alcuni dubbi sembrano non avere risposte attendibili: Come e perché Faroaldo ripose le reliquie o le spoglie di Lucia a Corfinium? Furono traslate le reliquie o tutto il corpo della martire? Il vescovo locale si prestò ad un inganno (pio e devoto?) o  diceva il vero? Se è ravvisabile un fondo di verità nel racconto del vescovo, allora si potrebbe desumere che le reliquie o il corpo della martire furono traslate da Siracusa nel 718 (quindi fino al 718 sarebbero rimaste a Siracusa?). Cosa succedeva allora nella città siciliana? Sergio, governatore della Sicilia, si era ribellato all’imperatore Leone III l’Isaurico e pertanto era stato costretto a fuggire da Siracusa e a  rifugiarsi da Romualdo II, duca longobardo di Benevento.  Se questa tradizione è attendibile, si può forse pensare che il vescovo di Corfinium (o piuttosto Sigeberto? Oppure altresì la sua fonte?) abbia confuso Romualdo (che proprio in quel periodo era duca di Spoleto e che, come tale, godeva di una fama maggiore) con Faroaldo? E ancora, lo stesso Sigeberto di Gembloux riferisce che Teoderico nel 972 abbia innalzato un altare in onore di Lucia e che nel 1042 un braccio della v. e m. sia stato donato al monastero di Luitbourg. Quindi, antichi documenti attestano che di fatto vi fu una traslazione delle reliquie di Lucia dall’Italia centrale a Metz, sulla frontiera linguistica romano-germanica, nella provincia di Treviri. Situata fra Germania e Francia, questa regione è anche il paese d’origine della dinastia carolingia. È una casualità? Come andarono effettivamente le cose? Secondo Sigeberto di Gembloux l’imperatore Ottone II sostò in Italia nel 970, avendo tra la sua scorta il vescovo Teodorico di Metz, il quale, durante il suo soggiorno, acquistava preziose reliquie, allo scopo di accrescere la fama della sua città vescovile. Pare che uno dei suoi preti, di nome Wigerich, che era anche cantore nella cattedrale di Metz, abbia rinvenuto le reliquie di Lucia di Siracusa, a Corfinium, poi identificata con Péntima in Abruzzo. Si dice che tali reliquie erano state prelevate dai Longobardi e trasportate da Siracusa al ducato di Spoleto. Ma perché questo spostamento? In un primo tempo le reliquie di Lucia, dopo essere state acquistate dal vescovo Teodorico di Metz, il quale aveva portato dall’Italia anche il corpo del martire Vincenzo, furono tumulate assieme alle reliquie di quest’ultimo al quale il vescovo aveva fatto erigere un’abbazia sull’isola della Mosella, dove nel 972 uno dei due altari della chiesa dell’abbazia, fu dedicato proprio a Lucia, come patrona. Sigeberto ricorda pure che Teodorico di Metz, in presenza di due vescovi di Treviri e precisamente di Gerard di Toul e di Winofid di Verdun, abbia dedicato a Lucia un oratorio nello stesso anno. Non solo, ma tanta e tale era dunque la devozione di Teodorico di Metz per la v. e m. di Siracusa che fece tumulare il conte Everardo, suo giovane nipote, prematuramente scomparso alla tenera età di soli dieci anni, proprio innanzi all’altare di Lucia. Per tutto il tempo in cui le spoglie di Lucia rimasero nella chiesa dell’abbazia di S. Vincenzo nella Mosella, la v. e m. di Siracusa fu implorata durante i giorni delle Regazioni, con una grande processione della cittadinanza di Metz che si fermò proprio nell’abbazia di S. Vincenzo. Così Metz divenne il fulcro da cui si irradiò ben presto il culto di Lucia tanto che già nel 1042 l’imperatore Enrico III reclamò alcune reliquie della v. e m. di Siracusa per il convento nuovamente fatto erigere dalla sua famiglia nella diocesi di Speyer e precisamente a Lindeburch/Limburg. 

La seconda tradizione è, invece, tramandata da Leone Marsicano e dal cronista Andrea Dandolo di Venezia. Leone Marsicano racconta che nel 1038 il corpo di Lucia, vegine e martire, fu trafugato da Giorgio Maniace e traslato a Costantinopoli in una teca d’argento.  Andrea Dandolo, esponendo la conquista di Costantinopoli del 1204 da parte dei Crociati, tra i quali militava anche Enrico Dandolo, un suo illustre antenato e doge di Venezia, informa che i corpi di Lucia e Agata erano stati traslati dalla Sicilia a Costantinopoli  ma che quello di Lucia fu poi nuovamente traslato da Costantinopoli a Venezia, dove pare che di fatto giunse il 18 gennaio 1205. Quindi, la traslazione delle reliquie di Lucia a Venezia da Costantinopoli sembra legata agli eventi della Quarta Crociata (quella riconducibile al periodo che va dal 1202 al 1204), quando i cavalieri dell’Occidente latino, piuttosto che liberare la Terrasanta,  spogliarono la metropoli dell’Oriente cristiano. Infatti, nel 1204,  in seguito alla profanazione e al saccheggio dei crociati nelle basiliche di Bisanzio, neanche la chiesa in cui riposava il corpo di Lucia fu risparmiata da questa oltraggiosa strage tanto che furono pure rimosse le sue spoglie e contese le sue reliquie, molto venerate nell’Oriente ortodosso. Pare che, proprio in tale occasione Venezia, che aveva condotto la Quarta Crociata presso il Santo Sepolcro, si impadronì delle reliquie di Lucia, che giunsero, come si diceva, sulla laguna - nella chiesa di S. Giorgio Maggiore-  il 18 gennaio 1205 e cioè ancora prima della costruzione della basilica del Palladio e dell’attuale Palazzo Ducale. Il corpo di Lucia fu riposto nel monastero benedettino, dove aveva soggiornato il  monaco Gerardo (o Sagredo?). Sembra che il tragico evento del 13 dicembre del 1279  (cioè una bufera scatenatasi all’improvviso, che provocò molte vittime) sia stato la causa di una nuova traslazione  del corpo di Lucia dalla chiesa di S. Giorgio Maggiore a Venezia (eccetto, pare, un pollice -non un braccio, come vuole la communis opinio-  che sarebbe rimasto in San Giorgio). Dopo tale tragedia, infatti, le autorità decisero di traslare il corpo di Lucia in città, ponendolo in una chiesa parrocchiale a lei intitolata e ciò allo scopo di agevolare a piedi il pellegrinaggio alle sue sacre spoglie in terraferma senza dovere ricorrere ad imbarcazioni. Quindi, nel mese seguente alla sciagura e precisamente il 18 gennaio del 1280 (lo stesso giorno della memoria dell’arrivo delle sacre spoglie di Lucia da Costantinopoli), il suo corpo fu traslato nella chiesa dedicatale, che si trovava nello stesso luogo in cui era ubicata la stazione ferroviaria che, ancora oggi ne conserva la memoria nel nome e precisamente sulle fondamenta prospicienti il Canal Grande e cioè all’inizio del sestiere di Cannareggio. Tale chiesa fu poi riedificata nel 1313 e fu assegnata dal papa Eugenio IV nel 1444  in commenda alle suore domenicane, che avevano aperto il loro convento intitolato al Corpus Domini, un cinquantennio prima sempre a Cannareggio. Nel 1476, dopo circa un trentennio di contese, si raggiunse un accordo tra le monache domenicane del convento del Corpus Domini e quelle agostiniane del monastero dell’Annunziata  proprio per il possesso del corpo di Lucia: papa Sisto IV nel 1478 stabilì, con un solenne diploma, che il corpo della santa rimanesse nella chiesa a lei intestata sotto la giurisdizione delle agostiniane del monastero dell’Annunziata (che da allora prese il nome di monastero di S. Lucia), le quali ogni anno avrebbero offerto la somma di 50 ducati alle monache domenicane del convento del Corpus Domini. Nel 1579 passando per il Dominio veneto l’imperatrice Maria d’Austria, il Senato volle farle omaggio di una reliquia di s. Lucia pertanto, con l’assistenza del patriarca Giovanni Trevisan fu asportata una piccola porzione di carne dal lato sinistro del corpo della v. e m. Il 28 luglio del 1806 per decreto vicereale il monastero di Santa Lucia fu soppresso e le monache agostiniane costrette a trasferirsi al di là del Canal Grande e precisamente nel monastero di S. Andrea della Girada, dove portarono pure il corpo di Lucia. Nel 1807 il governo vicereale concesse alle agostiniane di S. Lucia di far ritorno nel loro antico convento, che, tuttavia,  trovarono occupato dalle agostiniane di Santa Maria Maddalena, le quali si fusero con quelle di S. Lucia, assumendone anche il titolo. Nel 1810 Napoleone Bonaparte decretò la chiusura di tutti i monasteri e conventi, compreso quello di S. Lucia, le cui monache furono pure obbligate a deporre l’abito monastico e a rientrare nella propria famiglia di appartenenza. Il corpo di Lucia rimase nella sua chiesa, che fu così inserita nella circoscrizione della parrocchia di S. Geremia. Nel 1813 il convento di S. Lucia era donato dall’imperatore d’Austria alla b. Maddalena di Canossa, che vi abitò fino al 1846, quando iniziarono i lavori per la stazione ferroviaria e per la demolizione del convento. Fra il 1844 e il 1860 il governo austriaco realizzò la costruzione del ponte ferroviario, che doveva giungere fino alle fondamenta di Cannareggio e cioè proprio là dove da secoli allogavano i monasteri delle domenicane del Corpus Domini e delle agostiniane di Santa Lucia, poi abbattuti. Il corpo di Lucia l’11 luglio 1860 subì, quindi, una nuova traslazione nella parrocchia di S. Geremia, per volere del patriarca Angelo Ramazzotti: il sacro corpo rimase sette giorni sull’altar maggiore, poi fu posto su un altare laterale in attesa di costruire la nuova cappella. Tre anni dopo, l’11 luglio 1863, fu inauguata: essa era stata costruita con il materiale del presbiterio della demolita chiesa di S. Lucia su gusti palladiani. Per la generosità di mons. Sambo, parroco di quella Chiesa (che nel frattempo assunse la denominazione SS. Geremia e Lucia) su disegno dell’arch. Gaetano Rossi fu allestito un altare più degno in broccatello di Verona con fregi di bronzo dorato. Quindi, dal 1860 Pio IX l'avrebbe fatto trasferire nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia, dove si venera a tutt’oggi. Qui, la cappella del corpo di santa Lucia  è  assai bella e artistica proprio come tutte le chiese di Venezia, adorna di marmi e di bronzi, ed è sempre stata oggetto di particolari cure ed elevata devozione di fedeli sempre più numerosi. Il sacro corpo, elevato sopra l'altare, è conservato in una elegante urna di marmi preziosi, superbamente abbellita da pregiate decorazioni e sormontata dalla stupenda statua della v. e m. Sulla parete di sfondo si leggono due iscrizioni, che raccontano le vicende della traslazione e delle principali solenni festività. Il 15 giugno del 1930 il patriarca Pietro La Fontaine lo consacrava e collocava il corpo incorrotto di Lucia nella nuova urna in marmo giallo ambrato. Nel 1955 il patriarca Angelo Roncalli -divenuto poi papa con il nome di Giovanni XXIII- volendo che fosse conferita più importanza alle sacre reliquie di Lucia, suggerì che le sacre spoglie fossero ricoperte di una maschera d’argento, curata dal parroco Aldo Da Villa. Nel 1968, per iniziativa del parroco Aldo Fiorin fu portato a compimento un completo restauro della Cappella e dell’Urna della v. e m. Ancor oggi le sacre reliquie riposano nel tempio di Venezia e nella bianca curva absidale si legge un inciso propiziatorio: Vergine di Siracusa martire di Cristo in questo tempio riposa all’Italia al mondo implori luce e pace. Ma, il 4 aprile 1867 le spoglie di Lucia furono disgraziatamente profanate dai ladri (subito arrestati), che furtivamente si erano introdotti nella chiesa di S. Geremia, per impadronirsi degli ornamenti votivi. Da allora seguirono altre profanazioni e spoliazioni: nel 1949, quando alla martire fu sottratta la corona (anche in questo caso il ladro fu arrestato) e nel 1969, quando due ladri infransero il cristallo dell’urna. Nel 1975  papa Giovanni Paolo I concesse che il corpo della martire fosse portato ed esposto alla venerazione dei fedeli nella diocesi di Pesaro per una settimana. Il 7 novembre 1981 due aggressori spezzarono l’urna della martire estraendovi il corpo e lasciandovi il capo e la maschera argentea. Anche questa volta il corpo fu recuperato proprio il 12 dicembre del 1981, giorno della vigilia della commemorazione della santa.
Esiste una variante sulla traslazione del corpo di Lucia a Venezia, documentata da un codice del Seicento, o Cronaca Veniera, conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia (It. VII, 10 = 8607, f. 15 v.): esso sarebbe stato portato a Venezia, assieme a quello di S. Agata, nel 1026, sotto il dogado di Pietro Centranico. Non conosciamo l’origine della notizia nè se derivi da una fonte anteriore. E’ diffuso, invece, il fondato sospetto di un errore meccanico di amanuense, che avrebbe letto 1026 invece di 1206, cioè gli anni dell’effettiva translatio. E nella Cronaca Veniera lo si accettò, legando il fatto al doge dell’epoca. La presenza del corpo di Lucia a Venezia sin dal 1026 è una notizia che va accolta con prudenza? Tra il 1167 e il 1182 a Venezia esisteva già una chiesa dedicata alla martire, come attestato da documenti locali.

Una delle più antiche tradizioni veronesi racconta che le spoglie della santa siracusana passarono da Verona durante il loro viaggio verso la Germania intorno al sec. X, fatto che spiegherebbe anche la diffusione del culto della santa sia a Verona che nel nord Europa. Secondo un’altra tradizione, il culto di santa Lucia a Verona risalirebbe al periodo di dominio della Serenissima su Verona. Secondo la communis opinio, Venezia infatti, già nel 1204, avrebbe trasportato le spoglie della santa nella città lagunare.

Autore: 
Maria Stelladoro

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E IN SINTESI, DAL BREVIARIO ROMANO:


Lucia, vergine di Siracusa, illustre per la nobiltà dei natali e per la fede, a Catania, presso il sepolcro di sant'Agata, ottenne la salute della madre Eutichia che soffriva perdite di sangue. Subito, ottenuto il permesso della madre, distribuì ai poveri tutti i beni che ella avrebbe ricevuto come dote. Per questo fu accusata come cristiana presso il prefetto Pascasio, ma non si lasciò piegare al culto degli idoli né con preghiere né con minacce. Allora Pascasio, acceso d'ira, comandò di trascinare Lucia in un luogo dove venisse violata la sua verginità, ma per un prodigio divino la vergine rimase così immobile dov'era, che nessuna forza la poté smuovere. Perciò il prefetto ordinò di accendere il fuoco attorno a lei; ma siccome la fiamma non le faceva alcun male, dopo essere stata tormentata in molti modi, le fu tagliata la gola con la spada. Mortalmente ferita, Lucia predicendo la tranquillità della Chiesa, che sarebbe succeduta alla morte di Diocleziano e Massimiano, rese lo spirito a Dio il 13 dicembre. Il suo corpo, sepolto a Siracusa, fu poi trasportato a Costantinopoli e infine a Venezia.
V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.
AMDG et BVM