sabato 27 agosto 2016

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER parte sesta

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER

 parte sesta (a cura di Gemma)

Joseph Ratzinger con Karl Rahner e Martin Bialas
LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte prima

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte seconda

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte terza

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte quarta

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte quinta

LA VITA DI JOSEPH RATZINGER, parte settima (a cura di Gemma)

Il Papa ricorda la sua giovinezza: "Nella biografia della mia vita - nella biografia del mio cuore, se così posso dire - la città di Frisinga ha un ruolo molto speciale. In essa ho ricevuto la formazione che da allora caratterizza la mia vita. Così, in qualche modo questa città è sempre presente in me e io in lei"(Commovente discorso in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Frisinga, 16 gennaio 2010)

Ratzinger: "Il mio Concilio: ricordi dell'attuale Pontefice" (Reset e Repubblica) 

Norbert Trippen: "Joseph Ratzinger, il cardinale Frings e il Concilio Vaticano II" (Osservatore Romano) 

Joseph Ratzinger presenta se stesso: discorso di Presentazione alla Pontificia Accademia delle Scienze 

Intervista esclusiva di Andrea Tornielli a Mons. Georg Ratzinger: "Mio fratello Papa Ratzinger (che voleva fare l'imbianchino)" 

Prof. Ratzinger: Introduzione al Cristianesimo - Prefazione alla prima edizione (1968)

Cari amici, grazie al grandissimo lavoro della nostra impagabile Gemma possiamo leggere la sesta parte della biografia dedicata al Santo Padre, Benedetto XVI.
Si tratta di un periodo fondamentale nella vita di Joseph Ratzinger che ci permette di capire ancora meglio la personalita' e la statura morale ed intellettuale del nostro Papa.
Straordinari anche gli aneddoti "scovati" da Gemma attraverso piu' fonti diverse e sempre di "prima mano" in quanto sono gli stessi allievi o colleghi del professor Ratzinger a raccontarli.
Notare l'attualita' della dichiarazione dell'allora cardinale al New York Times.
Grazie ancora alla nostra preziosissima Gemma :-)

R.

Gli anni di Ratisbona e la nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga

Nel 1967 lo Stato Libero di Baviera apre a Ratisbona la sua quarta Università. 
Per la cattedra di dogmatica, si pensa fin dall’inizio al professor Ratzinger, ma essendo quest'ultimo all’epoca impegnato a Tubinga, essa viene affidata al suo ex collega di Bonn, Auer. Quando alla fine del ’68 - inizio ’69 viene istituita la seconda cattedra di dogmatica, gli viene rinnovata la proposta. 
Stanco delle logoranti polemiche dell’ambiente accademico di Tubinga, il professor Ratzinger decide di accettare.

Così l’amico Alfred Lapple parla di quel contesto nel suo libro, ‘Benedetto XVI e le sue radici’:

“Per il sensibilissimo e profondamente devoto professore di Dogmatica, quando durante una lezione sulla cristologia, allorché parlò della morte in croce di Gesù, gli fu sbraitato “sadomasochismo”!, fu non solo un’offesa alla decenza, ma anche un efflusso delle idee marxiste e nichiliste”.

E ancora, rievoca:

dei tumulti all’Università di Tubinga e del proprio duro atteggiamento il cardinale Ratzinger parlò in un’intervista al New York Times:

“Compresi che è impossibile discutere col terrore …e che una discussione col terrore significa collaborazione con esso…In quegli anni imparai anche qual è il punto in cui la discussione dev’essere interrotta perché non si trasformi in menzogna e il punto in cui deve iniziare la resistenza per mantenere la libertà” (3).

Così nella sua autobiografia Joseph Ratzinger spiega la scelta di Ratisbona: “ero ancora decano, ma le logoranti polemiche che vivevo all’interno degli organi accademici mi avevano spinto a cambiare atteggiamento e, pertanto, mi mostrai disponibile. Volevo portare avanti la mia teologia in un contesto meno agitato e non volevo farmi coinvolgere da continue polemiche” (1).

Ma alla base del trasferimento, vi è probabilmente ancora una volta anche un motivo familiare, come ricorda il suo ex allievo Martin Bialas nel libro di Gianni Valente, ‘Ratzinger professore’: suo fratello Georg era diventato direttore dei Domspatzen di Regensburg e finalmente i tre fratelli avrebbero potuto vivere insieme. Con la sorella Maria va ad abitare nella vicina periferia a Pentling: “ mi era stato possibile far costruire una piccola casa con giardino, in cui io e mia sorella ci sentivamo davvero a casa nostra e dove mio fratello si fermava spesso volentieri. Ci sentivamo di nuovo insieme, a casa nostra” (1). 

“Lì dice messa tutti i giorni della settimana, con la sorella sempre al fianco. “Ecco che arrivan Giuseppe e Maria”, dicono scherzando i parrocchiani appena li vedono sul sentiero che porta alla Chiesa” (2).

Ad aiutarlo nel trasloco sono come sempre gli allievi più affezionati.

Ad accompagnarlo in uno dei primi viaggi è l’allievo Johannes Lehmann- Dronke che racconta: “appena arrivati a Regensburg, la macchina sovraccarica di libri e bagagli viene fermata dalla polizia stradale”; i due riescono a ripartire solo dopo aver rassicurato i poliziotti sui contenuti del carico esorbitante, e dopo aver dichiarato di provenire da Bierbronnen, la località della Foresta Nera dove Ratzinger tiene i ritiri estivi con gli allievi e che in tedesco significa “fonte della birra” (2).

L’inizio non è facile, gli edifici universitari sono ancora in costruzione e le singole facoltà in via di configurazione, ma in breve tempo la nuova università riesce a raccogliere studenti anche da altri luoghi e il suo gruppo di laureandi diviene ancor più internazionale. Anche qui le polemiche non mancano ma, ricorda, “c’era quel rispetto reciproco di fondo che è così importante per un lavoro fruttuoso”.

Come nel suo stile, per raggiunger l’Università usa di solito i mezzi pubblici, quando non si fa accompagnare dalle “improbabili auto dei suoi allievi e collaboratori: la Citroen due cavalli di Khun, il Maggiolone di Bialas, la più seriosa Opel Kadett di Beinert (2)”.

Durante le conferenze a volte sparisce dalla circolazione e si ritira in un angolo per recitare il breviario o per preparare la conferenza successiva. Qualche testimone ricorda anche la sua abilità nell’usare la tachigrafia per scrivere velocemente le sue lezioni. 

Durante i primi anni di Ratisbona accadono vari eventi importanti. 

Il primo è la chiamata a far parte della Pontificia Commissione Teologica Internazionale, istituita da Paolo VI su istanza dell’ala progressista dei Padri conciliari. 
Come lui stesso racconta, alcuni pensano che questo nuovo organo possa rappresentare un contrappeso alla Congregazione per la Dottrina della Fede o che possa provvedere ad “una sorta di rivoluzione permanente”. 
Come prevedibile, nel suo primo quinquennio, nella prima tornata di lavori, non mancano tensioni al suo interno, ma è per lui motivo di incoraggiamento vedere che altri giudicano la situazione di quel momento ecclesiale esattamente come lui. 
Cita a tal proposito Henri de Lubac e come “si mostrò deciso a combattere contro la minaccia fondamentale cui era esposta la fede, che cambiava tutti gli schieramenti precedenti”, Philippe Delhaye, il teologo cileno suo coetaneo Jorge Arturo Medina Estévez (che da cardinale protodiacono il 19 aprile 2005 annuncerà al mondo la sua elezione a pontefice), M.J. Le Guillou, esperto conoscitore della teologia ortodossa, Louis Bouyer, e Han Urs von Balthasar. L’importante incontro con von Balthasar è avvenuto per la prima volta a Bonn. Di lui in particolare dice :“ l’incontro con Balthasar fu per me l’inizio di un’amicizia durata per tutta la vita, di cui posso solo essere riconoscente. Non ho mai più incontrato uomini con una formazione teologica e culturale tanto ampia come Balthasar e de Lubac e non sono nemmeno in grado di dire quanto io debba all’incontro con loro”
Di quel periodo ricorda come Congar cercò sempre di mediare tra posizioni contrastanti mentre Rahner “si era sempre più fatto coinvolgere dalle parole d’ordine del progressismo e si lasciò trascinare a delle prese di posizione politiche avventurose, che per la verità erano difficilmente conciliabili con la sua filosofia trascendentale”. 
Le discussioni sono vivaci e alla fine Rahner abbandona la commissione perché lontana dalle sue tesi (1).

E’ in quel periodo che in Balthasar, de Lubac, Ratzinger, Bouyer, Le Guillou e Medina nasce l’idea di fondare una rivista internazionale, diversa da Concilium, che possa portare la teologia fuori dall’ideologia politica del momento, capace di operare a partire dalla communio nei sacramenti e nella fede. 
Inizialmente il progetto pare riguardare Germania e Francia ma dopo l’incontro a Milano di Balthasar con Luigi Giussani, fondatore del movimento di “Comunione e Liberazione”, e i suoi giovani, la rivista viene pubblicata prima in Germania e in Italia, con fisionomia diversa in ciascuno dei paesi.

A proposito del progetto dell’edizione italiana di Communio, ecco come il cardinale Angelo Scola, allora studente di teologia, ricorda il suo primo incontro col professor Ratzinger:

«Ho incontrato per la prima volta il Cardinal Ratzinger nel 1971. Era Quaresima». «Un giovane professore di diritto canonico - prosegue il cardinale - due sacerdoti non ancora trentenni studenti di teologia e un giovane editore erano a tavola, invitati dal professor Ratzinger, in un caratteristico ristorante in riva al Danubio che, a Regensburg, scorre né troppo lento né troppo impetuoso così da far ancora pensare al bel Danubio blu. L'invito l'aveva procurato von Balthasar per discutere della possibilità di fare un'edizione italiana di quella rivista che sarebbe poi stata Communio».

«Col suo tratto delicato, i gesti misurati ma gli occhi mobilissimi, Ratzinger ci illustrava il menu: una lunga sequenza di succulenti piatti bavaresi... Mostrava di conoscerlo bene, era senz'altro un habitué del ristorante. Noi, superato l'impaccio dell'inizio, da buoni latini, per giunta giovani, ci lanciammo in paragoni fra menu bavaresi e lombardi. Mi ricordo bene che chiesi al nostro ospite cosa ci consigliasse: pazientemente prese a illustrarci ogni piatto della lista, spingendoci a gustarne più di qualcuno per farci un'idea della cucina bavarese. Non senza disordine finimmo, sotto gli occhi benevoli ed il sorriso, forse un po' impaziente, del nostro ospite, per scegliere un vasto ed esagerato assortimento di piatti. Ratzinger chiuse la lista degli ordini dicendo al cameriere qualcosa come "per me il solito". Il cameriere portò al noto teologo un toast e una sorta di limonata. La nostra sorpresa rischiava l'imbarazzo. Con un sorriso, stavolta veramente largo e bonario, il cardinale ci liberò, esclamando: "Voi siete in viaggio... Se io mangio troppo come si fa poi a studiare?". Al ritorno in auto, notammo però quella battuta: "come al solito"» (4).

Communio inizia le pubblicazioni nel 1974 dapprima in tedesco e in italiano, poi in numerose altre lingue, tra cui quella polacca su iniziativa del nuovo arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla (9). 

Joseph Ratzinger collabora attivamente a Communio fino alla sua elezione a pontefice. A chi negli anni cerca di etichettarlo come un pentito del Concilio risponde: “non sono cambiato io, sono cambiati loro”, dirà più avanti parlando dei teologi che scrivevano con lui su Concilium. Racconta Peter Kuhn: “ricordo che nel tempo in cui noi suoi allievi eravamo ancora euforici per il concilio, lui, citando l’immagine del Vangelo ripeteva: “Abbiamo aperto la porta per spazzare via un diavolo dalla casa, speriamo che non ne siano rientrati sette”. Ma non gli ho mai sentito dire: quello che abbiamo fatto, non avremmo dovuto farlo (2).

Anche a Ratisbona le lezioni di Ratzinger sono le più affollate della Facoltà, seguite normalmente da 150-200 studenti, provenienti da tutta la Germania e da tutto il mondo.
Essendo tanti, non ha il tempo di seguire singolarmente i dottorandi, ma incontra abitualmente il circolo dei più assidui ogni due settimane il sabato mattina presso il seminario diocesano. Al mattino la messa, poi singoli studenti a turno fanno una relazione sull’avanzamento delle proprie ricerche e ne discutono in maniera critica con gli altri. 

«Qualcuno di noi allievi» spiega padre Bialas «ogni tanto si trastullava nell’idea di strutturare una scuola teologica ratzingeriana. Ma il primo a spazzar via queste velleità era il professore. Diceva sempre che lui non aveva una “sua” teologia particolare» (2). 
Le discussioni, in cui il professore fa da moderatore super partes spaziano in vari ambiti e coinvolgono personalità diverse fra loro, il cui futuro destino spazierà dall’impegno in ruoli curiali, al lavoro teologico , a quello missionario, fino alla dissidenza rispetto al maestro su temi come il sacerdozio femminile o il Catechismo unico, come Wolfgang Beinert e Hansjurgen Werweyen; del gruppo fa parte anche una giovane coreana, Jung-Hi Victoria Kim , che colleghi e professore aiutano sia negli studi sia nel superare la nostalgia da casa e i problemi di ambientamento, fino alla tesi, che mette a confronto la caritas in Tommaso D’Aquino con lo jen, concetto centrale del confucianesimo.

«A ripensarci oggi» ammette Zöhrer «mi stupisce la libertà di cui godevamo. Soprattutto ora che ho saputo di come altri Doktorvater con fama di essere molto liberali stringessero gli allievi in un busto stretto stretto, per poi addirittura castigarli non appena affiorava un dissenso sui contenuti…(2).

Altro caso è quello di Barthelemy Adoukonou, oggi segretario del Pontificio Consiglio della cultura, allora giovane sacerdote del Benin, sostenitore delle lotte africane contro gli imperialismi coloniali, che chiede di addottorarsi con Ratzinger con una tesi in cui vuole tentare un’ermeneutica cristiana del vudù, ma dopo un periodo a Parigi, percependo la realtà di Regensburg come troppo moderata, chiede di trasferirsi a Tubinga. 

Ratzinger gli scrive una lettera di presentazione per Kung ma quando dopo qualche lezione rimpiange l’ambiente che ha lasciato, trova le porte sempre aperte. E visti i pochi mezzi che ha a disposizione, anche le porte di casa Ratzinger a Pentling, dove viene spesso invitato a pranzo. Il professore finanzierà anche la pubblicazione della tesi (2).

Intervistato dall’Osservatore Romano sul perdiodo di Ratisbona da allievo del professor Ratzinger dice: “Inizialmente ero condizionato dalla corrente panafricanista per l'affermazione dell'uomo nero e della sua autogestione: una lettura basata sul sospetto verso tutto ciò che era occidentale. Rimettevo in discussione qualsiasi contributo esterno, vedendovi un sottile tentativo d'imperialismo culturale... 

La risposta mi venne un giorno in cui stavo consumando un pasto con il mio maestro a Pentling, quando mi disse: "Sai, Bartélémy, che anche noi, noi tedeschi, dopo la guerra, facevamo fatica a trovare da mangiare ed è stato necessario che gli americani ci aiutassero con il piano Marshall. Colui che non ha la semplicità di ricevere non ha neppure il diritto di dare". Allora ho capito che la vita era un dare e un ricevere, un condividere. Il pensiero di comunione che si esprimeva a partire da ciò come teologia non poteva essere imperialista“ (5).

A parte Adokonou, il professore invita spesso i suoi allievi ed assistenti nella casa di Pentlig per prendere il caffè o per cena, per chiacchierare, per discutere su questioni universitarie e soprattutto per dedicarsi al discorso teologico. Al riguardo, racconta Wolfgang Beinert: “In una splendida, mite serata d'estate eravamo seduti in giardino e ci godevamo l'imparagonabile panorama di Pentling...Maria era in cucina e preparava la cena. 

Ad un tratto si sentirono dei rumori sotto i cespugli ed arrivò un gatto maculato bianco e nero. Lo conoscevo bene. Apparteneva ad una famiglia del vicinato – non siamo mai riusciti a sapere esattamente di chi fosse – e visitava spesso e volentieri i fratelli Ratzinger. Qui trovava due delle cose più importanti nella vita di un gatto: le coccole del padrone e il latte offerto dalla padrona. Oggi però la cosa era diversa: il gatto portava nella bocca un topolino morto e lo depositò con sguardo languido davanti a Ratzinger. Questi lo prese per la coda e sparì in direzione cucina, dove si fermò piuttosto a lungo, di modo che vennero certi dubbi… Finalmente tornò e poco dopo Maria chiamò a tavola, per servire un'ottima cena – vegetariana”

Altro aneddoto raccontato da Beinert, relativo ad un periodo antecedente ma emblematico della personalità del professore e del rapporto con gli allievi: “nella vecchia città universitaria di Württemberg, si festeggiavano i 150 anni della nuova fondazione cattolica della facoltà teologica. Le festività erano cominciate con un atto accademico solenne. I professori erano vestiti con una talare di velluto con la guarnizione viola dei teologi. Erano preceduti dai bidelli, impiegati vestiti in modo medioevale con dei preziosi bastoni cerimoniali. Il rettore portava la pesante collana d'oro del suo ufficio. Così anche il decano, solo che la sua collana era più piccola.
Allora il decano era Joseph Ratzinger. La sera i professori avevano invitato gli studenti ad un rinfresco. Il decano aveva offerto una botte di birra bavarese e ora doveva mettere la spina. Gli studenti erano scettici. Questo andava certo oltre le capacità di questo professore esile che dava l'impressione di vivere un po' fuori dal mondo. Uno studente vicino a me disse: "Ci rimarrà al massimo la metà. Il resto andrà perso per terra"


Il decano si mise un grembiule – e con esattamente due colpi precisi mise a posto la spina. Venne il dubbio che Ratzinger, durante i suoi studi a Monaco, avesse lavorato occasionalmente sulle "Wiesen" (6).

Memorabili per Beinert e gli altri restano anche gli incontri semestrali, fin dai tempi di Tubinga, con teologi e studiosi famosi al di fuori della facoltà. Come l’incontro a Basilea col grande teologo protestante Karl Barth, che finisce lui quasi per inchinarsi davanti al giovane collega, con von Balthasar, infine quasi stizzito per alcune domande non concordate da parte degli impertinenti allievi abituati al dibattito libero e franco, sull’Inferno vuoto. Incontri vengono organizzati anche con Congar, il teologo protestante Pannenberg e i suoi allievi, Kasper (successore di Ratzinger a Tubinga) e nel 77 viene invitato Rahner, a discutere con la cerchia ratzingeriana della sua cristologia.

Riguardo al rapporto con gli studenti, nella sua autobiografia Joseph Ratzinger parla anche di un’altra consuetudine che trae origine da quegli anni. 

Sull’ esperienza di Romano Guardini, che negli anni venti e trenta aveva portato avanti la sua opera non solo in università e che, con un gruppo spontaneo di giovani, aveva realizzato sul castello di Rothenfels un centro spirituale per valorizzare il suo lavoro oltre la dimensione accademica, progetta qualcosa di analogo coi suoi allievi. Grazie alla disponibilità di una vecchia fattoria trasformata in casa di studio, di proprietà di un allievo sul lago di Costanza, dal 70 al 77 organizza insieme all’esegeta Heinrich Schlier corsi estivi di una settimana. E come lui stesso ricorda: “ la serena e informale convivenza nelle cose di ogni giorno rendeva più fecondi anche il dialogo teologico e la preghiera comune” (1). 

Tra gli ex allievi che nel tempo partecipano agli incontri, il più famoso è sicuramente Christoph Schomborn, oggi arcivescovo di Vienna. Di lui dice:

l’ho incontrato per la prima volta nel 1972, quando il mio relatore a Parigi, padre Marie Joseph Le Guillou, suo grande amico, mi mandò da lui affinché potessi frequentare come dottorando il suo seminario di studi. Mi colpì subito la grande cordialità del personaggio insieme con la straordinaria chiarezza del suo discorrere. Fu proprio lì, a Ratisbona, che potei scrivere la maggior parte della mia tesi. Mi ricordo che il professor Ratzinger aveva un gran numero di dottorandi: molti infatti cercavano di averlo come relatore, il giro dei suoi studenti comprendeva veramente tutto il mondo, dall’Asia all’America Latina, dall’Africa all’Irlanda, dagli Stati Uniti all’India. Frequentare le sue lezioni costituiva un’esperienza altamente stimolante. Quando poi Ratzinger diventò arcivescovo di Monaco tanti suoi ex alunni lo pregarono di continuare gli incontri. Così nacque il circolo degli studenti del professor Ratzinger che esiste ancora oggi. E la tradizione di quegli incontri annuali non si è mai interrotta, neppure dopo la sua elezione alla cattedra di Pietro” (7).

A proposito di Romano Guardini e del castello di Rothenfels, la professoressa Hanna Barbara Gerl-Falkowitz, docente di Filosofia e Religioni Comparate all'Università di Dresda, ricorda un aneddoto particolarmente divertente relativo al suo primo incontro col professor Ratzinger, in occasione di una conferenza in cui lo aveva invitato a parlare del grande intellettuale cattolico tedesco che egli ammirava molto.

Il luogo dell'incontro era proprio il castello Rothenfels, situato in cima a una montagna vicino alla città di Würzburg. Racconta:

Avevo mandato una persona a prenderlo alla stazione, e questi tornò dicendo: 'Il professor Ratzinger non c'era. Non l'ho visto'. Io avevo un castello con 300 persone che lo aspettavano ed ero molto ansiosa”.

“Il castello si trova su uno sperone roccioso. Circa venti minuti dopo ero in piedi sulla cima e accanto a me c'era una siepe che iniziò a muoversi. Allora vidi prima una borsa, poi due mani, e quindi i capelli bianchi – allora aveva già i capelli bianchi – del professor Ratzinger. Stava sudando, sforzandosi di attraversare la siepe. Era salito lungo tutta quella collina così ripida fino al castello. Volevo che la terra sprofondasse sotto di me, ma lui era gentile e sorridente. Mi disse: Ascensio in montem sacrum, che significa: 'Ascesa alla montagna sacra'”.

“Stava alludendo a Guardini, perché è stato lui a permettere che quel castello venisse utilizzato dalla gioventù cattolica tedesca. Quello fu il mio primo incontro con Joseph Ratzinger – i suoi capelli spettinati, le carte che volavano... Non so se lo ricorda, io sì. E' stato terribile – essere invitato a pronunciare un discorso e nessuno che fosse andato a prenderlo!
” (11).

Sul piano magisteriale, grande evento di quegli anni narrato da Joseph Ratzinger nella sua autobiografia, è la pubblicazione del messale di Paolo VI associato al divieto quasi completo del messale precedente, dopo una transizione di circa sei mesi. Dopo un periodo di sperimentazioni, che spesso avevano sfigurato la liturgia, un testo liturgico vincolante è visto come positivo , “ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia”. 

Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito al Concilio di Trento, ma Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nuovamente avevano fatto altri suoi successori, senza mai contrapporre un messale ad un altro. “Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui però la continuità non veniva mai distrutta. 
Un messale di Pio V che sia stato creato da lui non esiste. C’è solo la rielaborazione da lui ordinata, come fase di un lungo processo di crescita storica”. Il nuovo messale viene presentato come qualcosa di nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, divenuto vietato, e questa contrapposizione ha creato secondo Ratzinger gravi danni. In questo modo infatti, dice : “si è sviluppata l’impressione che la liturgia sia ‘fatta’, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di ‘donato’, ma che dipenda dalle nostre decisioni… Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità, l’incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita”

Convinto che la crisi ecclesiale in cui ci troviamo dipenda in gran parte dal crollo della liturgia, aggiunge: “se nella liturgia non appare più la comunione della fede , l’unità universale della Chiesa e la sua storia, il mistero del Cristo vivente, dov’è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale? Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena. 
E, dato che la comunità in se stessa non ha sussistenza ma, in quanto unita, ha origine per la fede del Signore stesso, diventa inevitabile in queste condizioni che si arrivi alla dissoluzione in partiti di ogni genere, alla contrapposizione partitica in una Chiesa che lacera se stessa. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del Concilio Vaticano II” (1).

Sul piano strettamente personale di quel periodo ricorda: “la sensazione di acquisire sempre più chiaramente una visione teologica fu la più bella esperienza degli anni di Ratisbona. Anche per mio fratello quelli furono anni benedetti” (1). 

Anche qui Joseph diventa decano della facoltà e vicerettore dell’università, mentre le esecuzioni musicali di Georg ricevono riconoscimenti internazionali e nel 1976 vengono splendidamente festeggiati i mille anni del coro della cattedrale di Ratisbona. 

A proposito di Georg, Alfred Lapple ricorda:

...”col lieve linguaggio gestuale della sua mano, con l’indice della destra ben sollevato, con l’introversa interiorità del suo volto. Era e resta sempre modesto e la sua felicità e beatitudine non esultavano dopo un concerto ben riuscito dei Piccoli cantori del Duomo. Come maestro di cappella del duomo di Ratisbona fu un esempio di come la vocazione al sacerdozio possa essere donata anche insieme al carisma della musicalità” (3). 

Ratzinger è veramente convinto che quella di Ratisbona sarà la destinazione definitiva, e anche per questo nel frattempo ha fatto trasferire i genitori defunti nel vicino cimitero di Ziegetzdorf.

Il 24 luglio 1976 giunge la notizia della morte del cardinale Julius Doepfner, arcivescovo di Monaco, e con essa voci che indicano il professor Ratzinger come possibile candidato alla sua successione. 
Al riguardo dice: non potevo prenderle sul serio, dato che i limiti della mia salute erano altrettanto noti come la mia estraneità ai compiti di governo e di amministrazione; mi sentivo chiamato ad una vita di studioso e non avevo mai avuto in mente niente di diverso (1).

Ma qualche tempo dopo il nunzio Del Mestri gli fa visita a Ratisbona e gli consegna una lettera che contiene la sua nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga, con tempo per pensarci e parlarne con il confessore .

Ne parla con il professor Auer, si aspetta che lo sconsigli. Ma con sua grande sorpresa gli suggerisce di accettare (1).

“Mi sono consigliato e mi sono sentito dire che in una situazione straordinaria, come quella che noi viviamo oggi, si deve anche accettare qualcosa che all’inizio può non sembrare in linea con il corso della propria vita. Il problema della Chiesa oggi è strettamente legato a quello della teologia. In questa situazione anche dei teologi devono essere disponibili a svolgere il ministero di vescovi. Per questo ho accettato, con l’intenzione, come ho manifestato nel mio motto episcopale, di essere un “collaboratore della verità”.

“Collaboratore” era pensato al plurale. Mi proponevo, cioè, di mettere il mio carisma, - se posso chiamarlo così- in comunione con i collaboratori e di cooperare, con l’esperienza e la competenza teologica a me concesse, a far si che in questa ora la Chiesa fosse rettamente governata e che l’erdità del Concilio venisse assimilata nel modo giusto“
 (8).

Dopo aver esposto i suoi dubbi al nunzio, sotto i suoi occhi, sulla carta da lettera dell’albergo dove è alloggiato, scrive la sua dichiarazione di assenso alla nomina.

Reinhard Richardi, allora preside della facoltà di giurisprudenza e suo vicino di casa, la cui amicizia con Ratzinger, dai tempi di Ratisbona dura a tutt’oggi, dice: “ricordo bene quando si diffuse la notizia della sua nomina come successore di Dopfner. Proprio quel giorno io, mia moglie e i miei bambini eravamo invitati a casa sua. Ci chiamò al telefono e ci disse: ”guardate che l’invito è confermato, anche se mi hanno fatto vescovo. Ci vediamo più tardi” (2).

Come motto episcopale sceglie due parole della terza lettera di San Giovanni: “collaboratori della verità”: dal momento che nel mondo di oggi l’argomento “verità” è quasi scomparso, perché appare troppo grande per l’uomo, e tuttavia tutto crolla se non c’è la verità, questo motto episcopale mi è sembrato il più in linea con il nostro tempo, il più moderno, nel senso buono del termine.” 

In quanto allo stemma: sullo stemma dei vescovi di Frisinga si trova da circa mille anni il moro incoronato, non si sa quale sia il suo significato. “Per me è l’espressione dell’universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe, poiché noi tutti siamo uno in Cristo (Gal 3,28) (1). 

Gli altri due simboli sono uno la conchiglia, “segno del nostro essere pellegrini, del nostro essere in cammino. Ma essa ricorda a Ratzinger anche la leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello attorno al ministero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino che giocava con una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare e cercava di travasarla in una piccola buca. 
Gli sarebbe stato detto: tanto poco questa buca può contenere l’acqua del mare, quanto poco la tua ragione può afferrare il mistero di Dio. “Per questo la conchiglia rappresenta per me un richiamo al mio grande maestro, Agostino, un richiamo al mio lavoro teologico e, insieme, alla grandezza del mistero, che è sempre molto più grande di tutta la nostra scienza”. Infine, dalla leggenda di Corbiniano, fondatore della diocesi di Frisnga, deriva l’immagine dell’orso. Orso che secondo la leggenda sbrana il cavallo del santo che sta recandosi a Roma. Corbiniano lo rimprovera e come punizione gli carica sulle spalle il fardello del cavallo fino a Roma. L’orso che porta il carico del santo, ricorda a Ratzinger una delle meditazioni sui Salmi di sant’Agostino, che ancora una volta gli pare rappresentare anche il suo destino personale. 

“L’orso con il carico, che sostituì il cavallo o, più probabilmente il mulo di san Corbiniano divenendo-contro la sua volontà-il suo animale da soma, non era e non è un’immagine di quel che devo essere e di quel che sono? Sono divenuto per te come una bestia da soma e proprio così io sono in tutto e per sempre vicino a te” (1).

Come prevedibile, le settimane fino alla consacrazione sono difficili e ammette: “ Interiormente continuavo ad essere titubante…” Anche per il lavoro da portare a termine arriva esausto alla consacrazione, che avviene il 27 maggio 1977 nella cattedrale di Monaco: “quel giorno fu straordinariamente bello..la cattedrale di Monaco magnificamente adornata trasmetteva un’atmosfera di gioia, che coinvolgeva in maniera davvero irresistibile. Ho sperimentato la realtà del sacramento-che qui accade davvero qualcosa di reale”. Poi la preghiera davanti alla colonna della Vergine Maria –la Mariensaule-, l’incontro con le molte persone che accolgono il nuovo venuto (1).

A proposito del ministero vescovile durante la cerimonia dice: ““il vescovo non agisce in nome proprio, ma è un fiduciario di un altro, di Gesù Cristo e della Chiesa. Non è un manager, un capo per propria grazia, bensì l’incaricato di un altro di cui è garante. Dunque non può nemmeno cambiare opinione a piacimento e difendere ora questa ora quella causa, a seconda di come gli sembri conveniente. Non è qui per diffondere le sue idee private, ma è un inviato che deve trasmettere un messaggio più grande di lui. Egli verrà misurato su questa fedeltà: essa è il suo incarico” (3).

Joseph Ratzinger si insedia nei suoi uffici, al n. 5 della Rochustrasse e inizia il suo nuovo impegno. I conflitti e le invettive tra progressisti e tradizionalisti sono all’ordine del giorno, così come le critiche al Papa. 
Ratzinger non si tira indietro: “un vescovo che cercasse di evitare le noie per me è un’idea ripugnante”, risponde da teologo, e come dice un giornale dell’epoca: “dimostra la più solida conoscenza in materia di tradizione e di dottrina”, e ancora:” tra tutti i conservatori della Chiesa,è colui che possiede l’attitudine maggiore al dialogo”.

Dal suo canto egli è sempre più convinto che la Chiesa per non dissolversi deve battersi contro le mode, le tendenze e le derive del mondo esterno: “ la Chiesa non deve mai scendere a patti con lo spirito del tempo” (9)

Qualche giorno dopo il suo insediamento, ad inizio giugno 1977, una nuova visita del nunzio De Mestri lo informa che Paolo VI lo nominerà cardinale nel corso del prossimo concistoro del 27 giugno 1977.

Fu per me una grande sorpresa. Non so ancora darmi una spiegazione di tutto questo. So comunque che Paolo VI teneva presente il mio lavoro come teologo. Tanto che alcuni anni prima, forse nel 1975, mi aveva invitato a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano. Ma non mi sentivo sufficientemente sicuro né del mio italiano né del mio francese per preparare e osare una tale avventura, e così avevo detto di no. Ma questa era una prova che il Papa mi conosceva. Forse una qualche parte in questa storia potrebbe averla avuta monsignor Karl Rauber, oggi nunzio in Belgio, allora stretto collaboratore del Sostituto Giovanni Benelli. Comunque, sta di fatto, mi hanno detto, che di fronte alla terna per la nomina a Monaco e Frisinga, il Papa avrebbe personalmente scelto la mia povertà” (10).
Bibliografia


Gesù che parla; Gesù che opera

7 agosto 1976. Primo sabato del mese.

Solo col Papa

«Oggi da ogni parte del mondo giunge gradito al mio Cuore Immacolato l'omaggio dei Sacerdoti a Me consacrati, di voi figli della mia materna predilezione.

Lasciatevi condurre da Me e non sentirete il peso delle vostre difficoltà quotidiane.

Vi voglio fra le mie braccia, tutti abbandonati al mio Cuore Immacolato, perché così potete camminare verso la meta che ho fissato per ciascuno di voi.

Vi ho già indicato quale è questa meta: fare di voi dei Sacerdoti secondo il Cuore di Gesù.

Dovete veramente essere Gesù oggi, per gli uomini del vostro tempo.

Gesù che parla; e direte solo la Verità. La Verità contenuta nel Vangelo e garantita dal Magistero della Chiesa.

Oggi, mentre l'oscurità scende sopra ogni cosa e l'errore sempre più si diffonde nella Chiesa, voi dovete orientare tutti alla fonte da cui Gesù fa sgorgare le sue parole di verità: il Vangelo affidato alla Chiesa gerarchica, cioè al Papa e ai Vescovi uniti con lui.
Non ai singoli Sacerdoti, non ai singoli Vescovi; ma solo ai Sacerdoti e ai Vescovi uniti con il Papa.

Oggi tanto ferisce e addolora il mio Cuore di Madre della Chiesa lo scandalo anche di Vescovi che non ubbidiscono al Vicario di mio Figlio e trascinano un grande numero di miei poveri figli sulla strada dell'errore.

Per questo oggi voi dovete con la vostra parola proclamare a tutti che Gesù solo Pietro ha costituito quale fondamento della sua Chiesa e custode infallibile della Verità.
Oggi chi non è col Papa [vero] non riuscirà più a restare nella Verità.
Le seduzioni del Maligno sono diventate così insidiose e pericolose che riescono a ingannare chiunque.
Vi possono cadere anche i buoni.
Vi possono cadere anche i maestri e i sapienti.
Vi possono cadere i Sacerdoti e anche i Vescovi. Non cadranno mai quelli che sono sempre col Papa [vero].

Ecco perché Io voglio fare di voi una schiera ordinata e attenta, ubbidiente e docile persino ai desideri di questo mio primo figlio prediletto, del Vicario del mio Gesù.

Gesù che opera: dovete soprattutto rivivere Gesù nella vostra vita ed essere Vangelo vissuto.

Per questo vi rendo sempre più poveri, sempre più umili, sempre più puri, sempre più piccoli.

Non temete di affidarvi completamente a Me. Sono la Mamma sua e vostra e altro non so fare verso di voi che aiutarvi a nascere e a crescere come altri piccoli Gesù per la salvezza di tutti i miei figli.

Quando questa schiera di Sacerdoti sarà pronta, allora sarà il momento in cui schiaccerò la testa al mio Avversario e il mondo rinnovato godrà la gioia del trionfo del mio Cuore»




giovedì 25 agosto 2016

Ecco la parola chiave: “apologetica”.



So bene cosa sia il dolore...guardate la Mia Croce
e meditate su quel Sangue che ho versato per voi tutti

Patì sotto Ponzio Pilato


di Pietro Cantoni

Il “corpo” è oggi un tema d’importanza difficilmente sottovalutabile. Non è un caso che si diffondano contemporaneamente concezioni che riducono il corpo a elemento intercambiabile dell’essere dell’uomo, come nel caso della reincarnazione, e a semplice “teatro” del suo agire, senza che ciò comporti una responsabilità essenziale, come in certe dottrine teologico-morali. Ma il corpo può anche venire semplicemente considerato campo di sperimentazione illimitata, come nel caso dell’ingegneria genetica che vuole sottrarsi a qualunque controllo etico.
Ora, anche la fede cristiana ha un “corpo”, perché è fede in Dio che si è fatto “carne”, cioè uomo completo con —anche— un corpo. Secondo la fede cristiana cioè, Dio è entrato nella storia degli uomini, facendosi uomo fra gli uomini. Questo significa necessariamente che è apparso in un momento preciso della storia, legato a determinate coordinate spazio-temporali e “misurabile” attraverso testimonianze e documenti come tutti gli eventi importanti di questa stessa storia. L’evento di Dio fatto uomo entra nell’insieme degli eventi che costituiscono propriamente la “storia”, quindi può entrare nella “storiografia”, cioè nel racconto che gli uomini possono fare di questi eventi significativi.
Il “corpo” della fede cristiana sarà dunque —prima di tutto— lo spessore storico verificabile del suo fondamento, cioè della persona di Gesù di Nazareth e degli eventi terreni di cui è stato protagonista, primi fra tutti la sua morte e la sua risurrezione.
Secondo un’analogia profonda ma essenziale, corpo della fede sono anche gli eventi costitutivi della fede di ogni singolo cristiano: battesimo, eucaristia, Chiesa… Vi è un legame fra gli eventi della storia delle origini, gli eventi che fondano la storia del popolo di Dio che è la Chiesa e gli eventi che fondano l’esistenza del singolo cristiano.
Contro questa visione delle cose si erge una concezione della fede completamente sganciata dai fatti, siano essi eventi storici o eventi misterici, cioè sacramenti. Si tratta di una concezione che ha i suoi inizi con la Riforma protestante e una delle sue espressioni più conseguenti nella teologia dell’esegeta luterano tedesco Rudolf Bultmann, nato nell’ultimo quarto del secolo XIX e scomparso nel 1976.
E proprio Rudolf Bultmann è un “protagonista” dell’opera di Vittorio Messori Patì sotto Ponzio Pilato? Un’indagine sulla passione e morte di Gesù. Infatti, il teologo ed esegeta luterano viene citato spesso come fondatore, con altri, del metodo della Formgeschichte, la “storia delle forme”, e come ideatore del programma teologico della “demitizzazione”. Non che Vittorio Messori voglia addentrarsi in difficili problematiche attinenti alla storia della teologia contemporanea, ma vuole certamente mettere a fuoco le ragioni di un disagio avvertito da molti relativamente ai metodi dell’esegesi storico-critica, soprattutto applicata ai Vangeli, e in un’ottica apologetica.
Ecco la parola chiave: “apologetica”. Perché è certo che Vittorio Messori vuol fare —scandalosamente!— della buona apologetica. Si tratta di una parola ormai carica di un’eco emotiva sfavorevole. La teologia cattolica, negli ultimi decenni, ha cercato di sbarazzarsene ricorrendo al termine più generico —ma anche più ambiguo— di “teologia fondamentale”, termine ambiguo perché può riguardare due oggetti assai differenti: i princìpi intrinseci della fede e le ragioni del credere. Infatti, è certamente compito indiscusso della teologia fondamentale occuparsi dei princìpi della fede, cioè di che cosa significa “fede”, di quali sono le sue “fonti” —Scrittura, Tradizione e Magistero— e del metodo di quella scienza della fede che è la teologia. La teologia fondamentale dovrebbe occuparsi però anche di qualcosa d’altro: delle ragioni di credibilità, che costituiscono il presupposto o l’anima razionale della fede, presupposto o anima la cui mancanza ridurrebbe la fede a sentimento o istinto. L’ambiguità del termine ha favorito l’ambiguità dei metodi e ha fornito copertura all’imbarazzo di fronte a una fede che pretende di avere anche delle ragioni. La scomparsa del termine “apologetica” ha significato in moltissimi casi la scomparsa della cosa stessa.
Vittorio Messori nasce a Sassuolo, in provincia di Modena, nel 1941; studia a Torino, dove si laurea in scienze politiche, quindi —giornalista professionista— lavora ai quotidiani del gruppo de La Stampa; passa poi a Milano come collaboratore fisso del mensile Jesus e del quotidiano Avvenire, acquisendo grande notorietà soprattutto grazie alla seguitissima rubrica Vivaio, pubblicata appunto su Avvenire. Dalla fine degli anni Ottanta vive a Desenzano del Garda, in provincia di Brescia, dedicandosi soprattutto alla pubblicazione di volumi. È autore di opere di apologetica biblica e storica, agiografo nonché abile e acuto intervistatore di significativi protagonisti della vita contemporanea, ecclesiastici e laici. Nella prima categoria di scritti si situano Ipotesi su Gesù (1a ed., Società Editrice Internazionale, Torino 1976) e Scommessa sulla morte (1a ed., Società Editrice Internazionale, Torino 1982) nonché Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1992) e La sfida della fede. Fuori e dentro la Chiesa: la cronaca in una prospettiva cristiana (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 1993); nella seconda Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1990; cfr. la recensione di Enzo Peserico, in Cristianità, anno XIX, n. 193-194, maggio-giugno 1991) e Opus Dei. Un’indagine (Mondadori, Milano 1994; cfr. la recensione e l’integrazione di Massimo Introvigne, L’Opus Dei e il movimento anti-sette, in Cristianità, anno XXII, n. 229, maggio 1994); nella terza Rapporto sulla fede. A colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger (1a ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1985; cfr. recensione di Giovanni Cantoni, in Cristianità, anno XIII, n. 122-123, giugno-luglio 1985), Inchiesta sul cristianesimo (1a ed. Società Editrice Internazionale, Torino 1987) e dello straordinario — in più sensi — Varcare la soglia della speranza (Mondadori, Milano 1994), in cui è interlocutore apprezzato di Papa Giovanni Paolo II.
Dunque, l’interesse per l’apologetica caratterizza l’opera di Vittorio Messori da lungo tempo e Patì sotto Ponzio Pilato? Un’indagine sulla passione e morte di Gesù si ricollega esplicitamente a Ipotesi su Gesù, di cui vuol essere l’inizio di una rielaborazione.
Con la consueta abilità letteraria, sui toni di un’appassionante inchiesta, l’autore ripercorre i principali episodi del racconto evangelico della passione, nel tentativo costante di illuminare il rapporto che le pagine evangeliche intrattengono con la storia. E il taglio, l’impostazione impressa all’opera deve sempre essere presente al lettore che non ne voglia fraintendere il significato. Il Vangelo, così come tutta la parola di Dio, assomma in sé una tale gamma e “quantità” di significati che sarebbe vano pretendere di esaurirli. Vittorio Messori ha ben chiaro che i Vangeli non sono “libri di storia”, nel senso corrente del termine, cioè non si esauriscono nel raccontare una storia; ma il loro messaggio è proprio quello di un Dio che entra nella storia, per cui il loro valore storico non è estraneo al loro significato religioso. Questo è il punto centrale.
Se un’inchiesta svolta nel 1993 ha posto i volumi di Vittorio Messori in testa alle letture religiose degli italiani, la ragione sta certamente nel fatto che essi rispondono con vigore e con piacevolezza a una domanda autentica, quella delle ragioni della fede e, quindi, della fondatezza della storia di Gesù.
L’autore non segue un ordine sistematico, ma si addentra nella materia con un metodo simile a quello utilizzato dai geologi nell’esame della composizione di un terreno, cioè mediante “carotaggi”, approfondimenti puntuali che permettono al racconto di non diluirsi troppo e di garantire piacevolezza di lettura senza scadere nella superficialità. In altri termini, Vittorio Messori costruisce un ottimo libro di divulgazione, ma di una divulgazione che non scade in volgarizzazione: anche il non specialista si accorge agevolmente che dietro il tono giornalistico sta uno studio condotto con serietà, in cui l’autore sa destreggiarsi nei meandri della sterminata bibliografia sulla materia, sa scegliere il meglio della produzione scientifica e non perde mai il contatto con gli specialisti.
Dopo alcune considerazioni introduttive, in cui chiarisce l’intento della ricerca, che non è affatto quello di difendere una posizione di stampo fondamentalista — Ragionando sui vangeli (pp. 3-9) —, Vittorio Messori conduce una critica pungente di certa critica biblica — Ipotesi su (certa) critica biblica (pp. 10-21) — rifiutando, in sostanza, la falsa alternativa “metodo storico-critico oppure fondamentalismo”: “Per le Scritture giudeo-cristiane, il credente sa che l’ispirazione è divina ma che la redazione è affidata agli uomini, i quali vi hanno lasciato le loro tracce che tocca allo specialista (e anche in questo senso il suo lavoro è prezioso) identificare, pur nell’attento rispetto del mistero.
“Seppure ben lontano, dunque, da ogni ingenuo letteralismo “fondamentalista” o “coranico”, non ho però potuto impedirmi di andare a vedere che possa succedere quando — scevri da ogni pregiudizio, anche “scientifico” o presunto tale — si provi a ragionare davvero su quei versetti greci, passandoli al vaglio di tutto ciò che sappiamo” (p. 8).
L’indagine si snoda poi in altri trentacinque capitoli, come un romanzo giallo, dal sinistro episodio dell’impiccagione di Giuda, nel campo detto Akeldamà, attraverso le vicende del processo di Gesù, della profezia del Tempio, del rinnegamento di Pietro, della crocifissione, per tornare alle ricerche esegetiche, scandagliate però qui nei loro aspetti innovatori rispetto alla corrente maestra del metodo storico-critico. Così un capitolo — La scuola di rabbì Gesù (pp. 285-293) — è dedicato alla proposta della cosiddetta scuola svedese — rappresentata da H. Riesenfeld e da B. Gerhardsson —, che sottolinea l’importanza della memoria e dei metodi di memorizzazione nell’insegnamento rabbinico, che hanno certamente caratterizzato sia l’insegnamento di Gesù sia la sua trasmissione. Questo non significa che la trasmissione si sia realizzata in modo “magnetofonico”, perché si sa che una trasmissione fedele non è necessariamente una trasmissione “letterale”; anzi, spesso si fa esperienza del contrario. Tuttavia, si viene certamente aiutati a comprendere come la fedeltà alla parola del maestro fosse una preoccupazione assolutamente centrale in quel contesto culturale. Se nel contesto del Nuovo Testamento si può parlare di “teologie” — teologia di Marco, di Luca, di Matteo, di Giovanni, di Paolo —, però si deve fare attenzione a non intendere il termine “teologia” — e quello collegato di “teologo” — nel senso che ha attualmente. Si commetterebbe lo stesso errore di intendere i Vangeli alla stregua di “biografie”, sempre nel senso moderno, di Gesù. Il noto esegeta Claus Westermann fa una osservazione assolutamente pertinente a proposito delle “teologie” attribuite ai diversi autori e ai diversi — ipotetici — documenti nell’ambito dell’Antico Testamento: “Essi sono, senza eccezione, in primo luogo dei trasmettitori: formulano quello che i loro padri hanno detto. La formulazione di quanto hanno ricevuto può essere loro propria in modo anche rilevante, ma non sono mai soltanto persone che danno, bensì sempre insieme persone che ricevono” (Biblischer Kommentar Altes Testament. I/1 Genesis [Commento biblico del Vecchio Testamento. I/1 Genesi], 3ª ed., Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1983, p. 775).
Finalmente, due capitoli sono dedicati alle ipotesi di Jean Carmignac e di altri studiosi sull’originaria composizione ebraica dei Vangeli —Una storia tutta ebraica: anche nella lingua? (pp. 294-302) — e sull’identificazione e la datazione del frammento ritrovato nelle grotte di Qumràn e classificato con il nome 7Q5, Qumràn, grotta 7: venti lettere per un mistero (pp. 353-368).
Com’era per altro prevedibile, alla ricerca di Vittorio Messori non sono mancate le critiche provenienti dal mondo degli studiosi di professione. Per esempio Vittorio Fusco, ordinario di Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, a Napoli, ne ha fatto un’analisi serrata e impietosa, accusando Vittorio Messori di “concordismo” (cfr. Note di lettura sull’ultimo libro di V. Messori. Le trombe del concordismo, in il regno-attualità, anno XXXVIII, n. 703, 15-4-1993, pp. 249-253). Alcune affermazioni di Vittorio Fusco sono state vivacemente contestate dai due eminenti papirologi José O’Callaghan e Carsten Peter Thiede (cfr. Lucio Brunelli, Un indizio di storia, in 30 Giorni nella Chiesa e nel mondo, anno XII, n. 7/8, luglio-agosto 1994, pp. 72-75). La papirologia è una scienza fortemente “positiva” rispetto all’interpretazione letteraria, per cui troviamo qui proprio la conferma di un’osservazione di Vittorio Messori, secondo cui in una “certa” esegesi si assiste a una prevaricazione della teoria sui fatti, del pensiero sull’essere… Se i fatti mi danno ragione bene, altrimenti “tanto peggio per i fatti”! Si tratta, peraltro, di una tendenza non nuova, perché la critica cattolica la rimproverava da tempo all’esegesi razionalista. Dunque Vittorio Fusco accusa Vittorio Messori di praticare il concordismo, cioè quel metodo esegetico preoccupato solo di assicurare a qualunque costo l’aderenza del testo biblico alla “storia”, senza curarsi del fatto che l’attenzione principale degli agiografi non è rivolta alla storiografia come si è abituati a concepirla attualmente.
In realtà, mi pare che questa critica non tenga conto di almeno due elementi.
1. In primo luogo, del “genere letterario” in cui l’opera è stata volutamente realizzata. Pretendere che, in un testo di divulgazione, ci si soffermi a valutare le teorie più nuove e più “contestatrici” esponendo anche, con la stessa cura, le critiche che esse hanno ricevuto, è eccessivo. È sufficiente avvertire il lettore — cosa che Vittorio Messori fa puntualmente — che si tratta di ipotesi. Questo avviene sia per la teoria della scuola svedese sull’importanza della trasmissione mnemonica nel mondo ebraico dell’epoca, sia per l’identificazione del frammento 7Q5 con un versetto del vangelo di Marco, come pure circa l’ipotesi avanzata da Jean Carmignac sulla lingua dei Vangeli. Vittorio Messori ne dà notizia, senza nascondere le sue simpatie, ma senza neppure maggiorare il grado di probabilità scientifica che simili proposte hanno nell’attuale dibattito scientifico. Certamente non mancano spunti polemici sul modo con cui il mondo scientifico ha accolto teorie che rischiano di mettere in discussione certe impostazioni accolte dalla maggior parte dei cultori della materia. Ma Vittorio Messori non è affatto il solo a osservare questa mancanza di obiettività nel valutare tutto quanto mette in discussione i presupposti del metodo della Formgeschichte. Si ha da più parti la netta impressione che questi presupposti siano trasformati surrettiziamente in dogmi. Un teologo di fama come Louis Bouyer non esita a usare toni ben più forti di quelli che si permette Vittorio Messori: “Bisogna […] sottolineare che la critica e l’esegesi bibliche restano ancora troppo spesso paralizzate sotto il peso di teorie più o meno a priori, sviluppatesi in genere nella euforia ingenua di un certo secolo XIX, che si considerava, quanto ad atteggiamento intellettuale, preludio alla età d’oro, e che è stato piuttosto l’inizio di una generale disintegrazione.
“Tali sono: la tesi di Graf e Wellhausen sui “documenti” del Pentateuco (chiamati rispettivamente Javista, Elohista, Deuteronomista, Sacerdotale) — la concezione, sviluppata particolarmente da Bernard Duhm, di quello che è stato definito il “profetismo biblico”, profondamente antisacerdotale e individualista — la certezza della priorità del vangelo di Marco e della sua storicità più “pura” — la ipotesi dei “logia”, ossia di una raccolta scritta delle parole di Gesù che sarebbe esistita prima dei nostri vangeli — il carattere tardivo ed ellenico degli scritti giovannei, specialmente del quarto vangelo — l’eterogeneità più o meno radicale delle lettere attribuite a san Paolo e dette “della prigionia”, nei confronti del gruppo Romani-Galati-Corinzi. A questo va aggiunto il quadro storico prospettato da Bultmann (su cui si basa il suo progetto di demitizzazione), che schematizza in quattro fasi corrispondenti a quattro generazioni successive, lo sviluppo dei testi neotestamentari: ciò che può essere contemporaneo all’ambiente giudaico palestinese in cui Gesù è vissuto e ha predicato, ciò che può esserlo di una prima missione nello stesso ambiente dopo la scomparsa di Gesù, ciò che trova il suo posto nella prima missione cristiana tra i giudei ellenizzati e ciò che risale alla fondazione della Chiesa in un ambiente di convertiti dall’ellenismo.
“Bisogna constatare che nel protestantesimo, anche il più “liberale”, non vi è nessuno di questi presupposti che non sia diventato oggetto di un dubbio più o meno sviluppato e generalizzato […] mentre nella maggioranza degli ambienti cattolici che si definiscono biblici questi sono dogmi intangibili e basta metterli in dubbio per sentir gridare: “Non ci toccate la nostra scienza!”” (Gnosis. La conoscenza di Dio nella Scrittura, trad. it., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, pp. 168-169).
Di fatto, Vittorio Messori mette a fuoco un dato di grande rilievo, e cioè che quella che oggi si presenta come la esegesi storico-critica è in realtà soltanto un metodo di esegesi; e un metodo per cui è giunto — in verità ormai da tempo — il momento di presentare le sue credenziali davanti al tribunale della fede e della ragione, cioè della teologia e della filosofia, che hanno il compito di verificare i suoi presupposti metodologici saggiandone la consistenza e l’adeguatezza rispetto all’oggetto che pretende di indagare. Il numero di quanti richiedono un riesame metodologico dell’esegesi storico-critica cresce e in esso si pongono, per esempio, Gerhard Maier (Das Ende der historisch-kritischen Methode [La fine del metodo storico-critico], 2ª ed., Theologischer Verlag Rolf Brockhaus, Wuppertal 1975), Paul Toinet (Pour une théologie de l’exégèse, con prefazione di Ignace de la Potterie, Fac-éditions, Parigi 1983), René Laurentin (Comment réconcilier l’exégèse et la foi, O.E.I.L., Parigi 1984), nonché alcuni autori — per esempio lo stesso Ignace de la Potterie e Joseph Ratzinger —, i cui contributi sono raccolti nell’opera collettiva L’esegesi cristiana oggi (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1991). E una serrata e documentata critica al metodo della Formgeschichte ha svolto nel 1994 Hans-Joachim Schulz (Die apostolische Herkunft der Evangelien [L’origine apostolica dei Vangeli], con una prefazione di Rudolf Schnackenburg, Herder, Friburgo-Basilea-Vienna 1994).
2. In secondo luogo, vi è un problema di linguaggio, di comunicazione, in cui il giornalista Vittorio Messori è indubbiamente il competente rispetto all’esegeta. Qui si rovesciano le posizioni rispetto all’”esperto” nell’esegesi. Infatti, l’esperto corre spesso il rischio — chiuso com’è nella torre d’avorio della sua università o del suo istituto di ricerca, abituato al dialogo ristretto all’interno della cerchia, o “casta”, degli specialisti — di perdere il contatto con il linguaggio della gente e con le sue reali domande. Da questo punto di vista dovrebbe porsi in un atteggiamento più umile e recettivo nei confronti di chi invece intrattiene un dialogo vivace con il cosiddetto “uomo della strada”, dialogo suffragato dalle tirature lusinghiere dei suoi libri.
L’uomo della strada si pone l’”ingenua” domanda: “Ma è successo veramente”? Per visioni del mondo altre rispetto al cristianesimo si tratta di una domanda oziosa: infatti, poco importa che Krishna sia veramente esistito, che Buddha abbia fatto tutto quanto gli viene attribuito, che Karl Marx abbia veramente assunto questa o quella posizione; conta piuttosto la via che hanno tracciato. Ma il discorso è radicalmente diverso per Colui che ha osato affermare “Io sono la via”.
L’opera di Vittorio Messori aiuta a ritrovare questa “via” nella storia, perché possa diventare storia anche della nostra vita.
© Cristianità

mercoledì 24 agosto 2016

SAN BARTOLOMEO Apostolo

Natanaele apostolodi Betsaida, chiamato più spesso Bartolomeo. 

È sposato, sua moglie si chiama Anna, e ha figlie. 

Anziano e colto, è molto amico,di Filippo apostolo. 

Suo primo incontrò" con Gesù 1.050

Quando Gesù vorrà allontanare Giuda per poter portare in salvo Sintica e Giovanni di Endor, allontanerà per il periodo di tempo necessario anche altri tre apostoli con la motivazione di far loro passare le Encenie a casa 4.284. Bartolomeo è fra questi. Pensa che Gesù non sia contento di lui. 

Con Filippo si riunirà a Gesù ad Aczib dopo aver compreso la ragione dell'allontanamento 5.332

Durante la passata permanenza di quasi due mesi a casa, a Betsaida, Natanaele aveva ammaestrato Marziam, che stava da Porfirea 5.338.

(   http://slideplayer.it/slide/2852812/  )


AMDG et BVM

È morto mons. Girolamo Grillo, il vescovo della Madonnina delle lacrime di Civitavecchia.


S.E.R. + GIROLAMO GRILLO VESCOVO DELLA MADONNINA DI CIVITAVECCHIA

È MORTO IERI 22 AGOSTO 2016, NEL GIORNO DI MARIA REGINA DELL'UNIVERSO.

Il monsignore aveva 86 anni e si trovava in Romania per un periodo di riposo.
Fu testimone del fenomeno della piccola statua che «piangeva lacrime di sangue».

REQUIEM ÆTERNAM dona ei, Dómine, et lux perpétua lúceat ei. Requiéscat in pace. Amen.

AVE MARIA PURISSIMA
 di Riccardo Caniato                                     23-08-2016


È morto mons. Girolamo Grillo, il vescovo della Madonnina delle lacrime di Civitavecchia. 

È successo ieri, nel giorno di Maria Regina. E in questo chi lo ha conosciuto potrà leggerci una carezza, quasi una firma del Cielo nel momento del distacco e del dolore, perché dice molto di lui e della vicenda in cui è stato coinvolto. A Civitavecchia, non tutti sanno, all’evento delle lacrimazioni fece seguito, negli anni 1995 e 1996, un ciclo di apparizioni della Vergine presso la famiglia Gregori, proprietaria della statua, su cui la Chiesa ancora indaga, ma avvalorate, come a breve vedremo dallo stesso ordinario diocesano... Orbene la Madonna  si è qui presentata nei titoli di «Regina della Chiesa» e di «Regina della Famiglia», e lo stesso vescovo Grillo, nel 2011, introduceva con queste parole il libro testimonianza dedicato ai misteriosi eventi verificatesi nella sua diocesi: «Sarà questo il mio testamento spirituale: un vero atto di amore alla celeste Regina che ha voluto coinvolgermi in una storia lunga e, per qualche verso drammatica».

Questa frase risalta anche nella quarta di copertina dello stesso memoriale, edito da Shalom, il cui titolo è La vera storia di un doloroso dramma d’amore e che riferisce la straordinaria esperienza dell’Autore, turbinosa e a tratti certamente dolorosa, iniziata il 2 febbraio 1995 nel giardino dei Gregori con le lacrimazioni di sangue della celebre statua della Madonna raffigurante la Regina della Pace.

Monsignor Grillo inizialmente si mostrò ostile all’evento, arrivando a ordinare al parroco della famiglia di distruggere il sacro manufatto, ma in seguito, dopo anche aver ordinato un esorcismo, accettò di custodire personalmente la bianca Madonnina finché, il 15 marzo successivo, la statua lacrimò per la quattordicesima volta direttamente nelle sue mani, causandogli un principio di infarto, ma soprattutto un profondo turbamento interiore.

Quell’evento fu lo spartiacque della sua esistenza, o meglio il ritorno all’origine, alla genuina devozione materna la quale, quando era bambino, pellegrinando in ginocchio, aveva ottenuto dalla Vergine di Portosalvo che gli salvasse un occhio ferito da un sasso e ormai dato per perso. Calabrese, di umili origini – nacque a Parghelia, in provincia di Vibo Valentia nel 1930 –, intelligente e portato negli studi, Girolamo si era in seguito affidato più alla ragione e alla prassi, rincuorato anche da una rapida carriera ecclesiastica che lo condusse diritto in Vaticano nella Segreteria di Stato sotto la direzione del cardinale Benelli, e poi vescovo a Cassano Jonio (1980), prima che della diocesi di Civitavecchia e Tarquinia (1983).

Ma il giorno 15 marzo 1995 ribaltò la prospettiva, segnando indelebilmente il prima e il dopo nella vita di questo sacerdote, che poco alla volta, incalzato dal Mistero, iniziò a riscoprire il senso dell’affidamento, il valore dell’adeguare la propria libertà al piano di Dio: «Mi trovo – confidò – alla scoperta cocente della mia incapacità fondamentale, della mia presunzione di poter agire con le mie sole doti intellettuali e morali. Non posso nascondere di aver intrapreso il mio cammino a cavallo, ma, dopo un lungo galoppo, ho scoperto che il mio incedere, sotto molti punti di vista brillante, nascondeva una grande fragilità».

La sua cavalcata, di fronte a una statua di gesso che piange e a una bambina, Jessica Gregori, allora di soli 6 anni, che gli porta a casa i messaggi della Vergine, si conclude con una caduta, come per san Paolo: «Io cercavo la verità con raziocinio e l’ho avuta con una bastonata in testa». Che ha messo il seme per una nuova conversione, più autentica, per un ripartire, per «quella vera risposta e quel vero impegno, giunti soltanto in secondo tempo».

Non tornò mai indietro, ma non fu un percorso semplice. Ogni volta che succedeva qualcosa il vescovo Grillo – parlo per conoscenza personale – per suo istinto si ritraeva. Schivo, fragile, come lui stesso si definiva, e al tempo stesso di carattere coriaceo tentò a lungo di sfuggire dal servire il disegno divino che si manifestava via via davanti a lui con contorni sorprendenti: lacrimazioni ed essudazioni di due identiche statue della Vergine, apparizioni di angeli che precedono come a Fatima le visite della Madonna, 93 messaggi della stessa, manifestazioni demoniache accompagnate, fortunatamente, da ben più numerose grazie e guarigioni straordinarie... Di ogni tipologia di questi fatti straordinari mons. Grillo fu chiamato a testimone. Se chiedeva un segno il Cielo glielo accordava; se non lo chiedeva, anzi vi rifuggiva, il buon Dio glielo mandava ugualmente…

Rimando al volume La Madonna di Civitavecchia di padre Flavio Ubodi, intermediario del vescovo con la famiglia Gregori, che entra nel merito di numerosi avvenimenti soprannaturali a sostegno di una mariofania ancora in corso che, come ha commentato con profondità Antonio Socci nel suo recente volume La profezia finale, si verifica nella metropolitania di Roma, nel cuore stesso della Chiesa.

Nelle sue apparizioni la Madonna chiede sempre l’apporto degli uomini – «Ho bisogno di voi!», dice – per realizzare i suoi disegni. Chiede e non ordina perché ogni chiamata di Dio non lede mai la libertà dei suoi figli. A Civitavecchia poi, come a Guadalupe, a Ghiaie di Bonate, a Montichiari e in molti altri luoghi delle sue venute, si è rivolta accorata ai vescovi, perché riconoscessero l’urgenza e la grazia di questa sua presenza, facendo conoscere a tutti i suoi messaggi... A differenza di altri suoi fratelli nell’episcopato, mons. Grillo alla fine ha dato seguito a queste implorazioni materne. Tardivamente, forse, e non con la fermezza dovuta, secondo la sua indole – nei messaggi la Vergine si riferisce a lui affettuosamente come «il mio piccolo vescovo» –, ma vi ha dato seguito.

Prima di lasciare il governo della diocesi ha compiuto due gesti altamente significativi, elevando a Santuario mariano la parrocchia Sant’Agostino di Pantano, che dal giugno 1995 custodisce la Statua che ha lacrimato sangue, e celebrando una Messa nella casa dei Gregori accordando loro, per iscritto, piena libertà di testimonianza. Da ultimo, con la pubblicazione del suo diario ha spiegato per quali ragioni, anche di natura soprannaturale, si sia convinto della veridicità delle apparizioni.

L’atto di fede comporta sempre la croce, che non risparmiò neppure mons. Grillo. Siamo in un’epoca egocentrica e razionalista che nega il Divino. I cristiani sono ridotti in minoranza e quanti si appoggiano sulle proprie forze anziché nelle robuste braccia del Padre celeste finiscono a loro volta per annacquare la fede, lasciarsi prendere dal timore e potranno – chissà – arrivare a negare l’azione di Dio nella loro vita o a vergognarsi di esporre la statua della Madonna in un luogo pubblico... Il «piccolo Vescovo» di Civitavecchia dovette continuamente confrontarsi con questo stato di cose. Soffrì moltissimo per l’incomprensione che si spinse al dileggio di diversi fratelli nell’episcopato, fra cui alcuni che godevano ieri come oggi di alta visibilità nella Chiesa. 

Poté contare, tuttavia, sull’appoggio certo e mai venuto meno di Giovanni Paolo II il quale, come si riscontra con dovizia di particolari nei libri di mons. Grillo e di padre Ubodi, volle venerare più volte la Madonnina delle lacrime; firmò di suo pugno un documento in cui si afferma che l’Atto di Affidamento alla Madonna dell’8 ottobre del 2000 è stato fatto in ascolto degli avvenimenti di Civitavecchia; e stabilì con la famiglia Gregori, tramite anche il suo segretario mons. Emery Kabongo, un rapporto di cui si hanno tracce ufficiali fino al suo ultimo ricovero al Gemelli.

Alla morte di Giovanni Paolo II mons. Grillo si sentì inizialmente smarrito. In quei giorni la statua della Madonna in casa dei Gregori ha pianto copiosamente lacrime umane. Esiste un video - di cui il sottoscritto è testimone - in cui il vescovo assiste al fenomeno in ginocchio chiedendo perdono alla Vergine di non aver fatto tutto ciò che Lei gli aveva chiesto. Questo suo scritto mi pare renda bene l’idea di un lungo travaglio interiore: «C’è una voce nella mia vita che continuamente risuona, con un’incessante domanda: “Perché non hai pregato, come avresti dovuto pregare? Tu avresti dovuto pregare per quelli che pregano e per quanti non pregano, e invece non l’hai fatto”. Ti chiedo perdono, pertanto, o Signore, perché non sempre la preghiera è stata per me sorgente di luce nel mio apostolato, per la conversione dei peccatori, per le anime più perfette nella via di Dio».

Di tanto in tanto mi chiamava al telefono: «Sono mons. Grillo», diceva, «Riccardo, difendi sempre la Madonnina». Non domandava, implorava. Le ultime due volte ho provato a rispondere a questo appello con la bellissima intervista che Fabio Gregori mi ha concesso, e che ora chiude il volume di padre Ubodi, e conl’intervista allo stesso padre Flavio pubblicata sulla Nuova Bussola Quotidiana.

Ho incontrato mons. Grillo l’ultima volta, nel febbraio dello scorso anno davanti alla chiesetta di Pantano, al termine di una mattinata che aveva speso a confessare i pellegrini. Vi veniva spesso da Roma, dove da emerito risiedeva presso la Basilica di Santa Maria Maggiore. L’ho trovato sereno, pacificato e con uno sguardo santo e buono, fatto certo di aver ben servito la sua Regina. In un articolo del 2003 a Lei si rimetteva totalmente, esprimendo tanto amore filiale e desideroso di incontrare un giorno il suo sorriso. Con riferimento personale alla vicenda che gli era stata data di vivere, chiudeva il suo tributo, affidandosi a una poesia di santa Teresa di Lisieux: «Vorrei cantare Madre, perché / t’amo, / e perché il dolce tuo nome mi fa / trasalire il cuore…». Più sotto: «Perché una creatura possa darsi tutta alla sua mamma / bisogna che questa pianga con lei, / divida i suoi dolori. / Regina del mio cuore, / quanto piangesti quaggiù per attirarmi a te!».

P.S. Mons. Girolamo Grillo è morto ieri mattina, 22 agosto, festività della Beata Vergine Maria Regina, alle ore 8 e 30, durante le sue ferie estive in Romania. Da diversi anni amava raggiungere per l’estate la Casa San Giuseppe di Oderheiul Secuiesc. Il vescovo aveva dato anche il suo sostegno a quest’opera  di aiuto ai bambini disagiati fondate dalle Suore del Cuore Immacolato di Maria che lui aveva potuto apprezzare proprio negli anni di ministero nella diocesi di Civitavecchia e Tarquinia.

 AMDG et BVM