giovedì 4 febbraio 2016

La grande sorpresa di Giovanni (Gv 1,13)

La grande sorpresa di Giovanni

di Vittorio Messori
(Il Timone - Settembre 2012)
 
Ignace de la Potterie, biblista


Il padre Ignace de la Potterie  (Waregem24 giugno 1914 – Heverlee11 settembre 2003), gesuita, ebbe a lungo la cattedra di Nuovo Testamento giudicata (a ragione) la più importante nell’Istituto, a sua volta conisiderato (anche qui, a ragione) come il più autorevole della Chiesa per gli studi sulla Scrittura.

Parliamo del Pontificio Istituto Biblico, emanazione di quella Università Gregoriana il cui Rettore – a conferma della sua importanza- è nominato dal Papa stesso. Il “Biblico“, come viene abitualmente chiamato, fu fondato nel 1909 da san Pio X per rispondere, con le stesse armi di rigore scientifico, all’attacco alle basi stesse della fede portato dal cosiddetta “critica indipendente“. Quella, cioè, che sezionava i testi dell’Antico e soprattutto del Nuovo Testamento, concludendo – assai spesso – che non si trattava di storia bensì di miti, simboli, leggende e che il “Gesù della storia“, quello realmente vissuto, era un oscuro personaggio, dalla biografia incerta, che poco o nulla aveva a che fare con il “Cristo della fede“. Insomma, il Credo aveva basi abusive e storicamente insostenibili e il cristianesimo null’altro era che una tardiva costruzione nata tra ellenisti ed elementi marginali di un giudaismo oscuro.

Davanti a un simile assalto, la Chiesa si rese finalmente conto che non bastava indignarsi e lanciare invettive contro i “miscredenti“ ma che occorreva replicare con i medesimi strumenti, con la medesima erudizione. A questo si dedicò dunque il Pontificio Istituto, con buoni risultati che, innanzitutto, tolsero ai cattolici il timore che le fondamenta della loro fede non fossero più difendibili davanti alla Scienza (con la maiuscola, ovviamente, come volevano i professori delle università laiche) e tolsero loro il sospetto, magari inespresso ma tormentoso, che proprio l’incarnazione di Dio nella storia fosse improponibile secondo le rigorose categorie della storia moderna.

Il professor de la Potterie, morto pochi anni fa, fu parte eminente e del tutto degna della schiera degli studiosi che hanno illustrato il Biblico per oltre un secolo, avendo tra l’altro fra i docenti e poi tra i direttori un Carlo Maria Martini. Ovviamente coltissimo, padrone di molte lingue sia moderne che antiche, il padre Ignace mi onorava della sua amicizia e condivideva quanto cercavo di fare (ovviamente al mio livello di non specialista, seppure informato della materia quanto più mi era possibile) per trovare conferme della storicità dei vangeli. E quando, ormai molto anziano, si ritirò nel suo Belgio natale, ogni tanto mi sorprendeva con una telefonata che mi rallegrava e al contempo un poco mi rattristava. In effetti, si sfogava con me, disapprovando un certo “ modernismo” e “razionalismo“ che era entrato anche tra i biblisti cattolici, spesso per imitazione dei troppo venerati docenti delle facoltà teologiche protestanti che, in Germania , esistono ancora nelle università pubbliche.

Non potevo non dargli ragione anche perché l’ottimo padre Ignace era tutt’altro che un chiuso tradizionalista, era anzi a conoscenza di tutti i metodi e di tutte le teorie moderne, di cui accettava ciò che non tendeva a trasformare in mito o in simbolo il realismo storico dei vangeli. Professori per i quali nulla, nella Scrittura, andava preso così come sta scritto e le sole cose indiscutibili erano le loro note e le loro introduzioni “demitizzanti“.

Pur muovendosi con padronanza in tutta la Scrittura e in particolare nel Nuovo Testamento, de la Potterie era conosciuto soprattutto come il miglior conoscitore di Giovanni: il Vangelo, ovviamente, ma anche le tre lettere che gli sono attribuite. E proprio nel quarto evangelista aveva individuato, chiarito e messo in rilievo, con sicurezza sino ad allora mai raggiunta, un aspetto tanto importante quanto pochissimo conosciuto. E cioè, nientemeno che questo: nel celeberrimo Prologo (<< In principo era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio …. >>), Giovanni ci darebbe testimonianza esplicita e precisa della triplice verginità di Maria: prima, durante e dopo il parto. Lo stesso padre de La Potterie mi diceva, e scriveva nei suoi articoli, che tra i biblisti d’oggi (persino, purtroppo, in certe università cattoliche) si preferisce sorvolare su questo aspetto, pur così importante, della storia della redenzione. In alcuni ambienti, chi ancora parli con fede convinta della semper Virgo suscita diffidenza quasi fosse un “integrista“, oppure provoca ironia, come si addice a un vecchio retrogrado. E invece, ecco quel docente illustre di un illustre ateneo pontificio scrutare il “suo“ Giovanni e, proprio all’inizio del vangelo scoprire (o riscoprire, lo vedremo) che il testo era stato manipolato già in tempi antichi, nascondendo così la verità con un semplice passaggio di un verbo dal singolare al plurale.

Il professor de la Potterie aveva esposto la sua documentatissima tesi in due articoli di ben 50 pagine ciascuno su Marianum, la rivista dell’omonima facoltà teologica pontificia, già nel 1978 e aveva ripreso il discorso, arricchito da nuove ricerche, nel 1983. Quelle cento pagine, fitte di note e di citazioni in latino, in greco, in ebraico erano state molto lette dagli specialisti i quali, però, avevano scelto il silenzio.

Succede spesso, nel mondo dei biblisti: ciò che può mettere in discussione gli schemi e i pregiudizi egemoni del momento è rimosso, se non ne è possibile una stroncatura, vista (come in questo caso) la rigorosa serietà critica delle ricerca e l’autorevolezza dell’autore. 
Ricordo come in una delle sue ultime telefonate, il vecchio studioso si rammaricasse del silenzio attorno a un tema così importante. Mi parve che, in lui, vi fosse un inespresso ma esplicito, cortese invito ad aiutarlo a fare conoscere una simile scoperta, tanto rilevante per la fede stessa e tale da appoggiare con l’autorevolezza del quarto evangelista il dogma delle perenne verginità di Maria. 

Ebbene, con queste pagine, cercherò di aderire al desiderio del padre Ignace, dando notizia di quella ricerca di cui è stato l’efficace strumento ma che non riguarda certo lui e la sua carriera scientifica, bensì la fede di noi tutti. 
Qui darò, ovviamente, solo una sintesi divulgativa seppur (così almeno spero) corretta, vista l’attenzione con cui ho esaminato quel centinaio di pagine. Ma sarà bene che chi vuole approfondire vada ai due articoli di de la Potterie, magari facendoseli inviare via mail dalla stessa rivista (marianum@marianum.it): assicuro che ne vale la pena. Non si tratta qui di una sorta di curiosità ma di un modo per rafforzare, basandosi sulla Scrittura stessa, una verità su Maria che la Chiesa ha sempre creduto e proclamato.

Vediamo, dunque, come stiano le cose, riproducendo il breve versetto su cui tutto si basa. E’ il tredicesimo del primo capitolo, quel Prologo giovanneo cui sopra accennavamo e che diamo nell’ultima versione (quella del 2007) della Conferenza Episcopale Italiana. Ma per comprendere, dobbiamo prima riprodurre anche i due versetti precedenti, l’undicesimo e il dodicesimo: <<Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome>>. Seguono le righe su cui si è appuntata la ricerca del nostro studioso: <<I quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati>>.

Questa, dunque, la versione tradizionale e questa, invece, secondo il docente del Biblico, la versione autentica: <<Non da sangui, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio egli (Gesù) è stato generato>>.

Come si vede, il verbo “generare“ è al singolare e non al plurale come nella versione delle nostre edizioni della Scrittura. In effetti, il soggetto è uno solo: Gesù. Mentre nella versione tradizionale, è al plurale, il soggetto essendo <<quelli che credono nel suo nome>>. Dunque, per ripeterci ma per maggior chiarezza, in questo punto decisivo: messo al singolare, il versetto parla della generazione divina del Cristo; messo al plurale parla della trasformazione dei credenti in lui. 
Da notare subito, anche, che – in tutti i manoscritti antichi che abbiamo – “sangue“, in greco, è al plurale ma, mentre nella Vulgata latina il plurale è stato rispettato (ex sanguinibus), in italiano è stato sempre tradotto al singolare. Eppure (si controlli anche su dizionari classici come quello del Tommaseo), “sangui “ in italiano è raro ma esiste ed è impiegato anche da buoni autori. Se nelle traduzioni italiane non lo si è usato e non lo si usa tuttora, non è (come molti hanno detto) perché “sangui“ non c’è nella nostra lingua, ma perché non si è compreso quale fosse la sua importanza nel pensiero di Giovanni. Come vedremo.

La prima domanda da fare è questa: i documenti antichi che abbiamo del Nuovo Testamento, autorizzano a usare la terza persona singolare del verbo “generare “ (attribuendola a Gesù) invece della terza persona plurale, attribuendola ai cristiani?

Va subito detto: tutti, o quasi, i manoscritti greci hanno il plurale. Ma i più antichi di essi risalgono solo al quarto secolo, se si escludono dei frammenti casuali su papiro. E, invece, abbiamo testi di scrittori cristiani e poi di padri della Chiesa, risalenti al secondo secolo, che citano questo versetto al singolare. Per risalire ai più antichi, Sant’Ireneo di Leone, verso il 190, usa il singolare. Addirittura, il sempre polemico Tertulliano, attorno all’anno 200 , imbastisce una disputa proprio attorno a questo brano e accusa una setta di eretici di avere falsificato le parole di Giovanni, mettendole- appunto- al plurale. Cioè, quello che è entrato nel testo ufficiale del Vangelo e che ancora usano le nostre edizioni attuali. Oltre al latino, abbiamo la testimonianza del singolare nei testi più antichi in siriaco, in copto, in etiope.

Va precisato per coloro che non hanno familiarità con la critica biblica: la ricostruzione del testo originale della Scrittura condotta solo sui documenti superstiti è detta “critica esterna“. Ma questa va completata (tutti gli studiosi moderni concordano) con la “critica interna“, che scende più in profondo e che, in questo nostro caso, porta a preferire un “è stato generato“ piuttosto che un “sono stati generati“.

Insomma, la situazione è tale che padre de la Potterie poteva scrivere, già nel 1978 e poi ribadire nel 1983, nel suo secondo articolo-saggio, che proprio la ricerca non solo sugli antichi manoscritti evangelici ma anche sulle citazioni dei primissimi autori cristiani, sembra rendere necessario tornare al <<da Dio è stato generato >> , avendo per soggetto Gesù. 
Rileggiamoci il versetto in quella che sembra essere davvero la versione originaria finalmente restaurata secondo le intenzioni dell’evangelista e ci renderemo subito conto (come vedremo ancor meglio qui sotto) che qui abbiamo una testimonianza preziosissima sulla triplice verginità di Maria. Eravamo convinti che Giovanni si riferisse a quella che non chiama mai col suo nome, ma con quello di “madre di Gesù”, soltanto per l’episodio di Cana e per la presenza ai piedi della croce: ecco invece riemergere una terza testimonianza mariana, di importanza davvero primaria.

Chiediamoci ora: perché già prima del IV secolo è sparito il riferimento all’origine divina di Gesù e nei testi evangelici si è imposto quel plurale che è giunto sino a noi e che, a ben guardare, inserisce una sorta di corpo estraneo? In effetti, tutto il prologo di Giovanni è un inno solenne alla incarnazione del Verbo ed ecco apparire a sorpresa e in modo che non sembra giustificato <<quelli che credono nel suo nome>>, cioè i membri della Chiesa. E in che modo, poi, questi battezzati, uomini concreti in carne ed ossa e non eterei angeli, sarebbero stati generati <<non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomini >>?

Sembra che sia avvenuto questo: nella Chiesa primitiva infieriva la setta detta dei “doceti“, i quali negavano la natura umana di Gesù e di conseguenza, il suo concepimento da parte di Maria . Questa sarebbe stata non la madre che ha per nove mesi la creatura nel ventre, ma una sorta di tubo dell'acqua attraverso il quale il Cristo – la cui immagine umana era soltanto apparente - sarebbe passato. 

Il docetismo (il cui “spiritualismo” era particolarmente pericoloso, rendendo Gesù non una persona, ma una sorta di superarcangelo) si appoggiava proprio sul versetto 13 del prologo che stiamo esaminando: il Cristo era venuto tra noi non solo in modo verginale, come attestato dal <<né da volere di carne>> e dal <<né da volere di uomo>>. Ma, soprattutto, la tesi doceta sarebbe provata da quel <<nec ex sanguinibus>>. 

Ma che cosa sono quei “sangui“ ? Come dicevo sopra, che questo plurale faccia parte del testo originale non c’è alcuna discussione, tutte le testimonianze lo riportano, sia quelle in cui Gesù è il soggetto, sia quelle in cui soggetto sono i suoi discepoli. Ma se (come Giovanni doveva avere scritto nel suo prologo) soggetto era il Messia, questa espressione poteva essere utilizzata facilmente dal docetismo: se Egli non era stato “generato da sangui“, era perché non aveva un corpo come ogni altra persona umana, non c’era stato un parto, sempre accompagnato da effusione di sangue da parte della donna. 

Dunque, per citare testualmente il nostro padre de la Potterie, <<per risolvere radicalmente la questione e togliere agli eretici un’arma, probabilmente all’inizio del III secolo, gli scrittori ecclesiastici cominciarono a cambiare il verbo al plurale, spostando il tutto sui cristiani ma interrompendo così, tra l’altro, l’unità del Prologo giovanneo, tutto incentrato sul mistero del Logos fattosi carne>>. 
Il “ritocco“ ecclesiale finì per coinvolgere anche l’originale del Vangelo ed è giunto sino a noi.

Ma riflettiamo soprattutto su quel “sangui“, facendoci aiutare dalla sintesi del padre Domenico Marcucci, uno dei pochi studiosi che ha avuto il coraggio di rompere il conformismo dei colleghi, prendendo radicalmente sul serio lo studio del biblista della Gregoriana: <<Nei testi greci, aima, sangue, si trova solo al singolare. Ma Giovanni usa il plurale. Perché? Per capire, de la Potterie si è rivolto all’ebraico, visto che il quarto evangelista è intriso profondamente della sua cultura, quella giudaica.

Nell’Antico Testamento in ebraico, la parola “sangui“ (damim) sta a significare il sangue versato dalla donna durante le mestruazioni e durante il parto. Esso la rendeva impura, per cui doveva recarsi al tempio per la purificazione>>. Dunque: <<Il “non da sangui“ sta a significare che la nascita di Gesù è avvenuta, a differenza di ogni altra, senza l’effusione del sangue, dunque verginalmente >>.

Proviamo a rivedere il versetto 13 nella versione che sarebbe quella originale e vediamone le conseguenze: Gesù <<è stato generato da Dio>> e, dunque, <<non da volere di carne, né da volere di uomo>> (virginitas ante partum). Inoltre, il parto si svolse <<non da sangui>>, dunque senza le consuete lesioni corporali, il che sottintende sia la virginitas in partu che quella post partum, non avendo il passaggio del corpo del figlio provocato sanguinamenti e avendo dunque lasciata intatta la madre. Come si vede, un risultato di straordinaria importanza: e questo, soltanto rimettendo al singolare un verbo, come pare proprio fosse nelle intenzioni di Giovanni. 
Questi, tra l’altro, chiarisce subito che ciò non mette in discussione la materialità corporea, la realtà umana di Gesù. E, in effetti, il prologo prosegue con le parole: <<E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi…>>. Sta di fatto che, come nota giustamente de la Potterie, se i primi Padri della Chiesa trovavano già in Matteo e in Luca elementi per la concezione verginale, è proprio nel primo capitolo di Giovanni che trovavano non solo conferma ad essa, ma anche un riferimento diretto a un dare alla luce verginale, senza perdite che l’ebraismo considerava impure come quelle di tutte le partorienti.

Ora: perché tanta noncuranza, tanto silenzio su questa riscoperta del possibile, preciso fondamento scritturale di una verità come la semper Virgo, già presente nella Tradizione cristiana nel secondo secolo e divenuta poi dogmatica nella Chiesa? 

Un punto di fede considerato così importante che, in Oriente, tra le rigide regole date agli iconografi vi è quella di non rappresentare mai la Theotokos senza tre stelle - una sul capo e due sulle spalle –a segno della triplice verginità. 

Il padre Ignace non aveva torto nel denunciare il conformismo di tanti suoi colleghi, per i quali un simile tema è fonte di imbarazzo, tanto che, come dice padre Marcucci : <<In molti manuali di mariologia usati nei seminari cattolici, la verginità ante, in, post è oggetto di silenzi imbarazzati più che di seria trattazione>>. Ma, attenzione! In uno dei suoi ultimi libri, il padre Stefano De Fiores – forse il nostro (più recente) maggior mariologo, purtroppo scomparso da poco, docente anche alla Gregoriana– citava gli studi di la Potterie e ne accettava con convinzione i risultati, giudicandoli fondati non solo sui documenti ma anche sulla dinamica di Giovanni. Un riconoscimento davvero importante.

Ma l’ultimo studio in proposito del docente della Gregoriana è, come dicevo, del 1983. Perché la traduzione della Bibbia, rivista e aggiornata della CEI e che è di 24 anni dopo, non segnala almeno in nota a Gv 1,13 la possibilità, che sembra avvicinarsi alla certezza, che il testo primitivo avesse Gesù e non il suo popolo come soggetto? 
[In verità P. Marco Sales commentando nel 1914 questo versetto 1,13 di san Giovanni nota: "Alcuni antichi Padri e parecchi critici moderni, leggono questo versetto al singolare e lo applicano interamente alla concezione verginale di Gesù: Che credono nel nome di lui che non per via di sangue, ecc., ma da Dio è nato. V. Durand. L'Enfance de Jésus, p. 106 e Calmes. - Ed anche gli esegeti recenti (1950): Mollat, F.M.Braun, MèlG, Boismard, Martìn Nieto - NDR].

Una cosa, comunque è confermata per l’ennesima volta: la Scrittura è ancora in grado di riservarci sorprese, alcune delle quali –come nel caso di cui parliamo– riguardano quella Madre di Dio il cui mistero è al contempo discreto e inesauribile.



San Giuseppe da Leonessa

San Giuseppe da Leonessa, missionario, festa  4 febbraio.



Prigioniero dei Turchi a Costantinopoli, fra Giuseppe era restato per tre giorni appeso a una croce per un piede e per una mano. E non era morto. Dio solo sa come riuscisse a sopravvivere a quel supplizio, e come si rimarginassero le sue terribili ferite. Si parlò dell'intervento miracoloso di un Angelo, che avrebbe sostenuto il suo corpo e curato le sue piaghe.

Certo non era facile spiegare in altro modo quella resistenza che sfidava tutte le leggi naturali, comprese quelle - terribilmente logiche - della tortura. E quasi un miracolo fu il fatto che il Sultano, forse ammirato per l'accaduto, commutasse la pena di morte con l'esilio perpetuo.

A Costantinopoli, il cappuccino Fra Giuseppe aveva compiuto un gesto degno veramente da folle. Aveva tentato di entrare nel palazzo per predicare davanti al Sultano in persona, sperando di convertirlo. Catturato dalle guardie, era stato giudicato reo di lesa maestà.

Bisogna dire che fino allora i Turchi lo avevano lasciato libero di predicare in città, dopo aver assistito i cristiani prigionieri. L'estrema povertà del frate e dei suoi compagni, sotto il saio color tabacco, lasciava perplessi i rappresentanti del potere e della religione ufficiale. Era difficile vedere in quegli umilissimi stranieri, sprovvisti di tutto, altrettanti pericolosi cospiratori contro la sicurezza dello Stato.

Giuseppe era nato nel 1556, a Leonessa, e nella cittadina umbra dal fiero nome, presso Spoleto, era entrato sedicenne tra i cappuccini della riforma, mutando il nome di Eufrasio Desiderato in quello dell'umile sposo della Vergine. Aveva compiuto il proprio noviziato nel convento delle Carceri, sopra Assisi, e in quella piega boscosa del Subasio si era temprato alla più dura penitenza e alla più rigorosa astinenza.

Con una tipica espressione francescana, chiamava il proprio corpo « frate asino », e diceva che come tale non aveva bisogno di essere trattato come un corsiero, un purosangue. Bastava trattarlo come un asino, con poca paglia e molte frustate.

La paglia forse si, ma le frustate - come abbiamo visto - non gli erano mancate durante la sua avventura in Turchia, dove il generale dell'Ordine lo aveva inviato, trentenne, per assistervi i prigionieri cristiani.

Tornato in Italia, poté seguire quella vocazione missionaria che l'aveva spinto a predicare davanti al Sultano. Questa volta, però, fu predicatore sull'uscio di casa, nei villaggi e nella città reatina, sua patria. I risultati furono altrettanto consolanti, e il suo zelo di carità ancor più necessario, perché il più difficile terreno di missione è spesso quello stesso sul quale fiorisce la santità in mezzo alle ortiche del vizio e ai rovi dell'indifferenza.

Cinquantacinquenne, s'infermò, ritirandosi nel convento d'Amatrice. Gli venne diagnosticato un tumore, e si tentò di operarlo, Dio sa come. Fu quello il suo secondo supplizio, ma rifiutò di essere legato, come suggerivano i medici. E non si sollevò più dal lettuccio chirurgico. Come anestetico si era stretto al petto, lungamente, il Crocifisso.

AMDG et BVM

mercoledì 3 febbraio 2016

San Biagio


Nome: San Biagio
Titolo: Vescovo e martire
Ricorrenza: 03 febbraio
Protettore di:malattie della gola



S. Biagio nacque a Sebaste nell'Armenia. Passò la giovinezza fra gli studi, dedicandosi in modo particolare alla medicina. Al letto dei sofferenti curava le infermità del corpo, e con la buona parola e l'esempio cristiano cercava pure di risanare le infermità spirituali.

Geloso della sua purezza ed amantissimo della vita religiosa, pensava di entrare in un monastero, quando, morto il vescovo di Sebaste, venne eletto a succedergli. Da quell'istante la sua vita fu tutta spesa pel bene dei suoi fedeli.

In quel tempo la persecuzione scatenata da Diocleziano e continuata da Licinio infuriava nell'Armenia per opera dei presidi Lisia ed Agricola°. Quest'ultimo, appena prese possesso della sua sede, Sebaste, si pose con febbrile attività in cerca di Biagio, il vescovo di cui sentiva continuamente magnificare lo zelo. Ma il sagace pastore, per non lasciare i fedeli senza guida. ai primordi della procella, si era eclissato in una caverna del monte Argeo.

Per moltissimo tempo rimase celato in quella solitudine, vivendo in continua preghiera e continuando sempre il governo della Chiesa con messaggi segreti. Un giorno però un drappello di soldati mandati alla caccia delle belve per i giochi dell'anfiteatro, seguendo le orme delle fiere, giunsero alla sua grotta. Saputo che egli era precisamente il vescovo Biagio, lo arrestarono subito e lo condussero al preside.

Il tragitto dal monte alla città fu un vero trionfo, perchè il popolo, nonostante il pericolo che correva, venne in folla a salutare colui che aveva in somma venerazione. Fra tanta gente corse anche una povera donna che, tenendo il suo povero bambino moribondo sulle sue braccia, scongiurava con molte lacrime il Santo a chiedere a Dio la guarigione del figlio. Una spina di pesce gli si era fermata in gola e pareva lo volesse soffocare da un momento all'altro. Biagio, mosso a compassione di quel bambino, sollevò gli occhi al cielo e fece sul sofferente il segno della croce.

Mamma, sono guarito,
— gridò tosto il bambino
— sono guarito!... 


Giunto a Sebaste, il prigioniero venne condotto dal giudice Agricola°, che voleva convincerlo a sacrificare agli idoli; ma il Santo con gran calma gli dimostrò che quello era un atto indegno di una creatura ragionevole, perché la ragione dice all'uomo che vi è un Dio solo, eterno, e creatore di ogni cosa, e non molti &i. Per tutta risposta il giudice lo fece battere con verghe e poi gettare in carcere.

Dopo qualche tempo lo volle di nuovo al tribunale, per interrogarlo nuovamente, ma trovò sempre in lui la più grande fermezza. Gli furono allora lacerate le carni con pettini di ferro e così lacero com'era fu sospeso ad un tronco d'albero. Sperimentati ancora contro l'invitto martire tutti i supplizi più inumani, fu condannato ad essere sommerso in un lago. I carnefici condottolo sulla sponda lo lanciarono nell'acqua, e mentre tutti si aspettavano di vederlo annegare. Biagio tranquillamente si pose a camminare sull'acqua finché raggiunse la sponda opposta. Il giudice. fuori di sè, vedendo di non poter spegnere altrimenti quella vita prodigiosa, lo fece decapitare.

PRATICA. S. Biagio è invocato per il male di gola: un bellissimo ossequio in suo onore sarebbe il non contaminare mai la nostra bocca con bestemmie o con parole disoneste. 

PREGHIERA. Dio, che ci allieti con l'annua solennità del tuo beato martire e vescovo Biagio, concedi propizio, che come ne celebriamo la festa, così ci rallegriamo ancora della sua protezione. 

AMDG et BVM

“Siate uomini di Dio, siate uomini di reazione”.

Poveri della Tradizione, 

non borghesi della Tradizione

Editoriale di "Radicati nella fede
- Anno IX n° 2 - Febbraio 2016

Sapete bene quante volte, su questo foglio di collegamento, abbiamo messo in guardia contro i pericoli del modernismo. Quante volte abbiamo reagito contro la maldestra modernizzazione della Chiesa, che sta ormai compiendosi nella più acuta crisi che la Chiesa abbia mai conosciuto nella sua storia.

Abbiamo reagito, ne sentiamo tutto il dovere; abbiamo detto di “no”; abbiamo detto di non accettare questo stravolgimento della vita cristiana che si amplifica sotto i nostri occhi.

È bene, però, ricordare che non abbiamo fatto solo questo, e che non abbiamo fatto innanzitutto questo: ci siamo prima preoccupati di assicurare tra noi una vita stabilmente cristiana.

, perché “essere contro” non equivale a fare il cristianesimo. È un'illusione mortale quella di pensare che essere contro qualcosa equivalga automaticamente a costruirne l'alternativa.

Sarebbe per noi un gravissimo inganno quello di pensare che basti reagire al modernismo teologico, al pastoralismo ingannevole del post-concilio, alla mania di mettere al passo con le ultime mode del mondo la vita cristiana, per vedere sorgere un Cattolicesimo sano, secondo Tradizione.

Il père Emmanuel Andrè, di cui tanto riferiamo sul nostro bollettino e che costituisce certamente uno dei più fulgidi esempi sacerdotali nella Chiesa dei tempi moderni, disse ai suoi monaci, difronte al dilagante Naturalismo: “Siate uomini di Dio, siate uomini di reazione”.

Verissimo! Per essere di Dio, occorre reagire contro il male dilagante. Occorre dire di “no” all'errore che è in te, e al veleno che circola nel mondo.
Ma non basta dire di no, occorre essere di Dio: “Siate uomini di Dio...”. La reazione, quella sana, nasce solo dall' “essere di Dio”. 
Occorre preoccuparsi dunque di fare il cristianesimo; l'interesse dev'essere concentrato sul vivere una vita autenticamente cristiana, sul lavorare perché molti abbiano i mezzi e la possibilità di “essere di Dio”.

Ci sono alcuni, in certo mondo tradizionalista o conservatore, che sono permanentemente in reazione, in perenne accusa, rischiando di esaurire i propri sforzi nello scovare il male attorno a loro.
E quando reagiscono contro i cristiani ammodernati, sembrano attendere il cattolicesimo vero dai “modernisti” stessi, pretendendo da loro una conversione che forse attenderanno invano.

No! Occorre fare il cristianesimo, questo attende Dio da noi; per questo ci da la sua grazia.

Un grande benedettino, il Card. Schuster, difronte alla grave crisi di qualche monastero, consigliava di non perdere tempo nel tentare la sua riforma, ma di fondarne a fianco un altro, dove regnassero l'osservanza della Regola di San Benedetto e uno spirito autenticamente monastico: nel momento più forte della crisi, questi nuovi monasteri osservanti sarebbero stati l'anima della rinascita cristiana e monastica.

Così anche per noi: occorre impiantare una vita veramente cristiana dove viviamo, attorno alla Messa tradizionale, fonte di inaudite grazie. Occorre fare il cristianesimo senza perdere nemmeno un minuto, là dove sacerdoti di retta intenzione tornano ad assicurare la Tradizione, nei sacramenti e nella dottrina. I preti, almeno quelli che hanno capito, hanno il dovere di garantire la Tradizione, e i fedeli di riconoscerla e di muoversi!

Ci resta da ricordare però un fatto non secondario: per fare il cristianesimo occorre “dare la vita”.
Dare la vita, è questa l'obbedienza vera che Dio attende da noi.
Dare la vita, cioè tutto, perché se Dio non può chiederci tutto, vuol dire che per noi non è.

Questo dare tutto, va vissuto in una coscienza limpida, unita ad una concretezza estrema, operativa.
L'impiantare il cristianesimo inizia dalla grazia, cioè dall'altare del Signore: è dalla messa cattolica, dal sacrificio di Cristo, che tutto ha vita, dottrina, preghiera, opere, carità, cultura...
Per assicurare il culto e la vita cattolica, secondo tradizione, occorre dare la vita: siamo disposti a questo, o ci basta essere contro?
Se, improvvisamente, fosse data piena libertà all'esperienza della Tradizione, se nella Chiesa ci fosse data questa libertà totale, sorgerebbero questi luoghi di grazia intorno all'altare grazie a noi? Oppure, questo miracolo di libertà per la Tradizione ci troverebbe ancora impegnati ad assicurarci le nostre libertà, i nostri umori alterni? Un siffatto miracolo non ci coglierebbe forse preoccupati di garantirci ancora il nostro “tempo libero”, come fa il resto del mondo?

Solo perché ogni Domenica, e sottolineiamo ogni, ci sia la messa cantata, occorre che molti diano la vita! Il prete che la celebra, l'organista che accompagna il canto, la schola che sostiene la lode del popolo, i fedeli che stabilmente si riferiscono a quella chiesa.

Vedete, la nuova liturgia, miseramente ridotta, di fatto ha garantito, favorendole, le “libertà” e il disimpegno dei fedeli. Sembra nata per intrattenere e non per fare il cristianesimo.

Per fare il cristianesimo occorre non essere liberali, ma uomini impegnati con Dio, consegnanti tutto a Dio: solo i poveri, quelli veri, lo capiscono, non i “borghesi” della tradizione.

Poveri sono quelli che non sperano la salvezza da sé, dal proprio giudizio e azione. Poveri sono quelli che si consegnano a Dio, disposti a dare tutto perché la Chiesa Cattolica continui ad esserci.
Borghesi sono, invece, quelli impegnati a salvare i propri spazi di libertà. Sono liberali nell'anima; vogliono amare Dio, ma non consegnando tutto: loro si illudono e la Chiesa scompare.

Che questa Quaresima ci insegni la vera obbedienza al Signore.
AMDG et BVM

martedì 2 febbraio 2016

L'AFFASCINANTE STORIA DI MOSE'


STORIA DI MOSE'

Ritorno in Egitto (Es 4, 18‑27)

Decise allora di ritornare in Egitto conducendo con sé la moglie e il figlio. Nel viaggio, come dice la storia, gli andò incontro un angelo, che gli minac­ciò la morte, ma la donna riuscì a placarlo con il sangue della circoncisione del figlio.
Anche Aronne, suo fratello, venne a incontrarlo e a parlargli secondo l’ordine che aveva ricevuto da Dio.

Per la liberazione del popolo (Es 4, 28‑31; 5, 1‑19)

Il popolo che viveva disperso in mezzo agli Egi­ziani e oppresso sotto i lavori forzati, fu da loro convocato in assemblea, dove essi promisero a tut­ti la liberazione dalla schiavitù. Il proposito fu ma­nifestato al sovrano da Mosè stesso, ma quello si mise a opprimere ancor più gli Israeliti, mostran­dosi più esigente con i sovraintendenti ai lavori. Or­dini più severi imposero la raccolta di una quanti­tà maggiore di argilla, di paglia e di stoppa.

Gli indovini egiziani e i serpenti (Es 7, 8‑13)

Quando il Faraone, tale era il nome del tiranno degli egiziani, fu informato dei portenti che Mosè aveva compiuto in mezzo al suo popolo, escogitò dei raggiri servendosi degli indovini. Era convinto che le arti magiche di costoro avrebbero potuto ripro­durre lo stesso portento delle verghe trasformate da Mosè in serpente al cospetto di tutti gli Egiziani.
In realtà, anche le verghe degli indovini diven­nero serpenti, ma il serpente uscito dalla verga di Mosè si lanciò su di loro e li divorò.
Questo bastò a smascherare l’errore e mostrare che la magia aveva saputo procurare alle verghe sol­tanto una vita effimera, capace di destare l’ammi­razione di persone facili a lasciarsi ingannare.

Le piaghe d’Egitto (Es 7, 14‑11, 36)

Quando Mosè s’accorse che anche il popolo egi­ziano appoggiava pienamente il despota autore di quei raggiri, procurò di colpirli tutti indistintamen­te, con dei castighi.
Gli stessi elementi del mondo materiale, quasi un esercito agli ordini di Mosè, si schierarono con­tro gli Egiziani: la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco mu­tarono le loro qualità naturali, ma soltanto quan­do si trattava di castigare gli Egiziani maldisposti verso gli Ebrei. Quando qualcuno di questi elemen­ti causava la punizione dei primi, contemporanea­mente e nel medesimo luogo lasciava immuni gli altri, perché innocenti.

Le acque mutate in sangue (Es 7, 14‑25)

Così le acque d’Egitto si mutarono in sangue coagulato che, formando una massa compatta, fe­ce morire i pesci. Ma per gli Ebrei l’acqua restò quella che era, anche se, per il suo apparente colo­re, poteva essere scambiata per sangue.
Gli indovini presero a pretesto l’apparenza di sangue che aveva l’acqua usata dagli Ebrei, per or­dire nuovi inganni.

Le rane (Es 7, 26; 8, 11)

Una moltitudine di rane riempì in seguito tutto l’Egitto. Esse non venivano da una eccezionale pro­liferazione della natura, ma le fece accorrere in nu­mero straordinario un ordine di Mosè. Penetraro­no così in tutte le case degli Egiziani, causando gra­vi danni, ma non toccarono quelle degli Ebrei.

Le tenebre (Es 10, 21‑23)
Ill nuovo castigo degli Egiziani fu di non riuscire più a distinguere il giorno dalla notte. Restarono avvolti in una oscurità continua, mentre gli Ebrei non trovarono mutato il consueto alternarsi di luce e tenebre.

Altre calamità (Es 8,12‑10, 20)

Molte altre calamità vennero suscitate da Mosè contro gli Egiziani: la grandine, il fuoco, le mosche, le pustole, i topi, gli sciami di cavallette. Tutte que­ste cose procurarono danni di maggiore o minore entità in conformità con la loro specifica natura. Come sempre, gli Ebrei non subirono danno alcu­no, ma ne venivano a conoscenza dalle grida e dal­le informazioni dei loro vicini Egiziani.

La morte dei primogeniti (Es 12,29‑30)

Tuttavia il fatto che rese più evidente questa di­versità tra Ebrei ed Egiziani, fu la morte dei pri­mogeniti. Davanti ai loro figli più cari trovati mor­ti, gli Egiziani levarono grandi grida di dolore, men­tre tra gli Ebrei c’era piena tranquillità e sicurez­za. Essi infatti avevano segnato gli stipiti delle por­te di ogni loro casa con il sangue degli agnelli uc­cisi e questa fu la ragione della loro salvezza.

La partenza degli Ebrei (Es 12,37‑42)

Mosè non appena vide gli Egiziani colpiti indi­stintamente con la morte dei loro primogeniti e, per tanta disgrazia, immersi nel dolore e nel pian­to, diede agli Israeliti l’ordine della partenza, ren­dendoli docili con l’invito a chiedere agli Egiziani le loro suppellettili, a titolo di prestito.

L’inseguimento (Es 14,5‑9)

Per tre giorni gli Ebrei camminarono fuori dei confini dell’Egitto, ma l’Egiziano, ci dice la storia, dispiaciuto che Israele non fosse più sottoposto al­la sua schiavitù, decise di assalirli con la forza, mandando contro di loro un esercito di cavalieri. Alla vista dell’esercito con armi e cavalli gli Ebrei, poco pratici di guerra e non abituati a tali spetta­coli, si spaventarono e si ribellarono a Mosè. Ma qui la storia riferisce sul conto di questi un fatto quasi incredibile: mentre infatti egli moltiplicava le energie per incoraggiare i suoi, esortandoli a nu­trire buone speranze, nel suo intimo supplicava il Signore che li liberasse dalle angustie.
Riferiscono che Dio intese quel grido silenzioso, consigliando a Mosè come scampare dal pericolo.

La nube (Es 13,21‑22)

Intanto era apparsa una nube a far da guida al popolo. Essa non consisteva di vapori umidi, sog­getti a condensazione, come normalmente avviene. Era una nube dalla straordinaria composizione cui corrispondevano altrettanto straordinari effetti. In­fatti era guidata dal Signore e, se stiamo alle infor­mazioni del racconto, avveniva questo: quando i raggi del sole splendevano con forza, la nube face­va da riparo al popolo, mandando ombra a chi le stava sotto e insieme una sottile rugiada, che rin­frescava l’aria infuocata; di notte invece, si trasfor­mava in fuoco che, da sera fino all’alba, mandava luce sul cammino degli Israeliti[1].





[1] Questi elementi della scienza fisica antica relativi alla composizione delle nubi, sono trattati da Gregorio anche in al­tre sue opere come l’Explicatio in Exaemeron (PG 44, 97 D), e i Libri contra Eunomium (PG 45, 344 B ‑ 577 A).