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lunedì 22 luglio 2019

MARIA SS.ma E' SEMPRE VERGINE


La Sindone di Maria Santissima
Il Suo Unico Vero Volto
Maria Santissima Nostra Signora di Guadalupe, La Perfetta


La perpetua verginità di Maria nella Signum Magnum di Paolo VI del 1967

Il documento approfondisce la maternità spirituale di Maria e gli altri aspetti del mistero mariano, compreso il culto che la Chiesa le presta e la sua perpetua verginità inquadrata nel servizio amoroso che la Vergine ha prestato al Figlio. Questa maternità verginale è da sempre una verità creduta e professata dalla Chiesa cattolica. Tra le testimonianze il papa cita:
Leone Magno (+461)
Sono citate sia la Lettera a Flaviano che la Lettera a Giulio vescovo. La Lettera a Flaviano è contro l'eresia di Eutiche e parla sia del concepimento che del parto in cui la verginità di Maria rimase prodigiosamente intatta. Il papa rimprovera ad Eutiche di ignorare le affermazioni della Scrittura e del simbolo di fede che recita: "..nato dallo Spirito Santo e da Maria Vergine". Il documento è un atto formale del Pontefice di Roma, inviato al IV Concilio di Calcedonia del 451 e da questo approvato e ritenuto un "simbolo di fede".
Ormida, papa (+523)
La sua lettera all'imperatore Giustiniano per favorire la pace e l'unità di Oriente ed Occidente, afferma anche che il Figlio di Dio nacque senza aprire il seno della madre e senza distruggere la sua verginità. Dio, nascendo, ha operato un concepimento senza seme e un parto senza corruzione.
Pelagio I, papa (+561)
Nella sua Epistola Humani generis ripropone quello che è stato già affermato sulla verginità di Maria. La "Professio fidei" del 556 di questo papa è ancora una nuova conferma della verginità corporale e permanente di Maria.
Canone III del Concilio Lateranense (649)
"Se qualcuno nega che la santa Genitrice di Dio e stata sempre vergine, secondo la dottrina dei santi Padri, e che il nato da Lei è stato concepito senza seme umano dallo Spirito Santo e che Maria rimase inviolata prima, durante e dopo il parto, sia condannato.
Concilio Toledano XVI (693)
Questo Concilio, convocato in seguito alla congiura ordita dal vescovo Sigisberto contro re Egida, redasse un "simbolo di fede" in cui chiaramente viene presentata la dottrina della maternità verginale di Maria: la Madre di Dio concepì vergine, partorì vergine e dopo il parto ottenne il pudore dell'incorruzione. Per questo crediamo che il Figlio di Dio è nato veramente da Maria Vergine.
I Santi Padri
Portano una testimonianza di ordine teologico: la verginità nel parto e dopo il parto conveniva a Colei che era stata innalzata alla dignità incomparabile della divina maternità.
Il papa adotta anche un "principio di convenienza" che non fonda il discorso della fede, come si faceva prima del Concilio, ma dimostra la liceità di un assunto teologico: era conveniente che Dio purezza assoluta, infinita, non fosse circondato che da un perenne alone di liliale purezza.

La Semprevergine Maria nella Professio Fidei di Paolo VI del 1968


Il 30 giugno 1968 Paolo VI pronunciò a nome di tutti i vescovi e i fedeli della Chiesa Cattolica la sua solenne "Professio Fidei" in qualità di pastore universale della Chiesa. Negli articoli 14 e 15 ripropone i temi della dottrina mariana e, sulla verginità di Maria afferma: "crediamo che la beata Maria, che semprevergine rimase, fu madre del Verbo Incarnato, il Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo". La formula che sembra stringata, non è in realtà nuova ma appartiene fin dal Sinodo di Milano del 393 alla tradizionale glossario mariologico della Chiesa. 
La "Professio Fidei" ha una grande importanza per questi motivi:
- Il papa rispose con la formula della "Professio Fidei" alle contestazioni e agli atteggiamenti anarchici e contestatari nei confronti del deposito della fede all'indomani del Concilio Ecumenico;
- Il papa diede alla "Professio Fidei" tutto il peso della sua autorità. Pur appartenendo al Magistero ordinario della Chiesa, fu espressa in maniera particolarmente solenne e impegnativa perché richiama tutte le verità che devono essere accettate come imprescindibili per chi vuole appartenere alla comunità cattolica.

La verginità di Maria nel discorso di Giovanni Paolo II a Capua del 1992


Il 24 maggio 1992, al termine delle giornate commemorative del Sinodo plenario di Capua del 392, il papa pronunciò questo discorso sulla verginità perpetua di Maria che si compone di 12 corpose proposizioni che approfondiscono sotto il profilo metodologico, ermenuetico, teologico e pastorale il dogma della verginità.
Metodologia ed ermeneutica del dogma
Il punto di partenza della verginità feconda di Maria è il mistero e l'evento del Verbo Incarnato. Tutti gli aspetti personalogico, biblico, antropologico, culturale, dogmatico di Maria, vanno fondati e compresi nel e con il mistero di Cristo - Dio. Anche la verginità di Maria è, prima di tutto, un tema cristologico. La domanda su di essa e la risposta hanno permesso e permettono di rispondere alla domanda riguardante l'identità umano - divina e la funzione messianico - soteriologica di Gesù. La verginità di Maria è un'esigenza scaturita dalla trascendente identità e dignità del Figlio di Dio. Essa è perciò un "dono" in funzione di Cristo che esprime l'iniziativa e la munificenza di Dio, un dono che Maria accetta e che le permetterà di dedicarsi esclusivamente a Cristo. Il papa esorta i teologi ad accostarsi a questo mistero con senso di venerazione essendo esso frutto dell'agire santo di Dio. In tutta la Tradizione il parto verginale è un evento storico - salvifico che suscita stupore, ammirazione e lode. L'atteggiamento pieno di fede del teologo non significa però la rinuncia ad approfondire i dati della rivelazione e di scoprire l'armonia che regna tra i vari dati. Scrutare ogni cosa, anche le profondità di Dio, fa parte della tradizione teologica cattolica.
Natale - Pasqua: un nesso intrinseco
Nel numero 5 il papa invita a considerare il nesso profondo, già intuito dai Padri, tra la generazione di Cristo "ex intacta virgine" e la sua resurrezione "ex intacto sepulcro". I Padri pur ammettendo accenti diversi sulla concezione verginale o sulla nascita verginale e sulla perpetua verginità di Maria, tutti concordi testimoniano però che esiste un nesso intrinseco tra i due eventi che corrispondono ad un preciso piano di Dio. L'approfondimento patristico e quello esegetico - scientifico ha anche evidenziato un ulteriore rapporto tra le "fasce del presepio" e le "bende del sepolcro", come dimostrano le autorevoli testimonianze di S. Efrem, Gregorio Nazianzeno , Massimo di Torino ed altri. Anche la Liturgia romana e quella mozambicana celebrano il Natale guardando sempre alla Pasqua e viceversa, riconoscendo in Maria la testimone eccezionale dell'identità tra i bambino nato dalla sua carne e il Crocifisso rinato dal sepolcro sigillato.
Fatto e significato dell'evento
Dal n. 6 al 9 il papa illustra il fatto e il significato della perpetua verginità di Maria, sollecitando i teologi a mantenere un indispensabile senso di equilibrio tra l'affermazione del fatto e l'illustrazione del suo significato che, non di rado, vengono stravolti o minimizzati nel loro spessore reale e simbolico. La Chiesa ribadisce con chiarezza:
- il concepimento verginale di Cristo da Maria;
- il parto vero e verginale di Maria quale veneto storico - salvifico per cui conservò l'integrità della sua carne;
- il permanere perpetuo e totale della sua verginità.
Il teologo ha il compito di:
- approfondire con rigore critico i dati e i contenuti del dato di fede;
- esporre in modo organico il messaggio e decifrare cosa Dio ha voluto dire attraverso la verginità di Maria;
- leggere la Tradizione e la Scrittura nelle sue espressioni dirette, implicite e simboliche, anche alla luce dell'interessante testimonianza ebraica che canta il desiderio e la speranza di Israele di divenire la sposa santa, pura e fedele di Jahwè, la comunità escatologica dove " non si ode più il lamento del dolore del parto, né i canti funebri della morte".
Presentazione integra e corretta
Nei numeri 10 e 11 il papa raccomanda ai teologi di presentare in maniera integra e corretta la dottrina sulla verginale maternità di Maria. Questo comporta:
- non svilire nei suoi contenuti e significati l'evento storico - salvifico della nascita verginale del Verbo che ha richiesto la verginità del cuore e quella della carne di Maria;
- evitare posizioni unilaterali, esagerazioni e distorsioni che inficiano i fatti, il contenuto e il simbolismo della perpetua verginità di Maria; 
- riconoscere che la dottrina espressa dalla Chiesa non è un dato marginale della fede, ma riguarda il mistero di Cristo e della Chiesa nella sua totalità.
Considerazioni finali sul discorso di Capua
I teologi hanno il compito di aiutare la cultura contemporanea a comprendere il valore evangelico insito nella verginità cristiana.. Approfittando del XVI centenario di Capua, il papa ha riproposto al popolo cristiano la dottrina cattolica sulla perpetua verginità di Maria con un discorso magisteriale importante dato che offre ai teologi spunti metodologici di ordine ermeneutico e teologico per l'approfondimento con la ragione illuminata dalla fede il significato della verginità di Maria.

IL PARTO VERGINALE DEL FIGLIO DI DIO NEL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA


Il Catechismo afferma che ciò che la fede cattolica crede riguardo a Maria, si fonda su ciò che essa crede riguardo a Cristo; quanto insegna su Maria, illumina a sua volta la sua fede in Cristo. Tutto l'insegnamento su Maria è basato sull'insegnamento costante della Chiesa, a partire dalla Bibbia, fino all'enciclica Redentoris Mater di Giovanni Paolo II del 1987. Il tema della verginità è proposto al Cap. II, pag. 2, con sobrietà: "concepito per opera dello Spirito Santo, nato dalla Vergine Maria", formula che, secondo il Catechismo, appartiene fin dalle prime formulazioni della fede alla confessione della Chiesa che ha anche affermato l'aspetto corporeo di tale avvenimento. L'approfondimento della fede nella maternità verginale ha condotto la Chiesa a professare la verginità reale e perpetua di Maria, anche nel parto del Figlio di Dio fatto uomo. La stessa liturgia della Chiesa celebra Maria come la Semprevergine. La maternità verginale, non è vista come un evento isolato, ma in connessione con le ragioni volute e attuate da Dio in Cristo per cui anche la verginità rientra nel progetto salvifico di Dio perché manifesta l'iniziativa assoluta di Dio, inaugura la nuova nascita dei figli di adozione nello Spirito, è segno della fede perfetta di Maria che pienamente si dona a Dio, è figura della perfetta realizzazione della Chiesa anch'essa vergine e Madre nel suo donare Cristo e mantenere integro e fecondo il deposito ricevuto dal Signore.

Conclusione


Il Magistero, partendo dalla Scrittura, ha progressivamente approfondito e confessato il mistero della maternità verginale di Maria, affermato fin dai primordi del Cristianesimo. La storia della Chiesa dimostra l'incessante difesa e riproposizione del "natus ex virgine". Ritenere Maria vergine e madre, è un'esigenza derivante dalla natura trascendente di Cristo e rimanda ad un dono e ad un disegno divino che deve essere accolto e accettato con senso di venerazione, stupore, ammirazione e lode


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L'incarnazione verginale nel dibattito teologico contemporaneo: tra le molteplici opinioni sottolineo quella del 

Sacerdote Teologo Ignace de la Potterie

E' uno dei più convinti assertori del concepimento e della nascita verginale di Cristo. Per prima cosa l'esegeta fiammingo contesta l'asserto di coloro che affermano essere l'assunto del parto verginale solo frutto dello sviluppo dogmatico della Chiesa. Secondo la sua esegesi minuziosa, non solo san Luca ma anche san Giovanni ritiene verginale il parto di Maria, mostrando quale sia il significato concreto dato dai due evangelisti all'evento nel contesto dell'incarnazione redentrice.



SAN LUCA 1,13


De la Potterie propone una nuova traduzione e interpretazione che è il recupero di un'esegesi patristica e dottrinale caduta in oblìo legata al termine "santo" riferito a Cristo, Figlio di Dio. Questa già antica interpretazione legge Luca così: "..ideoque et quod nascetur sanctum, vocabitur Filius Dei" e cioè: "ciò che nacserà (in modo) santo sarà chiamato Figlio di Dio". Quindi l'evangelista precisa così il modo di come avverrà questa nascita e questo è conseguenziale a quello che prima lo stesso evangelista aveva affermato e cioè la concezione verginale per opera dello Spirito Santo: alla santità della concezione, corrisponderà la santità della nascita; concezione verginale e parto verginale sono solo un unico effetto della venuta dello Spirito su Maria.



SAN GIOVANNI 1,13

Qui l'autore, collegando Giovanni a Luca traduce in questo modo il passo giovanneo del prologo: "non da sangui, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio (egli) è stato generato". Il plurale di "sangui" è da collegarsi alla legislazione mosaica sulla purificazione della donna al momento del parto o della mestruazione. 

La tradizione biblico - giudaica usava spesso il plurale "sangui" per affermare la perdita del siero biologico da parte della donna in queste circostanze. La negazione di Giovanni "non da sangui", starebbe perciò ad indicare non solo il concepimento, ma anche il parto verginale. 
Secondo l'autore il "non da sangui", dunque, indica, nel contesto della legge sulla purificazione, che Gesù nascendo, non ha causato effusioni di sangue in sua madre e quindi lei, non avendo avuto nessuna perdita di sangue, non si sarebbe dovuta sottoporre alla purificazione. 
Ci sarebbe qui un indizio scritturistico della verginità in partu di Maria
Con questo gli evangelisti hanno anche voluto insegnare che il nato da Maria è, attraverso l'incorrotta maternità della madre, il restauratore della incorruzione originale ed è di origine divina.





giovedì 4 febbraio 2016

La grande sorpresa di Giovanni (Gv 1,13)

La grande sorpresa di Giovanni

di Vittorio Messori
(Il Timone - Settembre 2012)
 
Ignace de la Potterie, biblista


Il padre Ignace de la Potterie  (Waregem24 giugno 1914 – Heverlee11 settembre 2003), gesuita, ebbe a lungo la cattedra di Nuovo Testamento giudicata (a ragione) la più importante nell’Istituto, a sua volta conisiderato (anche qui, a ragione) come il più autorevole della Chiesa per gli studi sulla Scrittura.

Parliamo del Pontificio Istituto Biblico, emanazione di quella Università Gregoriana il cui Rettore – a conferma della sua importanza- è nominato dal Papa stesso. Il “Biblico“, come viene abitualmente chiamato, fu fondato nel 1909 da san Pio X per rispondere, con le stesse armi di rigore scientifico, all’attacco alle basi stesse della fede portato dal cosiddetta “critica indipendente“. Quella, cioè, che sezionava i testi dell’Antico e soprattutto del Nuovo Testamento, concludendo – assai spesso – che non si trattava di storia bensì di miti, simboli, leggende e che il “Gesù della storia“, quello realmente vissuto, era un oscuro personaggio, dalla biografia incerta, che poco o nulla aveva a che fare con il “Cristo della fede“. Insomma, il Credo aveva basi abusive e storicamente insostenibili e il cristianesimo null’altro era che una tardiva costruzione nata tra ellenisti ed elementi marginali di un giudaismo oscuro.

Davanti a un simile assalto, la Chiesa si rese finalmente conto che non bastava indignarsi e lanciare invettive contro i “miscredenti“ ma che occorreva replicare con i medesimi strumenti, con la medesima erudizione. A questo si dedicò dunque il Pontificio Istituto, con buoni risultati che, innanzitutto, tolsero ai cattolici il timore che le fondamenta della loro fede non fossero più difendibili davanti alla Scienza (con la maiuscola, ovviamente, come volevano i professori delle università laiche) e tolsero loro il sospetto, magari inespresso ma tormentoso, che proprio l’incarnazione di Dio nella storia fosse improponibile secondo le rigorose categorie della storia moderna.

Il professor de la Potterie, morto pochi anni fa, fu parte eminente e del tutto degna della schiera degli studiosi che hanno illustrato il Biblico per oltre un secolo, avendo tra l’altro fra i docenti e poi tra i direttori un Carlo Maria Martini. Ovviamente coltissimo, padrone di molte lingue sia moderne che antiche, il padre Ignace mi onorava della sua amicizia e condivideva quanto cercavo di fare (ovviamente al mio livello di non specialista, seppure informato della materia quanto più mi era possibile) per trovare conferme della storicità dei vangeli. E quando, ormai molto anziano, si ritirò nel suo Belgio natale, ogni tanto mi sorprendeva con una telefonata che mi rallegrava e al contempo un poco mi rattristava. In effetti, si sfogava con me, disapprovando un certo “ modernismo” e “razionalismo“ che era entrato anche tra i biblisti cattolici, spesso per imitazione dei troppo venerati docenti delle facoltà teologiche protestanti che, in Germania , esistono ancora nelle università pubbliche.

Non potevo non dargli ragione anche perché l’ottimo padre Ignace era tutt’altro che un chiuso tradizionalista, era anzi a conoscenza di tutti i metodi e di tutte le teorie moderne, di cui accettava ciò che non tendeva a trasformare in mito o in simbolo il realismo storico dei vangeli. Professori per i quali nulla, nella Scrittura, andava preso così come sta scritto e le sole cose indiscutibili erano le loro note e le loro introduzioni “demitizzanti“.

Pur muovendosi con padronanza in tutta la Scrittura e in particolare nel Nuovo Testamento, de la Potterie era conosciuto soprattutto come il miglior conoscitore di Giovanni: il Vangelo, ovviamente, ma anche le tre lettere che gli sono attribuite. E proprio nel quarto evangelista aveva individuato, chiarito e messo in rilievo, con sicurezza sino ad allora mai raggiunta, un aspetto tanto importante quanto pochissimo conosciuto. E cioè, nientemeno che questo: nel celeberrimo Prologo (<< In principo era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio …. >>), Giovanni ci darebbe testimonianza esplicita e precisa della triplice verginità di Maria: prima, durante e dopo il parto. Lo stesso padre de La Potterie mi diceva, e scriveva nei suoi articoli, che tra i biblisti d’oggi (persino, purtroppo, in certe università cattoliche) si preferisce sorvolare su questo aspetto, pur così importante, della storia della redenzione. In alcuni ambienti, chi ancora parli con fede convinta della semper Virgo suscita diffidenza quasi fosse un “integrista“, oppure provoca ironia, come si addice a un vecchio retrogrado. E invece, ecco quel docente illustre di un illustre ateneo pontificio scrutare il “suo“ Giovanni e, proprio all’inizio del vangelo scoprire (o riscoprire, lo vedremo) che il testo era stato manipolato già in tempi antichi, nascondendo così la verità con un semplice passaggio di un verbo dal singolare al plurale.

Il professor de la Potterie aveva esposto la sua documentatissima tesi in due articoli di ben 50 pagine ciascuno su Marianum, la rivista dell’omonima facoltà teologica pontificia, già nel 1978 e aveva ripreso il discorso, arricchito da nuove ricerche, nel 1983. Quelle cento pagine, fitte di note e di citazioni in latino, in greco, in ebraico erano state molto lette dagli specialisti i quali, però, avevano scelto il silenzio.

Succede spesso, nel mondo dei biblisti: ciò che può mettere in discussione gli schemi e i pregiudizi egemoni del momento è rimosso, se non ne è possibile una stroncatura, vista (come in questo caso) la rigorosa serietà critica delle ricerca e l’autorevolezza dell’autore. 
Ricordo come in una delle sue ultime telefonate, il vecchio studioso si rammaricasse del silenzio attorno a un tema così importante. Mi parve che, in lui, vi fosse un inespresso ma esplicito, cortese invito ad aiutarlo a fare conoscere una simile scoperta, tanto rilevante per la fede stessa e tale da appoggiare con l’autorevolezza del quarto evangelista il dogma delle perenne verginità di Maria. 

Ebbene, con queste pagine, cercherò di aderire al desiderio del padre Ignace, dando notizia di quella ricerca di cui è stato l’efficace strumento ma che non riguarda certo lui e la sua carriera scientifica, bensì la fede di noi tutti. 
Qui darò, ovviamente, solo una sintesi divulgativa seppur (così almeno spero) corretta, vista l’attenzione con cui ho esaminato quel centinaio di pagine. Ma sarà bene che chi vuole approfondire vada ai due articoli di de la Potterie, magari facendoseli inviare via mail dalla stessa rivista (marianum@marianum.it): assicuro che ne vale la pena. Non si tratta qui di una sorta di curiosità ma di un modo per rafforzare, basandosi sulla Scrittura stessa, una verità su Maria che la Chiesa ha sempre creduto e proclamato.

Vediamo, dunque, come stiano le cose, riproducendo il breve versetto su cui tutto si basa. E’ il tredicesimo del primo capitolo, quel Prologo giovanneo cui sopra accennavamo e che diamo nell’ultima versione (quella del 2007) della Conferenza Episcopale Italiana. Ma per comprendere, dobbiamo prima riprodurre anche i due versetti precedenti, l’undicesimo e il dodicesimo: <<Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome>>. Seguono le righe su cui si è appuntata la ricerca del nostro studioso: <<I quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati>>.

Questa, dunque, la versione tradizionale e questa, invece, secondo il docente del Biblico, la versione autentica: <<Non da sangui, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio egli (Gesù) è stato generato>>.

Come si vede, il verbo “generare“ è al singolare e non al plurale come nella versione delle nostre edizioni della Scrittura. In effetti, il soggetto è uno solo: Gesù. Mentre nella versione tradizionale, è al plurale, il soggetto essendo <<quelli che credono nel suo nome>>. Dunque, per ripeterci ma per maggior chiarezza, in questo punto decisivo: messo al singolare, il versetto parla della generazione divina del Cristo; messo al plurale parla della trasformazione dei credenti in lui. 
Da notare subito, anche, che – in tutti i manoscritti antichi che abbiamo – “sangue“, in greco, è al plurale ma, mentre nella Vulgata latina il plurale è stato rispettato (ex sanguinibus), in italiano è stato sempre tradotto al singolare. Eppure (si controlli anche su dizionari classici come quello del Tommaseo), “sangui “ in italiano è raro ma esiste ed è impiegato anche da buoni autori. Se nelle traduzioni italiane non lo si è usato e non lo si usa tuttora, non è (come molti hanno detto) perché “sangui“ non c’è nella nostra lingua, ma perché non si è compreso quale fosse la sua importanza nel pensiero di Giovanni. Come vedremo.

La prima domanda da fare è questa: i documenti antichi che abbiamo del Nuovo Testamento, autorizzano a usare la terza persona singolare del verbo “generare “ (attribuendola a Gesù) invece della terza persona plurale, attribuendola ai cristiani?

Va subito detto: tutti, o quasi, i manoscritti greci hanno il plurale. Ma i più antichi di essi risalgono solo al quarto secolo, se si escludono dei frammenti casuali su papiro. E, invece, abbiamo testi di scrittori cristiani e poi di padri della Chiesa, risalenti al secondo secolo, che citano questo versetto al singolare. Per risalire ai più antichi, Sant’Ireneo di Leone, verso il 190, usa il singolare. Addirittura, il sempre polemico Tertulliano, attorno all’anno 200 , imbastisce una disputa proprio attorno a questo brano e accusa una setta di eretici di avere falsificato le parole di Giovanni, mettendole- appunto- al plurale. Cioè, quello che è entrato nel testo ufficiale del Vangelo e che ancora usano le nostre edizioni attuali. Oltre al latino, abbiamo la testimonianza del singolare nei testi più antichi in siriaco, in copto, in etiope.

Va precisato per coloro che non hanno familiarità con la critica biblica: la ricostruzione del testo originale della Scrittura condotta solo sui documenti superstiti è detta “critica esterna“. Ma questa va completata (tutti gli studiosi moderni concordano) con la “critica interna“, che scende più in profondo e che, in questo nostro caso, porta a preferire un “è stato generato“ piuttosto che un “sono stati generati“.

Insomma, la situazione è tale che padre de la Potterie poteva scrivere, già nel 1978 e poi ribadire nel 1983, nel suo secondo articolo-saggio, che proprio la ricerca non solo sugli antichi manoscritti evangelici ma anche sulle citazioni dei primissimi autori cristiani, sembra rendere necessario tornare al <<da Dio è stato generato >> , avendo per soggetto Gesù. 
Rileggiamoci il versetto in quella che sembra essere davvero la versione originaria finalmente restaurata secondo le intenzioni dell’evangelista e ci renderemo subito conto (come vedremo ancor meglio qui sotto) che qui abbiamo una testimonianza preziosissima sulla triplice verginità di Maria. Eravamo convinti che Giovanni si riferisse a quella che non chiama mai col suo nome, ma con quello di “madre di Gesù”, soltanto per l’episodio di Cana e per la presenza ai piedi della croce: ecco invece riemergere una terza testimonianza mariana, di importanza davvero primaria.

Chiediamoci ora: perché già prima del IV secolo è sparito il riferimento all’origine divina di Gesù e nei testi evangelici si è imposto quel plurale che è giunto sino a noi e che, a ben guardare, inserisce una sorta di corpo estraneo? In effetti, tutto il prologo di Giovanni è un inno solenne alla incarnazione del Verbo ed ecco apparire a sorpresa e in modo che non sembra giustificato <<quelli che credono nel suo nome>>, cioè i membri della Chiesa. E in che modo, poi, questi battezzati, uomini concreti in carne ed ossa e non eterei angeli, sarebbero stati generati <<non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomini >>?

Sembra che sia avvenuto questo: nella Chiesa primitiva infieriva la setta detta dei “doceti“, i quali negavano la natura umana di Gesù e di conseguenza, il suo concepimento da parte di Maria . Questa sarebbe stata non la madre che ha per nove mesi la creatura nel ventre, ma una sorta di tubo dell'acqua attraverso il quale il Cristo – la cui immagine umana era soltanto apparente - sarebbe passato. 

Il docetismo (il cui “spiritualismo” era particolarmente pericoloso, rendendo Gesù non una persona, ma una sorta di superarcangelo) si appoggiava proprio sul versetto 13 del prologo che stiamo esaminando: il Cristo era venuto tra noi non solo in modo verginale, come attestato dal <<né da volere di carne>> e dal <<né da volere di uomo>>. Ma, soprattutto, la tesi doceta sarebbe provata da quel <<nec ex sanguinibus>>. 

Ma che cosa sono quei “sangui“ ? Come dicevo sopra, che questo plurale faccia parte del testo originale non c’è alcuna discussione, tutte le testimonianze lo riportano, sia quelle in cui Gesù è il soggetto, sia quelle in cui soggetto sono i suoi discepoli. Ma se (come Giovanni doveva avere scritto nel suo prologo) soggetto era il Messia, questa espressione poteva essere utilizzata facilmente dal docetismo: se Egli non era stato “generato da sangui“, era perché non aveva un corpo come ogni altra persona umana, non c’era stato un parto, sempre accompagnato da effusione di sangue da parte della donna. 

Dunque, per citare testualmente il nostro padre de la Potterie, <<per risolvere radicalmente la questione e togliere agli eretici un’arma, probabilmente all’inizio del III secolo, gli scrittori ecclesiastici cominciarono a cambiare il verbo al plurale, spostando il tutto sui cristiani ma interrompendo così, tra l’altro, l’unità del Prologo giovanneo, tutto incentrato sul mistero del Logos fattosi carne>>. 
Il “ritocco“ ecclesiale finì per coinvolgere anche l’originale del Vangelo ed è giunto sino a noi.

Ma riflettiamo soprattutto su quel “sangui“, facendoci aiutare dalla sintesi del padre Domenico Marcucci, uno dei pochi studiosi che ha avuto il coraggio di rompere il conformismo dei colleghi, prendendo radicalmente sul serio lo studio del biblista della Gregoriana: <<Nei testi greci, aima, sangue, si trova solo al singolare. Ma Giovanni usa il plurale. Perché? Per capire, de la Potterie si è rivolto all’ebraico, visto che il quarto evangelista è intriso profondamente della sua cultura, quella giudaica.

Nell’Antico Testamento in ebraico, la parola “sangui“ (damim) sta a significare il sangue versato dalla donna durante le mestruazioni e durante il parto. Esso la rendeva impura, per cui doveva recarsi al tempio per la purificazione>>. Dunque: <<Il “non da sangui“ sta a significare che la nascita di Gesù è avvenuta, a differenza di ogni altra, senza l’effusione del sangue, dunque verginalmente >>.

Proviamo a rivedere il versetto 13 nella versione che sarebbe quella originale e vediamone le conseguenze: Gesù <<è stato generato da Dio>> e, dunque, <<non da volere di carne, né da volere di uomo>> (virginitas ante partum). Inoltre, il parto si svolse <<non da sangui>>, dunque senza le consuete lesioni corporali, il che sottintende sia la virginitas in partu che quella post partum, non avendo il passaggio del corpo del figlio provocato sanguinamenti e avendo dunque lasciata intatta la madre. Come si vede, un risultato di straordinaria importanza: e questo, soltanto rimettendo al singolare un verbo, come pare proprio fosse nelle intenzioni di Giovanni. 
Questi, tra l’altro, chiarisce subito che ciò non mette in discussione la materialità corporea, la realtà umana di Gesù. E, in effetti, il prologo prosegue con le parole: <<E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi…>>. Sta di fatto che, come nota giustamente de la Potterie, se i primi Padri della Chiesa trovavano già in Matteo e in Luca elementi per la concezione verginale, è proprio nel primo capitolo di Giovanni che trovavano non solo conferma ad essa, ma anche un riferimento diretto a un dare alla luce verginale, senza perdite che l’ebraismo considerava impure come quelle di tutte le partorienti.

Ora: perché tanta noncuranza, tanto silenzio su questa riscoperta del possibile, preciso fondamento scritturale di una verità come la semper Virgo, già presente nella Tradizione cristiana nel secondo secolo e divenuta poi dogmatica nella Chiesa? 

Un punto di fede considerato così importante che, in Oriente, tra le rigide regole date agli iconografi vi è quella di non rappresentare mai la Theotokos senza tre stelle - una sul capo e due sulle spalle –a segno della triplice verginità. 

Il padre Ignace non aveva torto nel denunciare il conformismo di tanti suoi colleghi, per i quali un simile tema è fonte di imbarazzo, tanto che, come dice padre Marcucci : <<In molti manuali di mariologia usati nei seminari cattolici, la verginità ante, in, post è oggetto di silenzi imbarazzati più che di seria trattazione>>. Ma, attenzione! In uno dei suoi ultimi libri, il padre Stefano De Fiores – forse il nostro (più recente) maggior mariologo, purtroppo scomparso da poco, docente anche alla Gregoriana– citava gli studi di la Potterie e ne accettava con convinzione i risultati, giudicandoli fondati non solo sui documenti ma anche sulla dinamica di Giovanni. Un riconoscimento davvero importante.

Ma l’ultimo studio in proposito del docente della Gregoriana è, come dicevo, del 1983. Perché la traduzione della Bibbia, rivista e aggiornata della CEI e che è di 24 anni dopo, non segnala almeno in nota a Gv 1,13 la possibilità, che sembra avvicinarsi alla certezza, che il testo primitivo avesse Gesù e non il suo popolo come soggetto? 
[In verità P. Marco Sales commentando nel 1914 questo versetto 1,13 di san Giovanni nota: "Alcuni antichi Padri e parecchi critici moderni, leggono questo versetto al singolare e lo applicano interamente alla concezione verginale di Gesù: Che credono nel nome di lui che non per via di sangue, ecc., ma da Dio è nato. V. Durand. L'Enfance de Jésus, p. 106 e Calmes. - Ed anche gli esegeti recenti (1950): Mollat, F.M.Braun, MèlG, Boismard, Martìn Nieto - NDR].

Una cosa, comunque è confermata per l’ennesima volta: la Scrittura è ancora in grado di riservarci sorprese, alcune delle quali –come nel caso di cui parliamo– riguardano quella Madre di Dio il cui mistero è al contempo discreto e inesauribile.



giovedì 2 ottobre 2014

FONDAMENTO BIBLICO DEL CELIBATO SACERDOTALE.


IL FONDAMENTO BIBLICO DEL CELIBATO SACERDOTALE.
di Ignace de la Potterie S. I.

 Da diversi secoli viene discussa la questione se l'obbligo del celibato per i chierici degli Ordini maggiori (o almeno quello di vivere nella continenza per quanti erano sposati) sia di origine biblica oppure risalga soltanto a una tradizione ec­clesiastica, dal IV secolo in poi, perché fin da quel periodo, indubbiamente, esiste al riguardo una legislazione irrecusabile. La prima soluzione è stata recentemente presentata di nuovo con una straordinaria dovizia di materiali da C. Cochini: “Origini apostoliche del celibato sacerdotale”[1]. La posizione dell'autore, chiaramente espressa nel titolo, sembra che si possa e si debba mantenere, purché si tenga atten­tamente conto con lui, meglio forse che nel passato, della crescita della tradizione antica, punto sul quale hanno insistito anche A. M. Stickler nella sua prefazione[2] e H. Crouzel in una recensione[3]; in altri termini, si deve dire che l'obbligodella continenza (o del celibato) è diventato legge canonica soltanto nel IV secolo, ma che anteriormente, fin dal tempo apostolico, veniva già proposto ai ministri della Chiesa l'ideale di vivere nella continenza (o nel celibato); e che quell'ideale era già profondamente sentito e vissuto come una esigenza da parecchi (per esempio Tertulliano e Origene), ma che non era ancora imposto a tutti i chierici degli Ordini maggiori: era un principio vitale, una semente, chiaramente presente fin dal tempo degli apostoli, ma che doveva poi progressivamente svilupparsi fino alla legislazione ecclesiastica del IV secolo[4].


In questa medesima linea sembra orientarsi anche il recente Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1579), il quale, pru­dentemente, non menziona nemmeno la legge canonica del celibato, che pur esiste sempre nel diritto attuale della Chie­sa (CIC 277, § 1), ma indica soltanto le sue motivazioni bibliche: però, anche qui, non rimanda più (come spesso nel passato) all'Antico Testamento, cita solo due passi del Nuo­vo Testamento: quello di Mt 19,12, sul celibato “ per il Re­gno dei cieli ”, poi il testo paolino di 1 Cor 7,32, dove si parla di coloro che sono “chiamati a consacrarsi con cuore indivi­so al Signore e alle "sue cose" ”; e si aggiunge infine che, “abbracciato con cuore gioioso, esso (il celibato) annuncia in modo radioso il Regno di Dio”. Certo, si potrebbero an­cora citare qui altri passi del Nuovo Testamento a cui riman­dava, per esempio, Paolo VI nella sua Enciclica Sacerdotalis coelibatus (nn. 17‑35), per indicare le ragioni del sacro celi­bato (il suo significato cristologico, ecclesiologico ed escato­logico). Ma il problema è che questi diversi testi descrivono, come un ideale tipicamente cristiano, il valore teologico e spi­rituale del celibato in genere; questo ideale, però, vale anche per i religiosi e per le persone consacrate nel mondo; non in­dicano una connessione speciale con i ministeri nella Chiesa.

La domanda precisa che si pone quindi è questa: esistono nella Sacra Scrittura dei testi che indichino un nesso specifico tra celibato e sacerdozio? Sembra di sì. Ma si dovrebbero a que­sto scopo meglio valutare certi passi neotestamentari che stra­namente non vengono quasi più presi in considerazione nelle discussioni recenti: sono i testi in cui viene proposta la norma paolina (molto controversa, è vero) dell'“ unius uxoris vir ”[5],  per l'analisi dellaquale anche C. Cochini ha portato recen­temente materiali nuovi. Questo principio, enunciato più volte nelle Lettere Pastorali, ha nel nostro caso un'importanza unica per due ragioni. La prima é, come hanno mostrato bene tan­to A. M. Stickler[6] quanto C. Cochini[7], che la clausola è una delle formule principali sulle quali si basava la Tradizione an­tica per rivendicare proprio l'origine apostolica della legge del celibato sacerdotale.Questo però era senza dubbio un enorme paradosso: come è possibile fondare il celibatodei sacerdoti partendo da testi che parlano di ministri sposati? Un tale ragionamento può avere qualche senso soltanto se si trova tra i due estremi (il matrimonio dei ministri e il celi­bato) un termine medio: è quello della continenza a cui si ob­bligavano proprio i ministrisposati. E probabilmente per­ché questo valore di mediazione della continenza non è stato più capito in seguito, che in tempi recenti la formula “ unius uxoris vir ” non è più stata usata nelle discussioni sul celiba­to. E’ molto opportuno oggi riesaminare attentamente quel­l'argomento tradizionale. L'altra ragione per cui questi testi sono specialmente importanti dal punto di vista strettamen­te biblico sta nel fatto che sono gli unici passi del Nuovo Te­stamento in cui viene emanata una norma identica per i tre gruppi dei ministri ordinati, e solo per loro: infatti, secondo le Lettere Pastorali, deve essere “ unius uxoris vir” sia l'epi­scopo (1 Tm 3,2), sia il presbitero (Tt 1,6), sia il diacono (1 Tm 3,12), mentre quella formula (tecnica a quanto sembra) non viene mai adoperata per gli altri cristiani. C'è qui dunque una esigenza specifica per l'esercizio del sacerdozio ministeriale in quanto tale. D'altra parte, si deve osservare anche che la formula complementare “ unius viri uxor”(1Tm 5,9) viene usata soltanto per una vedova di almeno sessant'anni, ossia, non per una cristiana qualsiasi, ma per una donna anziana che esercitava anch'essa un ministero nella comunità (pos­siamo paragonarlo a quello delle diaconesse nella tradizione antica). Il carattere stereotipato di questa formula delle Pa­storali fa sospettare che doveva essere già radicata in una lunga tradizione biblica [8].
Che cosa significa dunque il fatto che il ministro della Chie­sa doveva essere “l'uomo di una sola donna”?
Nelle pagine seguenti vorremmo mostrare innanzi tutto che la formula “unius uxoris vir” fin dal IV secolo era intesa, come lo spiega bene A. M. Stickler, “ (nel) senso di un argo­mento biblico in favore del celibato d'ispirazione apostoli­ca: si interpretava infatti la norma paolina nel senso di una garanzia che permetteva di assicurare l'osservanza effettiva dellacontinenza presso i ministri sposati prima della loro or­dinazione”[9]. Nella seconda parte faremo un passo in avan­ti: proporremo un approfondimento teologico della clausola paolina stessa, per mostrare che, già al livello del Nuovo Testamento, essa propone infatti, per il sacerdozio ministe­riale, il modello del rapporto sponsale tra Cristo‑Sposo e Chiesa‑Sposa, sulla base della mistica del matrimonio di cui Paolo parla più volte nelle sue lettere (cfr. 2Cor 11,2; Ef 5,22‑32)[10]; partendo da lì, apparirà abbastanza chiaro che, per i ministri sposati, la loro ordinazione implicava l'invito a vivere in seguito nella continenza.

La clausola “unius uxoris vir”: un argomento della tradizione antica per l'origine apostolica del celibato‑continenza

a)    La legislazione ecclesiastica a partire dal IV secolo

C’è un accordo generale tra gli studiosi per dire che l'ob­bligo del celibato o almeno della continenza è diventato legge canonica fin dal IV secolo. Ripetutamente vengono citati qui diversi testi inconfutabilitre decretali pontificie attorno al 385 (“ Decreta” e “ Cum in unum ” del papa Siricio, “ Do­minus inter” di Siricio o di Damaso) e un canone del conci­lio di Cartagine del 390[11].

Ma è importante osservare che i legislatori del IV o V se­colo affermavano che questa disposizione canonica era fon­data su una tradizione apostolica. Diceva per esempio il con­cilio di Cartagine: conviene che quelli che sono al servizio dei divini sacramenti sianoperfettamente continenti (conti­nentes esse in omnibus), “ affinché ciò che hanno insegnato gli apostoli e ha mantenuto l'antichità stessa, lo osserviamo anche noi”[12]. Fu poi votato all'unanimità il decreto stesso sull'obbligo della continenza: “Piace a tutti che il vescovo, il presbitero e il diacono, custodi della purezza, si astengano dall'unione coniugale con le loro spose (ab uxoribus se ab­stineant), affinché venga custodita la purezza perfetta di co­loro che servono all'altare”. Non viene esplicitamente citato qui l'“ unius uxoris vir ” paolino; ma il riferimento a quella clausola è implicito, perché vengono menzionati, come nelle Pastorali, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Del resto, la cita­zione di 1Tm 3,2 è perfettamente esplicita in un testo un po' anteriore, la decretale “Cum in unum” di Siricio stesso, che presentava le norme del concilio di Roma del 386; qui, il pa­pa formula prima una obiezione: l'espressione “unius uxo­ris vir” di 1Tm 3,2, dicevano alcuni, esprimerebbe per il ve­scovo proprio il diritto di usare del matrimonio dopo l'ordi­nazione sacra; Siricio risponde presentando la propria inter­pretazione della clausola: “Egli (Paolo) non ha parlato di un uomo che persisterebbenel desiderio di generare (non per­manentem in desiderio generandi dixit); ha parlato in vista della continenza che avrebbero da osservare in futuro (prop­ter continentiam futuram)”. Questo testo fondamentale è stato ripetuto diverse volte in seguito[13]; viene commentato co­si da C. Cochini: “ La monogamia, [ossia la legge dell`unius uxoris vir] è una condizione per accedere agli Ordini, per­ché la fedeltà [finora osservata] a una sola donna è la garan­zia per verificare che il candidato sarà capace [in futuro] di praticare la continenza perfetta che verrà chiesta da lui dopo l'ordinazione”[14]. E l'autore prosegue: “Questa esegesi del­le prescrizioni di san Paolo a Timoteo e a Tito è un anello essenziale col quale i vescovi del sinodo romano del 386 e il papa Siricio si situano in continuità con l'età “ apostolica”.
Ma questa esegesi, per la quale si rivendicava una tradi­zione apostolica, è veramente fondata? Non senza ragione alcuni lo mettono in dubbio[15]. Infatti si devono porre qui al­cune domande: non è un po' strano scoprire nel comporta­ mento passato del ministro sposato (cioè la sua fedeltà a una sola donna, anche nei rapporti sessuali) una sufficiente ga­ranzia per il suo comportamento futuro, ma diverso (ossia la continenza nelle relazioni coniugali con quella medesima donna, la sua legittima sposa?) I legislatori vedevano nel pas­sato una garanzia per il futuro, ma stavano operando allo stesso tempo un cambiamento di registro: dall'uso (legitti­mo) del matrimonio alla rinuncia a quello. Per legittimare quel doppio passaggio, dal passato al futuro e dai rapporti sessuali alla continenza coniugale, ci vuole un tertium quid che lo spieghi: una tale legittimazione sarà possibile soltanto se si presenta di questa formula stessa un'interpretazione che ne faccia vedere forse qualche aspetto nascosto che finora non si era visto. E’ ciò che cercheremo di fare nella seconda parte.

Ma vorremmo prima esaminare brevemente se non ci so­no, nella storia dell'esegesi e della legislazione canonica, de­gli elementi che aiutino a comprendere più profondamente la clausola paolina.

b) Motivazioni teologiche della continenza
e del celibato dei sacerdoti

Dal tempo dei Padri fino a oggi ci troviamo confrontati con due interpretazioni diverse della formula paolina: per gli uni, la norma “unius uxoris vir ” proibisce la poligamia suc­cessiva;per gli altri, soltanto la poligamia simultanea[16].

La prima soluzione è senz'altro la più tradizionale: l'espressione significa allora che i ministri sacri potevano, sì, essere uomini sposati. ma una volta soltanto; e se la moglie era mor­ta. non potevano aver fatto un secondo matrimonio e non potevano risposarsi. Oggi ancora, questa interpretazione è la più comune tra gli esegeti cattolici. Secondo l'altra solu­zione, invece, “ unius uxoris vir ” significa soltanto l'interdi­zione di vivere contemporaneamente con diverse donne: sa­rebbe semplicemente la raccomandazione di osservare la mo­rale coniugale.
Ma nessuna delle due soluzioni è pienamente soddisfacen­te. Alla prima si obietta: se l'unione in cui viveva finora il ministro sposato era onesta, perché non avrebbe potuto es­serlo un secondo matrimonio, dopo la morte della consorte? E' tanto più vero che l'Apostolo stesso da una parte richiede­va che la vedova anziana che serviva la comunità fosse stata “unius viri uxor” (1Tm 5,9), dall'altra consigliava alle gio­vani di risposarsi (1Tm 5,14).Ma l'altra soluzione fa ugual­mente difficoltà.: la fedeltà coniugale nella vita matrimonia­le è certamente richiesta da tutti i cristiani. Per quale motivo allora l'espressione “ unius uxoris vir ” (e analogamente “ unius viri uxor ”) viene usata unicamente per coloro che esercitano un ministero nella comunità?

Aggiungiamo che la seconda interpretazione non va oltre il semplice livello della morale generale: applicata ai ministri della Chiesa ha qualcosa di banale, di riduttivo. La prima ‑ l'interdizione di un secondo matrimonio ‑ è piuttosto di carattere disciplinare e canonico, ma non viene indicato il suo fondamento teologico. La stessa lacuna, del resto, si notava già per la legislazione canonica del secolo IV: papa Siricio e tanti altri dopo di lui leggevano nella clausola paolina l'ob­bligo alla continenza per il clero sposato. Davano, è vero, un argomento: la purezza richiesta per avvicinarsi all'altare. Ma bisogna riconoscere che di quello non si parla affatto nel testo delle Pastorali.

Alla fine della sua indagine storica, anche A. M. Stickler riconosceva che, in tutto questo problema del celibato sacer­dotale, si era rimasti troppo al livello giuridico[17]; in quella lunga storia é mancata la riflessione teologica sul senso pro­fondo del sacerdozio ministeriale, sulla motivazione del suo celibato e sul suo valore spirituale. Questo è particolarmente vero per l'uso canonico che si faceva della norma “ unius uxoris vir”, dal secolo IV in poi. Bisogna quindi cercare, nella tradizione patristica e canonica stessa, se venivano date tal­volta delle motivazioni teologiche, per fondare sulla clauso­la paolina l'obbligo disciplinare della continenza del clero.

Tre testimonianze sono qui significative.
In primo luogo quella di Tertulliano, all'inizio del III secolo. Egli ricorda che la monogamianon è solo una disciplina ecclesiastica, ma an­che un precetto dell'Apostolo[18]. Risale quindi al tempo apo­stolico. D'altra parte, insiste sul fatto che parecchi credenti, nella Chiesa, non sono sposati, vivono nella continenza, e che diversi di loro appartengono agli “ Ordini, ecclesiasti­ci ”[19]; ora, gli uomini e le donne che vivono così, prosegue Tertulliano, “ hanno preferito sposare Dio ” (Deo nubere ma­luerunt)[20]a proposito delle vergini, egli precisa che sono “ spose di Cristo”[21]. Ma quale legame c'è tra il matrimonio monogamicoda una parte e la continenza dall'altra? Tertul­liano non lo dice, ma porta qui l'esempio di Cristo che, se­condo la carne, non era sposato, viveva da celibe (non era quindi “un uomo di una sola donna”); però, nello spirito, “ aveva una sola sposa, la Chiesa ” (unam habens ecclesiam sponsam)[22]. Questa dottrina delle nozze spirituali di Cristo con la Chiesa, ispirata qui dal testo paolino di Ef 5,25‑32, era comune nel cristianesimo antico; Tertulliano vedeva in quelle nozze spirituali uno dei principali fondamenti teolo­gici della legge del matrimonio monogamico: “ perché uno è" il Cristo e una la sua Chiesa ” (unus enim Christus et una eius ecclesia)[23].Non risulta però che Tertulliano abbia già connesso questa dottrina con le formule “unius uxoris vir” o “unius viri uxor” delle Lettere Pastorali, dove si parla espli­citamente del matrimonio monogamico; è quella connessio­ne dei due temi che noi invece cercheremo di stabilire più avan­ti. Del resto, il ragionamento di Tertulliano, nell'ultimo te­sto citato, non era veramente fondato: il problema di Ef 5,25‑32 non era quello del matrimonio monogamico: era, in genere, il problema del rapporto di ogni matrimonio cristia­no con l'Alleanza; Paolo parla li di tutti gli sposi nella Chie­sa; quando l'Apostolo, con un riferimento a Gn 2,24, dice che l'uomo e la donna “ saranno una sola carne ” (v. 31), egli legittima per loro l'uso del matrimonio[24]; la formula “ unius uxoris vir ” delle Lettere Pastorali, invece, non viene usata per tutti gli sposi, ma unicamente per i ministri della Chiesa (questo fatto è stato troppo poco osservato); anzi, in seguito verrà considerata come la base biblica della legge della continenza per i chierici. Questo è il punto che rimane da chiarire.

Con sant'Agostino facciamo un passo avanti. Egli, che ave­va preso parte ai lavori dei sinodi africani, conosceva certa­mente la legge ecclesiastica della “continenza dei chierici”[25]. Ma come Agostino spiega allora la clausola “unius uxoris vir ” che viene usata da Paolo per i chierici sposati? Nel De bono coniugali (verso il 420) egli ne propone una spiegazio­ne teologica, e si domanda perché la poligamia era accettata nell'Antico Testamento, mentre “nel nostro tempo, il sacra­mento è stato ridotto all'unione fra un solo uomo una sola donna; e di conseguenza non è lecito ordinare ministro della Chiesa (Ecclesiae dispensatorem) se non un uomo che abbia avuto una sola moglie (unius uxoris virum) ”; ed ecco la ri­sposta di Agostino: “Come le numerose mogli (plures uxo­res) degli antichi Padri simboleggiavano le nostre future chiese di tutte le genti soggette all'unico uomo Cristo (uni viro sub­ditas Christo), così la guida dei fedeli (noster antistes, il no­stro vescovo) che è l'uomo di una sola donna (unius uxoris­ vir) significa l'unità di tutte le genti soggette all'unico uomo Cristo (uni viro subditam. Christo)”[26]. In questo testo, do­ve troviamo la formula “unius uxoris vir” applicata al ve­scovo. Tutto l'accento cade sul fatto che lui, “l'uomo ”, nel­le relazioni con la sua “donna”, simboleggia il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Un uso analogo dei termini uomo e don­na si trova in un passo del De continentia:“L'Apostolo ci invita a osservare per così dire tre coppie (copulas): Cristo e la Chiesa, ilmarito e la moglie, lo spirito e la carne”[27]. Il suggerimento fornitoci da questi testi per l'interpretazione del­la clausola “unius uxoris vir” applicata al ministro (sposa­to) del sacramento è che egli, come ministro, non rappresenta soltanto la seconda coppia (il marito e la moglie), ma an­che la prima: egli impersona ormai Cristo nel suo rapporto sponsale con la Chiesa. Abbiamo qui il fondamento della dot­trina che diventerà classica: “ Sacerdos alter Christus ”. Il sa­cerdote, come Cristo, è lo sposo della Chiesa.

Un'ultima parola ancora sulla legislazione canonica del Me­dioevo. Diverse volte, nei libri penitenziali, si dice che, per un chierico sposato, avere ancora, dopo l'ordinazione, dei rapporti coniugali con la propria moglie, rappresenterebbe un'infedeltà alla promessa fatta a Dio; anzi, sarebbe un adul­terium, perché, essendo quel ministro ormai sposo della Chie­sa, il suo rapporto con la propria sposa “ appare come una violazione di un legame matrimoniale”[28]. Questa pesante ac­cusa a un uomo legittimamente sposato e onesto può soltan­to avere senso se si sottintende, come una cosa risaputa, che il ministro sacro, dal momento della sua ordinazione, vive ormai in un altro rapporto, anch'esso di tipo sponsale, quel­lo che unisce Cristo e la Chiesa, nel quale egli, il ministro, l'uomo (vir), rappresenta Cristo‑Sposo; con la propria spo­sa (uxor), quindi, “ l'unione. carnale deve (ormai) diventare spirituale ”, come diceva san Leone Magno[29].
Con queste diverse premesse storiche e teologiche, abbia­mo raccolto abbastanza materiale per affrontare il proble­ma esegetico, cioè per fare un'analisi precisa della formula stessa “unius uxoris vir” delle Lettere Pastorali.

“Unius uxoris vir”: una formula di Alleanza

Abbiamo visto precedentemente che, delle due interpreta­zioni tradizionali della clausola, l'una (la più diffusa) era di tipo disciplinare, l'altra esclusivamente morale. Ma non ve­niva quasi mai indicato perché un ministro della Chiesa doveva essere “l'uomo di una sola donna”.Vorremmo mostrare adesso che la ragione di questa norma, il suo senso profondo e le sue implicazioni sono già presenti nel testo stesso, s si riesce ad analizzarlo bene. Bisogna anzitutto chiarire il problema della provenienza di questa formula misteriosa, il cui carattere fisso, tecnico, stereotipato, è innegabile. Diciamo lo subito: la clausola è in realtà una formula di Alleanza Questo diventa chiaro quando si tiene presente il parallelismo tra la formula delle Lettere Pastorali con il passo di 2Cor 11,2, dove Paolo presenta la Chiesa di Corinto come una donna, come una sposa, che egli ha presentato a Cristo come una vergine casta:
“ Io sono geloso di voi della gelosia di Dio, perché vi ho fidanzati ad un solo uomo (uni viro), per presentarvi a Cristo come una vergine pura”.
Il contesto di questo brano è specialmente chiaro se connesso con 1Tm 5,9; la stessa formula “unus vir” viene usata per parlare dei rapporti sia della Chiesa, con Cristo, sia di quelli della vedova che ha avuto un solo uomo e che svolge un ministero nella comunità. In 2Cor 11,2, la sposa di Cri­sto e la Chiesa stessa.
Rileggiamo più attentamente il testo.
La gelosia di cui parla Paolo è una partecipazione alla “ge­losia ” di Dio per il suo popolo[30]: è lo zelo da cui è divorato l'Apostolo affinché i suoi cristiani rimangano fedeli all'Al­leanza fatta con Cristo, che è il loro vero e unico Sposo. Un altro dettaglio conferma questa lettura: la Chiesa‑Sposa vie­ne paradossalmente presentata a Cristo‑Sposo come “una ver­gine pura”; è un rimando alla Figlia di Síon, talvolta chia­mata dai profeti “vergine Sion”, “vergine Israele”[31], spe­cialmente quando viene invitata, dopo le infedeltà del passa­to, a essere di nuovo fedele all'Alleanza, al suo rapporto spon­sale con il suo unico Sposo.
L'altro passo decisivo del Nuovo Testamento è il testo classico di Ef 5,22‑33: l'uomo e la donna, uniti in matrimonio, sono l'immagine di Cristo e della Chiesa; ora il Cristo, lo Spo­so, ha offerto se stesso per la Chiesa, al fine di farsene una sposa gloriosa, santa e immacolata (cfr. vv. 26‑27).
Ma il fatto che l'espressione “ unius uxoris vir ” non venga usata qui nella lettera agli Efesini per tutti gli sposi cristiani, e sia riservata nelle Pastorali al ministro sposato, mostra che la formula fa direttamente riferimento al ministero sacerdo­tale e al rapporto Cristo‑Chiesa: il ministro deve essere co­me Cristo‑Sposo.
Sottolineiamo un’altra conseguenza importante del colle­gamento tra “unius uxoris vir” (o “unius viri uxor”) delle Pastorali con il passo di 2Cor 11,2: è il fatto che la Chiesa­-Sposa è chiamata “vergine pura”. L'amore sponsale tra il Cristo‑Sposo e la Chiesa‑Sposa rimane sempre un amore ver­ginale.

Per la Chiesa di Corinto (dove ovviamente la grande mag­gioranza dei cristiani era sposata), si trattava direttamente di ciò che Agostino chiama la virginitas fidei, la virginitas cordis, la fede incontaminata[32] , ben descritta anche da san Leone Magno: “ Discat Sponsa Verbi non alium virum nos­se quam Christum”[33]. Ma per i ministri sposati di cui par­lano le Lettere Pastorali, è normale che ‑ in quella visione mistica del loro ministero ‑ l'appello radicale alla virginitas cordis sia stato vissuto da loro anche come un appello alla virginitas carnis verso la propria moglie, ossia, quale appel­lo alla continenza, come è diventato chiaro nella Tradizio­ne, almeno dal secolo IV in poi. Non si tratta più, allora, di una prescrizione ecclesiastica, esteriore, bensì di una per­cezione interiore del fatto che l'ordinazione fa di lui, come ministro, un rappresentante di Cristo‑Sposo, in relazione con la Chiesa, Sposa e Vergine, e che non può quindi vivere con un’altra sposa.

Il rapporto decisivo dell'“ unius uxoris vir ” delle Pastora­li con la “vergine pura” di 2Cor 11, 2 è stato sottolineato anche molto bene da E. Tauzin: gli uomini che sono consacrati a Dio, dice, “devono rappresentare Cristo: ora, lui è soltanto lo Sposo di una sola Sposa, la Chiesa: "Virginem castam exhibere Christo"”[34]. E applica poi questo principio alla parabola di Mt 25,1‑13, dove le dieci “vergini”, che sono (al plurale) le spose di Cristo, rappresentano in realtà la sua unic sposa: “Esteriormente, c'è molteplicità, interiormente l'unità. La migliore immagine esteriore dell'unità interiore non è forse la verginità? ”.
Questa argomentazione sacramentale e spirituali dell'“unius uxoris vir”, fondata sulla teologia dell'Alleanza, emerge nella Tradizione occidentale già con Tertulliano, poi con sant'Agostino e san Leone Magno. La troviamo ben compendiata da san Tommaso, nel suo commento di 1Tm 3,2 (“Oportet ergo episcopum... esse, unius uxoris virum”): “Questo si fa, non solo per evitare l'incontinenza, ma per rappresentare il sacramento, perché lo Sposo della Chiesa è Cristo, e la Chiesa è una: "Una est columba mea" (Cant 6,9)”[35]. Ma san Tommaso non fa ancora il confronto con il testo di 2Cor 11,2, che parla della Sposa‑Vergine; perciò non aggiunge che il valore di rappresentanza del sacerdoziomonogamico comporta anche per il ministro sposato l'ap­pello alla continenza e, conseguentemente, per coloro che non sono sposati, l'appello al celibato.

Conclusione
 Per comprendere bene il modo in cui abbiamo cercato di indicare il fondamento biblico del celibato sacerdotale, è im­portante distinguere celibato e continenza. Nella Chiesa antica molti sacerdoti erano sposati. Questo spiega il fatto che, proprio per parlare dei ministri della Chiesa, venisse usata la formula “unius uxoris vir”; spiega inoltre il grande inte­resse dei Padri per il matrimonio monogamico (cfr. per esem­pio Tertulliano: De monogamia). Ma è diventato sempre più chiaro nella Tradizione che per un ministro della Chiesa, unito una sola volta in matrimonio con una donna, l'accettazione del ministero portasse come conseguenza che egli in seguito avrebbe dovuto vivere nella continenza.
 In tempi più recenti è stata introdotta la separazione tra sa­cerdozio e matrimonio. Pertanto la formula “ unius uxoris vir ”, intesa alla lettera e materialmente, non è più di applicazione immediata per i sacerdoti di oggi, i quali non sono sposati. Ma, proprio qui, paradossalmente, sta ancora l'interesse della for­mula. Bisogna partire dal fatto che, nella Chiesa apostolica, veniva usata solo per i chierici; prendeva cosi, oltre il senso im­mediato dei rapporti coniugali, un senso nuovo, mistico, un collegamento diretto con le nozze spirituali di Cristo e della Chiesa questo lo insinuava già Paolo; per lui, “unius uxo­ris vir” era una formula di Alleanza: introduceva il ministro sposato nella relazione sponsale tra Cristo e la Chiesa; per Pao­lo, la Chiesa era una “vergine pura”, era la “Sposa” di Cristo. Ma questo collegamento tra il ministro e Cristo, essendo dovuto al sacramento dell'ordinazione, non richiede più og­gi, come supporto umano del simbolismo, un vero matrimo­nio del ministro; perciò la formula vale tuttora per i sacerdoti della Chiesa, benché non siano sposati; quindi, ciò che nel pas­sato era la continenza per i ministri sposati diventa nel nostro tempo ilcelibato di quelli che non lo sono. Però il senso sim­bolico e spirituale dell'espressione “ unius uxoris vir ” rimane sempre lo stesso. Anzi, poiché contiene un riferimento diret­to all'Alleanza, ossia al rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, ci invita a dare oggi, molto più che nel passato, una grande im­portanza al fatto che il ministro della Chiesa rappresentaCristo‑Sposo di fronte alla Chiesa‑Sposa. In questo senso, il sacerdote deve essere “l'uomo di una sola donna”; ma quel­l'unica donna, la sua sposa, è per lui la Chiesa che, come Maria la sposa di Cristo.

E’ proprio così che si esprime diverse volte Giovanni Pao­lo Il nella sua lettera post‑sinodalePastores dabo vobis.
A mo' di conclusione, ne citiamo alcuni passi più significativi.
Al n. 12, dopo aver ricordato che, per l'identità del presbitero, non è prioritario il riferimento alla Chiesa, bensì i riferimento a Cristo, il papa continua: “ In quanto mistero infatti, la Chiesa è essenzialmente relativa a Gesù Cristo: Lui, infatti, è la pienezza, il corpo, la sposa ( ... ). Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell'essere una de­rivazione, una partecipazione specifica e una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eter­na Alleanza: egli è un'immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote. Il sacerdozio di Cristo, espressione della sua as­soluta "novità" nella storia della salvezza, costituisce la fonte unica e il paradigma insostituibile del sacerdozio del cristia­no e, in specie, del presbitero. Il riferimento a Cristo è allora la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali ”.

Sulla base di questa strettissima unità tra il presbitero e Cri­sto, si comprende meglio la ragione teologica profonda del celibato.
Il n. 22 è intitolato: “Testimone dell'amore sponsale di Cri­sto”. Più avanti: “Il sacerdote è chiamato a essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa ”. Cita poi una pro­posizione del sinodo: “ In quanto ripresenta Cristo capo, pa­store e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non solo nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa ”.
Al n. 29, proprio nel paragrafo dove parla della verginità e del celibato, il Santo Padre cita per intero la propositio 11 del sinodo su questo argomento; poi, per spiegare la “ moti­vazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato ”, scrive: “ La volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazio­ne nel legame che il celibato ha con l'Ordinazione sacra, che configura il sacerdote e Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere ama­ta dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l'ha amata ”.


[1] Ch.Cochini, Origines apostoliques du célibat sacerdtal (Le Sycomore), Cul­ture et vérité, Lethielleux/Namur, Paris 1981.Sul problema molto discusso oggi del celibato nella Chiesa, si può consultare un numero speciale della rivista Conci­lium: Le Célibat du Sacerdoce catholique, in Concilium 78 (1972).

[2] A. M. Stickler, in Origines apostoliques du célibat sacerdotal, op. ci. Préface, p. 6.
[3] H. Crouzel, Une nouvelle étude sur les origines du célibat ecclésiastique, in Bull. De Litt. Eccl., 83 (1982) 293-297
[4] Cfr.  anche due studi di canonisti: P. Pampaloni, Continenza e celibato del clero. Leggi e motivi delle fonti canoniche dei secoli IV e V, in Studia Patavina 17 (1970) 5‑59; J. Coriden,Célibat. Droit canonique et Synode 1971, in Concilium 78 (1972) 101‑114.

[5] Cfr. il nostro articolo “ Mari d'une seule femme ”.Le sens théologique d'une formule paulinienne, in Paul de Tarse, ap&re du (lege: de) notre temps (a cura di L. De Lorenzi), Roma 1979, 619‑638. Nel presente studio parliamo solo della tra­dizione latina, poiché, come si sa, esiste un'altra disciplina nelle Chiese orientali.

[6] A. M. StickIer, L'évolution de la discipline du célibat dans l'Eglise en Occi­dent de la fin de l’age patristique au Concile de Trente, in Sacerdoce et célibat. Etudès historiques et théologiques (éd. J. Coppens), Gembloux‑Louvain 1971, pp. 373‑442.

[7] Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 5‑6.
[8] Cfr. il nostro studio Mari d'une seule femme, op. cit., p. 635, n. 64, dove mo­striamo che la formula “ unius uxoris vir ” (1 Tm 3,2) esprime la relazione sponsale dell'Alleanza tra Dio e il suo popolo, tra Cristo‑Sposo e la Chiesa‑Sposa; inoltre, la somiglianza della formula di lTm 3,2 con quella, vicina, di lTm 2,5: “ unus Deus, unus... homo Christus Iesus” permette di fare l'aggancio col tema profetico del­l'Alleanza, e di scoprire un legame con l'AT; cfr. specialmente Mal 2,14 (LXX): “ la donna della tua alleanza ”; 2, 10: “ l'alleanza dei nostri padri ”.

[9] A. M. Stickler, Préface, in Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 5‑6 (corsivo nostro).

              [10] Cfr. il nostro articolo La struttura di alleanza del sacerdozio ministeriale,in Communio 112 (luglio‑ agosto 1990) 102‑114, dove riprendiamo sinteticamente i ri­sultati dello studio anteriore: Mari dune seule femme, op. cit., per farne poi una applicazione specifica sia al caso del celibato sacerdotale sia a quello del sacerdozio degli uomini (non delle donne).

[11] Per questa parte storica, si vedano i testi in Ch. Cochini, Origines apostoli­ques, op. cit., pp. 19‑26.

[12] Il testo (ripreso da CCL 149, 13) si trova nell'originale latino con una versio­ne francese in Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 25‑26.

[13] Per la decretale “ Cum in unum ” di papa Siricio, cfr. Ep. V, e. 9 (PL 13, 1161 A); si trova anche nel concilio africano di Telepte (418): Conc. Thelense (CCL 149,62): trad. francese: Cochiní, Origines apostoliques, op. cit., p. 32; si vedano inoltre le due lettere di papa Innocenzo 1 (404‑405) ai vescovi Vittricio di Rouen ed Esuperio di To­losa: Ep. I I, (PL 20, 476 A. 497 B; Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 284‑286). Sulla via tracciata dai papi si orientano così l'Africa, la Spagna e le Gallie.

[14] Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., p. 33 (il corsivo è nostro).

[15] Per P. Pampaloni, per esempio, (art. cit., 41‑42) si tratterebbe “ di una for­zatura nella lettura dell'Apostolo ”; egli concede però che, secondo le fonti dell'e­poca, quella interpretazione probabilmente era ritenuta valida: anche H. Crouzel (art. cit., 294) osserva giustamente: se fosse vero, come pensano questi Padri, che l'Apostolo vedeva nella “monogamia” una garanzia di idoneità alla continenza. allora si dovrebbe supporre che, per Paolo, era conosciuto “ che la sposa era morta oppure che il candidato doveva vivere con ella come con una sorella: ciò che di­sgraziatamente il testo paolino non precisa ”. Questo è vero. Ma il testo paolino contiene un contatto letterario con 2Cor 11,2 (cfr. infra), il che permette di ritrova­re indirettamente il tema della continenza che è un tema di Alleanza.

[16] Cfr i1 nostro articolo Mari d'une seule femme, art. cit.: “ I. Histoire de l'e­xégèse ” (pp. 620‑623); “ II. Insuffisance des deux interprétations en présence ” (pp. 624‑628).

[17] A. M. Stickler, L'évolution de la discipline du célibat, op. cit., pp. 441‑442.
             [18] Cfr. Ad uxorem, 1,7,4 (CCL 1, 381); il rimando si fa qui a 1Trn 3,2.12; Tt1,6; si veda anche De exhort. cast, 7,2 (CCL 2,1024).

[19] De exhort. cast, 13,4 (CCL 2, 1035): su questo passo si può vedere il com­mento di Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 168‑171.

[20] Ibid.,; cfr. Ad uxorem, 1,4,4, parlando delle donne che, invece di scegliere un marito hanno preferito una vita verginale: “ Malunt enim Deo nubere. Deo spe­ciosae, Deo sunt puellae ” (CCL 1, 377).

[21] De virg. vel., 16,4: “ Nupsisti enim Christo, illi tradidisti carnem tuam, illi sponsasti maturitatem tuam ” (CCL 2, 1225); De res., 61, 6: “ virgines Christi mari­tae” (CCL 2, 1010).

[22] De monog.,"