domenica 29 marzo 2015

29. DOMENICA DELLE PALME Stazione in Laterano alla basilica del Salvatore. (Stazione a S. Pietro, colletta a S. Maria "in Turri")


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DOMENICA  DELLE  PALME
Stazione in Laterano alla basilica del Salvatore. 
(Stazione a S. Pietro, colletta a S. Maria "in Turri"
)

Le grandi cerimonie della settimana pasquale, come gli antichi chiamavano questo solenne settenario che stiamo per iniziare, nel medio evo si compivano di regola presso la residenza pontificia nel classico palazzo dei Laterani. Perciò anche la processione degli olivi e l'odierna messa stazionale si celebrano oggi nella veneranda basilica del Salvatore, trofeo permanente delle vittorie del Pontificato Romano sull'idolatria, sulle eresie e su tutte le porte infernali che da oltre diciannove secoli congiurano a danno della Chiesa e sempre sono respinte e vinte. Non praevalebunt adversus eam, ha detto Gesù, e passerà il cielo e la terra prima che venga meno una sillaba del labbro del Salvatore.
Nel tardo medio evo talora l'odierna stazione, a volontà del Papa, si celebrava in Vaticano, ed allora la benedizione delle palme aveva luogo nella chiesa di Santa Maria in Turri, che sorgeva nell'atrio della basilica.
La benedizione delle palme ci conserva l'antico tipo delle sinassi liturgiche, di quelle adunanze cioè, come la recita del divin ufficio, l'istruzione dei fedeli ecc., in cui non seguiva l'offerta del divin Sacrificio. Questo tipo di sinassi deriva dall'uso giudaico nelle sinagoghe della diaspora, ed entrò nel rituale cristiano sin dall'evo apostolico.
La processione coi rami d'olivo deriva dall'uso gerosolimitano, quale ci descrive la pellegrina Eteria verso la fine del IV secolo. Da principio in occidente si tenevano i ramoscelli in mano durante la lettura del Vangelo; nelle Gallie cominciò a darsi una speciale benedizione, non già ai rami, ma a chi prestava tale atto d'ossequio alla parola evangelica. Si aggiunse la processione prima della messa, che venne a conferire una pompa ed un'importanza speciale ai ramoscelli, i quali finirono per essere alla loro volta santificati dalla benedizione sacerdotale.
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BENEDIZIONE  DELLE  PALME
Colletta a San Silvestro in Laterano.

Giusta gli Ordini Romani del secolo XIV, le palme venivano prima benedette dal cardinale di San Lorenzo, e quindi per ministero dei chierici erano trasportate nell'interno del Patriarchio nell'oratorio di San Silvestro, dove gli accoliti della basilica Vaticana avevano l'ufficio di farne la distribuzione al popolo. Quella al clero venivainvece compiuta personalmente dal Pontefice nell'aula tricliniare di Leone IV, donde appunto muoveva oggi la processione alla volta della chiesa stazionale del Salvatore.
Giunto il Papa sotto il portico, s'assideva in trono, e mentre le porte dell'aula sacra rimanevano ancor chiuse, il primicerio dei cantori e il priore basilicario a capo del loro personale di servizio intonavano l'inno Gloria, lausetc., prescritto ancor oggi nel Messale. Allora finalmente si aprivano le porte ed il corteo faceva la sua entrata trionfale nella basilica Salvatoriana, affine di dar principio colla messa al grandioso dramma dell'umana redenzione. Il Papa assumeva le sacre vesti nel secretarium, ma ad indicare la funebre mestizia che pervade tutta la liturgia di questa settimana, i basilicari quest'oggi tralasciavano di distendere sul suo capo la tradizionalemappula o baldacchino, che era uno dei contrassegni di rispetto e di venerazione presso gli antichi.
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La colletta per la benedizione delle palme comincia coll'introito: "Salve, o figlio di David; benedetto Colui che viene nel nome di Iahvè; o Re d'Israele, salve, evviva". Ecco il saluto messianico che il Cristo oggi acclamato dai gentili, dai fanciulli, dal basso popolo e dai semplici, s'attese invano dalla Sinagoga. La conseguenza si è, che Gesù ripudia l'ostinato Sanhedrin, e si rivolge invece alle nazioni dei gentili, le quali lo accolgono come il loro Dio e Redentore. La misericordia del Signore però è infinita, ed anche Israele può sperare salvezza, a condizione tuttavia che muova anch'esso incontro al Cristo cantando col Salmista e coi fanciulli del giorno delle palme: Benedetto Colui che viene nel nome di Iahvè.
Dobbiamo professare ima grande devozione per quest'atto di fede messianica, tanto desiderato da Gesù Cristo. La Chiesa lo rinnova nel momento più solenne del sacrificio, quando cioè Gesù all'invito del Sacerdote sta per discendere in stato di vittima sui nostri altari.

Segue la colletta di benedizione sull'adunanza: "O Dio, cui è giusto amare sopra ogni cosa, moltiplica su di noi i doni della tua grazia, e mentre pei meriti della morte del Figlio tuo ci fai sperare quell'eternità gloriosa che forma appunto l'oggetto della nostra fede, in grazia della sua risurrezione ci concedi di giungere là dove tendiamo". La forma è veramente solenne, ed il concetto è chiaro e preciso: la morte di Gesù è la causa meritoria di nostra salvezza, ma la sua risurrezione ne è la causa esemplare; perché Gesù glorioso trasfonde nel corpo e nelle sue mistiche membra quella santità e quella beatitudine che inonda il Capo nel giorno del suo solenne trionfo sulla morte e sul peccato.
Il brano dell'Esodo (XV, 27, XVI, 1-7) col racconto della rivolta degli Israeliti contro Mosè, veramente non ha troppo a vedere col mistero dell'odierna domenica; i liturgisti gallicani del medio evo lo prescelsero tuttavia in grazia delle fonti d'acqua e dei settanta palmizi all'ombra dei quali s'attendò il popolo del Signore.
Gl'Israeliti tratti via dalla servitù d'Egitto in modo così prodigioso, mormorano tuttavia contro il Signore e rimpiangono gli agli e le carni d'Egitto. Essi preludevano a quello che i figli loro erano per fare contro il vero Mosè, il vero liberatore dalla schiavitù dell'inferno, che sarebbe stato maledetto ed ucciso nel momento stesso in cui, a redimerli, stava dando per loro la vita.
I due responsori di ricambio che seguono, non sono in alcuna relazione colla cerimonia della benedizione delle palme, e sono stati assegnati qui tanto per riempire le lacune e dividere le due lezioni scritturali. Come si vede, tutto l'ordinamento dell'odierna funzione, non ostante la sua parvenza arcaica, è un po' fittizio; trattasi d'elementi d'origine e d'ispirazione disparatissimi, i quali vennero fusi insieme alla meglio senza una vera unità di concetto.
Il primo responsorio è derivato da Giovanni (XI, 47-53) e canta del convegno tenuto in casa di Caifa nel quale, all'osservazione che Gesù si traeva dietro le turbe ed esponeva il Sinedrio al pericolo che presto o tardi i Romani, gelosissimi, avrebbero soffocato quei moti d'insurrezione nazionale, Caifa dichiarò esser meglio mandare a morte uno, cioè Gesù, per salvare tutti. Lo Scrittore Sacro insiste nel far rilevare che le parole dello scaltro pontefice hanno una portata assai superiore alle sue intenzioni, e che in forza del suo ufficio gli furono poste sul labbro dallo Spirito Santo.
Il secondo responsorio serve solo di ricambio, ed è stato preso ad imprestito dal I Notturno del giovedì santo. Esso deriva dal Vangelo di san Matteo (XXVI, 39, 41) e descrive Gesù che nella sua

agonia nell'orto degli olivi supplica il Padre, si conforma alla sua santa volontà ed esorta gli addormentati discepoli, perché nell'orazione cerchino lo scampo contro la tentazione e la prova che sta ormai per incominciare. Non basta che le disposizioni abituali della volontà siano rette; la natura mortale è fragile e senza l'aiuto della grazia vien meno per il bene. Bisogna quindi pregare e non stancarsi mai d'implorare questo soccorso tanto necessario. I Santi, e specialmente sant'Alfonso, riassumevano così l'insegnamento cristiano circa la necessità della preghiera: Chi prega, si salva, e chi non prega, si danna.
L'odierna lettura di san Matteo col racconto dell'ingresso solenne di Gesù nella Santa Città (XXI, 1-9) ci è attestato nella liturgia di Gerusalemme sin dalla seconda metà del IV secolo. Giusta la profezia di Zaccaria, il Redentore entra nella Città Santa seduto sull'asinello, a simboleggiare il carattere tutto mite e benigno di questa sua prima apparizione messianica. Egli non vuole spaventare colle folgori, ma brama d'attirare tutti al suo Cuore colla dolcezza delle sue attrattive. L'asina poi e l'asinello, che, giusta il santo Vangelo, trovavansi legati alle mura del castello vicino al monte degli olivi, donde furono sciolti dagli Apostoli e menati a Gesù, rappresentano il popolo gentile, esiliato dalla patria d'Abramo, diseredato dall'eredità d'Israele, abbrutito sotto le ritorte dell'idolatria. Agli Apostoli è confidata la missione di proscioglierlo dai suoi errori e di ricondurlo al Salvatore.
La colletta seguente, giusta l'uso della liturgia romana, quando trattasi di preghiere di speciale importanza, serve come di preludio all'anafora consecratoria dei sacri rami. Essa quindi è parallela alla Secreta prima del prefazio della messa:
Preghiera. - "Accresci, o Dio, la fede di coloro che in te sperano, e clemente esaudisci le preghiere dei supplicanti. La tua misericordia discenda copiosa sopra di noi; e siano altresì benedetti questi germogli di palma e d'olivo; e come a prefigurar la Chiesa, tu concedesti numerosa progenie a Noè uscito dall'arca e a Mosè uscito dall'Egitto insieme coi figli d'Israele, cosi anche noi, recando in mano palme e rami d'olivo, per mezzo d'una santa vita possiamo andare incontro al Cristo, e per i suoi meriti meritiamo d'entrare nell'eterno gaudio. Egli che Dio teco e nell'unità dello Spirito Santo, vive e regna per tutti i secoli. R). Così è".
Questa preghiera, di gusto tanto squisito e d'una pietà sì profonda, spiega assai bene il simbolismo della processione che sta per

eseguirsi, assegna la cagione per cui si è letta la pericope dell'Esodo col racconto dei settanta palmizi. La palma si dà al vincitore, e colui che esce incolume dall'Egitto può ben meritare la gloria del trionfo.
Sac. V). "Il Signore sia con voi".
       R). "E col tuo spirito".

Sac. V). "In alto i cuori".
       R). "Sono già intenti al Signore".

Sac. V). "Rendiamo grazie al Signore nostro Dio".
       R). "È conveniente e giusto".

Segue l'anafora, che, giusta il suo primitivo significato, oggi è un vero carme eucaristico, ossia inno di lode e di ringraziamento a Dio per la sua immensa santità e la squisitezza della sua misericordia verso gli uomini:
Sac. "È veramente conveniente e giusto, retto e proficuo che sempre e dovunque noi ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre onnipotente, eterno Dio; tu che sei glorificato nella moltitudine dei tuoi Santi, cui tutte le creature ubbidiscono. Te solo, infatti, esse riconoscono per loro autore e Dio, onde non solo ogni cosa creata annunzia la tua lode, ma i tuoi Santi in modo speciale ti benedicono, quando liberamente confessano il gran nome del tuo Unigenito Figlio innanzi ai re e ai potenti di questo mondo. Cui assistono gli Angeli e gli Arcangeli, i Troni e le Dominazioni, che insieme con tutta quanta la milizia del celeste esercito, incessantemente cantano a te un inno alla tua gloria, dicendo: Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti. La tua gloria riempie il cielo e la terra. Salve, evviva sino alle stelle. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Salve, evviva".
Segue una serie di collette di sapore abbastanza antico e d'elevatissima ispirazione, colle quali la Chiesa sembra che voglia quasi sfogare tutto il suo amore verso il Redentore, già vicino ad immolarsi per lei. In origine queste varie preghiere costituivano come una serie di collette di ricambio; oggi invece la cerimonia è divenuta molto prolissa, giacché tutte queste diverse formole di benedizione, prefazio cioè, collette ecc. che da principio si sostituivano, o meglio, s'escludevano a vicenda, nell'attuale Messale fanno parte integrale della cerimonia della benedizione delle palme. Ne è venuta fuori una funzione devota sì, ma forse senza proporzione ed armonia, il che rivela la sua tarda introduzione nella liturgia romana.

La seguente colletta si riferisce esclusivamente ai rami di olivo senza nessun accenno alle palme, che nel medio evo erano divenute estremamente rare in Europa:

Preghiera. - "O Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio, noi ti preghiamo di benedire e santificare quest'olivo da te creato, che per tuo volere germogliò sul tronco, e che la colomba portò nel becco ritornando nell'arca; affinché chiunque ne riceverà un germoglio conseguisca la salute dell'anima e del corpo, e divenga esso per noi rimedio salutare e pegno della tua grazia. Per il Signore".
Dio si compiace d'umiliare la superbia del Satana impedendogli di nuocere ai Cristiani, in grazia dei sacramentali, consistenti per lo più in piccoli oggetti di devozione, benedetti dal sacerdote, e conservati con fede dai fedeli. Alla qual specie di sacramentali appartengono appunto le palme.

Preghiera. - "O Signore, che raccogli quanto era disperso, e raccoltolo lo conservi; tu che benedicesti il popolo uscito incontro a Gesù coi rami d'albero, benedici altresì questi rami di palma e d'olivo che i tuoi servi ricevono con tutta fede e in onore del tuo nome; affinché dovunque siano recati, gli abitanti ne conseguano la tua benedizione, e allontanata ogni ostilità, la tua destra si degni di proteggere coloro che redense Gesù Cristo tuo figlio e nostro Signore. Il quale vive e regna".
Nella seguente preghiera si spiega tutto il simbolismo dell'odierna cerimonia. Come le turbe mossero incontro colle palme al trionfatore della morte e dell'inferno, cosi oggi Dio ci anticipa il dono della palma, onde stimolarci a lottare strenuamente affine di conseguire sulle soglie dell'eternità un'altra palma, non più soggetta ad appassire ed a disseccarsi, ma perpetuamente fresca e verdeggiante.

Preghiera. - "O Dio, che con meravigliosa armonia, anche per mezzo delle cose insensibili, volesti rivelarci l'ordine della nostra redenzione, fa che lo spirito dei tuoi devoti penetri bene il significato mistico del fatto compiuto oggi dalle turbe, che, rischiarate da superna luce, mossero incontro al Redentore e copersero il suo sentiero di rami di palma e d'olivo, Infatti i rami di palma preannunziano il suo trionfo sul principe della morte, e i germogli d'olivo indicano una certa qual unzione spirituale; giacché fin d'allora quella fortunata schiera di popolo dové comprendere che sotto quei simboli si dichiarava come il Redentore nostro, tocco dalla miseria degli uomini, doveva lottare contro il principe della morte per dar la vita a tutto il mondo, e morendo doveva riportarne il trionfo. E

perciò la medesima turba nel prestargli ossequio si servi di tali simboli che significassero i trionfi della sua vittoria e la facile copia della sua misericordia. Noi pure esprimendo con viva fede questo fatto e questo medesimo significato, o Signore Santo, Padre onnipotente, eterno Dio, supplichevoli ti preghiamo per il medesimo Signor nostro Gesù Cristo, onde in Lui e per Lui di cui tu ci volesti membra, riportando vittoria sull'impero della morte, meritiamo d'essere a parte della gloria della sua risurrezione. Egli che teco ecc.".
Nella seguente colletta già non si parla più di palmizi, ma all'olivo vengono riavvicinati altri alberi, giacché nei paesi nordici, dove massimamente si svolse l'odierno rito, a cagione del freddo non vi cresce né la palma, né l'olivo:
Preghiera. - "O Signore, che volesti che la colomba recasse in terra l'annunzio di pace per mezzo d'un ramoscello d'olivo; santifica colla tua benedizione + questi rami d'olivo e d'altri alberi, onde apportino salvezza a tutto il tuo popolo. Per Cristo ecc.".
Il rito esterno è vano, se al labbro che ora, non si unisce il cuore che adora:
Preghiera. - "Ti preghiamo, o Signore, benedici questi rami di palma e d'olivo, e fa sì che quanto oggi il popolo in tuo onore eseguisce in modo sensibile, lo compia anche interiormente con una fervida devozione, riportando vittoria sullo spirituale nemico, e dedicandosi con sommo trasporto alle opere di misericordia. Per il Signore".
Qui il sacerdote asperge i rami coll'acqua santa e li turifica coll'incenso benedetto.
Sac. V). "Il Signore sia con voi". 
       R). "E col tuo spirito".

Preghiera. - "O Dio, che per la nostra salute inviasti in questo mondo il tuo figliuolo Gesù Cristo Signor nostro, perché si abbassasse sino a noi onde risollevarci sino a te; a cui entrando in Gerusalemme a dar compimento alle Scritture, la turba del popolo credente coi rami di palma e con fervida devozione distese lungo il cammino le proprie vesti; ci concedi di preparargli la via della nostra fede, donde tolte via le pietre d'intoppo e gli scrupoli, distenda invece i suoi rami frondosi la giustizia per mezzo delle buone opere, affinché meritiamo di seguire le sue vestigia; Egli che vive e regna".
Durante la distribuzione delle palme o dei rami d'olivo benedetti, il coro dei cantori eseguisce le antifone seguenti tolte dal Vangelo poc'anzi recitato:
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"I fanciulli Ebrei andarono incontro al Signore con rami d'olivo, e dicevano: Salve, sino alle stelle".
Oggi i fanciulli fanno gli onori della festa, perché Dio si compiace delle anime semplici ed innocenti, ed è appunto a loro che rivela i suoi secreti.
"I fanciulli Ebrei stendevano le proprie vesti lungo la via e gridavano: Salve al Figlio di David; benedetto colui che viene nel nome del Signore".
Dopo distribuiti i rami benedetti si recita la seguente colletta, prima d'iniziare la processione:
Preghiera. - "O Dio eterno ed onnipotente, che disponesti che il Signor nostro Gesù Cristo sedesse sul polledro d'un'asina, e tu stesso insegnasti alla turba del popolo a distendere sulla via le vesti e i rami d'albero e a cantare Salve in suo onore; deh! fa che imitiamo la loro innocenza, onde meritiamo di conseguirne anche il premio. Per il medesimo Signore".
Diac. V). "Sfiliamo processionalmente e in pace". 
         R). "Nel nome di Cristo. Amen".

Segue la processione, che sebbene quest'oggi abbia un significato speciale e voglia ricordare l'entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, però è un residuo dell'antica processione stazionale e domenicale, che nel medio evo, specialmente nelle abbazie benedettine precedeva regolarmente la messa. Durante il cammino il coro dei cantori eseguisce le seguenti antifone:
Ant. "Avvicinandosi il Signore a Gerusalemme, mandò due dei suoi discepoli e disse loro: Andate al castello qui incontro, e ritroverete legato un polledro di giumenta, sul quale nessuno ancora sedé; scioglietelo e menatelo a me. Se qualcuno vi domanda, dite: Serve al Signore. Sciolto l'asinello lo condussero a Gesù, e distese sul suo dorso le loro vesti, Gesù vi sedé. Altri distesero i loro mantelli sulla via, altri la cosparsero di ramoscelli d'albero. Quelli che seguivano, gridavano: Salve, benedetto colui che viene nel nome del Signore; benedetto il regno di David, padre nostro. Salve sino alle stelle. Pietà di noi, figlio di David".
Ant. "Avendo il popolo saputo che Gesù era per giungere a Gerusalemme, presi dei rami di palme gli usci incontro. I fanciulli acclamavano: Ecco colui che viene a salvare il popolo. Questi è la nostra salvezza e la redenzione d'Israele. Quanto grande è la sua maestà cui escono incontro i Troni e le Dominazioni! Non temere.
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o figlia di Sion; ecco che viene a te il tuo re seduto su un polledro d'asina, siccome fu detto nella Scrittura: Salve, o re, artefice del mondo, che sei venuto a riscattarci".
Ant. "Sei giorni prima della solennità pasquale, quando il Signore giunse alla città di Gerusalemme, gli mossero incontro i fanciulli portando in mano rami di palme, e gridavano sino alle stelle: Salve. Benedetto sii tu che giungi qui nell'infinita tua misericordia: Salve, sino alle stelle".
Ant. "La turba muove incontro al Redentore coi fiori e colle palme, e rende il conveniente ossequio al vincitore e trionfatore; il popolo lo acclama Figlio di Dio; i gridi e le lodi del Cristo salgono in cielo. Salve, sino alle stelle".
Ant. "Mostriamoci fedeli al trionfatore della morte, insieme agli angeli ed ai bambini, ed acclamiamo: Salve, sino alle stelle".
Ant. "Un immenso popolo che s'era raccolto per la solennità della Pasqua, acclamava al Signore: Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Salve, sino alle stelle".
Segue l'inno Gloria, laus etc. colla cerimonia del crocifero che picchia alle porte del tempio per farle aprire al corteo. Come rito, Roma lo conobbe assai tardi; come simbolo, i due cori che si rispondono dentro e fuori del tempio, raffigurerebbero la lode divina che incessantemente alternano la Chiesa trionfante e quella militante.
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ALLA  MESSA
Stazione a San Giovanni in Laterano.

Al ritorno della processione segue la messa, che però ha un carattere affatto diverso dalla benedizione delle palme ed è in più intima relazione colla liturgia dei giorni precedenti. Infatti, mentre le preci e le antifone riferite più sopra acclamano il Redentore siccome trionfatore della morte e del peccato, la messa stazionale, d'ispirazione interamente romana, ne considera piuttosto gl'intimi sentimenti di profondo annientamento, d'umiliazione e di dolore, siccome vittima d'espiazione per i peccati del mondo.
La sacra liturgia di questi giorni non dissocia punto il ricordo della passione del Salvatore da quello dei trionfi della sua resurre-
zione - ecco la ragione dell'antico titolo di Hebdomada paschalis, dato già a questa settimana, e delle frequenti menzioni della santa resurrezione che ricorrono nella messa e nell'Ufficio Divino, così oggi che il venerdì santo -. Infatti, se il Pascha nostrum immolatus Christus, incomincia la sera del giovedì santo e si prosegue nella Parasceve, esso però ha il suo vero compimento nella mattina della risurrezione, allorché Colui che era mortuus propter delicta nostra, resurrexit propter iustificationem nostram. Per gli antichi il Paschale Sacramentumcomprendeva questo triplice mistero, onde essi, perfino il venerdì santo, innanzi all' adorabile Legno della Croce, già preannunziavano le glorie del Salvatore risorto. Crucem Tuam adoramus ... et sanctam resurrectionem tuam laudamus et glorificamus.
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L'introito è tolto da quel medesimo salmo 21 che intonò Gesù Cristo in croce, e che descrive cosi mirabilmente le sue sofferenze, le ignominie, i palpiti del suo cuore e le speranze per la prossima lieta risurrezione: "Signore, non allontanare da me il tuo soccorso; attendi a difendermi. Salvami dalle zanne del leone e scampa la mia debolezza dalle corna dei liocorni".
La colletta è d'una squisitezza di composizione che rivela l'aureo periodo della liturgia romana: "O Dio onnipotente ed eterno, che a dare al genere umano un esempio d'umiltà da imitarsi, disponesti che il Salvatore nostro s'incarnasse e subisse il supplizio della Croce, ci concedi d'accogliere fruttuosamente l'insegnamento della sua pazienza, onde essere a parte della sua risurrezione".
Ecco qui spiegato tutto il significato del sacro rito che dovrà compiersi durante questa settimana. Gesù crocifisso è come un libro nel quale l'anima legge tutto quello che Dio desidera da lei per divenir santa. La frase della colletta:patientiae ipsius habere documenta perde molto in energia quando viene tradotta in italiano. Essa significa che dobbiamo realizzare nella nostra vita quelle lezioni di sofferenza e di espiazione che Gesù c'impartisce dalla cattedra della croce. Viene infine la speranza della risurrezione, che la Chiesa non vuol mai disgiunta dalle sofferenze del Golgota.
La lezione è tratta dalla lettera ai Filippesi (II, 5-11) in cui san Paolo ci descrive il Cristo, il quale per nostro amore ecclissa la gloria della sua consustanzialità col Padre, prende l'abito servile ed ubbidisce a Dio sino alla morte più crudele ed infamante. Sin qui l'espiazione, ma ecco subito il trionfo e l'inizio dell'impero messianico.

Iddio col fuoco della sua divinità riscalda quelle gelide membra di Gesù che gli si erano offerte sulla Croce. Egli trasfonde in loro la propria vita, e al nome del Salvatore tracciato da Pilato sul cartello posto a titolo di ludibrio sull'asta verticale della croce attribuisce tanta gloria e tanta potenza, che diventa oggimai il simbolo di tutti i predestinati alla gloria del cielo.
Il responsorio graduale deriva dal salmo 72 e prelude già al trionfo di domenica prossima: "Per poco non stavo per vacillare, giacché mi eccitai a riguardo dei malvagi, indignato del letargo di morte in cui giacevano prostrati i peccatori. Tu però, o Padre mio, mi prendesti per mano, m'hai condotto giusta il tuo volere, e m'hai accolto con trionfo". Lo zelo di Gesù vedendo la rovina di tante e tante anime, arse di santo ardore nella sua passione; Egli affrontò impavido i nemici dell' umanità, i demoni e i loro alleati, cioè gli empi. Stava anzi per soccombere sotto i loro colpi, imperocché sulla Croce alla violenza dei tormenti l'anima sua benedetta fu separata dal corpo, il quale subì perfino l'umiliazione del sepolcro. Ma in tutto questo la mano dell'Onnipotente ha sempre guidato il suo unigenito Figliuolo; ella l'ha condotto sul sentiero della vita, e l'ha coronato colla gloria trionfale della sua risurrezione ed ascensione al cielo.
Il salmo tratto, o direttaneo, è il 21, nel quale prima si descrivono le agonie strazianti del Cristo e i suoi sentimenti d'umiltà, d'intima desolazione e di fiduciale abbandono in Dio; quindi si esalta il trionfo della redenzione messianica e si annunzia la nuova generazione, cioè la Chiesa, alla quale sarebbe diretto il messaggio evangelico.
La lezione evangelica di san Matteo contiene tutto il racconto della passione del Signore (XXVI-XXVII) dall'ultima cena cogli Apostoli sino all'apposizione dei suggelli al suo sepolcro. La qual tradizione a Roma è molto antica, essendoci attestata dagli Ordines del IX secolo.
La memoria delle pene sostenute per nostro amore da Gesù Cristo, deve conservarsi ognor viva nel nostro cuore, producendovi quei sentimenti d'amore e di gratitudine che produceva in san Paolo, quando scriveva: "Cristo mi ha amato ed ha dato se stesso per me; io vivo, ma non sono già più io che vivo, è bensì Cristo che vive in me. Io vivo nella sua fede".
Il Crocifisso ci deve insegnare sopratutto tre cose. Primo quanto grande è stato l'amore che tutta l'augusta Triade ci ha portato, sino a sacrificare per noi Gesù, l'unigenito di Dio; secondo, che orribil

cosa sia il peccato, il quale non ha potuto essere espiato altro che colla morte atrocissima del Salvatore; terzo, quanto vale l'anima propria, la quale non ha potuto essere riscattata a minor prezzo del Sangue di Gesù. Conchiudeva san Paolo la sua meditazione sulla passione di Gesù: Empti enim estis pretio magno, glorificate et portate Deum in corpore vestro.
L'antifona per l'offerta è tolta dal salmo 68, che pure prelude alla passione del Salvatore: "Venendo tra gli uomini, il mio cuore non si attese da loro che ignominie ed ingratitudine. Aspettai chi entrasse a parte della mia pena, ma indarno. Cercai chi mi consolasse, ma non ritrovai alcuno. Mi diedero in pasto del fiele, e nell'ardore della mia sete mi abbeverarono d'aceto".
Gesù ripeté questi medesimi accenti di desolazione a santa Gertrude e a santa Margarita Alacoque, manifestando il suo vivo desiderio che anime a lui particolarmente consacrate, quali i sacerdoti e le persone religiose, entrino a parte di questi suoi sentimenti, riparino, espiino con lui, e lo consolino col loro amore.
La preghiera sulle oblate, al pari di quella dopo la Comunione, derivano dalla domenica fra l'ottava di Natale che è di carattere generale.
L'antifona per la Comunione è stata tolta da san Matteo (XXVI, 42): "Padre, se non può farsi che io non sorbisca questo calice, si compia il tuo volere". Quando durante il canto di queste parole i fedeli si appressavano realmente a sorbire dal calice sostenuto dal diacono il Sangue del Cristo, essi comprendevano perfettamente che il comunicarsi è un rendersi solidari della sua passione. Nella messa infatti non è solamente Gesù Cristo che rinnova misteriosamente il suo sacrificio, ma siamo noi altresì che, sopratutto in grazia della santa Comunione, ci uniamo a lui, come le membra al capo, per umiliarci, per immolarci, per offrirci con lui, per morire nella sua morte, onde aver parte nella sua vita.
Questo calice di passione non può passar oltre da noi; è necessario che noi lo beviamo, se vogliamo vivere e compiere la volontà di Dio.

da: A. I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano - III. Il Testamento Nuovo nel Sangue del Redentore (La Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua), Torino-Roma, Marietti, 1933, pp. 178-189.




29.marzo.2015 : Domenica delle palme

«Osanna, osanna al Figlio di Davide! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna a Lui e al suo Regno! Dio è con noi! L'Emmanuele è venuto. È venuto il  Regno del Cristo del Signore! Osanna! Osanna dalla Terra sino all'alto dei Cieli! Pace! Pace, mio Re! Pace e benedizione a Te, Re santo! Pace e gloria nei Cieli e in Terra! Gloria a Dio per il suo Cristo! Pace agli uomini che lo sanno accogliere. Pace in Terra agli uomini di buona volontà e gloria nei Cieli altissimi, perché l'ora del Signore è venuta»

Dice Gesù:  «La scena narrata da Luca (19, 41-46) pare senza connessione, quasi illogica. Compiango le sventure di una città colpevole e non so compatire le abitudini di detta città? No. Non le so, non le posso compatire, poiché anzi sono proprio queste abitudini che generano le sventure; e il vederle acutizza il mio dolore. 

La mia ira sui profanatori del Tempio è logica conseguenza della mia meditazione sulle prossime sventure di Gerusalemme. 

Sono sempre le profanazioni al culto di Dio, alla Legge di Dio, quelle che provocano i castighi del Cielo. Facendo della Casa di Dio una spelonca di ladri, quei sacerdoti indegni e quegli indegni credenti (di nome soltanto) attiravano su tutto il popolo maledizione e morte. 

Inutile dare questo o quel nome al male che fa soffrire un popolo. 
Cercate il giusto nome in questo: "Punizione per un vivere da bruti". Dio si ritira e il Male si avanza. 

Ecco il frutto di una vita nazionale indegna del nome di cristiana. Come allora, anche ora, in questo scorcio di secolo, non ho mancato con prodigi di scuotere e richiamare. Ma, come allora, non ho attirato su Me e i miei strumenti che scherno, indifferenza e odio. Singoli e nazioni però ricordino che inutilmente piangono quando avanti non vollero conoscere la loro salvezza. Inutilmente mi invocano quando nell'ora in cui ero con loro mi cacciarono con una guerra sacrilega che, partendo dalle singole coscienze, devote al Male, si sparse per tutta la Nazione. 

Le Patrie non si salvano tanto con le armi quanto con una forma di vita che attiri le protezioni del Cielo. Riposa, piccolo Giovanni [Maria Valtorta]. E fa' di esser sempre fedele alla tua elezione. Va' in pace». 

Che fatica! Non ce la faccio proprio... Quasi Gesù non fa a tempo ad entrare nella casa benedicendone gli abitanti, quando si sentono un allegro suonar di bubboli e voci a festa. E subito dopo il volto scarno e pallido di Isacco appare nella fessura dell'uscio, e il pastore fedele entra e si prostra davanti al suo Signore Gesù. Nell'inquadratura della porta spalancata si pigiano volti e volti e, dietro, altri se ne vedono... Un urtarsi, un pigiarsi, un voler farsi largo... Qualche grido di donna, qualche pianto di bambino preso in mezzo alla ressa, e grida di saluto, esclamazioni a festa: 

«Felice questo giorno che a noi ti riporta! La pace a Te, Signore! Ben torni, o Maestro, a premiare la nostra fedeltà». Gesù si alza in piedi e fa gesto di parlare. Tacciono tutti e netta si sente la voce di Gesù. «Pace a voi! Non vi accalcate. Ora saliremo insieme al Tempio. Sono venuto per stare con voi. Pace! Pace! Non fatevi male. Fate largo, miei diletti! Lasciatemi uscire e seguitemi, ché entreremo insieme nella Città santa». 

La gente, bene o male, ubbidisce, e si fa un poco di largo, tanto che Gesù possa uscire e montare sull'asinello. Perché Gesù indica il puledro, sino allora mai cavalcato, come sua cavalcatura, e allora dei ricchi pellegrini, che si pigiano fra la folla, stendono sulla groppa di questo i loro sontuosi mantelli, e uno si pone con un ginocchio a terra e l'altro a far da gradino al Signore, che siede sulla groppa del puledro d'asina, e il viaggio si inizia, mentre Pietro cammina a un lato del Maestro e Isacco dall'altro, tenendo le briglie della bestia non doma, che però procede tranquilla come fosse usa a quell'ufficio, senza imbizzarrirsi o spaventarsi dei fiori che, gettati come sono verso Gesù, colpiscono sovente la bestiola negli occhi e sul morbido muso, né dei rami di ulivo e delle foglie di palma agitate davanti e intorno ad esso, gettate in terra a far tappeto coi fiori, né dei gridi sempre più forti di: «Osanna, Figlio di Davide!», che salgono al cielo sereno, mentre la folla sempre più infittisce e si accresce per nuovi venuti. 

Passare da Betfage, fra le viette strette e contorte, non è facile cosa, e le madri devono prendere in braccio i bambini, e gli uomini proteggere le donne da urti troppo violenti, e qualche padre si pone sulle spalle a cavalluccio il figliolino e lo porta alto sulla folla così, mentre le vocine dei bimbi sembrano belati di agnelli o stridi di rondini e le loro manine gettano fiori e foglie d'ulivo, che le madri porgono, e baci anche, al mite Gesù... 

Usciti dalla strettoia della piccola borgata, il corteo si ordina e distende, e molti volonterosi vanno avanti a far da battistrada per preparare sgombra la via, e altri li seguono spargendo di rami il suolo, e uno per primo getta il suo mantello a far da tappeto, e un altro, e quattro, e dieci, e cento, e mille lo imitano. 

La via ha al centro una striscia multicolore di vesti stese al suolo e, passato Gesù, le vesti sono raccolte e portate più avanti, con altre, con altre, e sempre fiori, rami, foglie di palma vengono agitati e gettati, e gridi più forti vengono innalzati intorno e in onore del Re d'Israele, al Figlio di Davide, al suo Regno! 

I soldati di guardia alla porta escono a vedere che cosa succede. Ma non è sedizione, ed essi, appoggiati alle loro lance, si fanno da lato, osservando stupiti o ironici lo strano corteo di quel Re che cavalca un puledro d'asina, bello come un dio, umile come il più povero degli uomini, mite, benedicente... circondato da donne e bambini e da uomini disarmati gridanti: «Pace! Pace!», di questo Re che, prima di entrare nella città, sosta un momento all'altezza dei sepolcri dei lebbrosi di Innon e di Siloan (credo di dire bene questi luoghi, dove ho visto miracoli di lebbrosi altre volte) e, puntandosi sull'unica staffa in cui poggia il suo piede, essendo seduto sull'asino, non a cavallo dell'asino, si alza in piedi e apre le braccia gridando in direzione di quelle pendici orrende (dove volti e corpi paurosi si affacciano guardando verso Gesù e alzano il grido lamentoso dei lebbrosi: «Siamo infetti!», a respingere degli imprudenti che, pur di vedere bene Gesù, salirebbero anche sui corrotti e infetti scaglioni): «Chi ha fede in Me invochi il mio Nome ed abbia salute per quello! », e benedice riprendendo il cammino e ordinando a Giuda di Keriot: «Comprerai cibi per i lebbrosi e con Simone li porterai ad essi avanti sera». 

Quando il corteo entra sotto la volta della porta di Siloan e poi, come un torrente, si riversa entro la città passando per il borgo di Ofel - nel quale ogni terrazza è divenuta una piccola aerea piazza colma di popolo osannante, che getta fiori e rovescia profumi giù, nella via, cercando di gettarli sul Maestro, e l'aria è satura dell'odore dei fiori morenti sotto i passi delle turbe e di essenze che si spargono nell'aria prima di cadere fra la polvere della via - il grido della folla sembra aumentare e farsi forte, come ognuno lo urlasse in una buccina, perché i numerosi archivolti dei quali è piena Gerusalemme lo amplificano con risonanze continue. Sento gridare, e credo voglia dire ciò che dicono gli evangelisti: (Matteo 21, 9; Marco 11, 9-10; Luca 19, 37- 38; Giovanni 12, 12-13) «Scialem, Scialem melchil! », (o malchit: cerco di rendere il suono delle parole, ma è difficile, perché hanno aspirazioni che noi non abbiamo). Un grido continuo, simile all'urlo di un mare in tempesta, nel quale non è ancora caduto il fragor del maroso che schiaffeggia spiagge e scogliere che un altro maroso lo raccoglie e rialza in novello fragore, senza tregua mai. Ne sono assordita! 

Profumi, odori, gridi, agitarsi di rami e di vesti, colori, urli... 

È una visione che sbalordisce. Vedo rimescolarsi continuamente la folla, apparire e sparire volti conosciuti: tutti i discepoli di tutti i luoghi di Palestina, tutti i seguaci... Vedo per un attimo Giairo, vedo Jaia il giovinetto di Pella (mi pare) che era cieco come sua madre e che Gesù guarì, vedo Gioacchino di Bozra e quel contadino del piano di Saron coi fratelli, vedo il vecchio e solitario Mattia di quel luogo presso il Giordano (sponda orientale) presso il quale Gesù si rifugiò mentre tutto era inondato, vedo Zaccheo con i suoi amici convertiti, vedo il vecchio Giovanni di Nobe con quasi tutti i cittadini, vedo il marito di Sara di Jutta... Ma chi può tener dietro a volti e nomi, se è un caleidoscopio di visi noti e ignoti, veduti più volte o una sola?... Ecco ora il viso del pastorello preso a Ennon. E, vicino a lui, il discepolo di Corozim che lasciò di seppellire il padre per seguire Gesù; e vicino a lui, per un momento, il padre e la madre di Beniamino di Cafarnao col loro figliolo, che per poco cade sotto le zampe dell'asinello per gettarsi avanti e ricevere una carezza di Gesù. 

E - purtroppo! - volti di farisei e di scribi, lividi di ira per questo trionfo, che fendono prepotenti il cerchio di amore che si stringe intorno a Gesù e gli urlano: «Fa' tacere questi pazzi! Richiamali alla ragione! Solo Dio va osannato. Di' che tacciano! ». Al che Gesù risponde dolcemente: «Anche se Io lo dicessi di tacere e questi mi ubbidissero, le pietre griderebbero i prodigi del Verbo di Dio». 

Perché infatti la gente - oltre che gridare: «Osanna, osanna al Figlio di Davide! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna a Lui e al suo Regno! Dio è con noi! L'Emmanuele è venuto. È venuto il  Regno del Cristo del Signore! Osanna! Osanna dalla Terra sino all'alto dei Cieli! Pace! Pace, mio Re! Pace e benedizione a Te, Re santo! Pace e gloria nei Cieli e in Terra! Gloria a Dio per il suo Cristo! Pace agli uomini che lo sanno accogliere. Pace in Terra agli uomini di buona volontà e gloria nei Cieli altissimi, perché l'ora del Signore è venuta» (e chi grida quest'ultimo grido è il gruppo compatto dei pastori che ripetono il grido natalizio) - oltre questi gridi continui, la gente di Palestina narra ai pellegrini della Diaspora i miracoli che hanno visto, e a chi non sa ciò che avviene, perché straniero di passaggio fortuitamente dalla città e che chiede: 
«Ma chi è Costui? Che avviene?», spiegano: 

«È Gesù! Gesù, il Maestro di Nazaret di Galilea! Il Profeta! Il Messia del Signore! Il Promesso! Il Santo!». 
Da una casa, e da poco è sorpassata la porta perché l'andare è lentissimo in tanta confusione, esce un gruppo di robusti giovani portando alti dei vasi di rame pieni di carboni accesi e di incenso, che arde spargendo nubi di fumo odoroso. E il gesto è raccolto e ripetuto, e molti corrono avanti o tornano indietro, alle case, per farsi dare fuoco e resine odorose da ardere in omaggio del Cristo. 

La casa di Annalia appare. La terrazza, inghirlandata di vite dalle foglie novelle tremolanti ad un mite vento di aprile, ha sul lato della via tutta una fila di giovinette biancovestite e biancovelate, al centro delle quali è Annalia, con cesti di petali di rose sfogliate e di mughetti che già volteggiano nell'aria. 

«Le vergini di Israele ti salutano, Signore! », dice Giovanni, che si è fatto largo ed è ora al fianco di Gesù, attirando la sua attenzione sulla ghirlanda di purezza che si sporge sorridendo dal parapetto a spargere la via di petali rossi come sangue e di mughetti bianchi come perle. Gesù trattiene per un attimo le redini e arresta il puledro d'asina. Alza il volto e la mano a benedire quella verginità di Lui innamorata sino a rinunciare ad ogni altro amore terreno. 

E Annalia si protende e grida: «Il tuo trionfo io l'ho visto, o mio Signore! Prendi la mia vita per la tua glorificazione universale!», e con un grido altissimo, mentre Gesù passa sotto la sua casa e procede, lo saluta: «Gesù!». E un altro, diverso grido, supera il clamore delle turbe. Ma la gente, pur sentendolo, non si arresta. È un fiume di entusiasmo, un fiume di popolo in delirio che non può sostare. E mentre le ultime onde di questo fiume sono ancor fuori della porta, le prime onde già assalgono le salite che conducono al Tempio. «Tua Madre! », grida Pietro accennando ad una casa quasi all'angolo di una via che sale al Moria e per la quale si incanala il corteo. E Gesù alza il volto a sorridere a sua Madre, che è lassù fra le donne fedeli. L'intoppo di una numerosa carovana arresta il corteo pochi metri dopo che la casa è superata. 

E mentre Gesù sosta con gli altri, carezzando i bambini che le madri gli porgono, accorre un uomo e si fa largo urlando: «Lasciatemi passare! Una donna è morta. Una fanciulla. All'improvviso. La madre invoca il Maestro. Lasciatemi passare! Egli già l'ha salvata una volta!». La gente fa largo e l'uomo corre presso Gesù: 
«Maestro, la figlia di Elisa è morta. Ti ha salutato con quel grido, poi si è piegata indietro dicendo: "Io son felice" ed è spirata. Il suo cuore si è franto nel gran tripudio di vederti trionfante. Sua madre mi ha visto sulla terrazza accanto alla sua casa e mi ha mandato a chiamarti. Vieni, Maestro!». 
«Morta! Morta Annalia! Ma se era sana, florida, felice solo ieri?». Gli apostoli si affollano agitati, i pastori pure. Tutti l'hanno vista ieri in perfetta salute. Poco fa l'hanno vista rosea, ridente... Non si capacitano della sciagura... Chiedono, domandano i particolari... 
«Non so. Tutti avete sentito le sue parole. Parlava forte, sicura. Poi la vidi piegarsi indietro più bianca delle sue vesti e udii gridare la madre... Altro non so». 
«Non vi agitate. Non è morta. È caduto un fiore e gli angeli di Dio lo hanno raccolto per portarlo in seno ad Abramo. Presto il giglio della Terra si aprirà felice in Paradiso, ignorando per sempre l'orrore del mondo. Uomo, di' ad Elisa che non pianga la sorte della sua creatura. Dille che essa ebbe una grande grazia da Dio e che fra sei giorni comprenderà qual grazia Dio fece alla figlia sua. Non piangete. Non pianga nessuno. Il suo trionfo è ancor più grande del mio, perché alla vergine fanno corteo gli angeli per condurla alla pace dei giusti. Ed è trionfo eterno che salirà di grado senza mai conoscere discesa. In verità vi dico che per voi tutti, ma non per Annalia, avete ragione di piangere. Andiamo». E ripete agli apostoli e a chi lo circonda: «È caduto un fiore. Si è adagiato in pace e gli angeli lo hanno raccolto. Beata la pura di carne e cuore perché presto vedrà Iddio». 

«Ma come, di che è morta, Signore?», chiede Pietro che non si capacita. «D'amore. D'estasi. Di gaudio infinito. Felice morte! ». 
Chi è molto avanti non sa, chi è molto indietro non sa. E perciò gli osanna continuano anche se qui, presso a Gesù, si è fatto un cerchio di pensoso silenzio. 
È Giovanni che lo rompe: «Oh! vorrei la stessa sorte prima delle ore future!». 
«Io pure», dice Isacco. «Vorrei vedere il volto della fanciulla morta d'amore per Te...». 
«Vi prego di sacrificarmi il vostro desiderio. Ho bisogno della vostra vicinanza...».  
«Non ti lasceremo, Signore. Ma a quella madre non un conforto?», chiede Natanaele. «Provvederò ad esso...». Sono alle porte della cinta del Tempio. 

Gesù scende dall'asinello, che uno di Betfage prende in custodia. Occorre tenere presente che Gesù non si è fermato alla prima porta del Tempio, ma ha costeggiato la cinta, fermandosi soltanto quando è sul lato nord della cinta, vicino all'Antonia. È là che scende ed entra nel Tempio, come per far vedere che non si nasconde al potere dominante, sentendosi innocente in ogni sua azione. 

Il primo cortile del Tempio mostra la solita gazzarra di cambiavalute e venditori di colombe, passeri e agnelli, soltanto che ora i venditori sono lasciati in asso perché tutti sono accorsi a vedere Gesù. 
E Gesù entra, solenne nella sua veste porpurea, e gira lo sguardo su quel mercato e su un gruppo di farisei e scribi che lo osservano da sotto un portico. Il suo volto sfolgora di sdegno. 

Balza al centro del cortile. Uno scatto improvviso che pare un volo. Il volo di una fiamma, ché di fiamma è la sua veste nel sole che inonda il cortile. E tuona con una voce potente: 

«Via dalla casa del Padre mio! Non è questo luogo di usura e di mercato. Sta scritto: (Isaia 56, 7; Geremia 7, 11) "La mia casa sarà chiamata casa di orazione". Perché dunque l'avete mutata in spelonca di ladroni, questa casa nella quale è invocato il Nome del Signore? Via! Mondate la mia Casa. Che non vi avvenga che, in luogo di usar le funi, Io vi colpisca con i fulmini dell'ira celeste. Via! Fuori di qui i ladri, i barattieri, gli impudichi, gli omicidi, i sacrileghi, gli idolatri della peggiore idolatria, quella del proprio io superbo, i corruttori e i menzogneri. Fuori! Fuori! O che Dio altissimo, Io ve lo dico, spazzerà per sempre questo luogo e farà le sue vendette su tutto un popolo». 

Non ripete la fustigazione dell'altra volta (Vedi Vol 1 Cap 53), ma, visto che mercanti e cambiavalute stentano ad ubbidire, va al banco più vicino e lo ribalta spargendo bilance e monete al suolo. I venditori e i cambiavalute si affrettano a porre in atto l'ordine di Gesù, dopo che hanno avuto questo primo esempio. 

E Gesù grida dietro a loro: «E quante volte dovrò dire che questo luogo non deve essere luogo d'immondezza ma di preghiera?». E guarda quelli del Tempio che, ubbidienti agli ordini ponteficali, non fanno un gesto di rappresaglia. 
Mondato il cortile, Gesù va verso i portici dove sono raccolti ciechi, paralitici, muti, storpi e altri malati, che lo invocano a gran voce. 
«Che volete voi che Io vi faccia?». 
«La vista, Signore! Le membra! Che mio figlio parli! Che mia moglie risani. Noi crediamo in Te, Figlio di Dio!». 
«Dio vi ascolti. Sorgete e osannate al Signore!». Non cura uno per uno i molti malati. Ma fa un gesto largo con la mano, e grazia e salute scende da essa sugli infelici, che sorgono sani con gridi di giubilo che si mescolano a quelli dei molti bambini, che si stringono a Lui ripetendo: «Gloria, gloria al Figlio di Davide! Osanna a Gesù Nazareno, Re dei re e Signore dei signori!». 
Dei farisei, con finta deferenza, gli gridano: «Maestro, li senti? Questi fanciulli dicono ciò che non va detto. Riprendili! Che tacciano!». 

«E perché? Il re profeta, il re della mia stirpe, non ha forse detto: (Salmo 8, 3) "Dalla bocca dei fanciulli e dei lattanti hai fatto sgorgare la lode perfetta, a confusione dei tuoi nemici"? Non avete letto queste parole del salmista? Lasciate che i pargoli dicano le mie lodi. Sono loro suggerite dai loro angeli, che vedono costantemente il Padre mio e ne sanno i segreti e li suggeriscono a questi innocenti. Ora lasciatemi tutti andare ad orare al Signore», e passando davanti alla gente passa nell'atrio degli Israeliti per pregare... E poi, uscendo per un'altra porta, rasentando la piscina Probatica, esce dalla città tornando sui colli del monte Uliveto. Gli apostoli sono entusiasti... Il trionfo li ha fatti sicuri e dimentichi, completamente dimentichi di tutti i terrori che le parole del Maestro avevano suscitato... Parlano di tutto... Ardono di sapere di Annalia. A stento Gesù li trattiene dall'andare, assicurando che provvederà in modo che sa Lui... Sordi, sordi, sordi ad ogni voce d'avviso divino... Uomini, uomini, uomini, che un grido di osanna smemora da ogni cosa... Gesù parla ai servi di Maria di Magdala, che lo hanno raggiunto al Tempio, e poi li licenzia... 

«E ora dove andiamo?», chiede Filippo. 
«A casa di Marco di Giona?», dice Giovanni. 
«No. Al campo dei Galilei. Forse saranno venuti i miei fratelli e vorrei salutarli», dice Gesù. «Lo potrai fare domani», gli osserva il Taddeo. 
«Buona cosa è fare mentre si può fare. Andiamo dai Galilei. Saranno contenti di vederci. Voi avrete notizie delle famiglie. Io vedrò i bambini...». 
«E questa sera? Dove dormiremo? In città? In che luogo? Dove è tua Madre? O da Giovanna?», chiede Giuda Iscariota. «Non so. Certo non in città. Forse ancora sotto qualche tenda galilea...». 
«Ma perché?». 
«Perché sono il Galileo e amo la patria mia. Andiamo». Si rimettono in cammino salendo verso il campo dei Galilei, che è sull'Uliveto verso Betania e che è tutto un biancheggiare di tende al lieto sole d'aprile.
«Osanna, osanna al Figlio di Davide! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna a Lui e al suo Regno! Dio è con noi! L'Emmanuele è venuto. È venuto il  Regno del Cristo del Signore! Osanna! Osanna dalla Terra sino all'alto dei Cieli! Pace! Pace, mio Re! Pace e benedizione a Te, Re santo! Pace e gloria nei Cieli e in Terra! Gloria a Dio per il suo Cristo! Pace agli uomini che lo sanno accogliere. Pace in Terra agli uomini di buona volontà e gloria nei Cieli altissimi, perché l'ora del Signore è venuta»

584. Il sabato avanti l’entrata in Gerusalemme.



584. Il sabato avanti l’entrata in Gerusalemme. Parabola dei due lumi e parabola vivente del piccolo deforme risanato. Il dolore nel futuro dell’Umanità. 

 Il tempo, ristabilito dopo le piogge dei giorni passati, mostra un cielo tersissimo e un fulgido sole. La terra, mondata dalle piogge, è tersa come l’atmosfera. Sembra creata da poche ore, tanto è fresca e monda. Tutto splende e tutto canta nel mattino sereno. Gesù passeggia lentamente lungo i sentieri più remoti del giardino. Solo qualche servo giardiniere osserva questa solitaria passeggiata nelle prime ore del mattino. Ma nessuno disturba il Maestro. Anzi si ritirano silenziosamente per lasciarlo in pace. Del resto è sabato, giorno di riposo, e i servi giardinieri non sono al lavoro. 

Ma, per consuetudine lunga quanto la loro vita, sono fuori, ad osservare le piante, gli alveari, i fiori per i quali non c’è il sabato e che odorano, frusciano e ronzano al sole e al venticello d’aprile. Poi il giardino si anima lentamente. Prima i servi di casa e le ancelle, poi gli apostoli e le discepole, ultimo Lazzaro. Gesù li raggiunge salutandoli col suo saluto. 

«Da quando sei qui, Maestro?», chiede Lazzaro scuotendo dalle ciocche dei capelli di Gesù delle gocce di rugiada. 
«Dall’aurora. Mi hanno chiamato a lodare Iddio i tuoi uccelli. E sono venuto qui fuori. Contemplare Dio nelle bellezze del creato è onorarlo e pregare con commosso spirito. È bella la Terra. E in queste prime ore del giorno, in un giorno pari a questo, ci appare fresca come lo era nei primi dì del suo vivere». 
«Proprio tempo di Pasqua. E si è aggiustato. Durerà perché si è aggiustato alla prima epoca lunare con vento propizio», sentenzia Pietro. 
«Ne sono ben lieto. La Pasqua con l’acqua è triste». 
«Più ancora, è dannosa alle messi. Richiede sole il grano, ora che si avvia alla mietitura», dice Bartolomeo. 
«Io sono felice di essere qui in pace. Oggi è sabato e non verrà nessuno. Nessun estraneo fra noi», dice Andrea. 

«Ti sbagli. C’è un ospite, un piccolo ospite. Dorme ancora, Maestro. Il letto morbido e lo stomaco sazio gli danno lungo sonno. Sono passato a vederlo. Noemi lo veglia», dice Lazzaro. «Ma chi è? Quando è venuto? Chi lo ha portato? Perché tu parli come fosse un fanciullo», chiedono uomini e donne. «È un fanciullo. Un povero fanciullo. Lo ha portato qui il suo dolore. Era là, contro le sbarre del cancello a guardare verso la casa. E il Maestro lo ha accolto». «Non si sapeva nulla... Perché?». «Perché la creatura aveva bisogno di pace», risponde Gesù e il suo viso si assorbe in un pensiero profondo mentre termina: «E in casa di Lazzaro si sa tacere». Un servo viene a dire qualcosa a Marta e poi si ritira per tornare con altri che portano vassoi con anfore di latte e tazze, e pane con burro e miele. Si servono tutti, sedendo qua e là sugli sparsi sedili. Ma poi vogliono riunirsi di nuovo intorno al Maestro e chiedono una parabola, «una bella parabola», dicono, «serena come questo giorno di nisam». 

«Non una, ma due ve ne darò. 
Udite. Un uomo volle un giorno accendere due lumi per onorare il Signore in una sua festa. Prese dunque due vasi di uguale larghezza, vi mise la stessa quantità e qualità d’olio, uno stoppino uguale, e li accese alla stessa ora, perché pregassero per lui mentre egli lavorava come era concesso. Tornò dopo qualche tempo e vide che un lume fiammeggiava fortemente, mentre l’altro aveva una fiammolina quieta quieta, che appena metteva un punto di luce nell’angolo dove ardevano i lumi. L’uomo pensò che fosse malfatto lo stoppino. Lo osservò. No, andava bene. Ma non voleva ardere così giocondamente come l’altro lume, che vibrava la sua fiamma come fosse una lingua e pareva proprio mormorasse parole tanto era gioconda e tanto, nell’agitarsi divampando, aveva persino un lieve mormorio. “Questo lume veramente canta le lodi del Signore altissimo!”, disse fra sé. “Mentre questo! Guardalo anima mia! Sembra che gli pesi dover onorare il Signore, tanto lo fa con poco ardore!”, e se ne tornò ai suoi lavori. 
Tornò dopo qualche tempo. Una fiamma si era ancor più alzata e l’altra si era ancor più abbassata, e ardeva sempre più ferma e quieta quanto più l’altra vibrava splendendo. 
Tornò una seconda volta. La stessa cosa. 
Una terza, la stessa cosa. Ma, venendo la quarta volta, vide la stanza piena di fumo maleolente e scuro, e una sola fiammolina splendere attraverso i veli del fumo spesso. Andò alla mensola dove erano i lumi e vide che quello che tanto fiammeggiava prima si era totalmente consumato e annerito, e aveva anche sporcato, con la sua lingua, la parete bianca. L’altro, invece, continuava con la sua costante luce ad onorare il Signore. 

Stava per riparare all’accaduto quando una voce gli risuonò vicino: “Non mutare le cose di come stanno. Ma medita su esse che sono un simbolo. Io sono il Signore”. L’uomo si gettò col volto al suolo adorando, e con grande tremore osò dire: “Io sono stolto. Spiegami, o Sapienza, il simbolo dei lumi, dei quali quello che pareva il più attivo nell’onorarti ha fatto danno e l’altro dura nella sua luce”. 
“Sì che lo farò. Così è dei cuori degli uomini come di questi due lumi. Vi sono quelli che al principio ardono e splendono e sono di ammirazione agli uomini, tanto sembra perfetta e costante la loro fiamma. E vi sono quelli che hanno uno splendere mite, che non attira l’attenzione e può parere tiepidezza nell’onorare il Signore. Ma, passata la prima fiammata (è detto dei primi, quelli cioè che sono di ammirazione agli uomini e fanno danno), o la seconda o la terza, fra la terza e la quarta fanno danno, e poi si spengono, con rovina, perché il loro non era un lume sicuro. Hanno voluto splendere più per gli uomini che per il Signore, e la superbia li ha consumati in breve ora, fra un fumo nero e pesante che ha ottenebrato anche l’aria. Gli altri hanno avuto una volontà unica e costante: onorare Dio solo; e, senza curarsi se l’uomo li lodava, hanno consumato se stessi con lunga, nitida fiamma, priva di fumo e fetore. Sappi imitare il lume costante, perché esso solo è gradito al Signore”. 

L’uomo rialzò il capo... L’aria si era mondata dal fumo e la stella del lume fedele splendeva ora da sola, pura, ferma, in onore di Dio, facendo lucere il metallo del lume come fosse d’oro puro. E lo guardò splendere, sempre uguale, per ore e ore, sinché dolcemente, senza fumo o fetore, senza sporcare la sua veste, la fiamma si esalò in un guizzo, parendo salire al cielo a fissarsi fra le stelle, avendo degnamente onorato il Signore sino all’ultimo umore e all’ultimo stame della sua vita. 

In verità, in verità vi dico che molti sono coloro che dànno grande fiamma all’inizio e attirano l’ammirazione del mondo, che non vede che la superficie delle azioni umane, ma poscia periscono carbonizzandosi e affumicando dei loro acri fumi. E in verità vi dico che il loro fiammeggiare non è osservato da Dio, perché Egli vede che è orgoglioso ardere per fine umano. Beati quelli che sanno imitare il secondo lume e non carbonizzarsi, ma salire al Cielo con l’ultimo palpito del loro costante amore». 
«Che parabola strana! Ma vera! Bella! Mi piace! Io vorrei sapere se noi siamo i lumi che salgono al Cielo». Gli apostoli si scambiano le loro espressioni. 
Giuda trova modo di mordere. E il suo morso va a Maria di Magdala e Giovanni di Zebedeo: «Attenta Maria e tu, Giovanni. Voi siete i fiammeggianti lumi fra noi... Che non vi avvenga male!». Maria di Magdala sta per rispondere, ma si morde le labbra per non dire le parole che le erano salite dal cuore. Guarda Giuda. Si limita a guardarlo. Ma quello sguardo è così ardente che Giuda cessa di ridere e di fissarla. 
Giovanni, mite di cuore sebbene ardente di carità, risponde dolcemente: «E per la mia capacità ciò potrebbe avvenire. Ma io confido nell’aiuto del Signore e spero di potermi consumare sino all’ultima stilla e all’ultimo stame per onorare il Signore Dio nostro». 
«E l’altra parabola? Ne hai promesse due», ricorda Giacomo di Alfeo. 

«Eccola, la mia seconda parabola. Sta per venire...», e accenna la porta della casa, velata dalla tenda che si smuove lentamente al vento e che poi si scosta, spostata dalla mano di un servo per dare il passo alla vecchia Noemi, che si precipita ai piedi di Gesù dicendo: «Ma il fanciullo è sano! Non è più deforme! Tu lo hai guarito nella notte. Si era svegliato e io preparavo il bagno per lavarlo prima di mettergli la tunica e la veste, che avevo cucita nella notte prendendo una veste smessa da Lazzaro. Ma quando gli ho detto: “Vieni, fanciullo” e ho scostate le coperte, ho visto che il suo piccolo corpo, così storto ieri, non era più tale. E ho gridato. Sono accorse Sara e Marcella, che neppure sapevano del fanciullo dormente nel mio letto, e le ho lasciate là per correre a dirti...». La curiosità prende tutti. Domande, ansia di vedere. 

Gesù placa il brusio con un gesto. Ordina a Noemi: «Torna dal fanciullo. Lavalo, vestilo e conducimelo qui». E poi si volge ai suoi discepoli: «Ecco la seconda parabola, e può essere detta: “La vera giustizia non fa vendette e distinzioni”. Un uomo, anzi, l’Uomo, il Figlio dell’uomo, ha nemici e amici. 
Pochi amici, molti nemici. E nemici dei quali non ignora l’odio, né i pensieri, e dei quali conosce la volontà, che non fletterà davanti a nessuna azione, per orrenda che sia. In questo più forti dei suoi amici, nei quali lo sgomento o la delusione o un’eccessiva fiducia fanno da arieti sgretolatori della loro fortezza. 
Questo Figlio dell’uomo dai molti nemici, e al quale si rimproverano tante cose non vere, incontrò ieri un povero fanciullo, il più desolato dei fanciulli, figlio di uno che gli è nemico. E il fanciullo era deforme e storpio, e chiedeva una grazia strana, quella di morire. Tutti chiedono onori e gioie al Figlio dell’uomo, chiedono salute, chiedono vita. Questo povero bambino chiedeva di morire per non soffrire più. Ha già conosciuto tutto il dolore della carne e del cuore, perché colui che lo ha generato, e che mi odia senza ragione, odia pure l’innocente infelice che ha generato. E Io l’ho guarito perché non soffra più, perché oltre che la salute fisica possa raggiungere la salute spirituale. Anche la sua piccola anima è malata. L’odio del padre e lo scherno degli uomini gliel’hanno piagata e fatta spoglia d’amore. Solo gli è rimasta la fede nel Cielo e nel Figlio dell’uomo, al quale, anzi, ai quali chiede di morire. Eccolo. Ora lo sentirete parlare». 
Il fanciullo, ravviato e pulito nella vesticciuola di lana bianca che Noemi gli ha cucito svelta nella notte, viene avanti per mano della vecchia nutrice. È piccolo, per quanto, non essendo più curvato e sciancato, sembri già più alto di ieri. Ha il visetto irregolare e un poco vizzo di creatura che il dolore ha fatto precocemente adulto. Ma non è più deforme. I piedini scalzi calpestano sicuri il suolo, con un passo che non ha più quel claudicare degli sciancati, e le spalle magre sono ben diritte nella loro magrezza. Il collo esile le sovrasta e sembra lungo rispetto a ieri, quando gli sprofondava fra le clavicole asimmetriche. 

«Ma... ma questo è il figlio di Anna di Nahum! Che miracolo sciupato! Credi con questo di renderti amico suo padre Nahum? Più astiosi li farai! Perché essi si auguravano soltanto la morte di questo fanciullo, frutto di un infelice matrimonio», esclama Giuda di Keriot. 
«Non opero miracoli per farmi degli amici, ma per pietà delle creature e per dare onore al Padre mio. Non faccio distinzione e calcolo, mai, quando mi curvo pietoso su una miseria umana. Non mi vendico di chi mi perseguita...». 
«Nahum prenderà questo tuo atto per una vendetta». 
«Io non sapevo neppure di questo fanciullo. Ne ignoro ancora il nome». 
«Matusala, o Matusalem, è detto per spregio». (Forse perché la sua deformità richiamava alla mente la vecchiezza, divenuta proverbiale in Matusalem: Genesi 5, 27). 
«La mamma mi chiamava Scialem. Mi amava la mamma. Non era cattiva come tu sei e come sono quelli che mi odiano», dice il bambino con una luce negli occhi, la luce di impotente ira che hanno uomini e animali troppo a lungo seviziati. 

«Vieni qui, Salem. Qui con Me. Sei contento di essere sano?». 
«Sì... ma preferivo morire. Non sarò amato lo stesso. Se c’era ancora la mamma sarebbe stato bello. Ma così!... Sarò sempre infelice». 
«Ha ragione. Ieri incontrammo questo bambino. Ci chiese se Tu eri a Betania, da Lazzaro. Volevamo dargli un obolo perché lo credemmo un mendico. Ma non lo volle. Era al limitare di un campo...», dice lo Zelote. 
«Neppur tu lo conoscevi? È strano», dice Giuda di Keriot. 
«Più strano è che tu sappia tanto bene queste cose. Ti dimentichi che sono stato fra i perseguitati e poi fra i lebbrosi, sinché non venni col Maestro?». 
«E tu dimentichi che sono amico di Nahum, che è il fiduciario di Anna? Non ve l’ho mai nascosto». «Bene! Bene! Questo non ha importanza. Importanza ha sapere che ne facciamo adesso di questo fanciullo. Suo padre non lo ama, è vero. Ma ha sempre dei diritti su di lui. Non possiamo levargli il figlio, così, senza dirglielo. Bisogna essere cauti e non urtarli, giacché sembrano migliori verso di noi», dice Natanaele. 
Giuda ride forte, sarcastico, né dà spiegazione del suo ridere. 
Gesù, che si è messo fra i ginocchi il bambino, dice lentamente: «Affronterò Nahum... Non sarò odiato di più per questo. Non può crescere il suo odio. Non può. È già completo». 

Annalia, che non ha mai parlato, tutta assorta in un suo pensiero che la fa beata, apre la bocca per dire: «Se fossi rimasta, mi sarebbe piaciuto prenderlo con me. Sono giovane, ma ho cuore di madre...». 
«Vai via? Quando?», chiedono le donne. «Presto». «Per sempre? E dove vai? Fuor di Giudea?». 
«Sì. Lontano. Molto lontano. Per sempre. E sono tanto felice». 
«Quello che tu non puoi fare, altre potranno, se il padre lo cede». 
«Lo dirò io a Nahum, se ci tenete. È lui che conta. Più del padre vero. Domani lo dirò», promette Giuda di Keriot. 
«Se non era sabato... andavo da quel Giosia che lo aveva in consegna», dice Andrea. 
«Per vedere se sono afflitti di averlo perduto?», chiede Matteo. 
«Credo che, se si smarrisse una delle loro api, avrebbero più affanno...», brontola fra i denti Massimino che si è avvicinato da qualche tempo. 
Il fanciullo non parla. Sta stretto a Gesù, studiando i volti che ha dintorno con quell’acutezza di sguardi che hanno sovente le creature malaticce e vissute nel dolore. Sembra che scruti gli animi più che i volti e, quando Pietro gli chiede: «Che ti pare di noi?», il bambino risponde, mettendogli la mano nella mano, dicendo: «Tu sei buono», poi corregge: «Tutti buoni. Ma... vorrei non essere stato riconosciuto. Ho paura...», e guarda Giuda di Keriot. «Di me, non è vero? Che io parli a tuo padre? Certo che lo dovrò fare, se devo chiedergli se ti lascia a noi. Ma non ti leverà!». «Lo so. Ma è un’altra cosa... Vorrei essere lontano, lontano, come va quella donna... Nel paese di mia madre. C’è un mare azzurro in mezzo ai monti tutti verdi. Lo si vede giù in basso, con tante vele bianche che gli volano sopra e belle città intorno. E sui monti ci sono tante grotte dove le api selvatiche fanno il miele dolce dolce. Non ho più mangiato miele da quando è morta la mamma e sono stato dato a Giosia. Filippo, Giuseppe, Elisa e gli altri bambini, loro sì che lo mangiavano. Ma io no. Se avessero tenuto il vaso del miele in basso lo avrei rubato, tanto ne avevo voglia. Ma lo tenevano sulle assi alte, e io non potevo salire sui tavoli come faceva Filippo. Ho tanta voglia di miele io!». «Oh! povero figlio! Te ne vado a prendere quanto vuoi!», dice Marta commossa e se ne corre via lesta. 

«Ma di dove era sua madre?», chiede Pietro. 
«Aveva case e possessi presso Sefet. Unica figlia orfana e erede, vecchia già, brutta e lievemente sciancata. Ma ricca tanto. Pronubo il vecchio Sadoc, il figlio del beneamato di Anna la ottenne in moglie... Un contratto che fu un vero mercato indegno, tutto calcolo, nulla amore. Venduto l’avere della donna dicendolo troppo lontano da qui, meno una casetta che prima era del fattore e che lo stesso aveva avuta in dono dal vecchio padrone per tutta la vita sua e dei suoi eredi sino alla quarta generazione, consumò tutto in speculazioni sfortunate. Però… io non ci credo. Perché so che ha belle terre verso la sponda… che prima non aveva... Poi, dopo qualche anno di matrimonio, la donna essendo già al limitare del suo declino, nacque questo figlio... e fu pretesto per cacciare la donna e prenderne un’altra della pianura di Saron, giovane, bella e ricca... La divorziata si rifugiò presso il vecchio fattore e vi morì. Non so perché non tennero questo fanciullo. Il padre lo calcolava morto», spiega l’Iscariota. 
«Perché Giovanni era morto e morta Maria, e i figli andarono servi altrove. E chi mi doveva tenere, se figlio non ero e non ero buono al lavoro? Erano buoni, però, Micael e Isacco, e buona Ester e Giuditta. E sono buoni. Quando vengono per le feste mi portano roba, ma Giosia me la leva per i suoi figli». 
«Però non ti vogliono», gli ribatte Giuda. 
«Ora che sono diritto e forte mi vorranno. Sono servi loro! Non potevano, l’ho detto, dire al padrone: “Prendi questo storpio malato”. Ma ora possono». 
«Ma se tu sei fuggito da Giosia, come ti possono trovare?», lo fa riflettere Bartolomeo. 
Il bambino è colpito dalla giusta osservazione e riflette, perché l’infermità lo ha fatto precocemente riflessivo nel pensiero come precocemente adulto nel volto, e dice sconfortato: «È vero! Non ci avevo pensato». 
«Torna là. In questi giorni verranno...». 
«Là? No. Non torno là. Non voglio tornare là. Piuttosto mi uccido!». È selvaggio nella sua furia che lo stravolge, ma poi si rovescia in pianto sui ginocchi di Gesù dicendo: «Perché non mi hai fatto morire?». 
Marta, che sta tornando con un vaso di miele, resta stupita di quella desolazione, e Bartolomeo è afflitto di averla provocata e si scusa: «Credevo di dare un buon consiglio. Buono per tutti. Per il fanciullo, per Te, Maestro, per Lazzaro... Nessuno di voi, e di noi, ha bisogno di nuovo odio...». 

«È vero! Un vero guaio!», esclama Pietro e meditando sul caso ne tira interne conclusioni, che conclude con la sua caratteristica fischiatina, che è l’esponente per lui del suo stato d’animo davanti a problemi difficili, gravi a risolvere. Chi propone questo, chi quello. Andare da Nahum. Andare da Giosia e dirgli di mandare questi Micael e Isacco da Lazzaro, o altrove, dove sarà il fanciullo, perché è prudente non fare odiare Lazzaro più di quanto già non sia per la sua amicizia con Gesù. Non dire nulla a nessuno e far sparire il fanciullo, dandolo a qualche discepolo sicuro. 
Giuda di Keriot non parla. Sembra anzi estraneo alla discussione. Giocherella coi fiocchi della sua veste, pettinandoli e spettinandoli con le dita. Anche Gesù non parla. Carezza e calma il fanciullo e gli rialza il viso, mettendogli nelle mani il vasetto di miele. Scialem è un bambino, un povero bambino decenne che ha sempre sofferto, ma è sempre un bambino, anche se il dolore lo ha maturato, e davanti a tanto tesoro di miele cambia le ultime lacrime in uno stupore estatico. 
Chiede, alzando gli occhi, l’unica sua bellezza, così castani, grandi, intelligenti, e fissando Gesù e Marta alternativamente, chiede: «Quanto ne posso prendere? Uno di questi mestoli o due?», e accenna al tondo cucchiaio d’argento che sprofonda lentamente nel biondo miele. 
«Quanto ne vuoi, fanciullo. Quanto ti piace. Il resto te lo prenderai domani, e dopo. È tutto tuo!», dice Marta accarezzandolo. 
«Tutto mio!!! Oh! Non ho mai avuto tanto miele, io!! Tutto mio! Oh!». E si stringe con riverenza il vaso al petto come fosse un tesoro. Ma poi sente che, più che il vaso, è prezioso l’amore che glielo dona e depone il vasetto sulle ginocchia di Gesù, alzando poi le braccia per voler allacciare il collo di Marta curva su lui e baciarla. È tutto quello che può la sua riconoscenza, tutto quanto può dare, egli, il derelitto che non ha nulla da dare. Gli altri sospendono di far piani per osservare la scena. 
Pietro dice: «Questo è ancora più infelice di Marziam, che aveva almeno l’amore del nonno e degli altri contadini! È proprio vero che ci sono sempre dei dolori più grandi di quelli che abbiamo giudicato grandissimi!». 
«Sì. L’abisso del dolore umano non ha avuto ancora scandagliato il suo fondo. Chissà quanti segreti cela ancora... E che celerà per i secoli futuri?», dice Bartolomeo pensieroso. 
«Tu non hai fede nella Buona Novella, allora? Tu non credi che essa muterà il mondo? È detto dai profeti. E il Maestro lo ripete. Tu sei un incredulo, Bartolmai», dice l’Iscariota con lieve ironia. 
Lo Zelote gli risponde: «Non vedo in che sia l’incredulità di Bartolomeo. La dottrina del Maestro darà conforti a tutte le sventure, modificherà anche la ferocia degli usi e costumi, ma non eliminerà il dolore. Lo renderà sopportabile con le sue divine promesse di gioie future. Per essere abolito il dolore, o quanto meno molta parte di dolore, perché sempre resterebbero le malattie e le morti e i cataclismi naturali, necessiterebbe che tutti avessero il cuore che ha il Cristo, ma...». 

Lo interrompe l’Iscariota: «Così infatti deve avvenire. Altrimenti che sarebbe giovato che il Messia venisse sulla Terra?». 
«Così dovrebbe avvenire, diciamo. Ma dimmi, o Giuda, è forse questo avvenuto fra noi? Siamo dodici e da tre anni viviamo con Lui, assorbiamo la sua dottrina come l’aria che respiriamo. Ebbene? Siamo tutti santi, noi dodici? Che facciamo di diverso da quello che fa Lazzaro, da quello che fanno Stefano, Nicolai, Isacco, Mannaen, e Giuseppe e Nicodemo, e le donne, e i fanciulli? Parlo dei giusti di questa nostra Patria. Tutti questi, sia che siano sapienti e ricchi, o poveri e ignoranti, fanno ciò che noi facciamo: un po’ bene, un po’ male, ma senza rinnovarsi totalmente. Anzi ti dico che molti, molti ci superano. Sì. Molti seguaci superano noi, apostoli... E pretenderesti che tutto il mondo prenda il cuore che ha il Cristo, se noi, noi gli apostoli, non lo abbiamo preso? Siamo più o meno migliorati... almeno speriamo che ciò sia, perché difficilmente l’uomo si conosce e conosce il fratello che vive al suo fianco. È troppo opaco e spesso il velo della carne, e troppo attento il pensiero dell’uomo a non esser penetrato, perché l’uomo capisca l’uomo. Sempre, osservandosi oppure osservando, si resta alla superficie. Quando è per esame nostro, perché non ci vogliamo conoscere per non soffrire nell’orgoglio o della necessità di modificarsi. Quando è esame d’altri, perché il nostro orgoglio di esaminatori ci fa giudici ingiusti e l’orgoglio dell’esaminato si serra, come un’ostrica fa con le sue valve, su quanto ha nel suo interno», dice lo Zelote. 
«Ben detto! Simone, tu veramente hai detto parole di sapienza!», approva Giuda Taddeo. E gli altri gli fanno coro. 
«E allora a che è venuto, se nulla deve mutare?», ribatte l’Iscariota. 

Gesù prende la parola: «Molto si muterà. Non tutto. Perché contro la mia Dottrina sarà in futuro ciò che già è in atto: l’odio di coloro che non amano la Luce. Perché contro la forza dei miei seguaci sarà quella dei seguaci di Satana. Quanti! Di quanti aspetti! Alla mia immutabile, perché perfetta, Dottrina, quante dottrine di eresie sempre nuove saranno opposte! Quanto dolore germinerà da esse! Voi non conoscete il futuro. A voi sembra molto il dolore che è ora nel mondo... Ma Colui che sa, vede orrori che non sarebbero neppure compresi se ve li spiegassi... Guai se non fossi venuto! Venuto per dare ai futuri un codice, che frena gli istinti nei migliori, e una promessa di pace futura! Guai se l’uomo non avesse, per la mia venuta, degli elementi spirituali atti a tenerlo “vivo” nella vita dello spirito, a tenerlo sicuro di un premio!... Se non fossi venuto, con l’andare dei secoli la Terra sarebbe divenuta un vasto inferno terrestre, e la razza umana si sarebbe sbranata e sarebbe perita maledicendo il Creatore...». 

«L’Altissimo ha promesso di non mandare più castighi universali come il diluvio. (Genesi 9, 11.15). Promessa di Dio non falla», dice Giuda. 
«Sì, Giuda di Simone. È vero. E l’Altissimo non manderà più flagelli universali come il diluvio. Ma gli uomini se li creeranno da loro dei flagelli sempre più atroci, rispetto ai quali il diluvio e la pioggia di fuoco che sterilì Sodoma e Gomorra saranno aspetti di castighi ancora pietosi. (Genesi 19, 23-25). Oh!...». Gesù si alza in piedi con un gesto di angosciosa pietà per le genti avvenire. 

«Va bene! Tu sai... Ma intanto che facciamo per costui?», chiede l’Iscariota accennando il fanciullo che gusteggia a piccole dosi il suo miele ed è beato. 
«Ad ogni giorno il suo affanno. Il domani dirà. Preoccuparsi del domani è vano se non sappiamo neppure chi sarà ancor vivo domani» . 
«Io non penso come Te. E dico che bisognerebbe sapere dove andremo ad abitare, dove consumeremo la Cena. Tante cose. Se attendiamo, attendiamo, la città si empie. E dove andremo noi? Al Getsemani, no. Da Giuseppe di Sefori, no. Da Giovanna, no. Da Niche, no. Da Lazzaro, no. E dove allora?». 
«Dove il Padre preparerà un rifugio per il suo Verbo». 
«Credi che io voglia sapere per riferire?». 
«Tu lo dici. Io non ho detto nulla. Vieni, Scialem. Mia Madre sa di te, ma ancora non ti ha visto. Vieni, che ti conduco a Lei». 
«Ma è malata tua Madre?», chiede Tommaso. 
«No. Prega. Ha molto bisogno di preghiera». 
«Sì. Soffre molto. Piange molto. E Maria non ha che la preghiera che la consoli. Sempre l’ho vista molto pregare. Nei momenti di maggior dolore vive di preghiera, potrei dire...», spiega Maria d’Alfeo, mentre Gesù si allontana tenendo per mano il fanciullo e avendo dall’altro lato Annalia, che ha invitata ad andare con Lui da Maria.