DOMENICA DELLE PALME
Temi del sermone
– Vangelo delle Palme: “Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù...”; vangelo che si divide in quattro parti.
– Anzitutto sermone sulla passione di Cristo, rivolto all’anima del peccatore: “Sali a Galaad”.
– Parte I: Sermone in lode della beata Vergine: “Avvicinandosi Gesù”; lo struzzo e il suo simbolismo.
– Sermone morale ai peccatori convertiti: “Gesù, sei giorni prima della Pasqua”.
– Sermone sulla triplice luce del monte degli Ulivi e suo significato.
– Parte II: Sermone contro i religiosi e i chierici (clero), raffigurati nell’asino e nel suo puledro: “Allora mandò due discepoli”.
– Parte III: Sermone sull’umiltà, la povertà e la passione di Cristo: “Dite alla figlia di Sion”.
– Sermone contro i prelati superbi: “Disperderò la quadriga di Efraim”.
– Sermone al vescovo: “Il re seduto su di un’asina”.
– Parte IV: Sermone sull’imitazione degli esempi dei santi: “Vi prenderete i frutti dell’albero”.
esordio - sermone sulla passione di cristo
1. In quel tempo: “Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù, arrivato a Betfage presso il monte degli Ulivi” (Mt 21,1), ecc.
Geremia così parla all’anima peccatrice: “Sali a Galaad e prendi della resina, o vergine figlia dell’Egitto” (Ger 46,11). La figlia dell’Egitto è l’anima accecata dai piaceri di questo mondo: Egitto s’interpreta “tenebre". Infatti Geremia continua: “Come mai il Signore, nella sua ira, ha coperto”, cioè ha permesso che forse coperta, “di caligine la figlia di Sion?” (Lam 2,1), cioè l’anima, che dev’essere figlia di Sion? Essa è detta vergine perché sterile di buone opere. E di nuovo Geremia: “Il Signore ha pigiato il torchio alla vergine figlia di Sion” (Lam 1,15), cioè l’ha condannata alla pena eterna, perché restò sterile della prole delle buone opere. E le dice: “Sali”, con i piedi dell’amore, con i passi della devozione, “a Galaad”, che s’interpreta “cumulo di testimonianze”; sali cioè sulla croce di Gesù Cristo, sulla quale sono accumulate innumerevoli testimonianze della nostra redenzione, vale a dire i chiodi, la lancia, il fiele, l’aceto e la corona di spine; e da lì “prendi la resina”.
La resina è una lacrima, una goccia, che stilla da un albero. La resina migliore di tutte è quella del terebinto (la trementina). Essa raffigura la goccia del sangue preziosissimo che fluì dall’albero, piantato nel giardino delle delizie (cf. Gn 2,8), “lungo il corso delle acque” (Sal 1,3), per la riconciliazione del genere umano.
Prendi dunque, o anima, questa resina e ungi le tue ferite, perché essa è il medicamento più potente ed efficace per risanarle, per ottenere il perdono e per infondere la grazia. Sali quindi a Galaad, sali cioè con Gesù a Gerusalemme, perché anche lui vi è salito nel giorno di festa (cf. Gv 7,8). Infatti dice il vangelo di oggi: “Avviatosi Gesù a Gerusalemme”, ecc.
2. In questo vangelo si devono osservare quattro momenti. Primo: Gesù che si avvicina a Gerusalemme: “Mentre si avvicinava”, ecc. Secondo: l’invio dei due discepoli al villaggio: “Allora mandò due dei suoi discepoli”, ecc. Terzo: l’assidersi del re mansueto, povero e umile, su di un’asina e il suo puledro: “Ecco il tuo re viene, seduto su un’asina”, ecc. Quarto: l’entusiasmo e le acclamazioni della folla: Osanna al Figlio di Davide”, e “Una folla grandissima”, ecc.
I. Gesù si avvicina a Gerusalemme
3. “Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù...”, ecc. Osserva che il Signore, quando andò a Gerusalemme, fece questo percorso: dapprima arrivò a Betania, da Betania si recò a Betfage, da Betfage al monte degli Ulivi, e dal monte degli Ulivi arrivò a Gerusalemme. Vedremo che cosa significhi tutto questo: prima il significato allegorico e poi quello morale.
Betania, che s’interpreta “casa dell’obbedienza”, o “casa del dono di Dio”, o anche “casa gradita al Signore”, raffigura la Vergine Maria, che obbedì alla voce dell’angelo, e quindi meritò di accogliere il dono celeste, il Figlio di Dio, e così fu gradita al Signore più di ogni altra creatura. Infatti è detto di lei nei Proverbi: “Molte figlie hanno radunato ricchezze, ma tu le hai superate tutte” (Pro 31,29). Nessun santo ha accumulato nella sua anima tanta ricchezza di virtù quanto la Vergine Maria, la quale per la sua straordinaria umiltà, per il fiore incontaminato della verginità, meritò di concepire e di partorire il Figlio di Dio, “che è al di sopra di tutto, Dio benedetto nei secoli” (Rm 9,5).
E da questa Betania Gesù si recò a Betfage, che s’interpreta “casa della bocca”. Essa raffigura la predicazione di Gesù. Per questo arrivò prima a Betania, cioè assunse umana carne dalla Vergine, per poi dedicarsi alla predicazione. Egli stesso dice: “Andiamo nei villaggi vicini e nelle città, perché io predichi anche là: per questo infatti sono venuto” (Mc 1,38).
E da Betfage si recò al monte degli Ulivi, cioè della misericordia. Èleos (termine greco che assomiglia al latino òlea, olivo) s’interpreta “misericordia”. Il monte degli Ulivi sta a indicare la grandezza dei miracoli che Gesù misericordioso e benigno operò a favore dei ciechi, dei lebbrosi, dei posseduti dal demonio e dei morti. E tutti questi miracolati dicono per bocca di Isaia: “Tu, Signore, sei il nostro padre, il nostro salvatore: questo è il tuo nome dall’eternità” (Is 63,16). Nostro padre per la creazione, nostro salvatore per i miracoli operati; questo è il tuo nome dall’eternità perché sei benedetto nei secoli.
E dal monte degli Ulivi andò a Gerusalemme, per compiere l’opera della nostra salvezza, per la quale era venuto; per riscattare col suo sangue dalle mani del diavolo il genere umano, schiavo nel carcere dell’inferno da oltre cinquemila anni. Quindi Cristo in questo modo ci ha liberati, come quell’uccello, che si chiama struzzo, libera il suo nato.
Si racconta che il sapientissimo re Salomone possedeva una specie di uccello, appunto uno struzzo, il cui nato aveva chiuso in un vaso di vetro: la madre lo guardava piena di dolore, ma non poteva averlo. Finalmente, per lo straordinario amore che nutriva per il figlio, andò nel deserto dove trovò un verme; lo portò via e lo lacerò sopra il vaso di vetro. Il potere del sangue del verme spezzò il vetro e così lo struzzo liberò il suo nato. Vediamo che significato abbiano l’uccello, il nato, il vaso di vetro, il deserto, il verme e il suo sangue.
Questo uccello simboleggia la divinità; il suo nato raffigura Adamo e la sua discendenza, il vaso di vetro il carcere dell’inferno, il deserto il grembo verginale, il verme l’umanità di Cristo, il sangue la sua passione.
Dio, per liberare il genere umano dal carcere dell’inferno e dalla mano del diavolo, venne nel deserto, cioè nel grembo della Vergine, dalla quale assunse il “verme”, cioè l’umanità. Egli stesso ha detto: “Io sono un verme e non un uomo” soltanto (Sal 21,7), perché era Dio e uomo. Lacerò questo verme sul patibolo della croce e dal suo fianco uscì il sangue, il cui potere spezzò le porte dell’inferno e liberò il genere umano dalla mano del diavolo.
4. Vedremo anche quale significato morale abbiano Betania, Betfage, il monte degli Ulivi e Gerusalemme.
Dice Giovanni nel suo vangelo: “Gesù, sei giorni prima della Pasqua”, cioè il sabato che precede la domenica delle Palme, “arrivò a Betania, dov’era morto Lazzaro, che poi egli aveva risuscitato. Gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali, insieme con Gesù. Maria allora prese una libbra di puro (pisticus) nardo prezioso e ne cosparse i piedi di Gesù” (Gv 12,1-3). Invece Matteo e Marco dicono che versò il nardo profumato sopra il capo di Gesù, adagiato a mensa (cf. Mt 26,7; Mc 14,3).
Betania s’interpreta “casa dell’afflizione”. E questa è la contrizione del cuore, della quale parla il Profeta: “Sono afflitto e umiliato all’estremo: ruggisco per il fremito del mio cuore” (Sal 37,9). Il questa casa è stato risuscitato Lazzaro, il cui nome s’interpreta “aiutato”. Infatti nella casa della contrizione il peccatore viene risuscitato, viene aiutato con la grazia divina, e quindi dice con il Profeta: “In lui ha sperato il mio cuore e sono stato aiutato” (Sal 27,7). Quando il cuore spera, la grazia viene in aiuto. E il cuore può sperare nell’indulgenza e nel perdono, quando lo tormenta il dolore della contrizione per il peccato commesso.
“Allora gli fecero una cena e Marta serviva”. Le due sorelle del peccatore risuscitato dalla morte del peccato, Marta, il cui significato è “che provoca” o “che irrita”, e Maria, che s’interpreta “stella del mare”, sono il timore della pena e l’amore della gloria. Il timore della pena provoca il peccatore al pianto, e lo stimola quasi come un segugio a ricercare il peccato e a confessarlo con tutte le sue circostanze. L’amore della gloria illumina, il timore sprona, l’amore conforta.
“Marta”, dice, “serviva”. Il timore che cosa serve? Certamente il pane del dolore e il vino della compunzione. Questa è la cena di Gesù, e di essa dice Matteo: “Mentre cenavano, Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli... E prendendo il calice, rese le grazie e lo diede loro dicendo: Bevetene tutti” (Mt 26,26-27).
“Lazzaro poi era uno dei commensali, insieme con Gesù”. Perché non sembrasse un fantasma, ma fosse evidente la sua risurrezione, egli mangia e beve. Che grande grazia! Il peccatore, che prima era disteso nella tomba, ora è adagiato a mensa e banchetta con Gesù e i suoi discepoli; egli che prima bramava di riempirsi il ventre, cioè la mente, delle carrube dei porci, cioè delle sozzure dei demoni, e nessuno gliene dava (cf. Lc 15,16).
“Maria allora prese una libbra di vero nardo prezioso”. La libbra consta di dodici once: e qui abbiamo una specie di peso perfetto, perché consta di tante once quanti sono i mesi dell’anno. La libbra poi è così chiamata perché è “libera” e perché comprende in se stessa tutti i pesi. Nardo vero (genuino) è detto in latino pisticus, cioè autentico, senza contraffazioni, e deriva dal greco pistis, che vuol dire fede.
La libbra, composta di dodici once, è la fede dei dodici apostoli, libera e perfetta. Maria dunque, cioè l’amore della gloria celeste, unge il capo della divinità e i piedi dell’umanità con una libbra di nardo genuino, riconoscendo che Cristo è Dio e uomo, che nacque e subì la passione. E così la casa, cioè la coscienza del penitente, viene riempita del profumo dell’unguento (cf. Gv 12,3), dicendo con la sposa del Cantico dei Cantici: O Signore Gesù, con la fune del tuo amore trascinami dietro a te, perché io corra nel profumo dei tuoi unguenti (cf. Ct 1,3), perché io da Betania arrivi a Betfage.
5. Betfage s’interpreta “casa della bocca”, e sta ad indicare la confessione, nella quale dobbiamo essere come residenti, non come ospiti di una notte che è passata (cf. Sap 5,15), affinché non ci avvenga ciò che dice Geremia: “Così dice il Signore di questo popolo: gli è piaciuto tenere in movimento i piedi e non si è fermato: per questo non gli è gradito; ora egli ricorda le loro iniquità e visiterà (punirà) i loro peccati” (Ger 14,10).
“E da Betfage andò al monte degli Ulivi”. Ricorda che il monte degli Ulivi era detto il “monte delle tre luci” perché era illuminato dal sole, da se stesso e dal tempio: dal sole perché, rivolto a oriente, ne riceveva i raggi; da se stesso per l’abbondanza dell’olio che produceva; dal tempio, a motivo dele lampade che di notte vi ardevano e illuminavano anche il monte.
Il monte degli Ulivi raffigura l’importanza della soddisfazione (penitenza) alla quale deve arrivare il penitente dalla casa della confessione. E giustamente la soddisfazione è detta “monte delle tre luci”. Infatti l’uomo, sostando nell’opera di penitenza, viene illuminato dal sole di giustizia Cristo Gesù, che dice di se stesso: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); viene illuminato da se stesso, perché deve essere fornito di olio abbondante, cioè di misericordia, verso se stesso e verso il prossimo; infatti dice Giobbe: “Visitando i tuoi simili non peccherai” (Gb 5,24). Disse un santo: “Mai l’anima potrà meglio vedere al di sopra di sé i suoi simili per mezzo della verità, come quando la carne si piega al di sotto di sé, verso il suo simile, per mezzo della carità”. Sarà illuminato anche dal tempio, cioè dalla comunità dei fedeli, ai quali dice l’Apostolo: “Santo è il tempio di Dio, che siete voi” (1 Cor 3,17).
E dal monte degli Ulivi andò a Gerusalemme. Infatti queste tre cose, la contrizione del cuore, la confessione della bocca e l’opera di penitenza, che soddisfa il debito del peccato, conducono alla luce, alla Gerusalemme celeste, alla beatitudine eterna. Quindi giustamente è detto: “Gesù, essendosi avvicinato a Gerusalemme...”, ecc.
II. l’invio dei due discepoli al villaggio
6. “Gesù mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: “Andate nel villaggio (castellum) che vi sta di fronte: subito troverete un’asina legata e con essa il suo puledro: scioglieteli e conduceteli a me” (Mt 21,1-2). Vedremo che cosa rappresentino in senso morale i due discepoli, il villaggio, l’asina e il suo puledro.
Il discepolo è così chiamato perché impara (discit) la disciplina. Il villaggio (castellum) è costituito da una muraglia che circonda tutt’all’intorno una torre, situata al centro. L’asino, o asina, è così chiamato perché, diciamo, “lascia le cose alte” (lat. alta sinens); puledro (pullus) è come pollutus, impuro, macchiato, perché nato da poco. Quindi i due discepoli del giusto, che imparano la disciplina della pace, sono il disprezzo del mondo e l’umiltà del cuore.
Questi due discepoli sono Mosè e Aronne che fanno uscire gli ebrei dall’Egitto, sono le due stanghe che servivano per trasportare l’arca della testimonianza, sono i due cherubini che guardano il “propiziatorio” (il coperchio d’oro dell’arca), rivolti uno verso l’altro (cf. Es 25,17-18).
In Mosè che, come dice l’Apostolo, “stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori dell’Egitto” (Eb 11,26), è raffigurato il disprezzo del mondo. In Aronne che spense il fuoco e placò l’ira di Dio perché non infierisse su tutto il popolo (cf. Nm 16,46-49), è indicata l’umiltà del cuore che spegne il fuoco della suggestione diabolica e placa l’ira della punizione divina. Questi due discepoli, come due stanghe inflessibili, portano l’arca del testamento, cioè la dottrina di Gesù Cristo, oppure l’obbedienza al prelato. Guardano verso il propiziatorio, cioè verso lo stesso Gesù Cristo, che è “propiziazione” per i nostri peccati (cf. 1Gv 4,10); guardano, dirò ancora, a Cristo adagiato nella mangiatoia, inchiodato sulla croce, deposto nel sepolcro.
Il giusto manda questi due discepoli, dicendo: “Andate nel villaggio (castello) che sta di fronte a voi”. Il castello (villaggio) è costituito, come abbiamo già detto, di un muro perimetrale e di una torre: nel muro è indicata l’abbondanza delle cose temporali, nella torre la superbia del diavolo. Come nel muro si sovrappone pietra a pietra, e le pietre si saldano tra loro con il cemento, così nell’abbondanza delle cose temporali il denaro si aggiunge al denaro, si unisce casa a casa, si aggiunge campo a campo (cf. Is 5,8), e tutto si attacca tenacemente con il cemento della cupidigia. Di questo muro dice Isaia: “Il mio ventre suonerà a Moab come una cetra, e le mie viscere al muro di mattoni cotti (al fuoco)” (Is 16,11). E Geremia, quasi con le stesse parole: “Il mio cuore suonerà a Moab come i flauti, il mio cuore darà un suono di flauti per gli uomini del muro di mattone cotto” (Ger 48,36). Nel ventre è designata la mente, nella cetra o nel flauto la melodia della predicazione. Con cuore e mente compunti e con la melodia della predicazione, Isaia e Geremia, cioè ogni predicatore, deve suonare a Moab, che s’interpreta “dal padre”, cioè al peccatore, che proviene da quel padre che è il diavolo, che costruisce il muro di cotto e di mattoni di argilla, cioè l’abbondanza dei beni temporali: cotto, perché indurito al fuoco della cupidigia, di argilla perché destinato a crollare. Parimenti nella torre è indicata la superbia del diavolo. Questa è la torre di Babele, cioè della confusione, la torre di Siloe che, come si legge nel vangelo di Luca, crollando uccise diciotto uomini (cf. Lc 13,4). Il giusto manda contro questo castello (villaggio) due suoi discepoli, cioè il disprezzo del mondo, perché faccia crollare il muro dell’abbondanza transitoria, e l’umiltà del cuore perché abbatta la torre della superbia.
7. E dice giustamente: “che sta di fronte (lat. contra) a voi”. L’abbondanza di questo mondo è sempre contraria alla povertà, e la superbia contraria all’umiltà. In questo castello si trova un’asina legata e con essa il suo puledro (l’asinello). L’asina, che lascia le cose alte e cammina in piano, rappresenta la vita dei chierici e dei religiosi che, abbandonata l’altezza della contemplazione, procede pigra e fatua tra le bassezze del piacere carnale. Ahimè, con quante catene di piaceri, con quante funi di peccati viene tenuta legata quest’asina!
“E insieme ad essa un puledro (asinello). Questo puledro di asina raffigura il chierico o il religioso, che giustamente è detto puledro (pullus), perché è macchiato (pollutus) da molti vizi. È trovato insieme con l’asina, attaccato alle sue mammelle, della gola e della lussuria, succhiando da tergo. Di entrambi si lamenta il Signore, con le parole di Geremia: “Io li ho saziati ed essi hanno fornicato, e nella casa della meretrice si sono dati alla lussuria” (Ger 5,7). E più avanti dice che la cintura di Geremia era marcita nel fiume Eufrate, di modo che non serviva più a nulla (cf. Ger 13,7). “La cintura di castità” di tanti chierici e di tanti religiosi imputridisce nel fiume Eufrate, che s’interpreta “fertile”, e indica l’abbondanza di beni temporali – dalla pinguedine infatti proviene l’iniquità –, di modo che essi a nient’altro sono buoni, se non ad essere gettati nel letamaio dell’inferno.
“Scioglieteli e portateli da me”. O Signore Gesù, cos’è quello che dici? Chi mai potrà sciogliere le catene dei chierici e dei falsi religiosi, le ricchezze, gli onori e i piaceri con i quali sono tenuti legati, abbattere la loro superbia e condurli a te? “Tutti, dice Geremia, sono come un cavallo che corre impetuosamente” (Ger 8,6); “La loro corsa è verso il male e la loro forza è diversa” (Ger 23,10) dall’immagine, a somiglianza della quale li ho creati (cf. Gn 1,26); o anche è diversa perché non da un vizio solo, ma da diversi vizi sono contaminati.
Perciò continua Geremia: “Sia il profeta che il sacerdote sono immondi, e nella mia casa ho trovato la loro malvagità. Tutti sono diventati per me come gli abitanti di Sodoma e Gomorra. Per questo dice il Signore: Io li ciberò di assenzio”, cioè dell’amarezza della morte eterna, “e li abbevererò di fiele”, cioè con l’amarezza del rimorso di coscienza. “Perché dai profeti di Gerusalemme”, cioè dai chierici e dai religiosi, “è uscita l’empietà su tutta la terra” (Gn 23,11.14-15).
“Scioglieteli, dice Gesù, e portateli a me!” Il disprezzo del mondo e l’umiltà dell’animo sciolgono tutti i legami e portano al Signore l’asina e il suo puledro.
III. Gesù Cristo, re seduto sull’asina e il suo puledro
8. “Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta”, cioè da Zaccaria: “Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, assiso su di un’asina e con un puledro, figlio di bestia da soma” (Mt 21,4-5). E queste sono, alla lettera, le parole di Zaccaria: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme: Ecco, a te viene il tuo re; egli è giusto e salvatore. Egli è povero e siede su di un’asina, su un puledro figlio di asina. Disperderò le quadrighe da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, e l’arco di guerra sarà spezzato” (Zc 9,9-10). Sion e Gerusalemme sono la medesima città, perché Sion è la torre di Gerusalemme, e raffigura la Gerusalemme celeste, nella quale c’è l’eterna contemplazione e la visione della pace assoluta.
La figlia di Sion è la santa chiesa alla quale, o predicatori, dovete dire: “Esulta grandemente nella fatica, giubila nel tuo animo”. Il giubilo infatti nasce nel cuore con sì grande letizia, quanta non è in grado di esprimerne l’efficacia della parola. “Ecco il tuo re”, del quale dice Geremia: “Non c’è nessuno come te, Signore: tu sei grande e grande è la potenza del tuo nome. Chi non ti temerà, o re delle nazioni?” (Ger 10,6-7). Egli, leggiamo nell’Apocalisse, “nel suo manto e nel suo femore porta scritto: Re dei re e Signore dei signori” (Ap 19,16).
Il manto rappresenta le sue fasce e il femore è la sua carne. A Nazaret infatti fu incoronato di carne umana, come di un diadema; in Betlemme fu avvolto in fasce, come di porpora. E queste furono le prime insegne del suo regno. Su entrambe le cose infierirono i giudei, come se avessero voluto privarlo del suo regno: Cristo infatti nella passione fu da essi spogliato delle sue vesti e la sua carne fu confitta in croce con i chiodi. Ma lì il suo regno si è perfettamente affermato: infatti, dopo la corona e la porpora, non gli mancava che lo scettro. Ricevette anche questo quando, “portando la sua croce”, come dice Giovanni, “s’incamminò verso il Calvario” (Gv 19,17). E Isaia: “Sulle sue spalle è posto il segno della sua sovranità” (Is 9,6); e l’Apostolo nella lettera agli Ebrei: “Abbiamo visto Gesù coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha sofferto” (Eb 2,9).
9. “Ecco il tuo re, che viene a te”, cioè per la tua utilità, “che viene mite”, per essere amato, e non viene con la potenza per essere temuto, “seduto su di un’asina”. Dice Zaccaria: “Giusto e Salvatore, eppure povero, seduto su un’asina”. Le virtù proprie di un re sono due: la giustizia e la pietà. Così il tuo re è giusto perché, in fatto di giustizia, rende a ciascuno secondo le sue opere; è mansueto e redentore, in fatto di pietà; ed è anche povero: infatti nell’epistola di oggi è detto: “Annientò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2,7). Poiché Adamo nel paradiso terrestre non volle servire il Signore, il Signore assunse la condizione di servo per servire il servo, affinché in futuro il servo non si vergognasse di servire il Padrone.
“Divenuto simile agli uomini, e per condizione riconosciuto come uomo” (Fil 2,7). Perciò dice Baruc: “Per questo è apparso sulla terra e ha vissuto tra gli uomini” (Bar 3,38). Quel “come” (lat. ut) esprime la verità, la realtà, e non la somiglianza. “Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8).
Dice in merito Agostino: “Il nostro Redentore appostò al nostro tiranno (predatore) la “trappola” della sua croce e vi collocò come esca il suo sangue. Egli versò il suo sangue, che però non era sangue di debitore, e per questo fu separato dai debitori” (cf. Eb 2,14; 7,26). E il beato Bernardo dice di Cristo: “Ebbe in sì grande stima l’obbedienza che preferì perdere la vita piuttosto che l’obbedienza, fatto obbediente al Padre fino alla morte”, e alla morte di croce. Egli che non ebbe dove posare il capo (cf. Mt 8,20; Lc 9,58), se non sulla croce, dove “reclinato il capo, rese lo spirito” (Gv 19,30).
10. “Egli fu povero”. Dice infatti Geremia: “O aspettazione d’Israele, suo salvatore nel tempo della tribolazione, perché sarai in terra come un colono, e come un viandante che rinuncia a fermarsi? Perché sarai come un uomo errante, e come un forte incapace di salvare?” (Ger 14,8-9).
Il nostro Dio, il Figlio di Dio, colui che aspettavamo, è arrivato, e nel tempo della tribolazione, cioè della persecuzione diabolica, ci ha salvati, e come un colono, uno straniero, un pellegrino ha abitato la nostra terra e l’ha irrigata con l’acqua della sua predicazione. Egli fu come un viaggiatore senza bagaglio (levis), cioè immune dal peccato; compì il suo cammino perché “esultò come un gigante che percorre la via” (Sal 18,6); reclinò quindi il capo sulla croce quando disse: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46), e poi restò chiuso nel sepolcro tre giorni e tre notti.
Qui è detto “uomo errante”, in base alla valutazione dei giudei che lo reputavano girovago e incostante. Per questo, quando disse: “Ho il potere di offrire la mia vita e di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18), “molti di loro dicevano: Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascoltare?” (Gv 10,20). A motivo della condizione di servo, che aveva assunto, sembrava loro privo del potere di salvare. Ma egli fu “l’uomo forte” che, con le mani trafitte dai chiodi, vinse il diavolo. “Ecco, dunque, a te viene il tuo re, mite, seduto su di un’asina e con un puledro, figlio di bestia da soma”, cioè della stessa asina domata con il basto.
Oh, volessero i chierici e i religiosi accogliere un sì grande re, un sì nobile “cavaliere”, e portarlo devotamente come fecero quei miti animali, per essere degni di entrare con lui nella superna Gerusalemme. Ma siccome sono figli di Belial, cioè “senza giogo” e, come dice Geremia, “sono andati dietro a ciò che è vano e sono divenuti essi stessi vanità; e non hanno domandato: Dov’è il Signore?” (Ger 2,5-6), hanno spezzato il giogo e strappate le corde e hanno detto: “Non serviremo!”: per tutto questo il Signore, per bocca di Zaccaria, dice di essi: “Disperderò le quadrighe da Efraim e il cavallo da Gerusalemme, e sarà spezzato l’arco di guerra”. La quadriga, che gira su quattro ruote, rappresenta l’abbondanza nella quale vivono i chierici; abbondanza che consiste in quattro cose: nell’estensione delle proprietà, nell’accumulo delle prebende e dei redditi, nella sontuosità dei cibi e nel lusso delle vesti. Il Signore disperderà questa quadriga e scaglierà nel mare dell’inferno chi vi è sopra (cf. Es 15,1); sterminerà il cavallo, cioè la superbia schiumosa e sfrenata dei religiosi i quali, sotto l’abito della religione, sotto il pretesto della santità, si ritengono grandi.
Ma il Signore grande e potente, che guarda gli umili e abbatte i grandi (cf. Sal 137,6), scaccerà questo cavallo dalla Gerusalemme celeste, nella quale nessuno entrerà, se non chi si sarà umiliato come un bambino (cf. Mt 18,4), come lui che si è umiliato fino alla morte, e alla morte di croce.
11. Senso morale. Il re che siede sull’asina e sul suo puledro raffigura il giusto che mortifica la sua carne e frena i suoi stimoli. Dice Geremia: “Vergine d’Israele, ti ornerai nuovamente dei tuoi timpani e uscirai nel coro dei festanti” (Ger 31,4).
Nel timpano, che è la pelle di un animale morto, tesa su di un cerchio di legno, è indicata la mortificazione della carne; nel coro, in cui le voci sono in accordo, è raffigurata la concordia dell’unità. Quindi l’anima è ornata con i timpani ed esce nel coro dei festanti, quando è come adorna della mortificazione della carne e della concordia dell’unità. Dice il profeta: “Con il timpano e con il coro lodate il Signore” (Sal 150,4).
Altro significato. Il re che siede sull’asina è il vescovo, che governa il popolo che gli è affidato, del quale dice Salomone: “Beata la terra”, cioè la chiesa, “il cui re è nobile e i cui prìncipi”, cioè i prelati, “si nutrono al tempo giusto, per rifocillarsi e non per gozzovigliare” (Eccle 10,17). “Mangiano solo per vivere, e non vivono per mangiare” (Glossa); “si nutrono al tempo giusto”, perché non cercano quaggiù la ricompensa, ma guardano a quella futura. Questo re dev’essere – come abbiamo detto sopra – mansueto, giusto, salvatore e povero. Mansueto verso i sudditi; giusto con i superbi, versando vino e olio; salvatore nei riguardi dei poveri; povero, pur tra le ricchezze. O anche: mansueto se riceve un’ingiuria; giusto esercitando la giustizia verso chiunque; salvatore con la predicazione e con l’orazione; povero per l’umiltà del cuore e il disprezzo di sé.
Beata l’asina (sic), beata la chiesa, che ha un simile reggitore (sessore). Al contrario, il vescovo di questo nostro tempo è come Balaam, seduto sopra l’asina: essa vedeva l’angelo, mentre Balaam non poteva vederlo (cf. Nm 22,21-30). Balaam s’interpreta “che demolisce la fraternità”, oppure “che turba la gente”, o anche “che divora il popolo”. Un vescovo scandaloso è un albero inutile: con il suo cattivo esempio demolisce la fraternità dei fedeli e la precipita prima nel peccato e poi nell’inferno; con la sua stoltezza, giacché è anche inetto, sconcerta i fedeli; con la sua avarizia divora il popolo. Costui, assiso sopra l’asina, non solo non vede l’angelo, ma vi assicuro che vede il diavolo, pronto a precipitarlo all’inferno. Invece il popolo semplice, che ha una fede retta e che vive onestamente, vede l’angelo del Sommo Consiglio, riconosce e ama il Figlio di Dio.
IV. l’entusiasmo e le acclamazioni della folla a Cristo
12. “La folla numerosissima stese le sue vesti per terra: alcuni tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via; le folle che precedevano e quelle che seguivano, gridavano dicendo: Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” (Mt 21,8-9). Fa’ attenzione a questi tre fatti: stesero le proprie vesti, tagliavano i rami, e gridavano: Osanna! Le vesti raffigurano le membra del nostro corpo, con le quali si veste l’anima: di esse dice Salomone: “In ogni tempo siano candide le tue vesti” (Eccle 9,8). Dobbiamo stenderle sulla via, vale a dire essere pronti ad esporle alla passione e alla morte per il nome di Gesù, per meritare di riaverle gloriose e immortali nella risurrezione finale, quando questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale si vestirà di immortalità (cf. 1Cor 15,53).
I rami sono gli esempi dei santi padri, dei quali dice il Signore: “Vi prenderete i frutti dell’albero più bello, spate di palma, rami di alberi dalle dense fronde e salici di torrente e gioirete davanti al vostro Dio” (Lv 23,40). L’albero più bello è la gloriosa Vergine Maria, i cui frutti furono l’umiltà e la povertà. Le palme furono gli apostoli, che riportarono vittoria su questo mondo. Le spate sono i frutti delle palme, prima di aprirsi: in esse vediamo la fede, la speranza e la carità degli apostoli. L’albero dalle dense fronde è la croce di Cristo, che ha allargato le dense fronde della fede in tutto il mondo.
I rami di quest’albero furono le quattro estremità della croce, alle quali furono inchiodati i piedi e le mani di Cristo. In queste quattro estremità ci furono quattro pietre preziose: la misericordia, l’obbedienza, la pazienza e la perseveranza. Nell’estremità superiore ci fu la misericordia, in quella destra l’obbedienza, in quella sinistra la pazienza, e in quella inferiore la perseveranza. I salici del torrente, che restano sempre verdi, raffigurano tutti i santi, che nel torrente di questa vita mortale e passeggera sono rimasti sempre verdi nell’operare il bene.
Prendiamoci dunque i frutti dell’albero più bello, vale a dire la povertà e l’umiltà della Vergine Maria, le spate delle palme, cioè la fede, la speranza e la carità degli apostoli, i rami dell’albero di dense fronde, cioè la misericordia, l’obbedienza, la pazienza e la perseveranza della passione di Gesù Cristo, i salici del torrente, vale a dire le rigogliose opere di tutti i santi, ed esultiamo davanti al Signore, nostro Dio, Gesù Cristo, gridando con le turbe e con i fanciulli degli ebrei: “Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!” (Mt 21,9).
Osanna s’interpreta “salvezza”, oppure “salva, ti scongiuro!”. Osanna dunque, cioè la salvezza appartiene al Figlio di Davide, o viene dal Figlio di Davide o per mezzo del Figlio. Benedetto, cioè immune dal peccato: quindi sei benedetto in modo particolare tu, o Cristo, che vieni nel nome del Signore, cioè in onore del Padre, oppure “che vieni”, cioè che verrai. Infatti tu che dapprima sei apparso nella condizione di servo, verrai alla fine quale glorioso Signore. Osanna nell’alto dei cieli, cioè “salva nell’alto dei cieli”; quasi a dire: Tu che hai salvato in terra con la redenzione, salva, te ne scongiuriamo, dandoci un posto nei cieli.
Ti scongiuriamo, dunque, o Gesù benedetto: fa’ che anche noi ci avviciniamo a Gerusalemme con il tuo timore e con il tuo amore. Riportaci a te dal villaggio di questa peregrinazione terrena; riposati, tu, nostro re, nell’anima nostra, affinché insieme con i fanciulli che hai scelto da questo mondo, cioè con gli apostoli, siamo fatti degni di glorificarti, di lodarti, di benedirti nella città santa, nell’eterna beatitudine. Accordacelo tu, cui è onore e gloria per i secoli eterni. Amen. E ogni anima fedele risponda: Amen!
AMDG et BVM