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martedì 2 aprile 2019

Dominica II Passionis seu in Palmis ~

Risultati immagini per le palme, domenica

Sermone di san Leone Papa
Sermone 11 sulla Passione del Signore
La solennità della passione del Signore, desiderata da noi, fratelli dilettissimi, e desiderabile al mondo intero è giunta, ed essa non ci permette di starcene silenziosi tra l'esultanza delle gioie spirituali (che spande in noi). Perché sebbene sia difficile di parlare spesso in maniera degna e giusta di tale solennità; tuttavia un vescovo non è libero di privare il popolo fedele del discorso che gli deve su questo gran mistero della divina misericordia: tanto più che. la stessa materia per ciò stesso ch'è ineffabile fornisce abbondantemente di che parlare; né possono mancare le parole dal momento che non se ne potrà dire mai abbastanza. 
La debolezza umana si riconosca dunque sopraffatta dalla gloria di Dio, e sempre incapace di spiegare le opere della sua misericordia. La nostra intelligenza faccia sforzi, il nostro spirito resti in forse, ci venga pur meno l'espressione: è bene per noi (vedere) come quel che di più alto possiamo avere della maestà del Signore, è ben poca cosa paragonata alla realtà.


Avendo detto il profeta: «Cercate il Signore, e siate forti, cercate sempre la sua faccia» Ps. 104,4, nessuno deve presumere d'aver trovato quello che cerca, affinché, cessando d' andare avanti, non rinunci ancora ad avvicinarsi. Fra tutte le opere di Dio, che l'ammirazione umana si sforza di contemplare, qual altra tocca tanto l'anima nostra, e sorpassa la portata della nostra intelligenza, quanto la passione del Salvatore? Il quale per sciogliere il genere umano dai lacci d'una mortifera prevaricazione, occultò la potenza della sua maestà al diavolo che incrudeliva, e non gli mostrò che l'infermità della nostra bassezza umana. Perché se questo crudele e superbo nemico avesse potuto conoscere il disegno della misericordia di Dio, avrebbe cercato piuttosto di addolcire gli animi dei Giudei, che accenderli d'un odio ingiusto, per non perdere, perseguitando la libertà di chi non gli doveva niente, i suoi diritti su tutti quelli che (per il peccato) erano diventati suoi schiavi.


Il diavolo fu dunque ingannato dalla sua malignità, fece soffrire al Figlio di Dio un supplizio ch'è divenuto il rimedio di tutti i figli degli uomini. Sparse il sangue innocente che doveva essere il prezzo della riconciliazione del mondo, e la (nostra) bevanda. Il Signore soffrì (il genere di morte) che s'era scelto, conforme al disegno della sua volontà. 
Permise a dei furiosi che mettessero su di lui l'empie lor mani: le quali, nel compiere un crimine enorme, han servito all'esecuzione dei disegni del Redentore. 
La tenerezza del suo amore era sì grande anche verso i suoi uccisori, che supplicando il Padre dalla croce, gli domandò non di vendicarlo, ma di perdonar loro.

V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.


******************

Lettura del santo Vangelo secondo Matteo
Matt 21:1-9
In quell'occasione: Come Gesù fu vicino a Gerusalemme, e arrivato a Betfage, presso il monte Oliveto, allora mandò due discepoli, dicendo loro. Eccetera.


Omelia di sant'Ambrogio Vescovo
Libr. 9 su Luca
È da notare che il Signore, abbandonati i Giudei, sale al tempio, egli che doveva abitare nei cuori dei Gentili. Perché il vero tempio è quello ove il Signore è adorato, non secondo la lettera, ma in ispirito. Il tempio di Dio è quello, che s'è stabilito non su una struttura di pietre, ma sulla connessione delle verità della fede. 
  Egli abbandona dunque quelli che l'odiano: e sceglie quelli che devono amarlo. Perciò andò al monte Oliveto, per piantare colla sua divina virtù queste giovani piante d'olivo che hanno per madre la celeste Gerusalemme. Su questo monte egli stesso è il celeste agricoltore: così che tutti quelli che sono piantati nella casa di Dio, possano dire, ciascuno: «Ma io son come un olivo fruttifero nella casa del Signore» Ps. 51,8.


E forse Cristo stesso è ancora questo monte. Chi altri infatti (fuori di lui) produrrebbe tale raccolto d'olive, non di quelle che si piegano sotto l'abbondanza dei loro frutti, ma di quelle (che mostrano la loro fecondità comunicando) ai Gentili la pienezza dello Spirito Santo? Esso è colui per cui ascendiamo, ed a cui ascendiamo. Esso è la porta, esso è la via; (la porta) che si apre, ed è lui che l'apre: a cui picchiano quelli che vogliono entrare, ed è lui che adorano quelli che hanno meritato d'entrare. 
 Egli era dunque in un villaggio, e c'era un asinello legato con un'asina: il quale non poteva essere sciolto che per ordine del Signore. La mano d'un Apostolo lo scioglie. Tali sono le azioni, tale è la vita, tale la grazia. Sii tale anche tu, onde possa sciogliere quelli che sono legati.

Consideriamo ora chi sono quelli che, dopo essere stati convinti di peccato, furono cacciati dal paradiso, e relegati in un villaggio. Ed osserva in qual maniera la vita richiama quelli che la morte aveva esiliati. 
Leggiamo in Matteo, ch'egli ordinò si sciogliesse un'asina e il suo puledro: affinché come l'uno e l'altro sesso era sta espulso dal paradiso nella persona dei nostri progenitori, così mostrasse col simbolo dei due animali ch'egli veniva a richiamare i due sessi.         L'asina dunque figurava Eva colpevole: e il puledro designava la generalità del popolo Gentile: e perciò egli siede sul puledro dell'asina. Giustamente è detto che nessuno l'aveva ancora cavalcato: perché nessuno, prima di Cristo, aveva chiamato i popoli della gentilità ad entrare nella Chiesa. In Marco difatti si ha: «Su cui ancora non è montato alcuno» (Marc.11,2.)


V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.


AMDG et DVM

domenica 25 marzo 2018

Il giorno delle Palme

Maria Valtorta: L’Evangelo come mi è stato rivelato. [590.1-21] – ed. CEV
entrata-in-gerusalemme.jpg
1Gesù passa il suo braccio sulle spalle di sua Madre, che si è alzata quando Giovanni e Giacomo d’Alfeo l’hanno raggiunta per dirle: «Tuo Figlio viene», e poi sono tornati indietro per riunirsi ai compagni che procedono lentamente, parlando, mentre Tommaso e Andrea sono corsi verso Betfage per cercare l’asina e l’asinello e condurli a Gesù.
Gesù intanto parla alle donne. «Eccoci presso alla città. Io vi consiglio di andare. E andare sicure. Entrate prima di Me in città. Presso En Rogel sono tutti i pastori e i più fidi discepoli. Hanno ordine di farvi scorta e protezione».
«È che… Abbiamo parlato con Aser di Nazaret e Abele di Betlemme di Galilea e anche con Salomon. Erano venuti fin qui per spiare il tuo arrivo. La folla prepara gran festa. E noi si voleva vedere… Vedi come si scuotano le cime degli ulivi? Non è vento che le agita così. Ma è la gente che coglie rami per spargerne la via e farti velo al sole. E là?! Guarda là, stanno spogliando le palme dei loro ventagli. Sembrano grappoli e sono uomini saliti sui fusti a cogliere e cogliere… E, sui pendii, vedi curvi i bambini a cogliere fiori. E le donne certo spogliano orti r giardini da corolle e da erbe odorose per giuncarti il cammino di fiori. Noi si voleva vedere… e imitare il gesto di Maria di Lazzaro, che raccolse tutti i fiori premuti dal tuo piede quando entrasti nel giardino di Lazzaro», prega Maria Cleofe per tutte.
Gesù carezza sulla guancia la sua vecchia parente, che sembra una bambina vogliosa di vedere uno spettacolo, e le dice: «Nella gran folla non vedresti nulla. Andate avanti. Alla casa di Lazzaro, quella che ha per custode Mattia. Passerò di là e mi vedrete dall’alto».
«Figlio mio… e vai solo? Non posso starti vicino?», dice Maria alzando il volto così triste e fissando i suoi occhi di cielo sul suo dolce Figlio.
«Vorrei pregarti di stare nascosta. Come la colomba nella fessura della rupe. Più della tua presenza mi è necessaria la tua preghiera, Mamma diletta!».
«Se è così, Figlio mio, noi pregheremo. Tutte. Per Te».
«Sì. Dopo averlo visto passare, verrete con noi nel mio palazzo di Sion. E io manderò dei servi al Tempio e sempre dietro al Maestro, perché essi ci portino i suoi ordini e le sue notizie», decide Maria di Lazzaro, sempre rapida nell’afferrare ciò che è il migliore da farsi e a farlo senza indugio.
«Hai ragione, sorella. Benché mi dolga non seguirlo, comprendo la giustizia dell’ordine. E, del resto, Lazzaro ci ha detto di non contraddire il Maestro in cosa alcuna, ma di ubbidirlo anche nella cose più tenui. E lo faremo».
«E allora andate. Vedete? Le vie si animano. Stanno per raggiungermi gli apostoli. Andate. La pace sia con voi. Vi farò venire nelle ore che giudicherò buone. Mamma, addio. Abbi pace. Dio è con noi». La bacia e congeda. E le ubbidienti discepole se ne vanno sollecite.
2I dieci apostoli raggiungono Gesù. «Le hai mandate avanti?».
«Sì. Vedranno da una casa la mia entrata».
«Da quale casa?», chiede Giuda di Keriot.
«Eh! sono ormai tante le case amiche!», dice Filippo.
«Non da Annalia?», insiste l’Iscariota.
Gesù risponde negativamente e si incammina verso Betfage, che è poco lontana.
Gli è prossimo quando tornano indietro i due mandati a prendere l’asina e l’asinello. Gridano: «Abbiamo trovato come Tu hai detto e ti avremmo condotto gli animali. Ma il padrone di essi volle strigliarli e ornarli delle migliori bardature per onorarti. E i discepoli, uniti a quelli che hanno passato la notte nelle vie di Betania per onorarti, vogliono avere l’onore di condurteli, e noi abbiamo annuito. Ci è parso che il loro amore meritasse un premio».
«Avete fatto bene. Andiamo avanti, intanto».
«Sono molti i discepoli?», chiede Bartolomeo.
«Oh! una moltitudine. Non si riesce a penetrare per le vie di Betfage. Per questo ho detto a Isacco di condurre l’asino da Cleante il formaggiaio», risponde Tommaso.
«Hai fatto bene. Andiamo sino a quel balzo del colle. E attendiamo un poco all’ombra di quegli alberi».
Vanno dove Gesù indica.
«Ma ci allontaniamo! Tu superi Betfage girandola alle spalle!», esclama l’Iscariota.
«E se voglio farlo, chi me lo può impedire? Sono forse già prigioniero, che non mi sia lecito di andare dove voglio? E c’è forse fretta che Io lo sia e si teme che Io possa sfuggire alla cattura? E se giudicassi giusto di allontanarmi per luoghi più sicuri, c’è alcuno che lo potrebbe impedire?». Gesù dardeggia i suoi occhi sul Traditore, che non apre più bocca e si stringe nelle spalle come per dire: «Fa’ ciò che ti pare».
Girano infatti dietro alle spalle del paesello, direi un sobborgo della stessa città, perché dal lato ovest è proprio poco lontano dalla città, facente già parte delle pendici dell’Uliveto che corona Gerusalemme nel lato orientale. In basso, fra le pendici e la città, il Cedron brilla al sole d’aprile.
Gesù si siede in quel silenzio verde e si concentra nei suoi pensieri. Poi si alza e va proprio sul ciglio del balzo….


http://www.scrittivaltorta.altervista.org/09/09590.pdf

sabato 8 aprile 2017

SETTIMANA SANTA



DOMENICA DELLE PALME
Temi del sermone

– Vangelo delle Palme: “Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù...”; vangelo che si divide in quattro parti.
– Anzitutto sermone sulla passione di Cristo, rivolto all’anima del peccatore: “Sali a Galaad”.

– Parte I: Sermone in lode della beata Vergine: “Avvicinandosi Gesù”; lo struzzo e il suo simbolismo.
– Sermone morale ai peccatori convertiti: “Gesù, sei giorni prima della Pasqua”.
– Sermone sulla triplice luce del monte degli Ulivi e suo significato.

– Parte II: Sermone contro i religiosi e i chierici (clero), raffigurati nell’asino e nel suo puledro: “Allora mandò due discepoli”.

– Parte III: Sermone sull’umiltà, la povertà e la passione di Cristo: “Dite alla figlia di Sion”.
– Sermone contro i prelati superbi: “Disperderò la quadriga di Efraim”.
– Sermone al vescovo: “Il re seduto su di un’asina”.

– Parte IV: Sermone sull’imitazione degli esempi dei santi: “Vi prenderete i frutti dell’albero”.

esordio - sermone sulla passione di cristo

1. In quel tempo: “Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù, arrivato a Betfage presso il monte degli Ulivi” (Mt 21,1), ecc.
Geremia così parla all’anima peccatrice: “Sali a Galaad e prendi della resina, o vergine figlia dell’Egitto” (Ger 46,11). La figlia dell’Egitto è l’anima accecata dai piaceri di questo mondo: Egitto s’interpreta “tene­bre". Infatti Geremia continua: “Come mai il Signore, nella sua ira, ha coperto”, cioè ha permesso che forse coperta, “di caligine la figlia di Sion?” (Lam 2,1), cioè l’anima, che dev’essere figlia di Sion? Essa è detta vergine perché sterile di buone opere. E di nuovo Geremia: “Il Signore ha pigiato il torchio alla vergine figlia di Sion” (Lam 1,15), cioè l’ha condannata alla pena eterna, perché restò sterile della prole delle buone opere. E le dice: “Sali”, con i piedi dell’amore, con i passi della devozione, “a Galaad”, che s’interpreta “cumulo di testimonianze”; sali cioè sulla croce di Gesù Cristo, sulla quale sono accumulate innumere­voli testimonianze della nostra redenzione, vale a dire i chiodi, la lancia, il fiele, l’aceto e la corona di spine; e da lì “prendi la resina”.
La resina è una lacrima, una goccia, che stilla da un albero. La resina migliore di tutte è quella del terebinto (la trementina). Essa raffigura la goccia del sangue preziosissimo che fluì dall’albero, piantato nel giardino delle delizie (cf. Gn 2,8), “lungo il corso delle acque” (Sal 1,3), per la riconciliazione del genere umano.
Prendi dunque, o anima, questa resina e ungi le tue ferite, perché essa è il medicamento più potente ed efficace per risanarle, per ottenere il perdono e per infondere la grazia. Sali quindi a Galaad, sali cioè con Gesù a Gerusalemme, perché anche lui vi è salito nel giorno di festa (cf. Gv 7,8). Infatti dice il vangelo di oggi: “Avviatosi Gesù a Gerusalemme”, ecc.

2. In questo vangelo si devono osservare quattro momenti. Primo: Gesù che si avvicina a Gerusalemme: “Mentre si avvicinava”, ecc. Secondo: l’invio dei due discepoli al villaggio: “Allora mandò due dei suoi discepoli”, ecc. Terzo: l’assidersi del re mansueto, povero e umile, su di un’asina e il suo puledro: “Ecco il tuo re viene, seduto su un’asina”, ecc. Quarto: l’entusiasmo e le acclamazioni della folla: Osanna al Figlio di Davide”, e “Una folla grandissima”, ecc.

I. Gesù si avvicina a Gerusalemme

3. “Mentre si avvicinava a Gerusalemme, Gesù...”, ecc. Osserva che il Signore, quando andò a Gerusalemme, fece questo percorso: dapprima arrivò a Betania, da Betania si recò a Betfage, da Betfage al monte degli Ulivi, e dal monte degli Ulivi arrivò a Gerusalemme. Vedremo che cosa significhi tutto questo: prima il significato allegorico e poi quello morale.
Betania, che s’interpreta “casa dell’obbedienza”, o “casa del dono di Dio”, o anche “casa gradita al Signore”, raffigura la Vergine Maria, che obbedì alla voce dell’ange­lo, e quindi meritò di accogliere il dono celeste, il Figlio di Dio, e così fu gradita al Signore più di ogni altra creatura. Infatti è detto di lei nei Proverbi: “Molte figlie hanno radunato ricchezze, ma tu le hai superate tutte” (Pro 31,29). Nessun santo ha accumulato nella sua anima tanta ricchezza di virtù quanto la Vergine Maria, la quale per la sua straordinaria umiltà, per il fiore incontaminato della verginità, meritò di concepire e di partorire il Figlio di Dio, “che è al di sopra di tutto, Dio benedetto nei secoli” (Rm 9,5).
E da questa Betania Gesù si recò a Betfage, che s’interpreta “casa della bocca”. Essa raffigura la predicazione di Gesù. Per questo arrivò prima a Betania, cioè assunse umana carne dalla Vergine, per poi dedicarsi alla predicazione. Egli stesso dice: “Andiamo nei villag­gi vicini e nelle città, perché io predichi anche là: per questo infatti sono venuto” (Mc 1,38).
E da Betfage si recò al monte degli Ulivi, cioè della misericordia. Èleos (termine greco che assomiglia al latino òlea, olivo) s’interpreta “misericordia”. Il monte degli Ulivi sta a indicare la grandezza dei miracoli che Gesù misericordioso e benigno operò a favore dei ciechi, dei lebbrosi, dei posseduti dal demonio e dei morti. E tutti questi miracolati dicono per bocca di Isaia: “Tu, Signore, sei il nostro padre, il nostro salvatore: questo è il tuo nome dall’eternità” (Is 63,16). Nostro padre per la creazione, nostro salvatore per i miracoli operati; questo è il tuo nome dall’eternità perché sei benedetto nei secoli.
E dal monte degli Ulivi andò a Gerusalemme, per compiere l’opera della nostra salvezza, per la quale era venuto; per riscattare col suo sangue dalle mani del diavolo il genere umano, schiavo nel carcere dell’inferno da oltre cinquemila anni. Quindi Cristo in questo modo ci ha liberati, come quell’uccello, che si chiama struzzo, libera il suo nato.
Si racconta che il sapientissimo re Salomone possedeva una specie di uccello, appunto uno struzzo, il cui nato aveva chiuso in un vaso di vetro: la madre lo guardava piena di dolore, ma non poteva averlo. Finalmente, per lo straordinario amore che nutriva per il figlio, andò nel deserto dove trovò un verme; lo portò via e lo lacerò sopra il vaso di vetro. Il potere del sangue del verme spezzò il vetro e così lo struzzo liberò il suo nato. Vediamo che significato abbiano l’uccello, il nato, il vaso di vetro, il deserto, il verme e il suo sangue.
Questo uccello simboleggia la divinità; il suo nato raffigura Adamo e la sua discendenza, il vaso di vetro il carcere dell’inferno, il deserto il grembo verginale, il verme l’umanità di Cristo, il sangue la sua passione.
Dio, per liberare il genere umano dal carcere dell’inferno e dalla mano del diavolo, venne nel deserto, cioè nel grembo della Vergine, dalla quale assunse il “verme”, cioè l’umanità. Egli stesso ha detto: “Io sono un verme e non un uomo” soltanto (Sal 21,7), perché era Dio e uomo. Lacerò questo verme sul patibolo della croce e dal suo fianco uscì il sangue, il cui potere spezzò le porte dell’inferno e liberò il genere umano dalla mano del diavolo.

4. Vedremo anche quale significato morale abbiano Betania, Betfage, il monte degli Ulivi e Gerusalemme.
Dice Giovanni nel suo vangelo: “Gesù, sei giorni prima della Pasqua”, cioè il sabato che precede la domenica delle Palme, “arrivò a Betania, dov’era morto Lazzaro, che poi egli aveva risuscitato. Gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali, insieme con Gesù. Maria allora prese una libbra di puro (pisticus) nardo prezioso e ne cosparse i piedi di Gesù” (Gv 12,1-3). Invece Matteo e Marco dicono che versò il nardo profumato sopra il capo di Gesù, adagiato a mensa (cf. Mt 26,7; Mc 14,3).
Betania s’interpreta “casa dell’afflizione”. E questa è la contrizione del cuore, della quale parla il Profeta: “Sono afflitto e umiliato all’estremo: ruggisco per il fremito del mio cuore” (Sal 37,9). Il questa casa è stato risuscitato Lazzaro, il cui nome s’inter­preta “aiutato”. Infatti nella casa della contrizione il peccatore viene risuscitato, viene aiutato con la grazia divina, e quindi dice con il Profeta: “In lui ha sperato il mio cuore e sono stato aiutato” (Sal 27,7). Quando il cuore spera, la grazia viene in aiuto. E il cuore può sperare nell’indulgenza e nel perdono, quando lo tormenta il dolore della contrizione per il peccato commesso.
“Allora gli fecero una cena e Marta serviva”. Le due sorelle del peccatore risuscitato dalla morte del peccato, Marta, il cui significato è “che provoca” o “che irrita”, e Maria, che s’interpreta “stella del mare”, sono il timore della pena e l’amore della gloria. Il timore della pena provoca il peccatore al pianto, e lo stimola quasi come un segugio a ricercare il peccato e a confessarlo con tutte le sue circostanze. L’amore della gloria illumina, il timore sprona, l’amore conforta.
“Marta”, dice, “serviva”. Il timore che cosa serve? Certamente il pane del dolore e il vino della compunzione. Questa è la cena di Gesù, e di essa dice Matteo: “Mentre cenavano, Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli... E prendendo il calice, rese le grazie e lo diede loro dicendo: Bevetene tutti” (Mt 26,26-27).
“Lazzaro poi era uno dei commensali, insieme con Gesù”. Perché non sembrasse un fantasma, ma fosse evidente la sua risurrezione, egli mangia e beve. Che grande grazia! Il peccatore, che prima era disteso nella tomba, ora è adagia­to a mensa e banchetta con Gesù e i suoi discepoli; egli che prima bramava di riempirsi il ventre, cioè la mente, delle carrube dei porci, cioè delle sozzure dei demoni, e nessuno gliene dava (cf. Lc 15,16).
“Maria allora prese una libbra di vero nardo prezioso”. La libbra consta di dodici once: e qui abbiamo una specie di peso perfetto, perché consta di tante once quanti sono i mesi dell’anno. La libbra poi è così chiamata perché è “libera” e perché comprende in se stessa tutti i pesi. Nardo vero (genuino) è detto in latino pisticus, cioè autentico, senza contraffazioni, e deriva dal greco pistis, che vuol dire fede.
La libbra, composta di dodici once, è la fede dei dodici apostoli, libera e perfetta. Maria dunque, cioè l’amore della gloria celeste, unge il capo della divinità e i piedi dell’umanità con una libbra di nardo genuino, riconoscendo che Cristo è Dio e uomo, che nacque e subì la passione. E così la casa, cioè la coscienza del penitente, viene riempita del profumo dell’unguento (cf. Gv 12,3), dicendo con la sposa del Cantico dei Cantici: O Signore Gesù, con la fune del tuo amore trascinami dietro a te, perché io corra nel profumo dei tuoi unguenti (cf. Ct 1,3), perché io da Betania arrivi a Betfage.

5. Betfage s’interpreta “casa della bocca”, e sta ad indicare la confessione, nella quale dobbiamo essere come residenti, non come ospiti di una notte che è passata (cf. Sap 5,15), affinché non ci avvenga ciò che dice Geremia: “Così dice il Signore di questo popolo: gli è piaciuto tenere in movimento i piedi e non si è fermato: per questo non gli è gradito; ora egli ricorda le loro iniquità e visiterà (punirà) i loro peccati” (Ger 14,10).
“E da Betfage andò al monte degli Ulivi”. Ricorda che il monte degli Ulivi era detto il “monte delle tre luci” perché era illuminato dal sole, da se stesso e dal tempio: dal sole perché, rivolto a oriente, ne riceveva i raggi; da se stesso per l’abbondanza dell’olio che produceva; dal tempio, a motivo dele lampade che di notte vi ardevano e illumina­vano anche il monte.
Il monte degli Ulivi raffigura l’importanza della soddisfazione (penitenza) alla quale deve arrivare il penitente dalla casa della confessione. E giustamente la soddisfazio­ne è detta “monte delle tre luci”. Infatti l’uomo, sostando nell’opera di penitenza, viene illuminato dal sole di giustizia Cristo Gesù, che dice di se stesso: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); viene illuminato da se stesso, perché deve essere fornito di olio abbondante, cioè di misericordia, verso se stesso e verso il prossimo; infatti dice Giobbe: “Visitando i tuoi simili non peccherai” (Gb 5,24). Disse un santo: “Mai l’anima potrà meglio vedere al di sopra di sé i suoi simili per mezzo della verità, come quando la carne si piega al di sotto di sé, verso il suo simile, per mezzo della carità”. Sarà illuminato anche dal tempio, cioè dalla comunità dei fedeli, ai quali dice l’Apostolo: “Santo è il tempio di Dio, che siete voi” (1 Cor 3,17).
E dal monte degli Ulivi andò a Gerusalemme. Infatti queste tre cose, la contrizione del cuore, la confessione della bocca e l’opera di penitenza, che soddisfa il debito del peccato, conducono alla luce, alla Gerusalemme celeste, alla beatitudine eterna. Quindi giustamente è detto: “Gesù, essendosi avvicinato a Gerusalemme...”, ecc.

II. l’invio dei due discepoli al villaggio

6. “Gesù mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: “Andate nel villaggio (castellum) che vi sta di fronte: subito troverete un’asina legata e con essa il suo puledro: scioglieteli e conduceteli a me” (Mt 21,1-2). Vedremo che cosa rappresentino in senso morale i due discepoli, il villaggio, l’asina e il suo puledro.
Il discepolo è così chiamato perché impara (discit) la disciplina. Il villaggio (castellum) è costituito da una muraglia che circonda tutt’all’intorno una torre, situata al centro. L’asino, o asina, è così chiamato perché, diciamo, “lascia le cose alte” (lat. alta sinens); puledro (pullus) è come pollutus, impuro, macchiato, perché nato da poco. Quindi i due discepoli del giusto, che imparano la disciplina della pace, sono il disprezzo del mondo e l’umiltà del cuore.
Questi due discepoli sono Mosè e Aronne che fanno uscire gli ebrei dall’Egitto, sono le due stanghe che servivano per trasportare l’arca della testimonianza, sono i due cherubini che guardano il “propiziatorio” (il coperchio d’oro dell’arca), rivolti uno verso l’altro (cf. Es 25,17-18).
In Mosè che, come dice l’Apostolo, “stimava l’obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori dell’Egitto” (Eb 11,26), è raffigurato il disprezzo del mondo. In Aronne che spense il fuoco e placò l’ira di Dio perché non infie­risse su tutto il popolo (cf. Nm 16,46-49), è indicata l’umiltà del cuore che spegne il fuoco della suggestione diabolica e placa l’ira della punizione divina. Questi due discepoli, come due stanghe inflessibili, portano l’arca del testamento, cioè la dottrina di Gesù Cristo, oppure l’obbe­dienza al prelato. Guardano verso il propiziatorio, cioè verso lo stesso Gesù Cristo, che è “propi­ziazione” per i nostri peccati (cf. 1Gv 4,10); guardano, dirò ancora, a Cristo adagiato nella mangiatoia, inchiodato sulla croce, deposto nel sepolcro.
Il giusto manda questi due discepoli, dicendo: “Andate nel villaggio (castello) che sta di fronte a voi”. Il castello (villaggio) è costituito, come abbiamo già detto, di un muro perimetrale e di una torre: nel muro è indicata l’abbondanza delle cose temporali, nella torre la superbia del diavolo. Come nel muro si sovrappone pietra a pietra, e le pietre si saldano tra loro con il cemento, così nell’abbondanza delle cose temporali il denaro si aggiunge al denaro, si unisce casa a casa, si aggiunge campo a campo (cf. Is 5,8), e tutto si attacca tenacemente con il cemento della cupidigia. Di questo muro dice Isaia: “Il mio ventre suonerà a Moab come una cetra, e le mie viscere al muro di mattoni cotti (al fuoco)” (Is 16,11). E Geremia, quasi con le stesse parole: “Il mio cuore suonerà a Moab come i flauti, il mio cuore darà un suono di flauti per gli uomini del muro di mattone cotto” (Ger 48,36). Nel ventre è designata la mente, nella cetra o nel flauto la melodia della predicazione. Con cuore e mente compunti e con la melodia della predicazione, Isaia e Geremia, cioè ogni predicatore, deve suonare a Moab, che s’interpreta “dal padre”, cioè al peccatore, che proviene da quel padre che è il diavolo, che costruisce il muro di cotto e di mattoni di argilla, cioè l’abbondanza dei beni temporali: cotto, perché indurito al fuoco della cupidigia, di argilla perché destinato a crollare. Parimenti nella torre è indicata la superbia del diavo­lo. Questa è la torre di Babele, cioè della confusione, la torre di Siloe che, come si legge nel vangelo di Luca, crollando uccise diciotto uomini (cf. Lc 13,4). Il giusto manda contro questo castello (villaggio) due suoi discepoli, cioè il disprezzo del mondo, perché faccia crollare il muro dell’ab­bon­danza transitoria, e l’umiltà del cuore perché abbatta la torre della superbia.

7. E dice giustamente: “che sta di fronte (lat. contra) a voi”. L’abbondanza di questo mondo è sempre contraria alla povertà, e la superbia contraria all’umiltà. In questo castello si trova un’asina legata e con essa il suo puledro (l’asinello). L’asina, che lascia le cose alte e cammina in piano, rappresenta la vita dei chierici e dei religiosi che, abbandonata l’altezza della contemplazione, procede pigra e fatua tra le bassezze del piacere carnale. Ahimè, con quante catene di piaceri, con quante funi di peccati viene tenuta legata quest’asina!
“E insieme ad essa un puledro (asinello). Questo puledro di asina raffigura il chierico o il religioso, che giustamente è detto puledro (pullus), perché è macchiato (pollutus) da molti vizi. È trovato insieme con l’asina, attaccato alle sue mammelle, della gola e della lussuria, succhiando da tergo. Di entrambi si lamenta il Signore, con le parole di Geremia: “Io li ho saziati ed essi hanno fornicato, e nella casa della meretrice si sono dati alla lussuria” (Ger 5,7). E più avanti dice che la cintura di Geremia era marcita nel fiume Eufrate, di modo che non serviva più a nulla (cf. Ger 13,7). “La cintura di castità” di tanti chierici e di tanti religiosi imputridisce nel fiume Eufrate, che s’interpreta “fertile”, e indica l’abbon­danza di beni temporali – dalla pinguedine infatti proviene l’iniquità –, di modo che essi a nient’altro sono buoni, se non ad essere gettati nel letamaio dell’inferno.
“Scioglieteli e portateli da me”. O Signore Gesù, cos’è quello che dici? Chi mai potrà sciogliere le catene dei chierici e dei falsi religiosi, le ricchezze, gli onori e i piaceri con i quali sono tenuti legati, abbattere la loro superbia e condurli a te? “Tutti, dice Geremia, sono come un cavallo che corre impetuosamente” (Ger 8,6); “La loro corsa è verso il male e la loro forza è diversa” (Ger 23,10) dall’immagine, a somiglianza della quale li ho creati (cf. Gn 1,26); o anche è diversa perché non da un vizio solo, ma da diversi vizi sono contaminati.
Perciò continua Geremia: “Sia il profeta che il sacerdote sono immondi, e nella mia casa ho trovato la loro malvagità. Tutti sono diventati per me come gli abitanti di Sodoma e Gomorra. Per questo dice il Signore: Io li ciberò di assenzio”, cioè dell’amarez­za della morte eterna, “e li abbevererò di fiele”, cioè con l’amarezza del rimorso di coscienza. “Perché dai profeti di Gerusalemme”, cioè dai chierici e dai religiosi, “è uscita l’empietà su tutta la terra” (Gn 23,11.14-15).
“Scioglieteli, dice Gesù, e portateli a me!” Il disprezzo del mondo e l’umiltà dell’a­ni­mo sciolgono tutti i legami e portano al Signore l’asina e il suo puledro.

III. Gesù Cristo, re seduto sull’asina e il suo puledro

8. “Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta”, cioè da Zaccaria: “Dite alla figlia di Sion: Ecco, il tuo re viene a te mite, assiso su di un’asina e con un puledro, figlio di bestia da soma” (Mt 21,4-5). E queste sono, alla lettera, le parole di Zaccaria: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme: Ecco, a te viene il tuo re; egli è giusto e salvatore. Egli è povero e siede su di un’asina, su un puledro figlio di asina. Disperderò le quadrighe da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, e l’arco di guerra sarà spezzato” (Zc 9,9-10). Sion e Gerusalemme sono la medesima città, perché Sion è la torre di Gerusalemme, e raffigura la Gerusalemme cele­ste, nella quale c’è l’eterna contemplazione e la visione della pace assoluta.
La figlia di Sion è la santa chiesa alla quale, o predicatori, dovete dire: “Esulta grandemente nella fatica, giubila nel tuo animo”. Il giubilo infatti nasce nel cuore con sì grande letizia, quanta non è in grado di esprimerne l’efficacia della parola. “Ecco il tuo re”, del quale dice Geremia: “Non c’è nessuno come te, Signore: tu sei grande e grande è la potenza del tuo nome. Chi non ti temerà, o re delle nazioni?” (Ger 10,6-7). Egli, leggiamo nell’Apocalisse, “nel suo manto e nel suo femore porta scritto: Re dei re e Signore dei signori” (Ap 19,16).
Il manto rappresenta le sue fasce e il femore è la sua carne. A Nazaret infatti fu incoronato di carne umana, come di un diadema; in Betlemme fu avvolto in fasce, come di porpora. E queste furono le prime insegne del suo regno. Su entrambe le cose infierirono i giudei, come se avessero voluto privarlo del suo regno: Cristo infatti nella passione fu da essi spogliato delle sue vesti e la sua carne fu confitta in croce con i chiodi. Ma lì il suo regno si è perfettamente affermato: infatti, dopo la corona e la porpora, non gli mancava che lo scettro. Ricevette anche questo quando, “portando la sua croce”, come dice Giovanni, “s’incamminò verso il Calvario” (Gv 19,17). E Isaia: “Sulle sue spalle è posto il segno della sua sovranità” (Is 9,6); e l’Apostolo nella lettera agli Ebrei: “Abbiamo visto Gesù coronato di gloria e di onore, a motivo della morte che ha sofferto” (Eb 2,9).

9. “Ecco il tuo re, che viene a te”, cioè per la tua utilità, “che viene mite”, per essere amato, e non viene con la potenza per essere temuto, “seduto su di un’asina”. Dice Zaccaria: “Giusto e Salvatore, eppure povero, seduto su un’asina”. Le virtù proprie di un re sono due: la giustizia e la pietà. Così il tuo re è giusto perché, in fatto di giusti­zia, rende a ciascuno secondo le sue opere; è mansueto e redentore, in fatto di pietà; ed è anche povero: infatti nell’epistola di oggi è detto: “Annientò se stesso, assu­mendo la condizione di servo” (Fil 2,7). Poiché Adamo nel paradiso terrestre non volle servire il Signore, il Signore assunse la condizione di servo per servire il servo, affinché in futuro il servo non si vergognasse di servire il Padrone.
“Divenuto simile agli uomini, e per condizione ricono­sciuto come uomo” (Fil 2,7). Perciò dice Baruc: “Per questo è apparso sulla terra e ha vissuto tra gli uomini” (Bar 3,38). Quel “come” (lat. ut) esprime la verità, la realtà, e non la somiglianza. “Umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8).
Dice in merito Agostino: “Il nostro Redentore appostò al nostro tiranno (predatore) la “trappola” della sua croce e vi collocò come esca il suo sangue. Egli versò il suo sangue, che però non era sangue di debitore, e per questo fu separato dai debitori” (cf. Eb 2,14; 7,26). E il beato Bernardo dice di Cristo: “Ebbe in sì grande stima l’obbedienza che preferì perdere la vita piuttosto che l’obbedienza, fatto obbediente al Padre fino alla morte”, e alla morte di croce. Egli che non ebbe dove posare il capo (cf. Mt 8,20; Lc 9,58), se non sulla croce, dove “reclinato il capo, rese lo spirito” (Gv 19,30).

10. “Egli fu povero”. Dice infatti Geremia: “O aspettazione d’Israele, suo salvatore nel tempo della tribolazione, perché sarai in terra come un colono, e come un viandante che rinuncia a fermarsi? Perché sarai come un uomo errante, e come un forte incapace di salvare?” (Ger 14,8-9).
Il nostro Dio, il Figlio di Dio, colui che aspettavamo, è arrivato, e nel tempo della tribolazione, cioè della persecuzione diabolica, ci ha salvati, e come un colono, uno straniero, un pellegrino ha abitato la nostra terra e l’ha irrigata con l’acqua della sua predicazione. Egli fu come un viaggiatore senza bagaglio (levis), cioè immune dal peccato; compì il suo cammino perché “esultò come un gigante che percorre la via” (Sal 18,6); reclinò quindi il capo sulla croce quando disse: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46), e poi restò chiuso nel sepolcro tre giorni e tre notti.
Qui è detto “uomo errante”, in base alla valutazione dei giudei che lo reputavano girovago e incostante. Per questo, quando disse: “Ho il potere di offrire la mia vita e di riprenderla di nuovo” (Gv 10,18), “molti di loro dicevano: Ha un demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascolta­re?” (Gv 10,20). A motivo della condizione di servo, che aveva assunto, sembrava loro privo del potere di salvare. Ma egli fu “l’uomo forte” che, con le mani trafitte dai chiodi, vinse il diavolo. “Ecco, dunque, a te viene il tuo re, mite, seduto su di un’asina e con un puledro, figlio di bestia da soma”, cioè della stessa asina domata con il basto.
Oh, volessero i chierici e i religiosi accogliere un sì grande re, un sì nobile “cavaliere”, e portarlo devotamente come fecero quei miti animali, per essere degni di entrare con lui nella superna Gerusalemme. Ma siccome sono figli di Belial, cioè “senza giogo” e, come dice Geremia, “sono andati dietro a ciò che è vano e sono divenuti essi stessi vanità; e non hanno domandato: Dov’è il Signore?” (Ger 2,5-6), hanno spezzato il giogo e strappate le corde e hanno detto: “Non serviremo!”: per tutto questo il Signore, per bocca di Zaccaria, dice di essi: “Disperderò le quadrighe da Efraim e il cavallo da Gerusalemme, e sarà spezzato l’arco di guerra”. La quadriga, che gira su quattro ruote, rappresenta l’abbondanza nella quale vivono i chierici; abbondanza che consiste in quattro cose: nell’estensione delle proprietà, nell’accumulo delle prebende e dei redditi, nella sontuosi­tà dei cibi e nel lusso delle vesti. Il Signore disperderà questa quadriga e scaglierà nel mare dell’inferno chi vi è sopra (cf. Es 15,1); sterminerà il cavallo, cioè la superbia schiumosa e sfrenata dei religiosi i quali, sotto l’abito della religione, sotto il pretesto della santità, si ritengono grandi.
Ma il Signore grande e potente, che guarda gli umili e abbatte i grandi (cf. Sal 137,6), scaccerà questo cavallo dalla Gerusalemme celeste, nella quale nessuno entrerà, se non chi si sarà umiliato come un bambino (cf. Mt 18,4), come lui che si è umiliato fino alla morte, e alla morte di croce.

11. Senso morale. Il re che siede sull’asina e sul suo puledro raffigura il giusto che mortifica la sua carne e frena i suoi stimoli. Dice Geremia: “Vergine d’Israele, ti ornerai nuovamente dei tuoi timpani e uscirai nel coro dei festanti” (Ger 31,4).
Nel timpano, che è la pelle di un animale morto, tesa su di un cerchio di legno, è indicata la mortificazione della carne; nel coro, in cui le voci sono in accordo, è raffigurata la concordia dell’unità. Quindi l’anima è ornata con i timpani ed esce nel coro dei festanti, quando è come adorna della mortificazione della carne e della concordia dell’u­nità. Dice il profeta: “Con il timpano e con il coro lodate il Signore” (Sal 150,4).
Altro significato. Il re che siede sull’asina è il vescovo, che governa il popolo che gli è affidato, del quale dice Salomone: “Beata la terra”, cioè la chiesa, “il cui re è nobile e i cui prìncipi”, cioè i prelati, “si nutrono al tempo giusto, per rifocillarsi e non per gozzovigliare” (Eccle 10,17). “Mangiano solo per vivere, e non vivono per mangiare” (Glossa); “si nutrono al tempo giusto”, perché non cercano quaggiù la ricompensa, ma guardano a quella futura. Questo re dev’essere – come abbiamo detto sopra – mansueto, giusto, salvatore e povero. Mansueto verso i sudditi; giusto con i superbi, versando vino e olio; salvatore nei riguardi dei poveri; povero, pur tra le ricchezze. O anche: mansueto se riceve un’in­giuria; giusto esercitando la giustizia verso chiunque; salvatore con la predicazione e con l’orazione; povero per l’umiltà del cuore e il disprezzo di sé.
Beata l’asina (sic), beata la chiesa, che ha un simile reggitore (sessore). Al contrario, il vescovo di questo nostro tempo è come Balaam, seduto sopra l’asina: essa vedeva l’angelo, mentre Balaam non poteva vederlo (cf. Nm 22,21-30). Balaam s’inter­preta “che demolisce la fraternità”, oppure “che turba la gente”, o anche “che divora il popolo”. Un vescovo scandaloso è un albero inutile: con il suo cattivo esempio demolisce la fraternità dei fedeli e la precipita prima nel peccato e poi nell’inferno; con la sua stoltezza, giacché è anche inetto, sconcerta i fedeli; con la sua avarizia divora il popolo. Costui, assiso sopra l’asina, non solo non vede l’angelo, ma vi assicuro che vede il diavolo, pronto a precipitarlo all’inferno. Invece il popolo semplice, che ha una fede retta e che vive onestamente, vede l’angelo del Sommo Consiglio, riconosce e ama il Figlio di Dio.

IV. l’entusiasmo e le acclamazioni della folla a Cristo

12. “La folla numerosissima stese le sue vesti per terra: alcuni tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via; le folle che precedevano e quelle che seguivano, gridavano dicendo: Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!” (Mt 21,8-9). Fa’ attenzione a questi tre fatti: stesero le proprie vesti, tagliavano i rami, e gridavano: Osanna! Le vesti raffigurano le membra del nostro corpo, con le quali si veste l’anima: di esse dice Salomone: “In ogni tempo siano candide le tue vesti” (Eccle 9,8). Dobbiamo stenderle sulla via, vale a dire essere pronti ad esporle alla passione e alla morte per il nome di Gesù, per merita­re di riaverle gloriose e immortali nella risurrezione finale, quando questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale si vestirà di immortalità (cf. 1Cor 15,53).
I rami sono gli esempi dei santi padri, dei quali dice il Signore: “Vi prenderete i frutti dell’albero più bello, spate di palma, rami di alberi dalle dense fronde e salici di torrente e gioirete davanti al vostro Dio” (Lv 23,40). L’albero più bello è la gloriosa Vergine Maria, i cui frutti furono l’umiltà e la povertà. Le palme furono gli apostoli, che riportarono vittoria su questo mondo. Le spate sono i frutti delle palme, prima di aprirsi: in esse vediamo la fede, la speranza e la carità degli apostoli. L’albero dalle dense fronde è la croce di Cristo, che ha allarga­to le dense fronde della fede in tutto il mondo.
I rami di quest’albero furono le quattro estremità della croce, alle quali furono inchiodati i piedi e le mani di Cristo. In queste quattro estremità ci furono quattro pietre preziose: la misericordia, l’obbedienza, la pazienza e la perseveranza. Nell’estremità superiore ci fu la misericordia, in quella destra l’obbedienza, in quella sinistra la pazienza, e in quella inferiore la perseveranza. I salici del torrente, che restano sempre verdi, raffigura­no tutti i santi, che nel torrente di questa vita mortale e passeggera sono rimasti sempre verdi nell’operare il bene.
Prendiamoci dunque i frutti dell’albero più bello, vale a dire la povertà e l’umiltà della Vergine Maria, le spate delle palme, cioè la fede, la speranza e la carità degli apostoli, i rami dell’albero di dense fronde, cioè la misericordia, l’obbedienza, la pazienza e la perseveranza della passione di Gesù Cristo, i salici del torrente, vale a dire le rigogliose opere di tutti i santi, ed esultiamo davanti al Signore, nostro Dio, Gesù Cristo, gridando con le turbe e con i fanciulli degli ebrei: “Osanna al Figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!” (Mt 21,9).
Osanna s’interpreta “salvezza”, oppure “salva, ti scon­giuro!”. Osanna dunque, cioè la salvezza appartiene al Fi­glio di Davide, o viene dal Figlio di Davide o per mezzo del Figlio. Benedetto, cioè immune dal peccato: quindi sei benedetto in modo particolare tu, o Cristo, che vieni nel nome del Signore, cioè in onore del Padre, oppure “che vieni”, cioè che verrai. Infatti tu che dapprima sei apparso nella condizione di servo, verrai alla fine quale glorioso Signore. Osanna nell’alto dei cieli, cioè “salva nell’alto dei cieli”; quasi a dire: Tu che hai salvato in terra con la redenzione, salva, te ne scongiuriamo, dandoci un posto nei cieli.
Ti scongiuriamo, dunque, o Gesù benedetto: fa’ che anche noi ci avviciniamo a Gerusalemme con il tuo timore e con il tuo amore. Riportaci a te dal villaggio di questa peregri­nazione terrena; riposati, tu, nostro re, nell’anima nostra, affinché insieme con i fanciulli che hai scelto da questo mondo, cioè con gli apostoli, siamo fatti degni di glorificarti, di lodarti, di benedirti nella città santa, nell’eterna beatitudine. Accordacelo tu, cui è onore e gloria per i secoli eterni. Amen. E ogni anima fedele risponda: Amen!

AMDG et BVM

domenica 29 marzo 2015

29. DOMENICA DELLE PALME Stazione in Laterano alla basilica del Salvatore. (Stazione a S. Pietro, colletta a S. Maria "in Turri")


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DOMENICA  DELLE  PALME
Stazione in Laterano alla basilica del Salvatore. 
(Stazione a S. Pietro, colletta a S. Maria "in Turri"
)

Le grandi cerimonie della settimana pasquale, come gli antichi chiamavano questo solenne settenario che stiamo per iniziare, nel medio evo si compivano di regola presso la residenza pontificia nel classico palazzo dei Laterani. Perciò anche la processione degli olivi e l'odierna messa stazionale si celebrano oggi nella veneranda basilica del Salvatore, trofeo permanente delle vittorie del Pontificato Romano sull'idolatria, sulle eresie e su tutte le porte infernali che da oltre diciannove secoli congiurano a danno della Chiesa e sempre sono respinte e vinte. Non praevalebunt adversus eam, ha detto Gesù, e passerà il cielo e la terra prima che venga meno una sillaba del labbro del Salvatore.
Nel tardo medio evo talora l'odierna stazione, a volontà del Papa, si celebrava in Vaticano, ed allora la benedizione delle palme aveva luogo nella chiesa di Santa Maria in Turri, che sorgeva nell'atrio della basilica.
La benedizione delle palme ci conserva l'antico tipo delle sinassi liturgiche, di quelle adunanze cioè, come la recita del divin ufficio, l'istruzione dei fedeli ecc., in cui non seguiva l'offerta del divin Sacrificio. Questo tipo di sinassi deriva dall'uso giudaico nelle sinagoghe della diaspora, ed entrò nel rituale cristiano sin dall'evo apostolico.
La processione coi rami d'olivo deriva dall'uso gerosolimitano, quale ci descrive la pellegrina Eteria verso la fine del IV secolo. Da principio in occidente si tenevano i ramoscelli in mano durante la lettura del Vangelo; nelle Gallie cominciò a darsi una speciale benedizione, non già ai rami, ma a chi prestava tale atto d'ossequio alla parola evangelica. Si aggiunse la processione prima della messa, che venne a conferire una pompa ed un'importanza speciale ai ramoscelli, i quali finirono per essere alla loro volta santificati dalla benedizione sacerdotale.
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BENEDIZIONE  DELLE  PALME
Colletta a San Silvestro in Laterano.

Giusta gli Ordini Romani del secolo XIV, le palme venivano prima benedette dal cardinale di San Lorenzo, e quindi per ministero dei chierici erano trasportate nell'interno del Patriarchio nell'oratorio di San Silvestro, dove gli accoliti della basilica Vaticana avevano l'ufficio di farne la distribuzione al popolo. Quella al clero venivainvece compiuta personalmente dal Pontefice nell'aula tricliniare di Leone IV, donde appunto muoveva oggi la processione alla volta della chiesa stazionale del Salvatore.
Giunto il Papa sotto il portico, s'assideva in trono, e mentre le porte dell'aula sacra rimanevano ancor chiuse, il primicerio dei cantori e il priore basilicario a capo del loro personale di servizio intonavano l'inno Gloria, lausetc., prescritto ancor oggi nel Messale. Allora finalmente si aprivano le porte ed il corteo faceva la sua entrata trionfale nella basilica Salvatoriana, affine di dar principio colla messa al grandioso dramma dell'umana redenzione. Il Papa assumeva le sacre vesti nel secretarium, ma ad indicare la funebre mestizia che pervade tutta la liturgia di questa settimana, i basilicari quest'oggi tralasciavano di distendere sul suo capo la tradizionalemappula o baldacchino, che era uno dei contrassegni di rispetto e di venerazione presso gli antichi.
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La colletta per la benedizione delle palme comincia coll'introito: "Salve, o figlio di David; benedetto Colui che viene nel nome di Iahvè; o Re d'Israele, salve, evviva". Ecco il saluto messianico che il Cristo oggi acclamato dai gentili, dai fanciulli, dal basso popolo e dai semplici, s'attese invano dalla Sinagoga. La conseguenza si è, che Gesù ripudia l'ostinato Sanhedrin, e si rivolge invece alle nazioni dei gentili, le quali lo accolgono come il loro Dio e Redentore. La misericordia del Signore però è infinita, ed anche Israele può sperare salvezza, a condizione tuttavia che muova anch'esso incontro al Cristo cantando col Salmista e coi fanciulli del giorno delle palme: Benedetto Colui che viene nel nome di Iahvè.
Dobbiamo professare ima grande devozione per quest'atto di fede messianica, tanto desiderato da Gesù Cristo. La Chiesa lo rinnova nel momento più solenne del sacrificio, quando cioè Gesù all'invito del Sacerdote sta per discendere in stato di vittima sui nostri altari.

Segue la colletta di benedizione sull'adunanza: "O Dio, cui è giusto amare sopra ogni cosa, moltiplica su di noi i doni della tua grazia, e mentre pei meriti della morte del Figlio tuo ci fai sperare quell'eternità gloriosa che forma appunto l'oggetto della nostra fede, in grazia della sua risurrezione ci concedi di giungere là dove tendiamo". La forma è veramente solenne, ed il concetto è chiaro e preciso: la morte di Gesù è la causa meritoria di nostra salvezza, ma la sua risurrezione ne è la causa esemplare; perché Gesù glorioso trasfonde nel corpo e nelle sue mistiche membra quella santità e quella beatitudine che inonda il Capo nel giorno del suo solenne trionfo sulla morte e sul peccato.
Il brano dell'Esodo (XV, 27, XVI, 1-7) col racconto della rivolta degli Israeliti contro Mosè, veramente non ha troppo a vedere col mistero dell'odierna domenica; i liturgisti gallicani del medio evo lo prescelsero tuttavia in grazia delle fonti d'acqua e dei settanta palmizi all'ombra dei quali s'attendò il popolo del Signore.
Gl'Israeliti tratti via dalla servitù d'Egitto in modo così prodigioso, mormorano tuttavia contro il Signore e rimpiangono gli agli e le carni d'Egitto. Essi preludevano a quello che i figli loro erano per fare contro il vero Mosè, il vero liberatore dalla schiavitù dell'inferno, che sarebbe stato maledetto ed ucciso nel momento stesso in cui, a redimerli, stava dando per loro la vita.
I due responsori di ricambio che seguono, non sono in alcuna relazione colla cerimonia della benedizione delle palme, e sono stati assegnati qui tanto per riempire le lacune e dividere le due lezioni scritturali. Come si vede, tutto l'ordinamento dell'odierna funzione, non ostante la sua parvenza arcaica, è un po' fittizio; trattasi d'elementi d'origine e d'ispirazione disparatissimi, i quali vennero fusi insieme alla meglio senza una vera unità di concetto.
Il primo responsorio è derivato da Giovanni (XI, 47-53) e canta del convegno tenuto in casa di Caifa nel quale, all'osservazione che Gesù si traeva dietro le turbe ed esponeva il Sinedrio al pericolo che presto o tardi i Romani, gelosissimi, avrebbero soffocato quei moti d'insurrezione nazionale, Caifa dichiarò esser meglio mandare a morte uno, cioè Gesù, per salvare tutti. Lo Scrittore Sacro insiste nel far rilevare che le parole dello scaltro pontefice hanno una portata assai superiore alle sue intenzioni, e che in forza del suo ufficio gli furono poste sul labbro dallo Spirito Santo.
Il secondo responsorio serve solo di ricambio, ed è stato preso ad imprestito dal I Notturno del giovedì santo. Esso deriva dal Vangelo di san Matteo (XXVI, 39, 41) e descrive Gesù che nella sua

agonia nell'orto degli olivi supplica il Padre, si conforma alla sua santa volontà ed esorta gli addormentati discepoli, perché nell'orazione cerchino lo scampo contro la tentazione e la prova che sta ormai per incominciare. Non basta che le disposizioni abituali della volontà siano rette; la natura mortale è fragile e senza l'aiuto della grazia vien meno per il bene. Bisogna quindi pregare e non stancarsi mai d'implorare questo soccorso tanto necessario. I Santi, e specialmente sant'Alfonso, riassumevano così l'insegnamento cristiano circa la necessità della preghiera: Chi prega, si salva, e chi non prega, si danna.
L'odierna lettura di san Matteo col racconto dell'ingresso solenne di Gesù nella Santa Città (XXI, 1-9) ci è attestato nella liturgia di Gerusalemme sin dalla seconda metà del IV secolo. Giusta la profezia di Zaccaria, il Redentore entra nella Città Santa seduto sull'asinello, a simboleggiare il carattere tutto mite e benigno di questa sua prima apparizione messianica. Egli non vuole spaventare colle folgori, ma brama d'attirare tutti al suo Cuore colla dolcezza delle sue attrattive. L'asina poi e l'asinello, che, giusta il santo Vangelo, trovavansi legati alle mura del castello vicino al monte degli olivi, donde furono sciolti dagli Apostoli e menati a Gesù, rappresentano il popolo gentile, esiliato dalla patria d'Abramo, diseredato dall'eredità d'Israele, abbrutito sotto le ritorte dell'idolatria. Agli Apostoli è confidata la missione di proscioglierlo dai suoi errori e di ricondurlo al Salvatore.
La colletta seguente, giusta l'uso della liturgia romana, quando trattasi di preghiere di speciale importanza, serve come di preludio all'anafora consecratoria dei sacri rami. Essa quindi è parallela alla Secreta prima del prefazio della messa:
Preghiera. - "Accresci, o Dio, la fede di coloro che in te sperano, e clemente esaudisci le preghiere dei supplicanti. La tua misericordia discenda copiosa sopra di noi; e siano altresì benedetti questi germogli di palma e d'olivo; e come a prefigurar la Chiesa, tu concedesti numerosa progenie a Noè uscito dall'arca e a Mosè uscito dall'Egitto insieme coi figli d'Israele, cosi anche noi, recando in mano palme e rami d'olivo, per mezzo d'una santa vita possiamo andare incontro al Cristo, e per i suoi meriti meritiamo d'entrare nell'eterno gaudio. Egli che Dio teco e nell'unità dello Spirito Santo, vive e regna per tutti i secoli. R). Così è".
Questa preghiera, di gusto tanto squisito e d'una pietà sì profonda, spiega assai bene il simbolismo della processione che sta per

eseguirsi, assegna la cagione per cui si è letta la pericope dell'Esodo col racconto dei settanta palmizi. La palma si dà al vincitore, e colui che esce incolume dall'Egitto può ben meritare la gloria del trionfo.
Sac. V). "Il Signore sia con voi".
       R). "E col tuo spirito".

Sac. V). "In alto i cuori".
       R). "Sono già intenti al Signore".

Sac. V). "Rendiamo grazie al Signore nostro Dio".
       R). "È conveniente e giusto".

Segue l'anafora, che, giusta il suo primitivo significato, oggi è un vero carme eucaristico, ossia inno di lode e di ringraziamento a Dio per la sua immensa santità e la squisitezza della sua misericordia verso gli uomini:
Sac. "È veramente conveniente e giusto, retto e proficuo che sempre e dovunque noi ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre onnipotente, eterno Dio; tu che sei glorificato nella moltitudine dei tuoi Santi, cui tutte le creature ubbidiscono. Te solo, infatti, esse riconoscono per loro autore e Dio, onde non solo ogni cosa creata annunzia la tua lode, ma i tuoi Santi in modo speciale ti benedicono, quando liberamente confessano il gran nome del tuo Unigenito Figlio innanzi ai re e ai potenti di questo mondo. Cui assistono gli Angeli e gli Arcangeli, i Troni e le Dominazioni, che insieme con tutta quanta la milizia del celeste esercito, incessantemente cantano a te un inno alla tua gloria, dicendo: Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti. La tua gloria riempie il cielo e la terra. Salve, evviva sino alle stelle. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Salve, evviva".
Segue una serie di collette di sapore abbastanza antico e d'elevatissima ispirazione, colle quali la Chiesa sembra che voglia quasi sfogare tutto il suo amore verso il Redentore, già vicino ad immolarsi per lei. In origine queste varie preghiere costituivano come una serie di collette di ricambio; oggi invece la cerimonia è divenuta molto prolissa, giacché tutte queste diverse formole di benedizione, prefazio cioè, collette ecc. che da principio si sostituivano, o meglio, s'escludevano a vicenda, nell'attuale Messale fanno parte integrale della cerimonia della benedizione delle palme. Ne è venuta fuori una funzione devota sì, ma forse senza proporzione ed armonia, il che rivela la sua tarda introduzione nella liturgia romana.

La seguente colletta si riferisce esclusivamente ai rami di olivo senza nessun accenno alle palme, che nel medio evo erano divenute estremamente rare in Europa:

Preghiera. - "O Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio, noi ti preghiamo di benedire e santificare quest'olivo da te creato, che per tuo volere germogliò sul tronco, e che la colomba portò nel becco ritornando nell'arca; affinché chiunque ne riceverà un germoglio conseguisca la salute dell'anima e del corpo, e divenga esso per noi rimedio salutare e pegno della tua grazia. Per il Signore".
Dio si compiace d'umiliare la superbia del Satana impedendogli di nuocere ai Cristiani, in grazia dei sacramentali, consistenti per lo più in piccoli oggetti di devozione, benedetti dal sacerdote, e conservati con fede dai fedeli. Alla qual specie di sacramentali appartengono appunto le palme.

Preghiera. - "O Signore, che raccogli quanto era disperso, e raccoltolo lo conservi; tu che benedicesti il popolo uscito incontro a Gesù coi rami d'albero, benedici altresì questi rami di palma e d'olivo che i tuoi servi ricevono con tutta fede e in onore del tuo nome; affinché dovunque siano recati, gli abitanti ne conseguano la tua benedizione, e allontanata ogni ostilità, la tua destra si degni di proteggere coloro che redense Gesù Cristo tuo figlio e nostro Signore. Il quale vive e regna".
Nella seguente preghiera si spiega tutto il simbolismo dell'odierna cerimonia. Come le turbe mossero incontro colle palme al trionfatore della morte e dell'inferno, cosi oggi Dio ci anticipa il dono della palma, onde stimolarci a lottare strenuamente affine di conseguire sulle soglie dell'eternità un'altra palma, non più soggetta ad appassire ed a disseccarsi, ma perpetuamente fresca e verdeggiante.

Preghiera. - "O Dio, che con meravigliosa armonia, anche per mezzo delle cose insensibili, volesti rivelarci l'ordine della nostra redenzione, fa che lo spirito dei tuoi devoti penetri bene il significato mistico del fatto compiuto oggi dalle turbe, che, rischiarate da superna luce, mossero incontro al Redentore e copersero il suo sentiero di rami di palma e d'olivo, Infatti i rami di palma preannunziano il suo trionfo sul principe della morte, e i germogli d'olivo indicano una certa qual unzione spirituale; giacché fin d'allora quella fortunata schiera di popolo dové comprendere che sotto quei simboli si dichiarava come il Redentore nostro, tocco dalla miseria degli uomini, doveva lottare contro il principe della morte per dar la vita a tutto il mondo, e morendo doveva riportarne il trionfo. E

perciò la medesima turba nel prestargli ossequio si servi di tali simboli che significassero i trionfi della sua vittoria e la facile copia della sua misericordia. Noi pure esprimendo con viva fede questo fatto e questo medesimo significato, o Signore Santo, Padre onnipotente, eterno Dio, supplichevoli ti preghiamo per il medesimo Signor nostro Gesù Cristo, onde in Lui e per Lui di cui tu ci volesti membra, riportando vittoria sull'impero della morte, meritiamo d'essere a parte della gloria della sua risurrezione. Egli che teco ecc.".
Nella seguente colletta già non si parla più di palmizi, ma all'olivo vengono riavvicinati altri alberi, giacché nei paesi nordici, dove massimamente si svolse l'odierno rito, a cagione del freddo non vi cresce né la palma, né l'olivo:
Preghiera. - "O Signore, che volesti che la colomba recasse in terra l'annunzio di pace per mezzo d'un ramoscello d'olivo; santifica colla tua benedizione + questi rami d'olivo e d'altri alberi, onde apportino salvezza a tutto il tuo popolo. Per Cristo ecc.".
Il rito esterno è vano, se al labbro che ora, non si unisce il cuore che adora:
Preghiera. - "Ti preghiamo, o Signore, benedici questi rami di palma e d'olivo, e fa sì che quanto oggi il popolo in tuo onore eseguisce in modo sensibile, lo compia anche interiormente con una fervida devozione, riportando vittoria sullo spirituale nemico, e dedicandosi con sommo trasporto alle opere di misericordia. Per il Signore".
Qui il sacerdote asperge i rami coll'acqua santa e li turifica coll'incenso benedetto.
Sac. V). "Il Signore sia con voi". 
       R). "E col tuo spirito".

Preghiera. - "O Dio, che per la nostra salute inviasti in questo mondo il tuo figliuolo Gesù Cristo Signor nostro, perché si abbassasse sino a noi onde risollevarci sino a te; a cui entrando in Gerusalemme a dar compimento alle Scritture, la turba del popolo credente coi rami di palma e con fervida devozione distese lungo il cammino le proprie vesti; ci concedi di preparargli la via della nostra fede, donde tolte via le pietre d'intoppo e gli scrupoli, distenda invece i suoi rami frondosi la giustizia per mezzo delle buone opere, affinché meritiamo di seguire le sue vestigia; Egli che vive e regna".
Durante la distribuzione delle palme o dei rami d'olivo benedetti, il coro dei cantori eseguisce le antifone seguenti tolte dal Vangelo poc'anzi recitato:
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"I fanciulli Ebrei andarono incontro al Signore con rami d'olivo, e dicevano: Salve, sino alle stelle".
Oggi i fanciulli fanno gli onori della festa, perché Dio si compiace delle anime semplici ed innocenti, ed è appunto a loro che rivela i suoi secreti.
"I fanciulli Ebrei stendevano le proprie vesti lungo la via e gridavano: Salve al Figlio di David; benedetto colui che viene nel nome del Signore".
Dopo distribuiti i rami benedetti si recita la seguente colletta, prima d'iniziare la processione:
Preghiera. - "O Dio eterno ed onnipotente, che disponesti che il Signor nostro Gesù Cristo sedesse sul polledro d'un'asina, e tu stesso insegnasti alla turba del popolo a distendere sulla via le vesti e i rami d'albero e a cantare Salve in suo onore; deh! fa che imitiamo la loro innocenza, onde meritiamo di conseguirne anche il premio. Per il medesimo Signore".
Diac. V). "Sfiliamo processionalmente e in pace". 
         R). "Nel nome di Cristo. Amen".

Segue la processione, che sebbene quest'oggi abbia un significato speciale e voglia ricordare l'entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme, però è un residuo dell'antica processione stazionale e domenicale, che nel medio evo, specialmente nelle abbazie benedettine precedeva regolarmente la messa. Durante il cammino il coro dei cantori eseguisce le seguenti antifone:
Ant. "Avvicinandosi il Signore a Gerusalemme, mandò due dei suoi discepoli e disse loro: Andate al castello qui incontro, e ritroverete legato un polledro di giumenta, sul quale nessuno ancora sedé; scioglietelo e menatelo a me. Se qualcuno vi domanda, dite: Serve al Signore. Sciolto l'asinello lo condussero a Gesù, e distese sul suo dorso le loro vesti, Gesù vi sedé. Altri distesero i loro mantelli sulla via, altri la cosparsero di ramoscelli d'albero. Quelli che seguivano, gridavano: Salve, benedetto colui che viene nel nome del Signore; benedetto il regno di David, padre nostro. Salve sino alle stelle. Pietà di noi, figlio di David".
Ant. "Avendo il popolo saputo che Gesù era per giungere a Gerusalemme, presi dei rami di palme gli usci incontro. I fanciulli acclamavano: Ecco colui che viene a salvare il popolo. Questi è la nostra salvezza e la redenzione d'Israele. Quanto grande è la sua maestà cui escono incontro i Troni e le Dominazioni! Non temere.
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o figlia di Sion; ecco che viene a te il tuo re seduto su un polledro d'asina, siccome fu detto nella Scrittura: Salve, o re, artefice del mondo, che sei venuto a riscattarci".
Ant. "Sei giorni prima della solennità pasquale, quando il Signore giunse alla città di Gerusalemme, gli mossero incontro i fanciulli portando in mano rami di palme, e gridavano sino alle stelle: Salve. Benedetto sii tu che giungi qui nell'infinita tua misericordia: Salve, sino alle stelle".
Ant. "La turba muove incontro al Redentore coi fiori e colle palme, e rende il conveniente ossequio al vincitore e trionfatore; il popolo lo acclama Figlio di Dio; i gridi e le lodi del Cristo salgono in cielo. Salve, sino alle stelle".
Ant. "Mostriamoci fedeli al trionfatore della morte, insieme agli angeli ed ai bambini, ed acclamiamo: Salve, sino alle stelle".
Ant. "Un immenso popolo che s'era raccolto per la solennità della Pasqua, acclamava al Signore: Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Salve, sino alle stelle".
Segue l'inno Gloria, laus etc. colla cerimonia del crocifero che picchia alle porte del tempio per farle aprire al corteo. Come rito, Roma lo conobbe assai tardi; come simbolo, i due cori che si rispondono dentro e fuori del tempio, raffigurerebbero la lode divina che incessantemente alternano la Chiesa trionfante e quella militante.
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ALLA  MESSA
Stazione a San Giovanni in Laterano.

Al ritorno della processione segue la messa, che però ha un carattere affatto diverso dalla benedizione delle palme ed è in più intima relazione colla liturgia dei giorni precedenti. Infatti, mentre le preci e le antifone riferite più sopra acclamano il Redentore siccome trionfatore della morte e del peccato, la messa stazionale, d'ispirazione interamente romana, ne considera piuttosto gl'intimi sentimenti di profondo annientamento, d'umiliazione e di dolore, siccome vittima d'espiazione per i peccati del mondo.
La sacra liturgia di questi giorni non dissocia punto il ricordo della passione del Salvatore da quello dei trionfi della sua resurre-
zione - ecco la ragione dell'antico titolo di Hebdomada paschalis, dato già a questa settimana, e delle frequenti menzioni della santa resurrezione che ricorrono nella messa e nell'Ufficio Divino, così oggi che il venerdì santo -. Infatti, se il Pascha nostrum immolatus Christus, incomincia la sera del giovedì santo e si prosegue nella Parasceve, esso però ha il suo vero compimento nella mattina della risurrezione, allorché Colui che era mortuus propter delicta nostra, resurrexit propter iustificationem nostram. Per gli antichi il Paschale Sacramentumcomprendeva questo triplice mistero, onde essi, perfino il venerdì santo, innanzi all' adorabile Legno della Croce, già preannunziavano le glorie del Salvatore risorto. Crucem Tuam adoramus ... et sanctam resurrectionem tuam laudamus et glorificamus.
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L'introito è tolto da quel medesimo salmo 21 che intonò Gesù Cristo in croce, e che descrive cosi mirabilmente le sue sofferenze, le ignominie, i palpiti del suo cuore e le speranze per la prossima lieta risurrezione: "Signore, non allontanare da me il tuo soccorso; attendi a difendermi. Salvami dalle zanne del leone e scampa la mia debolezza dalle corna dei liocorni".
La colletta è d'una squisitezza di composizione che rivela l'aureo periodo della liturgia romana: "O Dio onnipotente ed eterno, che a dare al genere umano un esempio d'umiltà da imitarsi, disponesti che il Salvatore nostro s'incarnasse e subisse il supplizio della Croce, ci concedi d'accogliere fruttuosamente l'insegnamento della sua pazienza, onde essere a parte della sua risurrezione".
Ecco qui spiegato tutto il significato del sacro rito che dovrà compiersi durante questa settimana. Gesù crocifisso è come un libro nel quale l'anima legge tutto quello che Dio desidera da lei per divenir santa. La frase della colletta:patientiae ipsius habere documenta perde molto in energia quando viene tradotta in italiano. Essa significa che dobbiamo realizzare nella nostra vita quelle lezioni di sofferenza e di espiazione che Gesù c'impartisce dalla cattedra della croce. Viene infine la speranza della risurrezione, che la Chiesa non vuol mai disgiunta dalle sofferenze del Golgota.
La lezione è tratta dalla lettera ai Filippesi (II, 5-11) in cui san Paolo ci descrive il Cristo, il quale per nostro amore ecclissa la gloria della sua consustanzialità col Padre, prende l'abito servile ed ubbidisce a Dio sino alla morte più crudele ed infamante. Sin qui l'espiazione, ma ecco subito il trionfo e l'inizio dell'impero messianico.

Iddio col fuoco della sua divinità riscalda quelle gelide membra di Gesù che gli si erano offerte sulla Croce. Egli trasfonde in loro la propria vita, e al nome del Salvatore tracciato da Pilato sul cartello posto a titolo di ludibrio sull'asta verticale della croce attribuisce tanta gloria e tanta potenza, che diventa oggimai il simbolo di tutti i predestinati alla gloria del cielo.
Il responsorio graduale deriva dal salmo 72 e prelude già al trionfo di domenica prossima: "Per poco non stavo per vacillare, giacché mi eccitai a riguardo dei malvagi, indignato del letargo di morte in cui giacevano prostrati i peccatori. Tu però, o Padre mio, mi prendesti per mano, m'hai condotto giusta il tuo volere, e m'hai accolto con trionfo". Lo zelo di Gesù vedendo la rovina di tante e tante anime, arse di santo ardore nella sua passione; Egli affrontò impavido i nemici dell' umanità, i demoni e i loro alleati, cioè gli empi. Stava anzi per soccombere sotto i loro colpi, imperocché sulla Croce alla violenza dei tormenti l'anima sua benedetta fu separata dal corpo, il quale subì perfino l'umiliazione del sepolcro. Ma in tutto questo la mano dell'Onnipotente ha sempre guidato il suo unigenito Figliuolo; ella l'ha condotto sul sentiero della vita, e l'ha coronato colla gloria trionfale della sua risurrezione ed ascensione al cielo.
Il salmo tratto, o direttaneo, è il 21, nel quale prima si descrivono le agonie strazianti del Cristo e i suoi sentimenti d'umiltà, d'intima desolazione e di fiduciale abbandono in Dio; quindi si esalta il trionfo della redenzione messianica e si annunzia la nuova generazione, cioè la Chiesa, alla quale sarebbe diretto il messaggio evangelico.
La lezione evangelica di san Matteo contiene tutto il racconto della passione del Signore (XXVI-XXVII) dall'ultima cena cogli Apostoli sino all'apposizione dei suggelli al suo sepolcro. La qual tradizione a Roma è molto antica, essendoci attestata dagli Ordines del IX secolo.
La memoria delle pene sostenute per nostro amore da Gesù Cristo, deve conservarsi ognor viva nel nostro cuore, producendovi quei sentimenti d'amore e di gratitudine che produceva in san Paolo, quando scriveva: "Cristo mi ha amato ed ha dato se stesso per me; io vivo, ma non sono già più io che vivo, è bensì Cristo che vive in me. Io vivo nella sua fede".
Il Crocifisso ci deve insegnare sopratutto tre cose. Primo quanto grande è stato l'amore che tutta l'augusta Triade ci ha portato, sino a sacrificare per noi Gesù, l'unigenito di Dio; secondo, che orribil

cosa sia il peccato, il quale non ha potuto essere espiato altro che colla morte atrocissima del Salvatore; terzo, quanto vale l'anima propria, la quale non ha potuto essere riscattata a minor prezzo del Sangue di Gesù. Conchiudeva san Paolo la sua meditazione sulla passione di Gesù: Empti enim estis pretio magno, glorificate et portate Deum in corpore vestro.
L'antifona per l'offerta è tolta dal salmo 68, che pure prelude alla passione del Salvatore: "Venendo tra gli uomini, il mio cuore non si attese da loro che ignominie ed ingratitudine. Aspettai chi entrasse a parte della mia pena, ma indarno. Cercai chi mi consolasse, ma non ritrovai alcuno. Mi diedero in pasto del fiele, e nell'ardore della mia sete mi abbeverarono d'aceto".
Gesù ripeté questi medesimi accenti di desolazione a santa Gertrude e a santa Margarita Alacoque, manifestando il suo vivo desiderio che anime a lui particolarmente consacrate, quali i sacerdoti e le persone religiose, entrino a parte di questi suoi sentimenti, riparino, espiino con lui, e lo consolino col loro amore.
La preghiera sulle oblate, al pari di quella dopo la Comunione, derivano dalla domenica fra l'ottava di Natale che è di carattere generale.
L'antifona per la Comunione è stata tolta da san Matteo (XXVI, 42): "Padre, se non può farsi che io non sorbisca questo calice, si compia il tuo volere". Quando durante il canto di queste parole i fedeli si appressavano realmente a sorbire dal calice sostenuto dal diacono il Sangue del Cristo, essi comprendevano perfettamente che il comunicarsi è un rendersi solidari della sua passione. Nella messa infatti non è solamente Gesù Cristo che rinnova misteriosamente il suo sacrificio, ma siamo noi altresì che, sopratutto in grazia della santa Comunione, ci uniamo a lui, come le membra al capo, per umiliarci, per immolarci, per offrirci con lui, per morire nella sua morte, onde aver parte nella sua vita.
Questo calice di passione non può passar oltre da noi; è necessario che noi lo beviamo, se vogliamo vivere e compiere la volontà di Dio.

da: A. I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul Messale Romano - III. Il Testamento Nuovo nel Sangue del Redentore (La Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua), Torino-Roma, Marietti, 1933, pp. 178-189.