"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
venerdì 17 febbraio 2023
APOSTOLI DEGLI ULTIMI TEMPI: APPARIZIONI MARIANE
giovedì 16 febbraio 2023
UNA SINTESI DI PAPA GIOVANNI PAOLO I°
" Il piccolo Catechismo di Giovanni Paolo 1° "
(1978)
BRANI dai discorsi e dagli scritti di PAPA LUCIANI
«Io rischio di dire uno sproposito...
...ma lo dico. Il Signore ama tanto l’umiltà che a volte permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili». (Udienza generale, 6 settembre 1978).
Brani dai discorsi e dagli scritti di Luciani
«Non so che cosa abbia pensato il Signore, che cosa abbia pensato il Papa, che cosa abbia pensato la divina Provvidenza di me. Sto pensando in questi giorni che con me il Signore attua il suo vecchio sistema: prende i piccoli dal fango della strada e li mette in alto, prende la gente dai campi, dalle reti del mare, del lago e ne fa degli apostoli. È il suo vecchio sistema. Certe cose il Signore non le vuole scrivere né sul bronzo, né sul marmo, ma addirittura nella polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata, non dispersa dal vento, sia bene chiaro che tutto è opera e tutto è merito del solo Signore. Io sono il piccolo di una volta, io sono colui che viene dai campi, io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale dell’illustre diocesi di Vittorio Veneto. Se qualche cosa mai di buono salterà fuori da tutto questo, sia ben chiaro fin da adesso: è solo frutto della bontà, della grazia, della misericordia del Signore».
(Omelia del 6 gennaio 1959, a Canale d’Agordo)
Il catechismo
«Messo da parte il catechismo non saprete che mezzi adoperare per fare buoni piccoli e grandi. Tirerete in campo la “dignità umana”? I piccoli non capiscono che cosa sia, i grandi se ne infischiano. Metterete avanti “l’imperativo categorico”? Peggio che peggio... Si dice che anche la filosofia e la scienza sono capaci di far buoni e nobili gli uomini. Ma non c’è neppure confronto col catechismo, che insegna in breve la sapienza di tutte le biblioteche, risolve i problemi di tutte le filosofie e soddisfa alle ricerche più penose e difficili dello spirito umano».
(Catechetica in briciole, 1949)
Da formule che sembravano aride, una fiammante santità
«Stiamo uniti nell’insegnare le stesse cose: non opinioni più o meno rispettabili, ma ciò che il Magistero della Chiesa propone... Il criterio del catechizzare è dunque il depositum custodi di san Paolo, non l’altro, talora usato: “Che cosa piace? che cosa è oggi alla moda? che cosa mi farà apparire aggiornato e brillante?”... Con il Papa, esorto a non nutrire troppi pregiudizi contro l’uso sapiente e moderato sia delle formule che della memorizzazione. D’accordo, sapere a memoria non è sapere... Tuttavia una formula capita e ricordata a memoria è come un attaccapanni al quale, nonostante il passare degli anni, restano appese le cognizioni religiose più importanti. Certe formule di chimica e di algebra, alcuni articoli fondamentali del codice, perché esigono precisione, sono appresi a memoria al liceo e all’università. Ora, c’è codice più impegnativo delle verità religiose e dei precetti morali? Sono aride, si dice, le formule. Anche il cerino sembra arido ma, strofinato, si fa fiamma. Qui nel Veneto, noi abbiamo il caso di santa Bertilla Boscardin, che conobbe quasi soltanto il catechismo a formule. Gliel’aveva dato il parroco, quand’era fanciulla; se l’è portato in convento; lo leggeva e rileggeva continuamente; lo trovarono nella tasca della sua veste dopo la morte. Era quasi consunto, ma la santa da quelle formule, che sembravano aride, aveva saputo far scaturire una fiammante santità».
(Omelia ai catechisti, Venezia, 29 ottobre 1977)
Marco sembra aver visto
«San Marco, come sintassi, vocabolario, costruzione e tornitura di periodo, è un povero scrittore. Ma è vivace, è pittoresco: per questo piace. Solo Marco riporta tali e quali, in aramaico, certe frasi pronunciate da Gesù. Questa per esempio: “Talitha qoum”, “Figliolina, alzati su!”. Quest’altra: “Eloi, lama sabacthani?”, “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Tutto ciò aiuta a vedere e sentire l’ambiente palestinese. Più che insegnare, Marco descrive: sembra aver visto».
(Omelia per la festa di san Marco, Venezia, 25 aprile 1974)
L’evidenza dei fatti
«Dice san Paolo: “Fu seppellito... risuscitò il terzo giorno... apparve a Cefa, quindi ai Dodici, poi apparve in una volta sola a più di cinquecento fratelli, dei quali i più rimangono sino ad oggi... Inoltre apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli; ultimo fra tutti apparve anche a me” (1 Cor 15, 4-9). Quattro volte qui Paolo adopera il verbo apparve, insistendo sulla percezione visiva; ora, l’occhio non vede qualcosa di interno, ma di esterno a noi, una realtà distinta da noi, che ci si impone dal di fuori. Ciò allontana la tesi di un’allucinazione, di cui, del resto, gli apostoli furono i primi ad aver paura. Essi pensarono infatti dapprima di vedere uno spirito, non il vero Gesù, tanto che questi li dovette rassicurare: “Perché siete sconvolti? Guardate le mie mani e i miei piedi, ché sono proprio io. Toccatemi e guardate, poiché uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che ho io!” (Lc 24, 38). Essi non credevano ancora e Gesù disse loro: “‘Avete qui qualcosa da mangiare?’. Gli misero davanti un pezzo di pesce arrostito. E davanti ai loro occhi lo prese e lo mangiò” (Lc 24, 41-43). L’incredulità iniziale, dunque, non fu del solo Tommaso, ma di tutti gli apostoli, gente sana, robusta, realista, allergica a ogni fenomeno di allucinazione, che s’è arresa solo davanti all’evidenza dei fatti.
Con un materiale umano siffatto era anche improbabilissimo il passare dall’idea di un Cristo meritevole di rivivere spiritualmente nei cuori all’idea di una risurrezione corporale a forza di riflessione e di entusiasmo. Tra l’altro, al posto dell’entusiasmo, dopo la morte di Cristo, c’era negli apostoli solo sconforto e delusione. Mancò poi il tempo: non è in quindici giorni che un forte gruppo di persone, non abituate a speculare, cambia in blocco mentalità senza il sostegno di solide prove!».
(Omelia per la veglia pasquale, Venezia, 21 aprile 1973)
Di vecchia gnosi si tratta
«“Teologia nuova?”. Ben venga! A volte, però, ci si illude: non di nuova teologia si tratta, ma di vecchia gnosi. Riemerge, infatti, spesso, la mentalità presuntuosa degli antichi gnostici: “Noi diamo spiegazioni a livello di altissima scienza; noi ce le mangiamo le povere, viete e superate spiegazioni del Magistero!”. Ritorna anche il metodo della gnosi: prendere cioè i temi ed i termini della fede cattolica, ma solo parzialmente, arrogandosi il diritto di setacciarli e selezionarli, di intenderli a modo proprio, di mescolarli a ideologie estranee e di fondare l’adesione alla fede non più sull’autorità divina, ma su motivi umani; per esempio, su questa o quella opzione filosofica, sul combaciare di un dato tema con determinate scelte politiche abbracciate in antecedenza».
(Omelia su Cristo liberatore, Venezia, 7 marzo 1973)
Quietismo e pelagianesimo
«...non ho nessun desiderio di fare l’eresiologo; a volte, tuttavia, è forte in me la tentazione di segnalare tracce di quietismo e di semiquietismo, di pelagianesimo e di semipelagianesimo in scritti e discorsi, che o descrivono il lavoro pastorale come tutto dipendesse dagli uomini o dalle tecniche sociologiche, o parlano di noi poveri uomini come non avessimo più nulla a che vedere con il peccato».
(Invito al clero per gli esercizi spirituali, Venezia, 5 agosto 1974)
L’amore alla Tradizione
«Lo studio e la lettura devota (che non è studio) della Bibbia non occorre raccomandarli oggi: per fortuna, l’uno e l’altra sono entrati nei cuori dopo il Concilio. Vi raccomando invece l’amore alla Tradizione: non siate di coloro che, abbagliati e accecati, più che illuminati, da qualche lampo, pensano che ora soltanto è nato il sole e vogliono tutto rovesciare e cambiare».
(Inizio d’anno del seminario, Venezia, 20 settembre 1977)
Solo Dio può toccare il cuore
«Uno dei più brillanti vescovi è stato san Paolo apostolo, il quale diceva della propria predicazione fatta a Corinto: “Io ho gettato il seme, ma nulla sarebbe successo se Dio non l’avesse sviluppato e fatto sbocciare”. Non è questione di correre; è questione soltanto di misericordia e di delicatezza di Dio. Io vescovo e i miei sacerdoti possiamo istruire, illuminare, convincere anche, ma non di più; solo Dio può toccare il cuore e convertirvi».
(Prima omelia in Cattedrale, Vittorio Veneto, 11 gennaio 1959)
Il peccato commesso diventa quasi un gioiello
«A Pasqua, Dio aspetta. Un disperso che ritorna gli procura più consolazione che novantanove rimasti fedeli; data la sua infinita misericordia, mentre un peccato ancora da commettere va evitato a costo di qualunque sacrificio, il peccato già commesso diventa nelle nostre mani quasi un gioiello, che gli possiamo regalare, per procurarGli la consolazione di perdonare. Proviamo! Si fa i signori. Quando si regalano i gioielli».
(Lettera ai fedeli di Vittorio Veneto, 7 febbraio 1959)
Il conclave
«Uno scritto di san Bernardo venne utilizzato una volta in un modo ben curioso. Avvenne durante un conclave per l’elezione del papa e i cardinali erano molto indecisi sulla scelta. Uno di essi domandò la parola e fece la seguente riflessione: “Cari colleghi, il criterio da usare in questo momento venne esposto già con chiarezza e limpidezza da san Bernardo nella lettera tale e tale. Vi si legge: ‘Se qualcuno è sapiente, ci dia buone lezioni; se ha pietà, preghi per noi; se è prudente, questi ci governi’. Inchiniamoci dunque davanti a quelli che tra noi sono sapienti e hanno pietà, ma eleggiamo colui che è dotato di prudenza”».
(Elogio della prudenza. Discorso all’Università Federale di Santa Maria, in Brasile, novembre 1975).
Roma e i poveri
«Alcune delle sue parole [del sindaco di Roma] m’hanno fatto venire in mente una delle preghiere che, fanciullo, recitavo con la mamma. Suonava così: “I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio, sono... opprimere i poveri, defraudare la giusta mercede agli operai”. A sua volta, il parroco mi interrogava alla scuola di catechismo: “I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, perché sono dei più gravi e funesti?”. Ed io rispondevo col catechismo di Pio X: “... perché direttamente contrari al bene dell’umanità e odiosissimi, tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio”.
(Basilica di San Giovanni in Laterano, 23 settembre 1978)
Santi Faustino e Giovita Martiri
Si dedicano subito all'evangelizzazione delle terre bresciane e per il loro zelo il vescovo Apollonio nomina Faustino presbitero e Giovita diacono. Il successo della loro predicazione li rende invisi ai maggiorenti di Brescia che approfittando della persecuzione voluta da Traiano (la terza) invitano il governatore della Rezia Italico ed eliminare i due col pretesto del mantenimento dell'ordine pubblico. La morte di Traiano ritarda però i piani del governatore, che approfittando però della visita del nuovo imperatore Adriano a Milano denuncia i due predicatori come nemici della religione pagana.
Trasferiti a Roma vengono portati al Colosseo dove nuovamente le belve si ammansiscono ai loro piedi. Inviati a Napoli per nave, durante il viaggio sedano una tempesta. A Napoli sono nuovamente torturati e abbandonati in mare su una barchetta, ma gli angeli li riportano a riva.
Di storico vi è l'esistenza dei due giovani cavalieri, convertitosi al cristianesimo, tra i primi evangelizzatori delle terre bresciane e morti martiri tra il 120 e il 134 al tempo di Adriano, che molto probabilmente non li conobbe mai e che da quanto risulta non ordinò mai direttamente una persecuzione, ma semplicemente non intervenne mai per impedire quelle che nascevano nei vari angoli dell'impero.
Il loro culto si diffuse verso l'VIII secolo, periodo in cui fu scritta la leggenda, prima a Brescia e poi per mezzo dei longobardi in tutta la penisola ed in particolare a Viterbo. Il loro patronato su Brescia fu confermato anche a causa di una visione dei due santi che combattevano a fianco dei bresciani contro i milanesi nello scontro decisivo che fece togliere l'assedio alla città, il 13 dicembre 1438.
AMDG et DVM
UN FATTO INSPIEGABILE
Il Provvidenziale Intervento degli Angeli di Mons
Durante la Prima Guerra Mondiale, a Mons, in Francia, nel corso di una battaglia tra le truppe inglesi e quelle tedesche si verificò un fatto inspiegabile che ancora oggi non riesce a trovare una spiegazione logica.
Durante la ritirata degli Inglesi un “esercito di angeli”, passati alla storia come gli “Angeli di Mons”, si frapposero tra i due schieramenti consentendo all’esercito britannico di ottenere una ritirata strategica ed evitare una carneficina.
Un mese dopo l’accanita battaglia di Mons, durante la Prima Guerra Mondiale, sull’Evening News di Londra venne pubblicato un articolo che provocò grande scalpore dando luogo a lunghe e vivaci discussioni.
L’articolo era firmato dal giornalista e scrittore gallese Arthur Machen, e narrava come una compagnia inglese fosse stata salvata da “alleati celesti” dall’attacco di una preponderante forza nemica. Gli “Angeli di Mons” si erano improvvisamente piazzati tra gli inglesi e i tedeschi, costringendo questi ultimi a ritirarsi.
La battaglia si svolse il 26 agosto 1914; e quando l’articolo apparve, nel settembre dello stesso anno, la maggior parte dei superstiti inglesi si trovava ancora in Francia. Nel maggio dell’anno seguente, la figlia di un ecclesiastico pubblicò su una rivista parrocchiale una versione dei fatti che le era stata rivelata sotto giuramento da un ufficiale inglese del quale non poteva citare il nome.
L’ufficiale le aveva riferito che mentre la sua compagnia si stava ritirando da Mons, un’unità di cavalleria tedesca si era gettata sulle sue tracce; gli inglesi si erano allora diretti verso una posizione dove la compagnia avrebbe potuto attestarsi e combattere, ma i tedeschi l’avevano raggiunta prima di loro. Sicuri di essere ormai votati alla morte, gli inglesi videro con grande stupore un gruppo di angeli interporsi fra loro e il nemico. I cavalli dei tedeschi si spaventarono e si dispersero in tutte le direzioni.
Anche un cappellano dell’esercito inglese, il reverendo Chavasse, lasciò scritto di aver udito un racconto simile da alcuni alti ufficiali. Un tenente colonnello, poi, riferì che durante la ritirata il suo battaglione era stato scortato per più di venti minuti da uno squadrone “fantasma”.
Il comando tedesco dichiarò infine che i suoi uomini si erano rifiutati di andare alla carica contro un punto dove la linea inglese era stata spezzata “a causa della presenza di un rilevante numero di truppe nemiche“. Orbene, secondo il comando inglese non c’era un solo soldato britannico in tutta la zona.
L’aspetto più curioso dei racconti sugli “Angeli di Mons” è che erano tutti di fonte indiretta. Gli ufficiali che li avevano redatti desideravano restare anonimi; temevano forse di essere accusati di “eccessiva immaginazione” e di rovinarsi la carriera. Vari anni più tardi, Machen, che era tra l’altro autore di racconti sovrannaturali e dell’orrore, oltre che membro della società misticheggiante nota come “Ordine Ermetico dell’Alba Dorata“, ammise che il suo articolo era stato inventato di sana pianta.
Nonostante l’ammissione di Machen, però, molti reduci inglesi continuarono a parlare degli “Angeli di Mons” e gli storici finirono col credere che qualcosa di inspiegabile doveva proprio essere accaduto. Forse i reduci si erano lasciati suggestionare da una storia così fantasiosa e avevano deciso di sostenerla? O forse, invece, era accaduto veramente qualcosa, un miraggio magari, che aveva indotto sia gli inglesi sia i tedeschi a credere di aver visto un fantomatico esercito di angeli?
Quale che sia la spiegazione, gli inglesi compirono in effetti qualcosa di simile a un miracolo: nonostante avessero pochissime probabilità di cavarsela e avessero sofferto pesanti perdite, riuscirono ad ottenere una ritirata strategica che lasciò intatta la loro forza.