domenica 13 novembre 2022

Caritas in Veritate

 


CARITAS IN VERITATE/ I punti saldi della nuova enciclica di Benedetto XVI


Flavio Felice

Il 29 giugno 2009, festa solenne dei santi Pietro e Paolo, Benedetto XVI firmò la sua terza enciclica, la prima del suo Magistero sociale.
Il  13 giugno, durante l'udienza concessa ai soci e ai corsisti della Fondazione “Centesimus Annus”, il Papa aveva sostenuto la necessità di ripensare i «paradigmi economico-finanziari dominanti negli ultimi anni».  

Secondo il Pontefice, proprio «la crisi finanziaria ed economica che ha colpito i Paesi industrializzati, quelli emergenti e quelli in via di sviluppo, mostra in modo evidente come siano da ripensare certi paradigmi economico-finanziari che sono stati dominanti negli ultimi anni».
Il Pontefice, parlando di economia di mercato, cita un passaggio decisivo della Centesimus annus del 1991, ritenendo che «la libertà nel settore dell'economia deve inquadrarsi in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale, una libertà responsabile il cui centro è etico e religioso». A questo punto del discorso il Papa ricorda ai presenti l'imminente pubblicazione dell'Enciclica dedicata all'economia, al lavoro e allo sviluppo: la Caritas in veritate.
 L’enciclica sociale sullo sviluppo che nelle intenzioni del Pontefice celebra e aggiorna la Populorum progressio di Paolo VI del 1967. È stata proprio l’enciclica di Paolo VI a insistere, oltre che sull’apprezzamento della cultura e della civiltà tecnica che contribuiscono alla liberazione dell’uomo, anche sul «dovere gravissimo», che incombe sulle Nazioni più sviluppate, di «aiutare i Paesi in via di sviluppo».

Con riferimento all’enciclica firmata, Benedetto XVI ha detto ai soci e ai corsisti della Fondazione “Centesimus Annus”: «Come sapete, verrà prossimamente pubblicata la mia Enciclica dedicata proprio al vasto tema dell'economia e del lavoro: in essa verranno posti in evidenza quelli che per noi cristiani sono gli obbiettivi da perseguire e i valori da promuovere e difendere instancabilmente, al fine di realizzare una convivenza umana veramente libera e solidale». Nell'occasione, Benedetto XVI cita un passaggio della Centesimus Annus: «Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti».

Mercato, proprietà, impresa, profitto, lavoro assumono un significato cristianamente consistente nella misura in cui il centro è Cristo; Cristo redentore che, rivelando Dio all’uomo, rivela l’uomo all’uomo. Il mercato dunque può assumere i caratteri cristiani della “relazionalità”, la proprietà assume la cifra della “responsabilità”, con il lavoro l’uomo - creato ad immagine e somiglianza del Padre-Creatore - “soggettivamente” partecipa in un certo senso all’“opera creatrice” del Padre-Creatore, l’impresa è la “comunità” di lavoro nella quale sperimenta il suo profondo legame con l’umanità intera e il profitto è uno dei tanti (ma indispensabile) “parametri” per misurare la corretta (responsabile) allocazione dei beni della terra.

Al centro della riflessione della Caritas in veritate troveremo la questione dello sviluppo integrale della persona. Ricordiamo quanto riconosciuto e proposto da Giovanni Paolo II e ripreso dallo stesso Benedetto XVI durante l’udienza del 13 giugno: «Un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia».

Il senso di queste affermazioni, confermate e rafforzate da Benedetto XVI, incontra un caposaldo della tradizione dell’“economia sociale di mercato”: le attività economiche, al pari di qualsiasi altra dimensione dell’agire umano, non si realizzano mai in un vuoto morale o in un mondo virtuale, ma all’interno di un determinato contesto culturale, le cui matrici possono essere riconosciute e apprezzate ovvero trascurate e disprezzate. In questa prospettiva, una sana “economia di mercato”, “economia d’impresa”, “economia libera” - ovvero un capitalismo rettamente inteso - sono sempre limitate da un ordine giuridico che le regola e da istituzioni morali, come ad esempio la famiglia e la pluralità dei corpi intermedi che, nel rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale, interagiscono con esse e le influenzano, essendone esse stesse influenzate.

L’economia di mercato è sempre plasmata dalla cultura nella quale essa vive, e a sua volta, è influenzata dalle azioni e dalle abitudini quotidiane di coloro che la pongono in essere, poiché le azioni dei singoli influenzano la qualità della vita all’interno della società. È questo il “personalismo metodologico” che ha pervaso il Magistero sociale di Wojtyla e che continuerà a plasmare la cura pastorale di Benedetto XVI anche in ambito socio-economico.

© Copyright Il Sussidiario, 29 giugno 2009

Ratzinger legge san Bonaventura



 Ratzinger legge san Bonaventura

DI ELIO GUERRIERO

Ritorna in libreria, dopo lunga assenza, San Bonaventura. La teologia della storia (Edizioni Porziuncola, pagine 256, euro 28,00), una delle opere fondamentali di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.

Il giovane studioso si accostò al maestro francescano su invito del suo maestro Gothlieb Söhgen con l’intento di dare un contributo chiarificatore ad un vivace dibattito della teologia del suo tempo.

Nell’incontro tra il pensiero riformato della prima metà del Novecento e il pensiero scolastico prevalente in ambito cattolico emergeva una difficoltà che sembrava insormontabile: lì dove i riformati, in particolare Karl Barth, sottolineavano il carattere di evento della rivelazione che ogni volta pone il credente di fronte alla decisione di aderire, la tradizione cattolica presentava un pensiero metafisico, statico e ben definito, che sembrava prescindere dal carattere ogni volta personale dell’atto di fede. La soluzione verso la quale propendevano alcuni studiosi anche cattolici era quella dell’abbandono della metafisica, della de­ellenizzazione che sembrava antitetica rispetto all’originale carattere semitico della fede.
Nella prefazione all’edizione italiana, e a quella americana, Ratzinger già cardinale ha continuato a sottolineare l’attualità del tema trattato.

All’epoca nel cassetto aveva ancora degli appunti per un’ulteriore messa a punto che speravo di trovare all’inizio della nuova edizione. Non è stato evidentemente possibile. Il punto di partenza di Ratzinger è l’opera Exaémeron, i sei giorni della creazione del mondo, uno degli ultimi scritti di san Bonaventura, nella quale il maestro francescano, a un anno dalla morte, si confrontava ancora con le correnti spirituali presenti nell’ordine e indirettamente con Gioacchino da Fiore. Entusiasti dell’insegnamento dell’abate cistercense che permetteva loro di riconoscere in Francesco l’iniziatore della nuova età dell’amore contrapposta a quella della legge, gli spirituali più radicali, tra i quali vi era anche il predecessore di san Bonaventura, rischiavano di portare l’ordine fuori dalla Chiesa.

Bonaventura, eletto generale dell’ordine proprio per affrontare una questione così delicata, nei primi anni del suo mandato si immerse nello spirito del fondatore, ne scrisse una nuova biografia, soprattutto meditò sul significato della sua venuta. Nel confronto con Gioacchino, di cui apprezzava la visione teologica della storia, introduceva una precisazione che eliminava ogni equivoco. L’abate calabrese come Francesco non avviava il tempo escatologico, ma ne era l’annunciatore. Paragonabile a quei semplici per i quali Gesù aveva esultato, il Poverello aveva ricevuto in dono una superiore intelligenza spirituale della Scrittura. Insieme alla revelatio, però, egli aveva ricevuto l’humilitas di modo che si può stabilire un nesso essenziale tra questi due doni dello Spirito. Per Bonaventura questo fa sì che il magistero non debba essere avvertito come un peso, bensì come garante che assicura la comunione con il popolo santo della Chiesa. 
Coloro che ricevono le rivelazioni – san Bonaventura usa il termine al plurale – sono in intima familiarità con il mistero di Dio e sono in comunione con la Chiesa gerarchica e con il popolo di Dio. In conclusione l’opera di Ratzinger rispondeva pienamente all’ipotesi di ricerca: anche nella tradizione cattolica il concetto di rivelazione porta dentro di sé il carattere di adesione personale e di urgenza.
Un’acquisizione fondamentale che Ratzinger insieme con de Lubac fece valere già al tempo della Costituzione conciliare sulla Divina rivelazione e che è rimasta presente nella sua teologia e nei suoi scritti. Un’altra peculiarità guadagnata dall’incontro con Bonaventura e che da allora è un tratto distintivo del pensiero e dell’opera del papa è la centralità e familiarità con Cristo. A quest’ultima invitava i fedeli nel suo Gesù di Nazareth.

© Copyright Avvenire, 25 gennaio 2008


IL BEATO

Gioacchino da Fiore e le tre età della storia

Nato a Celico da ricca famiglia nel 1130 circa, Gioacchino da Fiore ricevette un’educazione classica nella vicina Cosenza, prima di entrare in seminario e divenire monaco cistercense. Nel 1188 fondò sulla Sila il convento di San Giovanni in Fiore e l’ordine dei florensi, che riceveranno l’approvazione di papa Celestino III il 25 agosto del 1196. Nei suoi scritti Gioacchino, partendo dal dogma della Trinità, divise la storia dell’uomo in tre epoche fondamentali: quella del Padre, corrispondente alle narrazioni dell’Antico Testamento; quella del Figlio: rappresentata dal Vangelo e compresa dall’avvento di Gesù fino al 1260; e quella dello Spirito Santo: dal 1260 in avanti, ovvero quel periodo in cui l’umanità, attraverso un clima di purezza e libertà, avrebbe avuto un contatto diretto con Dio. I suoi seguaci, i gioachimiti, estremizzarono alcune sue proposizioni escatologiche, tanto che il concilio Lateranense IV dichiarò eretiche alcune tesi attorno alla Trinità falsamente attribuite al beato, morto nel 1202.


IL SANTO

Da Bagnoregio a vertice dell’ordine francescano

Bonaventura nacque a Bagnoregio presso Viterbo nel 1217. Suo padre era probabilmente medico. Da bambino guarì da una grave malattia grazie all’intercessione di san Francesco. Di qui una grande venerazione verso il santo di Assisi e la decisione di entrare nell’ordine da lui fondato.

Appassionato degli studi nel 1238 si recò a Parigi per portare a termine il suo percorso formativo. Ottenne la licenza in Teologia e successivamente, dopo il 1250, fu nominato maestro.

Dopo pochi anni, nel 1257, lasciò l’insegnamento poiché eletto ministro generale dell’ordine francescano. Restò in carica fino al 1273 quando il papa Gregorio X lo nominò cardinale. Come tale partecipò al concilio di Lione e svolse un ruolo nelle trattative unionistiche con i greci. Morì a Lione il 15 luglio 1274. 

All’apice del Medioevo, contemporaneo di san Tommaso d’Aquino e come lui professore a Parigi, elaborò un pensiero caratterizzato dalla fiducia nella tradizione. Legato a sant’Agostino, ne condivise il primato dell’amore, l’immagine trinitaria riflessa nello spirito creato. Confluiva poi in lui la linea di pensiero avviata da Dionigi l’Areopagita. Tra le sue letture vi erano Anselmo con la sua prova ontologica ed ancor più la teologia spirituale di san Bernardo. Questo patrimonio culturale-spirituale ruotava, tuttavia, intorno al pensiero e alla vita francescana che è il punto sorgivo da cui trae origine ed irradia la teologia e la concezione della vita cristiana di Bonaventura.
Elio Guerriero


© Copyright Avvenire, 25 gennaio 2008
AMDG et DVM

sabato 12 novembre 2022

Con il Papa Giovanni Paolo I

 


  • Da formule che sembravano aride, una fiammante santità
    «Stiamo uniti nell’insegnare le stesse cose: non opinioni più o meno rispettabili, ma ciò che il Magistero della Chiesa propone... Il criterio del catechizzare è dunque il depositum custodi di san Paolo, non l’altro, talora usato: “Che cosa piace? che cosa è oggi alla moda? che cosa mi farà apparire aggiornato e brillante?”...
    Con il Papa, esorto a non nutrire troppi pregiudizi contro l’uso sapiente e moderato sia delle formule che della memorizzazione. D’accordo, sapere a memoria non è sapere... Tuttavia una formula capita e ricordata a memoria è come un attaccapanni al quale, nonostante il passare degli anni, restano appese le cognizioni religiose più importanti.
    Certe formule di chimica e di algebra, alcuni articoli fondamentali del codice, perché esigono precisione, sono appresi a memoria al liceo e all’università. Ora, c’è codice più impegnativo delle verità religiose e dei precetti morali? Sono aride, si dice, le formule. Anche il cerino sembra arido ma, strofinato, si fa fiamma. Qui nel Veneto, noi abbiamo il caso di santa Bertilla Boscardin, che conobbe quasi soltanto il catechismo a formule. Gliel’aveva dato il parroco, quand’era fanciulla; se l’è portato in convento; lo leggeva e rileggeva continuamente; lo trovarono nella tasca della sua veste dopo la morte. Era quasi consunto, ma la santa da quelle formule, che sembravano aride, aveva saputo far scaturire una fiammante santità».

    (Omelia ai catechisti, Venezia, 29 ottobre 1977)


    Marco sembra aver visto
    «San Marco, come sintassi, vocabolario, costruzione e tornitura di periodo, è un povero scrittore. Ma è vivace, è pittoresco: per questo piace. Solo Marco riporta tali e quali, in aramaico, certe frasi pronunciate da Gesù. Questa per esempio: “Talitha qoum”, “Figliolina, alzati su!”. Quest’altra: “Eloi, lama sabacthani?”, “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Tutto ciò aiuta a vedere e sentire l’ambiente palestinese. Più che insegnare, Marco descrive: sembra aver visto».
    (Omelia per la festa di san Marco, Venezia, 25 aprile 1974)



  • Caterina63
     
     
     
     
     
     
     
    00 25/08/2012 16:17  
    L’evidenza dei fatti
    «Dice san Paolo: “Fu seppellito... risuscitò il terzo giorno... apparve a Cefa, quindi ai Dodici, poi apparve in una volta sola a più di cinquecento fratelli, dei quali i più rimangono sino ad oggi... Inoltre apparve a Giacomo, poi a tutti gli apostoli; ultimo fra tutti apparve anche a me” (1 Cor 15, 4-9). Quattro volte qui Paolo adopera il verbo apparve, insistendo sulla percezione visiva; ora, l’occhio non vede qualcosa di interno, ma di esterno a noi, una realtà distinta da noi, che ci si impone dal di fuori.
    Ciò allontana la tesi di un’allucinazione, di cui, del resto, gli apostoli furono i primi ad aver paura. Essi pensarono infatti dapprima di vedere uno spirito, non il vero Gesù, tanto che questi li dovette rassicurare: “Perché siete sconvolti? Guardate le mie mani e i miei piedi, ché sono proprio io.
    Toccatemi e guardate, poiché uno spirito non ha carne e ossa, come vedete che ho io!” (
    Lc 24, 38). Essi non credevano ancora e Gesù disse loro: “‘Avete qui qualcosa da mangiare?’. Gli misero davanti un pezzo di pesce arrostito.
    E davanti ai loro occhi lo prese e lo mangiò” (
    Lc 24, 41-43). L’incredulità iniziale, dunque, non fu del solo Tommaso, ma di tutti gli apostoli, gente sana, robusta, realista, allergica a ogni fenomeno di allucinazione, che s’è arresa solo davanti all’evidenza dei fatti.

    Con un materiale umano siffatto era anche improbabilissimo il passare dall’idea di un Cristo meritevole di rivivere spiritualmente nei cuori all’idea di una risurrezione corporale a forza di riflessione e di entusiasmo.
    Tra l’altro, al posto dell’entusiasmo, dopo la morte di Cristo, c’era negli apostoli solo sconforto e delusione. Mancò poi il tempo: non è in quindici giorni che un forte gruppo di persone, non abituate a speculare, cambia in blocco mentalità senza il sostegno di solide prove!».

    (Omelia per la veglia pasquale, Venezia, 21 aprile 1973)


     Di vecchia gnosi si tratta

    «“Teologia nuova?”. Ben venga! A volte, però, ci si illude: non di nuova teologia si tratta, ma di vecchia gnosi. Riemerge, infatti, spesso, la mentalità presuntuosa degli antichi gnostici: “Noi diamo spiegazioni a livello di altissima scienza; noi ce le mangiamo le povere, viete e superate spiegazioni del Magistero!”. Ritorna anche il metodo della gnosi: prendere cioè i temi ed i termini della fede cattolica, ma solo parzialmente, arrogandosi il diritto di setacciarli e selezionarli, di intenderli a modo proprio, di mescolarli a ideologie estranee e di fondare l’adesione alla fede non più sull’autorità divina, ma su motivi umani; per esempio, su questa o quella opzione filosofica, sul combaciare di un dato tema con determinate scelte politiche abbracciate in antecedenza».
    (Omelia su Cristo liberatore, Venezia, 7 marzo 1973)
  • Caterina63
     
     
     
     
     
     
     
    00 25/08/2012 16:18  
    Quietismo e pelagianesimo
    «...non ho nessun desiderio di fare l’eresiologo; a volte, tuttavia, è forte in me la tentazione di segnalare tracce di quietismo e di semiquietismo, di pelagianesimo e di semipelagianesimo in scritti e discorsi, che o descrivono il lavoro pastorale come tutto dipendesse dagli uomini o dalle tecniche sociologiche, o parlano di noi poveri uomini come non avessimo più nulla a che vedere con il peccato».
    (Invito al clero per gli esercizi spirituali, Venezia, 5 agosto 1974)


    [SM=g1740717] L’amore alla Tradizione
    «Lo studio e la lettura devota (che non è studio) della Bibbia non occorre raccomandarli oggi: per fortuna, l’uno e l’altra sono entrati nei cuori dopo il Concilio. Vi raccomando invece l’amore alla Tradizione: non siate di coloro che, abbagliati e accecati, più che illuminati, da qualche lampo, pensano che ora soltanto è nato il sole e vogliono tutto rovesciare e cambiare».
    (Inizio d’anno del seminario, Venezia, 20 settembre 1977)


    Solo Dio può toccare il cuore
    «Uno dei più brillanti vescovi è stato san Paolo apostolo, il quale diceva della propria predicazione fatta a Corinto: “Io ho gettato il seme, ma nulla sarebbe successo se Dio non l’avesse sviluppato e fatto sbocciare”. Non è questione di correre; è questione soltanto di misericordia e di delicatezza di Dio. Io vescovo e i miei sacerdoti possiamo istruire, illuminare, convincere anche, ma non di più; solo Dio può toccare il cuore e convertirvi».
    (Prima omelia in Cattedrale, Vittorio Veneto, 11 gennaio 1959)


  • Caterina63
     
     
     
     
     
     
     
    00 25/08/2012 16:21  

    Il peccato commesso diventa quasi un gioiello
    «A Pasqua, Dio aspetta. Un disperso che ritorna gli procura più consolazione che novantanove rimasti fedeli; data la sua infinita misericordia, mentre un peccato ancora da commettere va evitato a costo di qualunque sacrificio, il peccato già commesso diventa nelle nostre mani quasi un gioiello, che gli possiamo regalare, per procurarGli la consolazione di perdonare. Proviamo! Si fa i signori. Quando si regalano i gioielli».
    (Lettera ai fedeli di Vittorio Veneto, 7 febbraio 1959)


    Il conclave
    «Uno scritto di san Bernardo venne utilizzato una volta in un modo ben curioso. Avvenne durante un conclave per l’elezione del papa e i cardinali erano molto indecisi sulla scelta. Uno di essi domandò la parola e fece la seguente riflessione: “Cari colleghi, il criterio da usare in questo momento venne esposto già con chiarezza e limpidezza da san Bernardo nella lettera tale e tale. Vi si legge: ‘Se qualcuno è sapiente, ci dia buone lezioni; se ha pietà, preghi per noi; se è prudente, questi ci governi’. Inchiniamoci dunque davanti a quelli che tra noi sono sapienti e hanno pietà, ma eleggiamo colui che è dotato di prudenza”».
    (Elogio della prudenza. Discorso all’Università Federale di Santa Maria, in Brasile, novembre 1975).


    Roma e i poveri
    «Alcune delle sue parole [del sindaco di Roma] m’hanno fatto venire in mente una delle preghiere che, fanciullo, recitavo con la mamma. Suonava così: “I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio, sono... opprimere i poveri, defraudare la giusta mercede agli operai”. A sua volta, il parroco mi interrogava alla scuola di catechismo: “I peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, perché sono dei più gravi e funesti?”.
    Ed io rispondevo col catechismo di san Pio X: “... perché direttamente contrari al bene dell’umanità e odiosissimi, tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio”.
    Roma sarà una vera comunità cristiana, se Dio vi sarà onorato non solo con l’affluenza dei fedeli alle chiese, non solo con la vita privata vissuta morigeratamente, ma anche con l’amore ai poveri. Questi – diceva il diacono romano Lorenzo – sono i veri tesori della Chiesa; vanno, pertanto, aiutati da chi può, ad avere e ad essere di più senza venire umiliati ed offesi con ricchezze ostentate, con denaro sperperato in cose futili e non investito – quando possibile – in imprese di comune vantaggio».

    (Basilica di San Giovanni in Laterano, 23 settembre 1978)


  • Caterina63
     
     
     
     
     
     
       

    Un discorso di Albino Luciani patriarca di Venezia


    Un discorso di Albino Luciani, patriarca di Venezia, ai Focolarini nel 1978: «Ma tornando alla gerarchia, m’è piaciuto che Pietro sia stato presentato coi difetti. E questo è stato voluto dal Signore. Sì “pietra”, capo della Chiesa, ma povero peccatore anche lui, a indicare che anche in seguito avremmo avuto dei papi, dei vescovi, dei sacerdoti che avrebbero mancato, e che tuttavia bisogna compatire»


     


    Il cardinale Albino Luciani “supera” l’acqua alta in piazza San Marco a Venezia

    Il cardinale Albino Luciani “supera” l’acqua alta in piazza San Marco a Venezia

    Abbiamo sentito parlare della Chiesa: è continuazione di Cristo. Chiesa vuol dire “Cristo continuato”. San Paolo l’ha sentito, quando è stato folgorato sulla via di Damasco; la cosa che più l’ha colpito è stata questa: «Paolo perché mi perseguiti?». «Io? Perseguito mica lui, perseguito i cristiani!». Allora ha capito che Cristo e i cristiani sono la stessa cosa.
    Quindi vedere nella Chiesa la continuazione di Cristo: nella Chiesa, non soltanto nella gerarchia. Siamo noi che continuiamo Cristo, noi siamo il corpo, lui è la testa, noi continuiamo lui: una grandissima dignità.

    Al Concilio abbiamo dedicato il quarto capitolo della Lumen gentium al sacerdozio dei laici. Un laico, per il solo fatto che è battezzato, ha una dignità enorme. Quando ho visto le suore qui, ho detto: «Sì, brave suore, che avete fatto la professione; ma guardate che è molto più importante il battesimo che avete ricevuto, che non la vostra consacrazione. Nella consacrazione voi vi siete consacrate, ma nel battesimo è Gesù che vi ha consacrate». Una grandissima dignità, quindi, sentirci veramente gente importante che continua Cristo.


    È stato accennato a Pietro, alla gerarchia. A me ha fatto piacere specialmente che Chiara Lubich abbia sottolineato che Pietro è stato un povero peccatore. Io predico sempre alla povera gente: guardate che il centro del cristianesimo è Dio che ci ama. Chi non ha capito questo, non capisce il cristianesimo. E – aggiungo – è un amore non solo vivissimo, è intramontabile; non si scoraggia mai, l’amore del Signore; anche se io faccio dei peccati, se scappo da lui, lui mi corre dietro... Questo bisogna sentirlo ad ogni costo, altrimenti non capiamo il cristianesimo.
    Gesù è uno che ci ama. Ha detto uno di voi, del Portogallo, che a questo amore bisogna dare una risposta; e lei ha dato una risposta generosa (nella verginità). Ma anche se si è sposati bisogna dare una risposta, perché al Concilio abbiamo detto anche questo: in tutti gli stati, anche il matrimonio non è un ostacolo alla santità, è uno scalino alla santità.

    La Filotea
    Certo che chi va in convento, chi fa la professione, ha un aiuto dalla comunità, più aiuti; però abbiamo tanti santi anche tra gli sposati.

    Io sono qui a Belluno, avevo una mamma buona, educata dalle suore. Uno dei primi libri che m’ha regalato è stato la Filotea di san Francesco di Sales. Io amo san Francesco di Sales fin dall’infanzia. L’ho letta, l’ho riletta, m’è piaciuta; dice che i laici devono farsi santi.
    Quando sono stato prete ho comprato tutte le opere in edizione francese. Ho riletto la Filotea. Caspita! Ma un certo brano, in quella regalatami da mia madre, non c’era: su quella edizione, purgata perché ero un ragazzo, mancavano due capitoli, uno dei quali si intitolava “Come santificare il letto matrimoniale”. Un santo che ha capito che il matrimonio può essere veramente stimolo di santità.
    Ma tornando alla gerarchia, m’è piaciuto – dicevo – che Pietro sia stato presentato coi difetti. E questo è stato voluto dal Signore. Sì «pietra», capo della Chiesa, ma povero peccatore anche lui, a indicare che anche in seguito avremmo avuto dei papi, dei vescovi, dei sacerdoti che avrebbero mancato, e che tuttavia bisogna compatire.
    Ci sono tante colpe nella Chiesa, colpe storiche, ma noi dobbiamo amarla lo stesso.

    Il momento e l’eternità
    Di Chiara io ho ammirato specialmente la passione per la Chiesa.

    Ora guardate, questa passione per la Chiesa io la trovo in tanti santi e anche in grandi scrittori. Bernanos, un grande scrittore francese, ha scritto: «Io la amo questa Chiesa, così com’è.
    Se per caso domani mi trovassi fuori dalla Chiesa non ci starei neanche cinque minuti, a costo di trascinarmi in ginocchio, carponi, ma io farei di tutto per rientrarci».
    Clérissac, grande scrittore domenicano, ha detto che quando si tratta di Chiesa, bisogna essere disposti non solo a soffrire «per» la Chiesa, ma anche «dalla» Chiesa.
    Ricordo quello che ha scritto don Primo Mazzolari. Io ero ancora ragazzo... Mazzolari aveva il periodico Adesso. Il cardinal Schuster disse: Adesso non si stampa. Il Sant’Uffizio vuole che non si stampi. Mazzolari, che amava la Chiesa, rispose: Adesso è un momento, la Chiesa è l’eternità. Vada anche Adesso, ma resti l’eternità.
    Questi sono sentimenti di veri cristiani.

    Albino Luciani
    Dal discorso tenuto nel palazzetto dello sport di Belluno.
    Tratto da Papa Luciani, n. 3, luglio 1999, bollettino del centro “Papa Luciani” di Santa Giustina (Belluno)