sabato 6 novembre 2021

IL VALORE DEL MESSALE ANTICO - Papa Benedetto XVI e la liturgia.

 


Papa Benedetto XVI e la liturgia.

8 Giugno 2008Messa, Ore Liturgiche...

Del prof. Davide Ventura. Da: L\’eco dell\’eremo della Beata Vergine del Soccorso – Minucciano. Il valore del messale antico e il “Motu proprio” Summorum Pontificum. L’abbandono della bellezza. “Actuosa participatio”. Il problema della lingua liturgica. Versus orientem. Unità nella diversità.


L’abbandono della bellezza
Delineato a sufficienza il “trauma” ecclesiale determinato dalla abolizione forzata delle forme tradizionali, rimane da esaminare nel dettaglio i principali elementi che le parole del Papa chiamano “deformazioni arbitrarie della liturgia” intervenute in quegli anni.
Vi è in primo luogo il fattore estetico e artistico. È noto come nei secoli la Chiesa abbia tributato culto a Dio anche tramite l’impiego delle migliori e più magnifiche forme di espressione artistica, non accontentandosi delle esistenti, ma suscitando dal suo interno continuamente nuovi stili di espressione del bello e del sublime.
Durante l’ultimo mezzo secolo (con consistenti anticipi anteriori) si è invece manifestata all’interno della Chiesa l’opposta tendenza alla semplificazione delle forme estetiche, all’insegna della “povertà” del culto, nella presupposizione che il “trionfalismo” delle forme artistiche, figurative, architettoniche e sonore, non farebbe che ricoprire e falsare la vera natura della liturgia.


Ora, per Benedetto XVI “«l\’abbandono della bellezza» si è dimostrato, alla prova dei fatti, un motivo di sconfitta pastorale” (Rapporto sulla fede, p. 132). Il testo continua: “È divenuto sempre più percepibile il pauroso impoverimento che si manifesta dove si scaccia la bellezza e ci si assoggetta solo all\’utile. L\’esperienza ha mostrato come il ripiegamento sull\’unica categoria del «comprensibile a tutti» non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più povere. Liturgia «semplice» non significa misera o a buon mercato: c\’è la semplicità che viene dal banale e quella che deriva dalla ricchezza spirituale, culturale, storica”.


Per quanto il Papa abbia dedicato pagine notevoli alla iconografia e alla architettura religiosa, è soprattutto la musica sacra che attira la sua attenzione come insostituibile veicolo di reale partecipazione liturgica. Il testo citato sopra continua: “Si è messa da parte la grande musica della Chiesa in nome della «partecipazione attiva»: ma questa «partecipazione» non può forse significare anche il percepire con lo spirito, con i sensi? Non c\’è proprio nulla di «attivo» nell\’ascoltare, nell\’intuire, nel commuoversi? Non c\’è qui un rimpicciolire l\’uomo, un ridurlo alla sola espressione orale, proprio quando sappiamo che ciò che vi è in noi di razionalmente cosciente ed emerge alla superficie è soltanto la punta di un iceberg rispetto a ciò che è la nostra totalità? 

Chiedersi questo non significa certo opporsi allo sforzo per far cantare tutto il popolo, opporsi alla «musica d\’uso»: significa opporsi a un esclusivismo (solo quella musica) che non è giustificato né dal Concilio né dalle necessità pastorali”. E ancora: “Una Chiesa che si riduca solo a fare della musica «corrente» cade nell\’inetto e diviene essa stessa inetta. La Chiesa ha il dovere di essere anche «città della gloria», luogo dove sono raccolte e portate all\’orecchio di Dio le voci più profonde dell\’umanità. La Chiesa non può appagarsi del solo ordinario, del solo usuale: deve ridestare la voce del Cosmo, glorificando il Creatore e svelando al Cosmo stesso la sua magnificenza, rendendolo bello, abitabile, umano”.

Actuosa participatio”
Come ricordato in quest’ultimo testo, il concilio Vaticano II ha in più riprese richiesto una “actuosa participatio”, una “partecipazione attiva” dei fedeli al culto. Come si sa, questo è stato di solito interpretato nel senso di una condanna al preteso ruolo “passivo” a cui la liturgia tradizionale avrebbe relegato i fedeli. La frase sopra citata, “Non c\’è proprio nulla di «attivo» nell\’ascoltare, nell\’intuire, nel commuoversi?”, rivela chiaramente il pensiero del Papa in merito. Più notevoli ancora, e in parte sorprendenti, sono le righe che leggiamo in “Introduzione allo spirito della liturgia” a p. 167: “In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte”. Quale sarà dunque in realtà questa “actio”, questa azione a cui tutta l’assemblea è chiamata, ora come sempre, a partecipare? 

Come accenna il Papa, si sa che di solito si è dato a questa domanda la risposta pratica di moltiplicare e distribuire a quante più persone possibile i servizi paraliturgici durante la celebrazione: vi è chi accende le candele e chi le spegne, chi bada all’acqua e chi al vino, chi legge il profeta e chi l’epistola, chi canta il salmo e chi il Gloria; la preghiera dei fedeli deve vedersi alternare una persona diversa per ogni invocazione, e la processione dell’offertorio deve a volte somigliare a un corteo. Non così per il Papa. Continua il testo citato: “Con il termine «actio», riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. […] 

Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, il «canone» – è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del temine. In essa accade, infatti, che l’actio umana (così come è stata sinora esercitata dai sacerdoti nelle diverse religioni) passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio. […] Ma come possiamo noi avere parte a questa azione? […] noi dobbiamo pregare perché (il sacrificio del Logos) diventi il nostro sacrificio, perché noi stessi, come abbiamo detto, veniamo trasformati nel Logos e diveniamo così vero corpo di Cristo: è di questo che si tratta”. Qui, all’interno della fornace ardente che è il centro stesso della fede cristiana, siamo realmente a miglia di distanza dalle interpretazioni sociologiche banalizzanti di cui si diceva. E infatti prosegue il Papa: “La comparsa quasi teatrale di attori diversi, cui è dato oggi di assistere soprattutto nella preparazione delle offerte, passa molto semplicemente a lato dell’essenziale. Se le singole azioni esteriori (che di per sé non sono molte e che vengono artificiosamente accresciute di numero) diventano l’essenziale della liturgia e questa stessa viene degradata in un generico agire, allora viene misconosciuto il vero teodramma della liturgia, che viene anzi ridotto a parodia”.


Il problema della lingua liturgica
Chi abbia poco frequentato i testi (invero voluminosi) del concilio Vaticano II, è di solito persuaso che esso abbia decretato la soppressione della lingua latina nella Messa a favore di quella volgare. Si resta perciò colpiti nel leggere, all’inizio del punto 36 della costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium, la perentoria affermazione: “L\’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini (cioè salvo che nei riti orientali, N.d.R.)”. La medesima costituzione delimita con precisione il possibile ambito della lingua volgare: “Dato però che, sia nella Messa che nell\’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l\’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguentiIl successivo punto 54, dopo aver ripreso tali possibili concessioni, definisce che “si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell\’ordinario della messa che spettano ad essiÈ del tutto evidente che i Padri conciliari, nell’approvare questo testo, non avevano minimamente l’intenzione di provocare la totale o quasi scomparsa della lingua latina dalla liturgia, cosa che invece accadde ben presto.


Non valendo per i chierici, che si supponeva ovviamente istruiti nella antica lingua liturgica, il problema di comprensibilità dei riti, la medesima costituzione conciliare afferma perentoriamente al punto 101: “Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell\’ufficio divino la lingua latina”. Come è noto, anche questa richiesta del concilio è stata quasi immediatamente e totalmente disattesa.


Nella già menzionata intervista del 5 settembre 2003, l’allora cardinal Ratzinger chiarisce in merito il suo pensiero. “In generale”, dichiara, “io penso che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: «io sono nella stessa Chiesa». Perciò in generale, le lingue parlate sono una soluzione. Ma una qualche presenza del latino potrebbe essere utile per avere una maggiore esperienza di universalità.


In “Dio e il mondo”, p. 381, dice: “Oggi il latino nella Messa ci pare quasi un peccato. Ma così ci si preclude anche la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti”.
Oltre alla lingua latina, anche un’altra lingua liturgica comune è caduta, salvo qualche eccezione, sotto i colpi delle riforme postconciliari: la lingua del silenzio. Nella liturgia tradizionale, offertorio e canone eucaristico formavano grandi zone di silenzio sacro, in cui il sacerdote celebrava sottovoce di fronte all’altare, mentre il popolo accompagnava l’azione in silenzio orante. Come si è visto, sotto i colpi della interpretazione sociologica della “actuosa participatio” questo sacro silenzio si è ridotto a una breve pausa durante l’elevazione.
Nel più volte citato e fondamentale “Introduzione allo spirito della liturgia”, a p. 210-211, l’allora cardinale scrive: “Con disgusto di molti liturgisti nel 1978 avevo sostenuto che non è affatto detto che tutto il canone deve essere pronunciato a voce alta. Dopo averci riflettuto, vorrei ripeterlo ancora una volta con forza, nella speranza che dopo vent’anni questa tesi possa trovare un po’ di comprensione. […] Non è affatto vero che la recitazione ad alta voce, ininterrotta, della preghiera eucaristica sia la condizione per la partecipazione di tutti a questo atto centrale della celebrazione eucaristica. La mia proposta di allora era: da una parte l’educazione liturgica deve far sì che i fedeli conoscano il significato essenziale e l’indirizzo fondamentale del canone; dall’altra, le prime parole delle singole preghiere dovrebbero essere pronunciate a voce alta come un invito a tutta la comunità, così che, poi, la preghiera silenziosa di ciascuno faccia propria l’intonazione e possa portare la dimensione personale in quella comunitaria, quella comunitaria nella dimensione personale. Chi ha personalmente vissuto l’unità della Chiesa nel silenzio della preghiera eucaristica ha sperimentato che cos’è il silenzio davvero pieno, che rappresenta insieme un forte e penetrante grido rivolto a Dio, una preghiera colma di spirito”.

Versus orientem
L’attuale Papa ha sempre sostenuto, con numerosi interventi orali e scritti, il carattere arbitrario, contrario a una tradizione risalente ai tempi apostolici e pastoralmente poco produttivo, dell’orientamento verso il popolo del celebrante. Fino all’antichità cristiana più remota risale invece il fatto liturgico del comune orientamento di assemblea e celebrante, orientamento che – secondo la stessa etimologia del termine – era rivolto ad oriente, verso la direzione del sole nascente, simbolo del Cristo e della sua futura, definitiva venuta.
Nella citata intervista del 5 settembre 2003 l’allora cardinale Ratzinger afferma: “«Versus orientem», direi che potrebbe essere un aiuto, perché si tratta realmente di una tradizione dei tempi apostolici. Non è solo una norma, ma è anche l’espressione della dimensione cosmica e della dimensione storica della liturgia. Noi celebriamo con il cosmo, con il mondo. È la direzione del futuro del mondo, della nostra storia rappresentata dal sole e dalle realtà cosmiche. Io penso che oggi questa nuova scoperta del nostro rapporto con il mondo creato può essere capita anche dalla gente, forse meglio di 20 anni fa. E ancora, si tratta di una direzione comune – prete e popolo orientati insieme verso il Signore. Per questo penso che potrebbe essere un aiuto. Da sempre, i gesti esteriori non sono semplicemente un rimedio in se stessi, ma possono essere un aiuto, perché si tratta della classica interpretazione di cos’è la direzione nella liturgia”.
Un intero capitolo di “Introduzione allo spirito della liturgia” è dedicato a questo problema. Vi si legge ad esempio: “Al di là di tutti i cambiamenti, una cosa è rimasta chiara per tutta la cristianità, fino al secondo millennio avanzato: la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento alla unicità della storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene” (p. 70-71).
Si dà di solito una duplice motivazione dell’innovazione consistente nell’orientamento del sacerdote verso il popolo: in primo luogo, egli rappresenterebbe Cristo nell’ultima cena seduto a tavola dirimpetto agli Apostoli; in secondo luogo, le grandi basiliche romane, e in primis San Pietro, sono rivolte verso occidente: il celebrante, se voleva volgersi a oriente durante la preghiera, doveva perciò guardare verso l’ingresso, e quindi verso il popolo. 

Nel testo sopra citato, il cardinal Ratzinger rivolge queste osservazioni a tali tesi, citando a sua volta e facendo proprio il testo di L. Bouyer “Architettura e liturgia”: “È evidente che in questo modo si è frainteso il senso della basilica romana e della disposizione dell’altare al suo interno. […] Cito in proposito, ancora una volta Bouyer: «Prima di quella data (cioè prima del secolo XVI) non abbiamo mai e da nessuna parte la benché minima indicazione che si sia attribuita qualche importanza o solo anche qualche attenzione al fatto che il presbitero celebrasse con il popolo davanti a sé oppure dietro a sé. Come ha dimostrato Cyrille Vogel, l’unica cosa su cui si sia veramente insistito e di cui sia fatta menzione è che egli doveva dire la preghiera eucaristica, al pari di tutte le altre preghiere, rivolto verso oriente … Anche quando l’orientamento della Chiesa permetteva al celebrante di pregare rivolto verso il popolo allorché era all’altare, non era solo il presbitero a doversi volgere verso oriente: era l’assemblea intera che lo faceva insieme a lui”.


Quanto all’Ultima Cena, si legge: “In nessun pasto dell’inizio dell’era cristiana il presidente di un’assemblea di commensali stava di fronte agli altri partecipanti. Essi stavano tutti seduti, o distesi, sul lato convesso di una tavola a forma di sigma. Da nessuna parte, dunque, nell’antichità cristiana, sarebbe potuta venire l’idea di mettersi di fronte al popolo per presiedere un pasto. Anzi, il carattere comunitario del pasto era messo in risalto proprio dalla disposizione contraria, cioè dal fatto che tutti i partecipanti si trovassero dallo stesso lato della tavola”.
In ogni caso, l’autore si prende immediatamente cura di segnalare che secondo la dottrina cattolica l’immagine del “pasto” e del “banchetto” è totalmente insufficiente a determinare la natura della celebrazione eucaristica. Per l’allora cardinale “il Signore ha indubbiamente istituito la novità del culto cristiano nell’ambito di un banchetto pasquale ebraico, ma ci ha comandato di ripeter questa novità, non il banchetto come tale”.


All’atto pratico, l’effetto più notevole della modifica apportata è di aver reso il sacerdote (e non più Dio) il centro della celebrazione. “Tutto termina su di lui. È lui cui bisogna guardare, è alla sua azione che si prende parte, è a lui che si risponde; è la sua creatività a sostenere l’insieme della celebrazione […]. L’attenzione è sempre meno rivolta a Dio ed è sempre più importante quello che fanno le persone […]. Il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso. Essa non è più – nella sua forma – aperta in avanti e verso l’alto, ma si chiude su se stessa. L’atto con cui ci si rivolgeva tutti verso oriente non era «celebrazione verso la parete», non significava che il sacerdote «volgeva le spalle al popolo»: egli non era poi considerato così importante” (p. 76 del testo cit.). Insomma “si è così introdotta una clericalizzazione quale non si era mai data in precedenza” – in stridente contrasto con i fini dichiarati della riforma.


Vale la pena di sottolineare che le righe citate poco sopra, in cui l’attuale Papa disapprova la riduzione della celebrazione eucaristica a memoria di una cena, vanno a toccare tutto l’argomento della svalutazione dell’aspetto sacrificale proprio dell’eucaristia, svalutazione portata avanti da molti ambienti nel postconcilio. 

Nel citato libro-intervista “Rapporto sulla fede” leggiamo: “La Messa non è solamente un pasto tra amici, riuniti per commemorare l\’ultima cena del Signore mediante la condivisione del pane. La messa è il sacrificio comune della Chiesa, nel quale il Signore prega con noi e per noi e a noi si partecipa. È la rinnovazione sacramentale del sacrificio di Cristo”. La presenza reale del Signore nelle specie consacrate genera poi del tutto legittimamente forme di culto eucaristico anche esterne al rito della Messa: “Si è dimenticato che l\’adorazione è un approfondimento della comunione. Non si tratta di una devozione «individualistica» ma della prosecuzione o della preparazione del momento comunitario. Bisogna poi continuare in quella pratica, così cara al popolo (a Monaco di Baviera, quando la guidavo, vi partecipavano decine di migliaia di persone) della processione del Corpus Domini. Anche su questa gli «archeologi» della liturgia hanno da ridire, ricordando che quella processione non c\’era nella Chiesa romana dei primi secoli. Ma ripeto qui quanto già dissi: al sensus fidei del popolo cattolico deve essere riconosciuta la possibilità di approfondire, di portare alla luce, secolo dopo secolo, tutte le conseguenze del patrimonio che gli è affidato”.

Unità nella diversità
Abbiamo seguito i dettagli di una riforma liturgica che, secondo papa Benedetto XVI, non ha rispettato al meglio le richieste del concilio Vaticano II. Nelle parole del Papa che abbiamo riportato sono emerse varie proposte concrete di revisione della riforma: reintroduzione della celebrazione verso oriente, valorizzazione del sacro silenzio nel canone eucaristico, maggior spazio alla lingua liturgica universale e al canto gregoriano – e si tratta sempre di punti che vanno nella direzione di una maggiore aderenza all’ultimo concilio, nello spirito da più parti richiamato di una “riforma della riforma”. Un altro punto caldeggiato nei suoi scritti precedenti l’elezione papale, cioè la liberalizzazione dell’antica liturgia, è oggi in via di compimento per impulso del suo motu proprio Summorum Pontificum. Quale dovrebbe essere dunque l’evoluzione della riforma liturgica secondo il Papa? I due filoni menzionati sono infatti ben distinti: Benedetto XVI mira a una restaurazione dell’antica liturgia, ovvero punta a rettificare la liturgia esistente? Il Papa stesso non ha mancato di accennare una risposta a questa fondamentale questione. 

Ne “Il sale della terra”, p. 200, in replica a una domanda sulla opportunità di restaurare il rito tradizionale, il futuro Benedetto XVI risponde: “Da sola, questa non è una soluzione. […] un semplice ritorno all\’antico non è una soluzione. La nostra cultura si è così trasformata negli ultimi trent\’anni che una liturgia celebrata esclusivamente in latino comporterebbe un\’esperienza di estraniamento insuperabile per molte persone. Quello di cui abbiamo bisogno è una nuova educazione liturgica, soprattutto dei sacerdoti. […] I luoghi dove la liturgia viene celebrata senza fronzoli e in modo riverente esercitano notevole forza di attrazione, anche se non si capisce ogni suo singolo elemento. Abbiamo bisogno di luoghi come questi, capaci di offrire dei modelli”. Indietro non si torna. Piaccia o meno, l’atteggiamento che prevede la pura e semplice restaurazione del passato non è in sintonia con l’intenzione del Papa. I motivi allegati sono stringenti: un conto è non piegarsi a concessioni eccessive e gratuite all’attualità, un altro è il non accorgersi dei devastanti mutamenti culturali sopraggiunti dagli anni dell’ultimo concilio in poi. In un altro luogo Papa Benedetto XVI rammenta come, da professore in Germania, poteva ancora permettersi di citare passi in latino all’uditorio studentesco certo di essere compreso; adesso non più.

Si tratta dunque di prendere in esame la liturgia riformata, espungerne gli abusi mano a mano introdotti, e ricondurla nell’alveo delle intenzioni espresse a chiare lettere dal concilio Vaticano II. Qual è in tale progetto il ruolo della restituzione all’uso della liturgia tradizionale? 

Lo stesso Pontefice lo spiega nella lettera di accompagnamento al motu proprio Summorum Pontificum scritta ai vescovi: “Le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione «Ecclesia Dei» in contatto con i diversi enti dedicati all’«usus antiquior» studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale”. 

La evoluzione “organica” delle due forme del rito romano deve dunque, per il Papa, riprendere di nuovo. Ed esse possono influenzarsi a vicenda: la forma tradizionale dovrà compiere gli aggiornamenti minimali (ad esempio circa il calendario liturgico) richiesti dal suo essere rimasta cristallizzata per quarantacinque anni. E soprattutto la forma riformata potrà e dovrà riconoscere nella forma antica un polo di attrazione, una norma a cui ispirarsi per tornare gradualmente nell’alveo della medesima evoluzione organica da cui gli anni della sperimentazione estrema l’avevano fatta uscire.


Le due forme potranno poi in futuro confluire in una – il Papa lascia aperta questa eventualità. Ma se anche non dovessero farlo, molte dichiarazioni passate e presenti dello stesso Pontefice lasciano capire che un certo pluralismo liturgico – pur nell’unità di fondo del rito – non sarebbe un male. Anzi, tale situazione di pluralismo si è sempre data all’interno del rito latino, senza minimamente danneggiare il culto: “Prima di Trento, la Chiesa ammetteva nel suo seno una diversità di riti e di liturgie. I Padri tridentini imposero a tutta la Chiesa la liturgia della città di Roma, salvaguardando, tra le liturgie occidentali, solo quelle che avessero più di due secoli di vita. È il caso, ad esempio, del rito ambrosiano della diocesi di Milano. Se potesse servire a nutrire la religiosità di qualche credente, a rispettare la pietas di certi settori cattolici, sarei personalmente favorevole al ritorno alla situazione antica, cioè a un certo pluralismo liturgico” (Rapporto sulla fede, cap. 9).


Nel già citato discorso tenuto a Roma, presso l\’Hotel Ergife il 24 ottobre 1998, in occasione delle celebrazioni per i dieci anni del Motu proprio "Ecclesia Dei", il futuro Papa Benedetto pronuncia le seguenti parole, che citiamo per esteso a conclusione di queste pagine: “C\’è una pericolosa tendenza a minimizzare il carattere sacrificale della Messa e ad indurre alla sparizione del mistero e del sacro con il pretesto – un pretesto asserito imperativo – che in questo modo ci si fa comprendere meglio. Infine si percepisce la tendenza a frammentare la liturgia, mettendo arbitrariamente in rilievo il suo carattere comunitario e conferendo all\’assemblea il potere di decidere riguardo alla celebrazione.


Esiste anche, fortunatamente, una certa avversione per un razionalismo pieno di banalità e per un pragmatismo di certi liturgisti, siano essi dei teorici o dei pratici, e si constata un ritorno al mistero, all\’adorazione, al sacro e al carattere cosmico ed escatologico della liturgia, come sottolineato dalla "Oxford Declaration on the Liturgy" del 1996. Occorre riconoscere, d\’altra parte, che la celebrazione della vecchia liturgia aveva perduto molto, rifugiandosi nell\’individualismo e nel privato, e che la comunione fra sacerdote e popolo era insufficiente. Ho grande rispetto per i nostri vecchi che durante la Messa bassa recitavano le orazioni contenute nei loro libri di preghiere, ma non si può certo considerare questo come l\’ideale di una celebrazione liturgica. Forse, queste riduzioni delle forme celebrative sono la vera ragione per cui in molti paesi la scomparsa dei vecchi libri liturgici non ha avuto peso e la loro perdita non ha causato dolore. Non c\’era mai stato, infatti, un contatto con la liturgia in sé. D\’altra parte, là dove il Movimento liturgico aveva suscitato un certo amore per la liturgia e aveva anticipato le idee essenziali del Concilio – come, ad esempio, la partecipazione di tutti nella preghiera all\’azione liturgica — proprio lì è stato maggiore il dolore, di fronte ad una riforma intrapresa troppo frettolosamente e spesso limitata all\’esteriorità. Là dove, invece, il Movimento liturgico non è mai esistito la riforma non ha sollevato, in un primo tempo, dei problemi. Questi sono sorti solo sporadicamente là dove il mistero sacro ha ceduto il posto ad una creatività selvaggia.


Per questo è molto importante osservare i principi essenziali della «Costituzione sulla sacra liturgia», che ho ricordati sopra, anche quando si celebra con il vecchio Messale. Nel momento in cui questa liturgia tocca profondamente i fedeli con la sua bellezza e ricchezza, allora essa sarà amata e non la si porrà più in contrapposizione inconciliabile con la nuova liturgia, purché i criteri siano fedelmente applicati secondo i desideri del Concilio.
Continueranno ad esistere, certamente, accenti spirituali e teologici differenti: non saranno due modi opposti di essere cristiani ma, al contrario, patrimonio della stessa ed unica fede.
Quando, pochi anni fa, qualcuno ha proposto «un nuovo movimento liturgico» per evitare che le due forme liturgiche si distanziassero troppo fra loro e per portare a frutto la loro intima convergenza, alcuni amici della vecchia liturgia hanno espresso il timore che questo fosse solo uno stratagemma o un trucco per ottenere finalmente la completa eliminazione della vecchia liturgia. Queste preoccupazioni e queste paure debbono finire! Se l\’unità della fede e l\’unicità del mistero appaiono chiaramente in entrambe le forme di celebrazione, ciò può essere solo motivo di rallegrarsi e ringraziare Dio. Quanto più noi tutti crediamo, viviamo e agiamo con tale motivazione, tanto più saremo capaci di persuadere i vescovi che la presenza dell\’antica liturgia non turba né rompe l\’unità delle loro diocesi, ma è invece un dono destinato a rafforzare il Corpo di Cristo, del quale siamo tutti i servitori.
Così, miei cari amici, vorrei esortarvi a non perdere la pazienza, a continuare ad essere fiduciosi e ad attingere dalla liturgia la forza per rendere testimonianza al Signore in questo nostro tempo.
Prof. Davide Ventura
novizio oblato
Bibliografia

Riportiamo una bibliografia essenziale dei libri pubblicati dall’attuale Pontefice, dandone l’edizione italiana consultata. Le citazioni nel testo, per quanto estese, non fanno ovviamente giustizia a un pensiero vasto e articolato, in cui il tema liturgico ricorre di frequente, a volte anche intrecciato insieme ad altri argomenti. Laddove possibile, un accesso diretto a tali opere è quindi insostituibile.

La festa della fede – Jaca Book – 1984
Rapporto sulla fede – Edizioni Paoline – 1985
Il sale della terra – San Paolo – 1997
Introduzione allo spirito della liturgia – San Paolo – 2001
Il Dio vicino – San Paolo – 2003
La comunione nella Chiesa – 2004
La fraternità cristiana – Queriniana – 2005
Fede, verità e tolleranza – Cantagalli – 2005
L’Europa di Benedetto – Cantagalli – 2005
Ragione e fede in dialogo – Marsilio – 2005
(prefazione a) Uwe Michael Lang – Rivolti al Signore – Cantagalli – 2006


AMDG et DVM

VITA DI MARIA SS.ma - 3. La figlia di Israele: Maria SS.ma.

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La figlia d’Israele: Maria SS.ma


“Il nome del bel fiore ch’io sempre invoco

E  mane e sera”

Dante III, 23, 88



La Madonna è figura di primissimo piano nella storia della salvezza. Di Lei abbiamo tante notizie quante bastano per comprendere l’essenziale. In verità osserva San Tommaso da Villanova - “alla sua piena storia basta ciò che è scritto nel tema: Da Lei è nato Gesù. Che cerchi di più?”

È la Palestina la regione fortunata dove la Vergine nacque e visse. È come un posto-cerniera per eccellenza tra i continenti decisivi per la storia umana: Asia, Europa ed Africa.

Oggi è denominata Stato d’Israele o Israele, e si collega storicamente al regno ebraico fondato da David undici secoli avanti Cristo. La sua è una storia tra le più affascinanti e misteriose, con periodi di esilio e con molteplici dominazioni da parte dei persiani, greci, egiziani e romani. Questi ultimi, nel 63 avanti Cristo la assoggettarono imponendole poco dopo un re idumeo, Erode, detto il grande, forse per la smisurata ambizione e astuzia, oppure per gli straordinari lavori fatti alla città di Gerusalemme e al suo tempio.

Fu allora che su questa terra santa, che aveva visto l’arcobaleno di Dio, sbocciò il fiore più bello del popolo di Israele. Con questo fiore divino tutte le promesse di Dio ad Abramo, Isacco e Giacobbe cominciarono a realizzarsi nella loro pienezza.

La storia meravigliosa di Maria Santissima si inquadra tutta in questa piccola cornice storico-geografica.

Resta da dire che tra le città di Nazareth e Gerusalemme che si disputano l’onore di aver dato i natali alla Madre di Dio, la preferenza — per tradizione assodata — va alla cittadina della Galilea al nord della Palestina, Nazareth, che significa “fiore di Galilea” o “sentinella”, città fin allora mai celebrata nella Bibbia, anzi disprezzata da tutti.

Definire con precisione la data della sua nascita non ci è possibile. In verità, dopo molte discussioni sull’argomento, ben poco è stato concluso. Esiste un documento, il cosiddetto Chronicon Paschale, che asserisce: “Maria è nata da Gioacchino ed Anna, sotto i consoli di Roma, Domizio Enobarbo e Cornelio Scipione”. Ma quale valore dare a questo documento?

 

Non ci resta che contentarci di una data approssimativa: stabilendo la nascita di Cristo nel 748 (anno più probabile) si viene a concludere che la Vergine sua Madre, data la consuetudine delle fanciulle ebree di sposarsi all’età di circa 12- 14 anni, sia nata intorno agli anni 728-733 di Roma.

I genitori di Maria ci sono noti attraverso la fonte della tradizione. I loro nomi sono Gioacchino, che significa “Il Signore eleva”, ed Anna, che vuol dire “grazia, compassione”. La pia tradizione narra che essi ripartirono i loro beni in tre porzioni: una al Tempio, una per i poveri e una per il proprio sostentamento. La Chiesa cattolica, come anche quella orientale, li venera entrambi il 26 luglio.

Certamente tra gli antenati della Madonna ci sono stati dei peccatori. Però quanto più la linea genealogica si avvicinava a Maria tanto più si purificava. Ci piace pensare che questo continuo processo di purificazione culminò nei due da cui doveva procedere “l’Aurora fulgida, splendida come il sole, più della luna, candida!” Dio rivestì la Madre sua di ogni nobiltà, non solo di quella che deriva dalla sua altissima perfezione morale, bensì anche della nobiltà del sangue e della carne, essendo discendente dalla dinastia dei re di Giuda e quindi della regale famiglia davidica.


Se poi consideriamo che la sua parente (cugina) Elisabetta era una delle figlie di Aronne della stirpe sacerdotale (cfr Lc 1, 5.36) ci accorgiamo ancor più dell’altissima nobiltà delle sue origini. 

Pensando a tutto ciò San Bernardino esclama in un suo sermone: “Quale fu la più nobile donna che formasse mai Iddio? La Vergine Maria! Leggi San Matteo nel capitolo primo dove dice: tale generò tale; e tale tale. E troverai essere discesa: prima per 14 patriarchi, e poi per 14 duci, e poi per 14 re. Se tu trovi mai femmina discesa da tali uomini, io vò essere arso.. Indi viene che, secondo la natura, Maria fu la più nobile Duchessa che fusse mai nell’universo; e la più nobile Reina, e la pin nobile Imperadrice!”


La tradizione ci dice anche che la Vergine fu concepita quando i genitori Gioacchino ed Anna avevano raggiunto un’età molto avanzata e ormai vivevano nel dolore di non aver avuto alcun figlio.

Più in particolare si riferisce che Gioacchino, offrendo un giorno doni al tempio, sia stato respinto dal sacerdote perché non avendo figli era un maledetto da Dio. Il povero vecchio, piangente, si ritirò col suo gregge in solitudine dove restò sei mesi supplicando il Signore e digiunando, fino a quando un angelo lo consolò con la promessa di un figlio. L’umile insistenza dei santi coniugi aveva ottenuto l’impossibile. La loro pazienza vinse il tempo e la sofferenza si mutò in gioia immensa.

Dio donò loro Maria bambina.

Ed essi divennero i genitori, e poi i nonni, più felici e più fecondi e più grandi del mondo: “Rallegratevi e giubilate, Gioacchino ed Anna! Questa vostra  figlia, un giorno, conservando intatta la verginità, vi darà per   nipote lo stesso Dio!” È il caso di dire che Dio “dono più grande ad altri non diè”, perché nel seno di Anna si operò il più grande prodigio che abbia visto il Cielo, si formò il tesoro più grande, che ci preparò all’incontro con Gesù Redentore.

 

La santa Chiesa ci insegna che questa divina Bambina,  per 1’onnipotenza di Dio  ebbe il privilegio di essere preservata e immune da ogni contagio di colpa originale e da ogni altra macchia per sempre, in previsione dei meriti di Cristo Gesù. L’anima di questa Bimba, nell’atto di unirsi al corpo che Dio le dava attraverso la madre Anna, non contrasse peccato alcuno, e quindi nemmeno per un istante fu priva di grazia; anzi la ricevé questa  Grazia in una pienezza tale che è incomprensibile   a  umana  creatura.

La santa Chiesa ha sempre creduto all’Immacolata Concezione di Maria Vergine. Tutti gli Ordini religiosi, in particolare i Francescani — con a capo il beato Giovanni Duns Scoto (1265-1308) chiamato Dottore del Verbo Incarnato, Dottore Sottile, Dottore estatico, ma soprattutto Dottore Mariano - hanno diffuso e difeso dappertutto questo privilegio della Madre di Dio. Fu il Sommo Pontefice Beato Pio IX a definire solennemente come dogma di fede cattolica l’immunità di Maria Santissima dal peccato originale. Era 1’8 dicembre 1854. Quattro anni dopo la proclamazione la Vergine stessa venne a Lourdes per dire a Bernadette quello che già aveva detto di Lei Pio IX: “IO SONO L’IMMACOLATA CONCEZIONE”; come  per dire che il Papa aveva ragione.


Tutti i genitori hanno il sacro dovere di istruire i figli perché quanto prima si orientino verso l’ultimo fine e non già alle puerilità cui la natura si inclina. Se a tempo e con diligenza i genitori, in armonia, adempissero questo loro dovere, in seguito i figli si troverebbero più abili per servire il Signore. 

Certo la santa madre Anna, in nome della creatura che portava in seno (il cui stato sublime le era nascosto), adorò il Creatore e lo ringraziò per il dono della vita, supplicandolo che la custodisse, difendesse e guidasse a lieto fine. E' una lezione per i genitori perché raccomandino alla divina Provvidenza il frutto del loro amore, chiedendo che i bimbi ricevano quanto prima il santo battesimo per essere liberi dal peccato originale e chiamarsi figli di Dio.

Ognuno immagini la trepidazione di Gioacchino e più ancora di Anna durante quei nove mesi di attesa del parto beato. Tradizionalmente per tale evento è fissata la data dell’8 settembre [ma molto probabilmente la  data di questa festa sarà anticipata al 5 agosto] . Il Natale di questa Bambina diffuse su tutte le cose una luce e una gioia ineffabili; fu — come poeticamente canta la Chiesa — un messaggio di gioia per il mondo intero: “Nativitas tua, Virgo Maria, gaudium annuntiavit in universo mundo”.

E finalmente cielo e terra, terra e santi Padri nel seno di Abramo, ebbero la notizia tanto sospirata: “È nata Colei che sarà la Madre del Messia promesso!”

“L’apparizione della Madonna nel mondo è come l’arrivo dell’aurora che precede la luce della salvezza, Cristo Gesù ... Maria è l’annuncio, Maria è il preludio, Maria è l’aurora, Maria è la vigilia, Maria è la preparazione immediata, che corona e mette termine al secolare svolgimento del piano divino della redenzione; è il traguardo della profezia, è la chiave di intelligenza dei misteriosi messaggi messianici” (Paolo VI).

Sessanta giorni dopo il felice parto, Anna, puntuale, umile e fedele compì tutti i riti della Legge (cf Lv 12, 5-6): salì con la santa Bambina al tempio e supplicò preghiere per sé e la figlia; a Dio non restava che premiare l’umiltà d’ambedue che, santissime, si presentavano peccatrici.

Alla santa Bambina, secondo le più pure tradizioni giudaiche, alla presenza dei parenti e del sacerdote fu imposto il nome. Un nome che certamente fu ispirato da Dio ai santi genitori. Il nome di questa Bambina fu Maria.

Ogni nome indica sempre una missione specifica. Mariologi ed esegeti gareggiano nel darci l’interpretazione giusta del santo nome di Maria.

C’è chi ritiene che Maria derivi dalla parola Mara, che letteralmente significa pingue (il che per gli orientali equivale a bella); però tale termine si usava solo con le cose e quindi non tutti accettano questo significato, anche se Maria non solo è bella, ma è la bellezza.

Altri difendono l’interpretazione di perla amara o mare amaro, come fa il Minocchi e il dottor serafico San Buonaventura da Bagnoregio che testualmente dice: “Sta scritto.. Ecco una nuvoletta sale dal mare ... e subito la pioggia cadde a dirotto” (1 Re 18, 44), ossia Cristo, figlio di Maria, che significa mare amaro, e che fecondò tutta la Chiesa con la pioggia della grazia.

È chiaro il riferimento alla missione di Corredentrice che Maria esercitò nella sua vita dolorosa. Tale significato ci sembra il meno contestato e uno dei più aderenti alla persona di Maria. Ciò è avvalorato anche dalla storia d’Israele: alla sorella di Mosè fu imposto il nome di Maria molto probabilmente per le circostanze drammatiche in cui si trovavano gli ebrei in Egitto.

C’è anche chi lo fa derivare dal verbo marah merì, cioè ribellione. Maria sarebbe la ribellione personificata contro satana e il suo regno nel mondo. In certo senso questo significato si riaggancia al precedente.

È seducente l’interpretazione proposta dal P. Zorell. Il nome Maria sarebbe composto da due parole, una egiziana e l’altra ebraica; myr o myrt, ovvero amata; Sam è Jahvèh, ovvero Dio. Myrjam o Maria significa quindi: amata da Dio!

Sembra questo il significato più attendibile, filologicamente e storicamente.

 

La sorella di Mosè era stata l’unica ad avere questo nome essendo nata e cresciuta in Egitto, e quindi molto probabilmente anche il nome della Vergine sarebbe di origine egiziana. In Egitto non mancavano nomi composti che iniziavano con la parola myr e terminavano con il nome di qualche divinità.

E logico pensare che gli ebrei alla falsa divinità sostituirono il nome del vero Dio. Anche con la storia questa interpretazione è in perfetta armonia. Ma- ria è stata veramente “l’Amata da Dio!”; Ella più di qualunque altra creatura ha goduto del1’Amore di Dio “il quale creerebbe un secondo Paradiso perché Lei avesse raddoppiate lodi!”


Possiamo dire che il nome di Maria racchiude tutto l’Amore di Dio. Perciò è dolcissimo come il nome di Gesù. Quanti con devoto affetto l’invocano ricevono copiosissime grazie, sono consolati e vivificati, in esso trovano medicina ai loro mali, tesori per arricchirsi e luce che li guida alla vita eterna.

Maria è nome terribile contro l’inferno; esso solo basta a schiacciare la testa di satana e dà la vittoria su tutti i nemici. Maria è la Vincitrice. E satana La teme, più degli angeli e degli uomini e dello stesso potere divino. Il Nome di Maria gli fa ribrezzo più del nome di Gesù e della sua santa Croce. E perché? Ecco: l’umiltà della Piccola Serva del Signore lo umilia più della divina onnipotenza. E come non ricordare il canto di San Bernardo su questo nome divino?

“Se soffiano i venti delle tentazioni, se t’imbatti negli scogli del dolore, guarda la stella, invoca Maria! Se ti senti flagellato dalle onde dell’orgoglio, dell’ambizione, della calunnia, dell’invidia, guarda la stella, invoca Maria!

“Se la tua fragile imbarcazione è minacciata dall’ira, dalla superbia, dall’impurità,  guarda Maria!

“Se oppresso dai tuoi peccati, scoraggiato dai rimorsi della coscienza e tri- ste al ricordo del giudizio di Dio, stai per cedere all’avvilimento e alla disperazione, ricordati di Maria!

“Nei pericoli, nelle prove, nei dubbi, pensa a Maria, invoca Maria!

“Che Maria non s’allontani mai dalle tue labbra né dal tuo cuore! E per meritare la sua protezione sforzati di imitare i suoi esempi”.

La storia contiene molteplici prove di protezione ottenute nel nome di Maria. Una per tutte: esattamente il 12 settembre 1683, alle porte di Vienna, l’esercito polacco di Giovanni III Sobieski, in collaborazione con le forze alleate tedesche e austriache, piegava e annientava l’armata turca di Kara Mustafà. Il re Giovanni III, capo supremo degli eserciti cristiani valutò questa vittoria da credente comunicando al papa Innocenzo XI il grandioso avvenimento: “Venimmo, vedemmo e Dio vinse!” La storia narra che tutta Roma per ordine del papa assunse l’aspetto di festa: illuminazioni, canti di ringraziamento, scampanii  a non finire, salve di cannone, speciale commemorazione dei caduti. 

Per la vittoria Innocenzo XI istituì per tutta la Chiesa la festa del Santissimo Nome di Maria da celebrarsi nella prima domenica dopo la Natività della Madonna, e ordinò di coniare una medaglia commemorativa con l’iscrizione: “La tua destra, o Signore, ha colpito il nemico” (Es 15,6). A Roma, sempre per ordine del Papa, sorse anche la basilica votiva del Santissimo Nome di Maria, al Foro Traiano, dove il 12 settembre di ogni anno ha luogo una funzione religiosa speciale. Simile a questa fu l’anteriore vittoria di Lepanto del 7 ottobre 1571 ottenuta con la preghiera del SS. Rosario.

Se ci siamo soffermati un po’ su queste memorie, l’abbiamo fatto perché si trattò di un evento determinante per la storia d’Europa, ed eloquentissimo per la gloria del Santissimo nome di Maria.

Per questo Nome, scudo e difesa nostra, musica del cielo, gioia della Trinità Santissima, nome di cui Gesù si circondò nella vita e nell’ora della morte, dobbiamo tutti ringraziare il Signore.  E con questo nome, sulle labbra e nel cuore, dobbiamo essere pronti ad ardue imprese per la gloria divina.

I privilegi che adornarono Maria Santissima sin dal primo istante della Sua esistenza debbono farci pensare all’infinita predilezione che il Signore, nella sua liberalità ha voluto avere per Lei. Con Dio è tutto il Paradiso che benedice Maria, capolavoro della creazione universale e della Misericordia Divina. Al celeste incessante canto dobbiamo unire il nostro, pieni di fiducia perché Colei che Dio ha fatto così grande è la Mamma nostra, che ci segue uno ad uno con ogni cura.

Più sarà stretta l’unione con queste divine realtà e più perfettamente adempiremo il divino precetto di amare Dio e servire il prossimo. Con Maria, uniti a Lei, anche noi avremo tutte le compiacenze di Dio, che dice: “Io ti farò mia sposa per sempre, e ti farò mia sposa nella giustizia e nel giudizio, nella misericordia e nelle tenerezza. Ti farò mia sposa nella fedeltà” (Os 2, 19-20).

Grande onore dunque alla Vergine Maria e fiducia nella sua potenza. Basta soltanto l’eco del Suo Nome Santissimo a mettere in fuga il demonio. Se il   mondo sapesse chiamare Maria, sarebbe salvo.

Se il fango della corruzione ferisce e imbratta l’uomo, purché in lui ci sia il desiderio di purificarsi e guarire, allora anche la sola visione di Maria l’eleva nell’azzurro e lo prepara a sentire tutta la dolcezza del rimanere in Dio che è amore. Dove c’è Maria non vi può sussistere nulla che abbia neppure la più lontana parentela con l’impuro. L’Immacolata è bellezza. Per questo Lei non solo ci libera dai massi (peccati mortali) che uccidono, ma anche dalla polvere (peccati veniali e imperfezioni) che abbrutisce.

L’amore che1’Immacolata ci dona diventa forza per vivere in carità e purezza.


AVE MARIA PURISSIMA!




venerdì 5 novembre 2021

TRE SONO I GRADI DI PAZIENZA



CAPO SECONDO

VIRTU’ E RAPPORTI DI SAN PAOLO VERSO DI SE

Prime virtù

Pazienza

Ritratto dell’uomo apostolico

 40. I. Paolo fu di una pazienza ammirabile, adamantina e amplissima. La

pose nella sua anima, quasi come base di vita apostolica. A questo

riguardo, egli, dipingendo il perfetto uomo apostolico, scrive (2 Corinti 6,

4-10): «Diportiamoci in ogni cosa come ministri di Dio, con molta

pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie. Sotto le

battiture, nelle prigionie, nelle sedizioni, nelle fatiche: nelle vigilie, nei

digiuni, con purezza, con scienza, con longanimità, con soavità, con

Spirito Santo, con carità non simulata, con la parola della verità, con la

virtù di Dio, con le armi della giustizia a destra e a sinistra; in mezzo alla

gloria e all’ignominia, alla cattiva e alla buona fama; siamo trattati come

seduttori e siam veraci; come ignoti, e siam ben conosciuti; come

moribondi, ed ecco viviamo; siamo stimati castigati, ma non siam messi a

morte; siam creduti tristi, e siam sempre allegri; poveri, ma ne arricchiamo

tanti; possessori di niente, e invece possediamo ogni cosa».

San Girolamo (67) scriveva pertanto: «Il soldato di Cristo avanza

attraverso alla buona ed alla cattiva fama, a destra e a sinistra; non si

insuperbisce per la lode, né si avvilisce per il biasimo; non si gonfia per le

ricchezze, non si abbatte per la povertà; disprezza le cose liete e le tristi; il

sole non lo brucia di giorno, né la luna di notte».

Sull’esempio di Paolo si diportò sant’Atanasio, che per quarantasei anni

andò ramingo per tutto il mondo, e sostenne con invitta forza d’animo le

persecuzioni degli ariani. A lui perciò giustamente dà lode san Gregorio

Nazianzeno (68): «Atanasio fu diamante ai percotitori, calamita ai

diffidenti».


 41. II. Paolo esercitò dappertutto e per tutta la vita questa pazienza, ed

esercitandola, l’aumentò immensamente. Perciò san G. Crisostomo (69) lo

antepone al santo Giobbe, «che è un mirabile atleta, il quale potrebbe

guardare faccia a faccia Paolo stesso, per la sua pazienza ed innocenza di

vita, per il testimonio di Dio, dopo quella fortissima lotta col diavolo, per

la vittoria che seguì alla lotta; ma Paolo, non per pochi mesi, ma per

moltissimi anni persevera nella lotta e si segnala assai di più, non perché si

raschi con un coccio il marcio della carne, ma perché incorre

frequentemente nella bocca di questo spirituale leone, e combatte contro

tentazioni innumerevoli, rimanendo più paziente di una pietra. Paolo, non

da tre o quattro amici, ma da tutti gli infedeli, e dai falsi fratelli dovette

sostenere obbrobrii; sputacchiato e maledetto da tutti».

E poco appresso continua: «Ma i vermi e le ferite causavano al santo

Giobbe crudeli e intollerabili dolori: io lo riconosco. Se però consideri che

san Paolo sopportò per lunghi anni le battiture, e, con la fame continua

anche la nudità, le catene, la prigionia, le insidie e i pericoli che gli

venivano dai domestici e dagli estranei, dai tiranni ed infine da tutto il

mondo; se poi aggiungi a ciò quello che certamente era per lui più

doloroso, ossia le pene per coloro che defezionavano, le sollecitudini per le

varie Chiese, le scottature che provava per ciascheduno degli scandalizzati;

allora potrai comprendere come quest’anima soffrendo tali cose fosse più

dura di ogni pietra, e superasse la resistenza dell’acciaio e del diamante».

Tre gradi di pazienza.


42. III. Tre sono i gradi di pazienza. 

Il primo è soffrire pazientemente; 

il secondo, volentieri; 

il terzo, con gioia, gloriandosi delle sofferenze,

desiderando passioni e persecuzioni. In tutti e tre questi gradi, Paolo fu

eccellente: si gloriava difatti delle tribolazioni (Cfr. Romani 5, 3);

ringraziava, in esse, Iddio.


San Francesco Saverio, anche tra le più acerrime persecuzioni e

tribolazioni, ridondava di tante consolazioni divine, e, non potendosi più

contenere, esclamava: «Basta, o Signore; basta». Quando si trattava di

fatiche e di persecuzioni, le richiedeva dicendo: «Di più, o Signore; di più.

Non liberarmi da questa croce, se non per darmene una più pesante». Così

si legge nella sua Vita e negli Atti della sua canonizzazione.


Questa condotta l’aveva imparata ed attinta da san Paolo e da Giacomo,

che scrive: «Abbiate, o fratelli, come argomento di vera gioia le varie

tentazioni nelle quali urterete, sapendo che la prova della vostra fede

produce la pazienza. La pazienza poi ha l’opera perfetta» (Giacomo l, 2

s.). Paolo esulta tra le catene: «Io, dice, prigioniero di Cristo... » (Efesini

3, l); si gloria di più di questo titolo che se fosse coronato di diadema, dice

il Crisostomo.

Vedasi ciò che ho detto nel commento di questo passo. Anche san Pietro:

«Godete, dice, di partecipare ai patimenti di Cristo, perché cosi potete

rallegrarvi ed esultare, quando si manifesterà la gloria di lui» (l Pietro 4,

13)

Caratteristica dell’Apostolo: ogni genere di pazienza

43. IV. Paolo, mentre viene eletto da Dio Apostolo, viene pure costituito

capo di sofferenze, e di pazienza, affinché comprendessimo che il

distintivo dell’Apostolo è ogni genere di pazienza: «Egli è uno strumento

da me eletto a portare il mio nome davanti ai Gentili» (Atti 9, 15). E ne

aggiunge subito il motivo: «Io gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio

nome» (Atti 9, 16). Vedasi quanto ho detto commentando questo passo.

Pertanto Paolo (l Corinti 4, 11.13) scrive: «Anche in questo momento noi

soffriamo la fame e la sete, e siamo ignudi, e presi a schiaffi, e non

abbiamo ove posarci; e ci affanniamo a lavorare con le nostre mani;

maledetti benediciamo, perseguitati sopportiamo, bestemmiati

supplichiamo». E: «I segni del mio apostolato, dice, sono stati manifestati

a voi con ogni sorta di pazienza, con miracoli e prodigi e virtù» (2 Corinti

12, 12).

Enumera ad una ad una le sue lotte, e si gloria di esse come di altrettanti

trofei: «Mi sono trovato in moltissimi travagli, dice, spessissimo nelle

carceri, oltre ogni limite nelle battiture, e spesso mi son trovato nei pericoli

di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno; tre

volte sono stato battuto con le Verghe; una volta sono stato lapidato; tre

volte ho fatto naufragio; ho passato una notte e un giorno nel profondo del

mare. Spesso in viaggio, tra i pericoli dei fiumi, pericoli dei malfattori,

pericoli da parte, dei miei connazionali, pericoli dai Gentili, pericoli nelle

città, pericoli nel deserto, pericoli in mare, pericoli dai falsi fratelli. Nella

fatica, nella miseria, in molte vigilie, nella fame, nella sete, in molti

digiuni, nel freddo e nella nudità. Oltre a quello che mi vien dal di fuori,

ho anche l’affanno quotidiano, la cura di tutte le Chiese» ecc. (2 Corinti

11, 23.28).


44. V. Paolo, con ammirevole pazienza, sopportò i suoi rivali, gli invidiosi,

i detrattori, i calunniatori (Cfr. 2 Corinti, cap. 10 e 11). «Alcuni per picca,

dice, annunziano Cristo senza sincerità, credendo di aggiungere affanni

alle mie catene. Ma che me ne importa? O che sia per pretesto o con lealtà,

purché in ogni modo sia predicato Cristo, e ne godo e ne godrò, ecc.

Secondo quanto aspetto e quanto spero, non avrò da arrossire di nessuna

cosa, ma con tutta franchezza, come sempre, Cristo sarà glorificato nella

mia persona, sia con la vita, sia con la morte» (Filippesi l, 17.20). E: «Noi

siam tribolati in ogni maniera, ma non avviliti d’animo; siamo angustiati,

ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; abbattuti, ma non

finiti» (2 Corinti 4, 8 s.). Giustamente san Gregorio (70) scrisse: “La

pazienza è un martirio nascosto nell’anima».


45. VI. Paolo sostenne e superò eroicamente molte infermità ed angustie

corporali, e spirituali, gravi e continue tentazioni della carne (71):

«Affinché la grandezza delle rivelazioni, dice, non mi facesse insuperbire,

m’è stato dato lo stimolo della mia carne, un angelo di Satana che mi

schiaffeggi. Tre volte ne pregai il Signore, perché si allontanasse da me.

Ed Egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia, perché la potenza si fa meglio

sentire nella debolezza. Volentieri adunque mi glorierò nelle mie

infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angustie

per Cristo, perché quando son debole, allora sono potente» (2 Corinti 12,

7-10).

AMDG et DVM

SAN BEDA il Venerabile

 Breve profilo biografico di

San Beda detto il Venerabile

Sacerdote e dottore della Chiesa


 

Beda e basta. Le sue generalità cominciano e finiscono lì. Non conosciamo i suoi genitori. La data di nascita è incerta. Sappiamo soltanto che a sette anni viene affidato per l’istruzione ai benedettini del monastero di San Pietro a Wearmouth (oggi Sunderland) e che passerà poi a quello di San Paolo di Jarrow nella contea di Durham in Inghilterra, centri monastici fondati entrambi dal futuro san Benedetto Biscop, che è il primo a prendersi cura di lui.
E tra i benedettini Beda rimane, facendosi monaco e ricevendo, verso i trent’anni, l’ordinazione sacerdotale. Dopodiché basta: non diventa vescovo né abate: tutta la sua vita si concentra sullo studio e sull’insegnamento. Unici suoi momenti di “ricreazione” sono la preghiera e il canto corale.


La sua materia è la Bibbia. E il metodo è del tutto insolito per il tempo, ma ricco d’interesse per gli scolari, mentre i suoi libri raggiungeranno presto le biblioteche monastiche del continente europeo. 

In breve, Beda insegna la Sacra Scrittura mettendo a frutto tutta la sapienza dei Padri della Chiesa, ma non si ferma lì. Inventa una sorta di personale didattica interdisciplinare, che spiega la Bibbia ricorrendo pure agli autori dell’antichità pagana (Beda conosce il greco) e utilizzando le conoscenze scientifiche del suo tempo.


Gran parte di questo insegnamento si tramanda, perché Beda scrive, scrive moltissimo e di argomenti diversi, anche modesti; come il libretto De orthographia. E anche insoliti, come il Liber de loquela per gestum digitorum, famoso in tutto il Medioevo perché insegna a fare i conti con le dita. Si dedica ai calcoli astronomici per il computo della data pasquale, indicandola fino all’anno 1063. E ai suoi compatrioti il monaco benedettino offre la storia ecclesiastica d’Inghilterra,

Fu anche amanuense e il Codex Amiatinus, uno dei più preziosi e antichi codici della Volgata, conservato nella biblioteca Laurenziana di Firenze, sarebbe stato eseguito sotto la sua guida. 

Della sua vasta produzione letteraria restano opere esegetiche, ascetiche, scientifiche e storiche. Tra queste c'è L'Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum, un monumento letterario universalmente riconosciuto da cui emerge la Romanità (universalità) della Chiesa.


Molto informata anche sulla vita civile, e soprattutto non semplicemente riferita, ma anche esaminata con attenzione critica. Studioso di tempra eccezionale e gran lavoratore, ha lasciato nei suoi scritti l'impronta del suo spirito umile sincero, del suo discernimento sicuro e della sua saggezza.


Già da vivo lo chiamano “Venerabile”. E l’appellativo gli rimarrà per sempre, sebbene nel 1899 papa Leone XIII lo abbia proclamato santo e dottore della Chiesa.  

È stato uno dei più grandi comunicatori di conoscenza dell’alto Medioevo. E un maestro di probità, col suo costante scrupolo di edificare senza mai venire meno alla verità, col grande rispetto per chi ascoltava la sua voce o leggeva i suoi libri. A più di dodici secoli dalla morte, il Concilio Vaticano II attingerà anche al suo pensiero, che viene citato nella Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa e nel decreto Ad gentes sull’attività missionaria. 

Beda muore a Jarrow, dove ha per tanto tempo insegnato, e lì viene sepolto. Ma il re Edoardo il Confessore (1002 - 1066) farà poi trasferire il corpo nella cattedrale di Durham.

AMDG et DVM

giovedì 4 novembre 2021

OMAGGIO A SAN GIOVANNI DELLA CROCE

 

Breve profilo biografico di S. Giovanni della Croce

S. Giovanni della Croce

 

Collaboratore di S. Teresa d'Avila nella fondazione dei Carmelitani Scalzi, Dottore della Chiesa , universalmente riconosciuto come mistico per eccellenza, Giovanni della Croce risulta sempre più un affascinante maestro: le sue parole e il suo messaggio sanno di mistero, del mistero di Dio.

Nasce a Fontiveros in Castiglia (Spagna) nel 1542, da una famiglia poverissima. Orfano molto presto del padre; una madre laboriosa e intraprendente per far fronte alla fame. Il piccolo Juan viene subito colpito dalla durezza della vita. Provato nel fisico, ma temprato nello spirito, si dà da fare come infermiere per mantenersi agli studi cui si sente portato.

 

 

 

Emerge ben presto la sua voglia di Dio e di Assoluto. A 20 anni decide di entrare nel noviziato dei Carmelitani. Arriva al Sacerdozio a 24 anni, ma si scopre dentro una gran voglia di una vita rigorosamente consacrata nel silenzio e nella contemplazione, una voglia che neppure i brillanti studi teologici nella prestigiosa università di Salamanca riescono a sopire.

Ci pensa Santa Teresa ad offrirgli una soluzione, invitandolo a partecipare alla Riforma dell’Ordine Carmelitano.Maestro dei novizi, attira tanti giovani che desiderano condurre una vita come lui. Nello spazio di pochi anni, pieni di fatiche apostoliche sulle strade assolate o ghiacciate di Spagna, accanto a profonde sofferenze, incredibili ed esaltanti esperienze mistiche.

La sua perfezione ascetica, la sua vita d'orazione, la sua elevatezza. di spirito e d'ingegno, l'esperienza mistica personale e la conoscenza dell'ampia esperienza mistica del Carmelo Riformato, la vasta dottrina, la profonda interiorità, e soprattutto la viva fiamma d'amore che lo vivificava e lo consumava fecero di lui non solo un grande santo, ma anche un grande maestro.

Scrive poemi e trattati che sprigionano la sua sapienza mistica, quella che non viene dai libri e dagli studi, ma che si "sa per amore". Muore a Ubeda il 14 dicembre 1591, a soli 49 anni, facendo sue, in un trasporto d’amore, le parole del Cantico dei cantici: "Rompi la tela ormai al dolce incontro!".
Il suo linguaggio: poetico e pieno di immagini e simboli, il linguaggio della passione e dell’amore. Con spirito nuovo, da umanista rinascimentale, offre un valido aiuto per il cammino cristiano dell’uomo moderno. Il cammino che propone è necessario e il risultato possibile anche se può sembrare una cosa ardua

S. Giovanni della Croce
Giovanni della Croce invita alla rinuncia, che non è negazione di sé o abdicazione da sé, ma promozione del meglio di sé. L’opera di Giovanni della Croce, se non invita ad un approccio immediato, ridesta tuttavia sempre almeno curiosità e fascino. Sono molte le persone comunque che l’hanno preso sul serio, come Teresa di Gesù Bambino, Elisabetta della Trinità, Edith Stein ..., e tanti altri, ci assicurano che l’itinerario proposto da Giovanni della Croce è accessibile. La sua spiritualità non sradica e non impone un programma fisso di vita. Pur rimanendo nei nostri quotidiani impegni, ci chiede di vivere nell’attenzione amorosa, un orientamento a Dio totale e rigorosamente esclusivo.

Il suo magistero orale e scritto, illumina tutto il percorso cui l’anima è chiamata per il raggiungimento del "Monte", dei vertici della spiritualità ove si compie il mistero amoroso dell’unione con Dio.
La Chiesa ha riconosciuto il valore universale della dottrina ascetica e mistica di S. Giovanni della Croce procamandolo Dottore Mistico della Chiesa Universale.


Quel che è certo è che tutti i pensieri, tutti i detti di S. Giovanni della Croce sono proprio articoli che regolano il modo di camminare sulle orme di Cristo. Un codice della strada, sì, della vera strada: l'imitazione di Cristo, di Colui che è Egli stesso via. Ed è altrettanto certo che il passaggio obbligato è quello della Croce.

AMDG ET DVM