martedì 14 gennaio 2020

QUESTO in Italia

Depredati cuore e fegato al bambino scosso dalla madre


(Alfredo De Matteo) Le cronache di questi ultimi giorni dell’anno hanno riportato il caso del bambino di cinque mesi scosso violentemente dalla madre, una donna di 29 anni originaria del vicentino la quale, nel tentativo di calmare il pianto del piccolo, l’avrebbe cullato troppo forte provocandogli gravissimi danni cerebrali e neurologici. In seguito alla chiamata fatta al 118 dalla madre stessa, il bimbo è stato ricoverato all’ospedale di Padova e le sue condizioni sono sembrate subito molto gravi, anche se un’Angio TAC disposta dai medici della terapia intensiva aveva riscontrato la presenza di flusso sanguigno al cervello. Purtuttavia, in tutta fretta è stata chiamata una commissione medica formata da un neurologo, un’anestetista e un medico legale con il compito di valutare la eventuale morte cerebrale del bambino. Le cronache riferiscono che dopo un secondo e approfondito esame della commissione che aveva dichiarato la morte cerebrale del piccolo, sono state staccate le macchine che lo tenevano in vita e cuore e fegato sono stati espiantati.
Come di consueto, quando si tratta di morte cerebrale ed espianto di organi le informazioni veicolate dagli organi di informazione risultano poco chiare, frammentate e contraddittorie. Del resto, la morte cerebrale è un’invenzione medico legale che non solo non ha nulla di scientifico ma che contrasta finanche col buon senso, per cui è facile cadere in veri e propri cortocircuiti logici.
Ora, gli organi vitali non possono essere prelevati da un cadavere perché altrimenti risulterebbero inservibili. E’ dunque necessario che la persona a cui devono essere espiantati i preziosi organi sia ancora in vita e gli stessi risultino perfettamente irrorati e ossigenati. Per cui, non corrisponde a verità che al piccolo siano stati tolti i supporti che lo tenevano in vita (ma non era già morto? …) e che solo successivamente sia stato sottoposto all’operazione di espianto, ma semmai il contrario: il bambino è stato tenuto in vita fino all’operazione di espianto, dopodiché, giocoforza, è deceduto.
C’è da tenere presente che i test atti a stabilire la presunta morte cerebrale sono molto invasivi e comportano la sospensione delle cure. E’ pertanto probabile che la commissione si trovi ad accertare la presenza dei parametri clinici indicatori della morte cerebrale a causa della natura invasiva della stessa procedura d’accertamento e della sospensione delle cure necessarie a ridurre il danno cerebrale incorso al paziente. In altre parole, è proprio la procedura d’accertamento della morte cerebrale che può causare ulteriori danni neurologici al soggetto, danni che possono anche diventare irreversibili.
Eppure, i primi esami effettuati sul bambino indicavano la presenza di attività cerebrale. Dunque, perché tanta fretta nel chiamare la commissione deputata a dichiarare l’eventuale morte cerebrale del bambino? Non sarebbe stato più sensato insistere con le cure adeguate volte a ridurre il danno cerebrale, anziché sospenderle e sottoporre il piccolo a test diagnostici altamente invasivi e peggiorativi della sua condizione clinica?
Il contesto attuale riconosce scarso valore alla vita umana, in specie quella più innocente e indifesa, e al contempo tende ad attribuire alle scienze, in particolare a quelle mediche, la capacità di risolvere tutti i problemi dell’uomo. La pratica dei trapianti d’organi vitali si inserisce perfettamente in tale quadro culturale e finisce per togliere valore sia alla vita umana che alla vera scienza.
Ora la madre del piccolo di cinque mesi sarà indagata per omicidio colposo anziché per il reato di lesioni gravissime. Ma non è stata certo lei a porre fine alla vita del suo bambino … 

lunedì 13 gennaio 2020

Giovanni battezza, e Gesù viene a lui...

«Quello che occhio non vide, né orecchio udì, né entrò in cuore dell'uomo: 
quel che Dio ha preparato per coloro che lo amano» Is. 64,4.

Sermone di san Gregorio Nazianzeno
Discorso sul santi Lumi
Non posso contenere gli slanci della gioia, ma ho il cuore sussultante e commosso: e dimentico della mia propria piccolezza, brucio dalla voglia di compiere l'ufficio, o meglio ministero del grande Giovanni: e sebbene io non sia il precursore, pure ne vengo dall'eremo. Cristo riceve dunque il sacramento dell'illuminazione, o piuttosto egli illumina noi col suo fulgore: Cristo è battezzato, discendiamo anche noi con lui per ascendere egualmente con lui.


Giovanni battezza, e Gesù viene a lui, santificando certo anche lui che lo battezza, ma soprattutto per seppellire nelle acque il vecchio Adamo, e innanzi tutto, perché con ciò venissero santificate le acque del Giordano: affinché com'egli era spirito e carne, cosi quelli che sarebbero in spirito battezzati, venissero santificati per la virtù dello spirito e per l'elemento dell'acqua. Il Battista si rifiuta, Gesù insiste. «Io, dice, devo essere battezzato da te» Matth. 3,14. La lucerna lo dice al. Sole, e la voce parla al Verbo.

Gesù esce dall'acqua, traendo seco in certo qual modo e sollevando il mondo sommerso: e vede non già dividersi, ma aprirsi il cielo, che altra volta il primo Adamo aveva chiuso dietro di sé per sé e per noi; così, come era stato chiuso il paradiso terrestre e interdettone l'ingresso con una spada di fuoco. Lo Spirito Santo rende testimonianza: le somiglianze sono in perfetta armonia. La testimonianza viene dal cielo: perché dal cielo è disceso colui, cui (lo Spirito) rende testimonianza.
V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

Sì: Liturgia a oriente: cioè orientata

Liturgia ‘orientata’: 

Benedetto XVI si smarca da p. Francesco


La notizia è clamorosa ed è stata rilanciata da diverse agenzie come Riposte Catholique Boulevard Voltaire: Benedetto XVI, intervenuto lo scorso 12 ottobre su L’Osservatore Romano mentre infuria la battaglia liturgica, non ha esitato a sposare in pieno la linea del card. Sarah, smarcandosi apertamente da quella di papa Francesco. E lo ha fatto sul suo terreno più congeniale, quello teologico, dichiarandosi a favore della celebrazione ad orientem: «Nell’orientare la liturgia verso Oriente, noi vediamo che i Cristiani, insieme col Signore, desiderano progredire verso la redenzione della Creazione tutta intera», ha detto. Non è dunque il celebrante a dover fare la vedette, sotto gli sguardi di tutti. Anche perché, ha aggiunto sempre Benedetto XVI, «un pastore del gregge di Gesù Cristo non è mai orientato semplicemente verso la cerchia dei propri fedeli».
C’è già chi attende la replica di papa Bergoglio, replica che, ad oggi (una ventina di giorni dopo l’uscita pubblica del suo predecessore), non è giunta e che probabilmente non giungerà mai.
Siamo di fronte ad una situazione davvero imbarazzante. Per inquadrarla al meglio, mette conto ricordare come nel giugno dell’anno scorso, il card. Sarah, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e per la Disciplina dei Sacramenti, avesse proposto a «tutti, preti e fedeli», in aperto contrasto con quanto stabilito dal Concilio Vaticano II, di volgersi «insieme verso Oriente» almeno nelle parti della S. Messa, in cui ci si rivolga direttamente a Dio: KyrieGloria, specifiche orazioni e S. Eucarestia. Proposta, che trovò subito il pieno consenso del card. Raymond Burke e, contemporaneamente, una secca battuta d’arresto nelle parole del portavoce della Santa Sede, Padre Lombardi, precipitatosi a precisare: «Non è prevista alcuna nuova direttiva liturgica», tanto perché il messaggio fosse forte e chiaro.
Sarà un caso, ma da allora il card. Sarah non è più stato invitato a numerosi eventi svoltisi in Vaticano. L’ultimo sgarbo clamoroso, in ordine di tempo, è giunto in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno accademico presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi sul Matrimonio e la Famiglia, quando, all’ultimo minuto, papa Bergoglio decise di sostituirsi a lui, pur essendo stato egli da molto tempo invitato a tenere la prolusione.
Ma ora, a rilanciare la questione con autorevolezza, è stato Benedetto XVI ovvero qualcuno cui, per grado e per competenze teologiche, anche il regnante Pontefice è difficile che possa alcunché obiettare. Da qui meglio si possono comprendere ed inquadrare le ragioni del perdurante silenzio… (M. F.)
AMDG et DVM

Deo Gratias





Dal libro a quattro mani di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI e del cardinale Robert Sarah, di cui il post precedente ha dato la notizia e un primo estratto, sono qui riportati cinque passaggi, tutti riguardanti la questione del celibato dei sacerdoti.
I primi due hanno per autore il papa emerito, i successivi il cardinale Sarah. Con in più alla fine un "Post scriptum".
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1. CELIBI O CONTINENTI, PER CELEBRARE L’EUCARISTIA
Molto presto – non sappiamo esattamente quando, ma in ogni caso molto rapidamente – la celebrazione regolare, e anche quotidiana, dell’eucaristia è divenuta essenziale per la Chiesa. Il pane “soprasostanziale” è nello stesso tempo il pane “quotidiano” della Chiesa. E ciò ebbe una conseguenza importante, che, appunto, assilla oggi la Chiesa.
Nella coscienza comune di Israele, i sacerdoti erano rigorosamente tenuti a rispettare l’astinenza sessuale nei periodi in cui esercitavano il culto ed erano dunque in contatto col mistero divino. La relazione tra l’astinenza sessuale e il culto divino fu assolutamente chiara nella coscienza comune di Israele. A titolo di esempio, vorrei ricordare l’episodio di Davide che, fuggendo da Saul, pregò il sacerdote Achimelek di dargli del pane: “Il sacerdote rispose a Davide: ‘Non ho sottomano pani comuni, ho solo pani sacri per i tuoi giovani, se si sono almeno astenuti dalle donne’. Rispose Davide al sacerdote: ‘Ma certo! Dalle donne ci siamo astenuti da tre giorni’” (1 Sam 21, 5s). Dato che i sacerdoti dell’Antico Testamento non dovevano dedicarsi al culto se non durante dei periodi determinati, il matrimonio e il sacerdozio erano compatibili.
Ma a motivo della celebrazione eucaristica regolare e spesso anche quotidiana, la situazione dei sacerdoti della Chiesa di Gesù Cristo si trova radicalmente cambiata. Ormai, la loro vita intera è in contatto col mistero divino. Ciò esige da parte loro l’esclusività a riguardo di Dio. Ciò esclude di conseguenza gli altri legami che, come il matrimonio, abbracciano tutta la vita. Dalla celebrazione quotidiana dell’eucaristia, che implica uno stato di servizio di Dio permanente, nacque spontaneamente l’impossibilità di un legame matrimoniale. Si può dire che l’astinenza sessuale che era funzionale si è trasformata essa stessa in una astinenza ontologica. Così, la sua motivazione e il suo significato erano cambiati dall’interno e in profondità.
Ai giorni nostri, si afferma troppo facilmente che tutto ciò non sarebbe che la conseguenza di un disprezzo della corporeità e della sessualità. La critica secondo la quale il fondamento del celibato sacerdotale sarebbe una concezione manichea del mondo è già stata formulata nel IV secolo. Essa fu tuttavia immediatamente respinta in modo decisivo dai Padri della Chiesa che le misero fine per un certo tempo.
Un tale giudizio è erroneo. Per dimostrarlo, è sufficiente ricordare che la Chiesa ha sempre considerato il matrimonio come un dono elargito da Dio fin dal paradiso terrestre. Tuttavia, lo stato coniugale coinvolge l’uomo nella sua totalità, ma dato che anche il servizio del Signore esige ugualmente il dono totale dell’uomo, non sembra possibile realizzare simultaneamente le due vocazioni. Così, l’attitudine a rinunciare al matrimonio per mettersi totalmente a disposizione del Signore è divenuto un criterio per il ministero sacerdotale.
Quanto alla forma concreta del celibato nella Chiesa antica, conviene ancora sottolineare che gli uomini sposati non potevano ricevere il sacramento dell’ordine se non si erano impegnati a rispettare l’astinenza sessuale, dunque a vivere il matrimonio detto “di san Giuseppe”. Una tale situazione sembra essere stata del tutto normale nel corso dei primi secoli. C’era un numero sufficiente di uomini e di donne che consideravano che era ragionevole e possibile vivere in questo modo donandosi assieme al Signore.
Papa Benedetto XVI.
2. “IL SIGNORE È MIA PARTE DI EREDITÀ E MIO CALICE” (Salmo 16,5)
Nell’Antico Testamento, i leviti rinunciano a possedere una terra. Nel Nuovo Testamento, questa privazione si trasforma e si rinnova: i sacerdoti, poiché sono radicalmente consacrati a Dio, rinunciano al matrimonio e alla famiglia. […] Il vero fondamento della vita del sacerdote, il sale della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. Il celibato, che vale per i vescovi in tutta la Chiesa orientale e occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli apostoli, per i preti in generale nella Chiesa latina, non può essere compreso e vissuto in definitiva che su questo fondamento.
Papa Benedetto XVI.
3. NEI VILLAGGI REMOTI DELLA GUINEA
All’inizio del 1976, quando ero giovane prete, mi sono recato in alcuni villaggi remoti della Guinea. Alcuni di essi non avevano ricevuto la visita di un prete da quasi dieci anni, perché i missionari europei erano stati espulsi nel 1967 da Sékou Touré. Tuttavia, i cristiani continuavano a insegnare il catechismo ai bambini e a recitare le preghiere quotidiane e il rosario. Manifestavano una grande devozione per la Vergine Maria e si riunivano la domenica per ascoltare la Parola di Dio.
Ho avuto la grazia di incontrare quegli uomini e quelle donne che conservavano la fede senza alcun sostegno sacramentale, in mancanza di preti. Si nutrivano della Parola di Dio e alimentavano la vitalità della fede con la preghiera quotidiana. Non potrò mai dimenticare la loro gioia inimmaginabile quando io celebravo la messa che non avevano avuto da tanto tempo. Che mi sia consentito di affermare con certezza e con forza: io credo che se si fossero ordinati degli uomini sposati in ogni villaggio, si sarebbe estinta la fame eucaristica dei fedeli. Si sarebbe separato il popolo da questa gioia di ricevere, nel sacerdote, un altro Cristo. Perché, con l’istinto della fede, i poveri sanno che un prete che ha rinunciato al matrimonio fa loro dono di tutto il suo amore sponsale.
4. SUI PRETI SPOSATI DELL’ORIENTE
Dobbiamo ascoltare le testimonianze che promanano dalle Chiesa cattoliche orientali. Parecchi membri di queste Chiese hanno chiaramente sottolineato che lo stato sacerdotale entra in tensione con lo stato coniugale. […] Il clero sposato orientale è in crisi. Il divorzio dei preti è diventato un terreno di tensione ecumenica tra i patriarcati ortodossi. […] Perché la Chiesa cattolica accetta la presenza di un clero sposato in alcune Chiese orientali unite? Alla luce delle affermazione del recente magistero sul legame ontologico tra il sacerdozio e il celibato, penso che questa accettazione ha per fine di favorire una evoluzione progressiva verso la pratica del celibato, che avrebbe luogo non per via disciplinare ma per delle ragioni propriamente spirituali e pastorali.
5. SUI PRETI SPOSATI EX ANGLICANI O DELL’AMAZZONIA
Mi si potrebbe far notare che esistono già delle eccezioni, e che degli uomini sposati sono stati ordinati preti nella Chiesa latina continuando a vivere “more uxorio” con le loro spose. Si tratta effettivamente di eccezioni nel senso che questi casi procedono da una situazione particolare che non deve essere portata a ripetersi. È il caso dell’ingresso nella piena comunione di pastori protestanti sposati destinati a ricevere l’ordinazione sacerdotale. Un’eccezione è transitoria per definizione e costituisce una parentesi nello stato normale e naturale delle cose. Questo non è il caso di una regione remota che manca di preti. La loro scarsità non è uno stato eccezionale. Questa situazione è comune in tutti i paesi di missione, e anche nei paesi dell’occidente secolarizzato. Per definizione una Chiesa nascente manca di preti. La Chiesa primitiva si è trovata in questa situazione. Ma abbiamo visto che non ha rinunciato al principio della continenza dei chierici. L’ordinazione di uomini sposati, siano essi stati in precedenza diaconi permanenti, non è un’eccezione, ma una breccia, una ferita nella coerenza del sacerdozio. Parlare di eccezione sarebbe un abuso di linguaggio o una menzogna.
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DEO GRATIAS

Un libro bomba. Ratzinger e Sarah chiedono a Francesco di non aprire varchi ai preti sposati

Sarah

Si sono incontrati. Si sono scritti. Proprio mentre “il mondo rimbombava del frastuono creato da uno strano sinodo dei media che prendeva il posto del sinodo reale”, quello dell’Amazzonia.
E hanno deciso di rompere il silenzio: “Era nostro sacro dovere ricordare la verità del sacerdozio cattolico. In questi tempi difficili ciascuno deve avere paura che un giorno Dio gli rivolga questo acerbo rimprovero: ‘Maledetto sei tu, che non hai detto nulla’”. Invettiva, quest’ultima, ripresa da santa Caterina da Siena, grande fustigatrice di papi.
Il papa emerito Benedetto XVI e il cardinale guineano Robet Sarah hanno consegnato alle stampe questo loro libro poco prima di Natale, ed eccolo uscire in Francia a metà gennaio, per i tipi di Fayard con il titolo: “Dal profondo dei nostri cuori”, prima ancora, quindi, che papa Francesco abbia dettato le conclusioni di quel sinodo amazzonico che in realtà, più che su fiumi e foreste, è stata una furiosa discussione sul futuro del sacerdozio cattolico, se celibe o no, e se aperto in futuro alle donne.
Sarà un problema serio, infatti, per Francesco, aprire un varco al sacerdozio sposato e al diaconato femminile, dopo che il suo predecessore e un cardinale di profonda dottrina e di fulgente santità di vita come Sarah hanno preso posizione così netta e potentemente argomentata a sostegno del celibato sacerdotale, rivolgendosi al papa regnante con queste parole quasi ultimative, per la penna dell’uno ma con il pieno consenso dell’altro:
“C’è un legame ontologico-sacramentale tra il sacerdozio e il celibato. Ogni ridimensionamento di questo legame costituirebbe una rimessa in causa del magistero del concilio e dei papi Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Supplico umilmente papa Francesco di proteggerci definitivamente da una tale eventualità, ponendo il suo veto contro ogni indebolimento della legge del celibato sacerdotale, anche se limitato all’una o all’altra regione”.
Il libro, di 180 pagine, dopo una prefazione del curatore Nicolas Diat, si articola in quattro capitoli.
Il primo, dal titolo “Di che cosa avete paura?”, è una introduzione firmata congiuntamente dai due autori, datata settembre 2019.
Il secondo è di Joseph Ratzinger, è di taglio biblico e teologico e ha per titolo: “Il sacerdozio cattolico”. Porta la data del 17 settembre, prima che il sinodo abbia avuto inizio.
Il terzo è del cardinale Sarah ed è intitolato. “Amare sino alla fine. Sguardo ecclesiologico e pastorale sul celibato sacerdotale”. Ha la data del 25 novembre, un mese dopo la fine del sinodo, a cui l’autore ha partecipato assiduamente.
Il quarto è la conclusione congiunta dei due autori, col titolo: “All’ombra della croce” e con la data del 3 dicembre.
Nel capitolo da lui firmato, Ratzinger intende principalmente mettere in luce “l’unità profonda tra i due Testamenti, attraverso il passaggio dal Tempio di pietra al Tempio che è il corpo del Cristo”.
E applica questa ermeneutica a tre testi biblici, dai quali trae la nozione cristiana di sacerdozio celibatario.
Il primo è un passaggio del salmo 16: “Il Signore è la mia parte di eredità e il mio calice…”.
Il terzo sono queste parole di Gesù nel vangelo di Giovanni 17,17: “Santificali nella verità, la tua parola è verità”.
Mentre il secondo sono due passaggi del Deuteronomio (10,8 e 18,5-8) incorporati nella preghiera eucaristica II: “Ti rendiamo grazie di averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”.
Per illustrare il senso di queste parole, Ratzinger cita quasi integralmente nel libro, da pagina 59 a pagina 67, l’omelia da lui pronunciata in San Pietro la mattina del 20 marzo 2008, giovedì santo, nella messa del sacro crisma con cui si ordinano i sacerdoti.
Omelia riprodotta qui di seguito, come assaggio alla lettura dell’intero libro e delle sue pagine più direttamente dedicate alla questione del celibato.
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“Non inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse”
di Joseph Ratzinger / Benedetto XVI
Il Giovedì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto “sì”? Che cosa è questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Il Canone II del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con cui, nel libro del Deuteronomio (18, 5. 7), veniva descritta l’essenza del sacerdozio veterotestamentario: "astare coram te et tibi ministrare". Sono quindi due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo “stare davanti al Signore”.
Nel Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto della disposizione precedente, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori necessari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era “stare davanti al Signore” – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacerdote, così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui.
Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Liturgia delle Ore che durante la quaresima introduce l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era recitato durante l’ora della veglia notturna davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti della quaresima è descritto con l’imperativo: “arctius perstemus in custodia” – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come “coloro che stanno in piedi”; lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza.
Ciò che qui era considerato compito dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come espressione della missione sacerdotale e come giusta interpretazione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto ad incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli: essi erano “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (5, 41).
Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento: “stare davanti a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire.
Nel testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere svolte.
Con l’assunzione della  parola “servire” nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato – conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi.
Così la parola “servire” comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’”ars celebrandi”, l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Deve diventare una cosa sola con l’arte del vivere rettamente.
Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” – il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida.
Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine.
Si spegne così il timor riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza.
Il servo sta sotto la parola: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22, 42). Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi; che solo grazie ad una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo, diventerebbe divino. Ma proprio così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro.
Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini, diventa ancora più concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Non inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse, ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo.
La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: “Sarai portato dove non volevi”. Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un tale essere guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore di Dio.
“Stare davanti a Lui e servirLo”: Gesù Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità prima inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi.
Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera “elevazione” dell’uomo.
“Stare davanti a Lui e servirLo” – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro “sì” alla sua chiamata: “Eccomi. Manda me, Signore” (Is 6, 8). Amen.