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lunedì 13 gennaio 2020

Deo Gratias





Dal libro a quattro mani di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI e del cardinale Robert Sarah, di cui il post precedente ha dato la notizia e un primo estratto, sono qui riportati cinque passaggi, tutti riguardanti la questione del celibato dei sacerdoti.
I primi due hanno per autore il papa emerito, i successivi il cardinale Sarah. Con in più alla fine un "Post scriptum".
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1. CELIBI O CONTINENTI, PER CELEBRARE L’EUCARISTIA
Molto presto – non sappiamo esattamente quando, ma in ogni caso molto rapidamente – la celebrazione regolare, e anche quotidiana, dell’eucaristia è divenuta essenziale per la Chiesa. Il pane “soprasostanziale” è nello stesso tempo il pane “quotidiano” della Chiesa. E ciò ebbe una conseguenza importante, che, appunto, assilla oggi la Chiesa.
Nella coscienza comune di Israele, i sacerdoti erano rigorosamente tenuti a rispettare l’astinenza sessuale nei periodi in cui esercitavano il culto ed erano dunque in contatto col mistero divino. La relazione tra l’astinenza sessuale e il culto divino fu assolutamente chiara nella coscienza comune di Israele. A titolo di esempio, vorrei ricordare l’episodio di Davide che, fuggendo da Saul, pregò il sacerdote Achimelek di dargli del pane: “Il sacerdote rispose a Davide: ‘Non ho sottomano pani comuni, ho solo pani sacri per i tuoi giovani, se si sono almeno astenuti dalle donne’. Rispose Davide al sacerdote: ‘Ma certo! Dalle donne ci siamo astenuti da tre giorni’” (1 Sam 21, 5s). Dato che i sacerdoti dell’Antico Testamento non dovevano dedicarsi al culto se non durante dei periodi determinati, il matrimonio e il sacerdozio erano compatibili.
Ma a motivo della celebrazione eucaristica regolare e spesso anche quotidiana, la situazione dei sacerdoti della Chiesa di Gesù Cristo si trova radicalmente cambiata. Ormai, la loro vita intera è in contatto col mistero divino. Ciò esige da parte loro l’esclusività a riguardo di Dio. Ciò esclude di conseguenza gli altri legami che, come il matrimonio, abbracciano tutta la vita. Dalla celebrazione quotidiana dell’eucaristia, che implica uno stato di servizio di Dio permanente, nacque spontaneamente l’impossibilità di un legame matrimoniale. Si può dire che l’astinenza sessuale che era funzionale si è trasformata essa stessa in una astinenza ontologica. Così, la sua motivazione e il suo significato erano cambiati dall’interno e in profondità.
Ai giorni nostri, si afferma troppo facilmente che tutto ciò non sarebbe che la conseguenza di un disprezzo della corporeità e della sessualità. La critica secondo la quale il fondamento del celibato sacerdotale sarebbe una concezione manichea del mondo è già stata formulata nel IV secolo. Essa fu tuttavia immediatamente respinta in modo decisivo dai Padri della Chiesa che le misero fine per un certo tempo.
Un tale giudizio è erroneo. Per dimostrarlo, è sufficiente ricordare che la Chiesa ha sempre considerato il matrimonio come un dono elargito da Dio fin dal paradiso terrestre. Tuttavia, lo stato coniugale coinvolge l’uomo nella sua totalità, ma dato che anche il servizio del Signore esige ugualmente il dono totale dell’uomo, non sembra possibile realizzare simultaneamente le due vocazioni. Così, l’attitudine a rinunciare al matrimonio per mettersi totalmente a disposizione del Signore è divenuto un criterio per il ministero sacerdotale.
Quanto alla forma concreta del celibato nella Chiesa antica, conviene ancora sottolineare che gli uomini sposati non potevano ricevere il sacramento dell’ordine se non si erano impegnati a rispettare l’astinenza sessuale, dunque a vivere il matrimonio detto “di san Giuseppe”. Una tale situazione sembra essere stata del tutto normale nel corso dei primi secoli. C’era un numero sufficiente di uomini e di donne che consideravano che era ragionevole e possibile vivere in questo modo donandosi assieme al Signore.
Papa Benedetto XVI.
2. “IL SIGNORE È MIA PARTE DI EREDITÀ E MIO CALICE” (Salmo 16,5)
Nell’Antico Testamento, i leviti rinunciano a possedere una terra. Nel Nuovo Testamento, questa privazione si trasforma e si rinnova: i sacerdoti, poiché sono radicalmente consacrati a Dio, rinunciano al matrimonio e alla famiglia. […] Il vero fondamento della vita del sacerdote, il sale della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. Il celibato, che vale per i vescovi in tutta la Chiesa orientale e occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli apostoli, per i preti in generale nella Chiesa latina, non può essere compreso e vissuto in definitiva che su questo fondamento.
Papa Benedetto XVI.
3. NEI VILLAGGI REMOTI DELLA GUINEA
All’inizio del 1976, quando ero giovane prete, mi sono recato in alcuni villaggi remoti della Guinea. Alcuni di essi non avevano ricevuto la visita di un prete da quasi dieci anni, perché i missionari europei erano stati espulsi nel 1967 da Sékou Touré. Tuttavia, i cristiani continuavano a insegnare il catechismo ai bambini e a recitare le preghiere quotidiane e il rosario. Manifestavano una grande devozione per la Vergine Maria e si riunivano la domenica per ascoltare la Parola di Dio.
Ho avuto la grazia di incontrare quegli uomini e quelle donne che conservavano la fede senza alcun sostegno sacramentale, in mancanza di preti. Si nutrivano della Parola di Dio e alimentavano la vitalità della fede con la preghiera quotidiana. Non potrò mai dimenticare la loro gioia inimmaginabile quando io celebravo la messa che non avevano avuto da tanto tempo. Che mi sia consentito di affermare con certezza e con forza: io credo che se si fossero ordinati degli uomini sposati in ogni villaggio, si sarebbe estinta la fame eucaristica dei fedeli. Si sarebbe separato il popolo da questa gioia di ricevere, nel sacerdote, un altro Cristo. Perché, con l’istinto della fede, i poveri sanno che un prete che ha rinunciato al matrimonio fa loro dono di tutto il suo amore sponsale.
4. SUI PRETI SPOSATI DELL’ORIENTE
Dobbiamo ascoltare le testimonianze che promanano dalle Chiesa cattoliche orientali. Parecchi membri di queste Chiese hanno chiaramente sottolineato che lo stato sacerdotale entra in tensione con lo stato coniugale. […] Il clero sposato orientale è in crisi. Il divorzio dei preti è diventato un terreno di tensione ecumenica tra i patriarcati ortodossi. […] Perché la Chiesa cattolica accetta la presenza di un clero sposato in alcune Chiese orientali unite? Alla luce delle affermazione del recente magistero sul legame ontologico tra il sacerdozio e il celibato, penso che questa accettazione ha per fine di favorire una evoluzione progressiva verso la pratica del celibato, che avrebbe luogo non per via disciplinare ma per delle ragioni propriamente spirituali e pastorali.
5. SUI PRETI SPOSATI EX ANGLICANI O DELL’AMAZZONIA
Mi si potrebbe far notare che esistono già delle eccezioni, e che degli uomini sposati sono stati ordinati preti nella Chiesa latina continuando a vivere “more uxorio” con le loro spose. Si tratta effettivamente di eccezioni nel senso che questi casi procedono da una situazione particolare che non deve essere portata a ripetersi. È il caso dell’ingresso nella piena comunione di pastori protestanti sposati destinati a ricevere l’ordinazione sacerdotale. Un’eccezione è transitoria per definizione e costituisce una parentesi nello stato normale e naturale delle cose. Questo non è il caso di una regione remota che manca di preti. La loro scarsità non è uno stato eccezionale. Questa situazione è comune in tutti i paesi di missione, e anche nei paesi dell’occidente secolarizzato. Per definizione una Chiesa nascente manca di preti. La Chiesa primitiva si è trovata in questa situazione. Ma abbiamo visto che non ha rinunciato al principio della continenza dei chierici. L’ordinazione di uomini sposati, siano essi stati in precedenza diaconi permanenti, non è un’eccezione, ma una breccia, una ferita nella coerenza del sacerdozio. Parlare di eccezione sarebbe un abuso di linguaggio o una menzogna.
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DEO GRATIAS

Un libro bomba. Ratzinger e Sarah chiedono a Francesco di non aprire varchi ai preti sposati

Sarah

Si sono incontrati. Si sono scritti. Proprio mentre “il mondo rimbombava del frastuono creato da uno strano sinodo dei media che prendeva il posto del sinodo reale”, quello dell’Amazzonia.
E hanno deciso di rompere il silenzio: “Era nostro sacro dovere ricordare la verità del sacerdozio cattolico. In questi tempi difficili ciascuno deve avere paura che un giorno Dio gli rivolga questo acerbo rimprovero: ‘Maledetto sei tu, che non hai detto nulla’”. Invettiva, quest’ultima, ripresa da santa Caterina da Siena, grande fustigatrice di papi.
Il papa emerito Benedetto XVI e il cardinale guineano Robet Sarah hanno consegnato alle stampe questo loro libro poco prima di Natale, ed eccolo uscire in Francia a metà gennaio, per i tipi di Fayard con il titolo: “Dal profondo dei nostri cuori”, prima ancora, quindi, che papa Francesco abbia dettato le conclusioni di quel sinodo amazzonico che in realtà, più che su fiumi e foreste, è stata una furiosa discussione sul futuro del sacerdozio cattolico, se celibe o no, e se aperto in futuro alle donne.
Sarà un problema serio, infatti, per Francesco, aprire un varco al sacerdozio sposato e al diaconato femminile, dopo che il suo predecessore e un cardinale di profonda dottrina e di fulgente santità di vita come Sarah hanno preso posizione così netta e potentemente argomentata a sostegno del celibato sacerdotale, rivolgendosi al papa regnante con queste parole quasi ultimative, per la penna dell’uno ma con il pieno consenso dell’altro:
“C’è un legame ontologico-sacramentale tra il sacerdozio e il celibato. Ogni ridimensionamento di questo legame costituirebbe una rimessa in causa del magistero del concilio e dei papi Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Supplico umilmente papa Francesco di proteggerci definitivamente da una tale eventualità, ponendo il suo veto contro ogni indebolimento della legge del celibato sacerdotale, anche se limitato all’una o all’altra regione”.
Il libro, di 180 pagine, dopo una prefazione del curatore Nicolas Diat, si articola in quattro capitoli.
Il primo, dal titolo “Di che cosa avete paura?”, è una introduzione firmata congiuntamente dai due autori, datata settembre 2019.
Il secondo è di Joseph Ratzinger, è di taglio biblico e teologico e ha per titolo: “Il sacerdozio cattolico”. Porta la data del 17 settembre, prima che il sinodo abbia avuto inizio.
Il terzo è del cardinale Sarah ed è intitolato. “Amare sino alla fine. Sguardo ecclesiologico e pastorale sul celibato sacerdotale”. Ha la data del 25 novembre, un mese dopo la fine del sinodo, a cui l’autore ha partecipato assiduamente.
Il quarto è la conclusione congiunta dei due autori, col titolo: “All’ombra della croce” e con la data del 3 dicembre.
Nel capitolo da lui firmato, Ratzinger intende principalmente mettere in luce “l’unità profonda tra i due Testamenti, attraverso il passaggio dal Tempio di pietra al Tempio che è il corpo del Cristo”.
E applica questa ermeneutica a tre testi biblici, dai quali trae la nozione cristiana di sacerdozio celibatario.
Il primo è un passaggio del salmo 16: “Il Signore è la mia parte di eredità e il mio calice…”.
Il terzo sono queste parole di Gesù nel vangelo di Giovanni 17,17: “Santificali nella verità, la tua parola è verità”.
Mentre il secondo sono due passaggi del Deuteronomio (10,8 e 18,5-8) incorporati nella preghiera eucaristica II: “Ti rendiamo grazie di averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”.
Per illustrare il senso di queste parole, Ratzinger cita quasi integralmente nel libro, da pagina 59 a pagina 67, l’omelia da lui pronunciata in San Pietro la mattina del 20 marzo 2008, giovedì santo, nella messa del sacro crisma con cui si ordinano i sacerdoti.
Omelia riprodotta qui di seguito, come assaggio alla lettura dell’intero libro e delle sue pagine più direttamente dedicate alla questione del celibato.
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“Non inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse”
di Joseph Ratzinger / Benedetto XVI
Il Giovedì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto “sì”? Che cosa è questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Il Canone II del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con cui, nel libro del Deuteronomio (18, 5. 7), veniva descritta l’essenza del sacerdozio veterotestamentario: "astare coram te et tibi ministrare". Sono quindi due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo “stare davanti al Signore”.
Nel Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto della disposizione precedente, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori necessari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era “stare davanti al Signore” – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacerdote, così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui.
Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Liturgia delle Ore che durante la quaresima introduce l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era recitato durante l’ora della veglia notturna davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti della quaresima è descritto con l’imperativo: “arctius perstemus in custodia” – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come “coloro che stanno in piedi”; lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza.
Ciò che qui era considerato compito dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come espressione della missione sacerdotale e come giusta interpretazione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto ad incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli: essi erano “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (5, 41).
Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento: “stare davanti a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire.
Nel testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere svolte.
Con l’assunzione della  parola “servire” nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato – conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi.
Così la parola “servire” comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’”ars celebrandi”, l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Deve diventare una cosa sola con l’arte del vivere rettamente.
Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” – il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida.
Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine.
Si spegne così il timor riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza.
Il servo sta sotto la parola: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22, 42). Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi; che solo grazie ad una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo, diventerebbe divino. Ma proprio così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro.
Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini, diventa ancora più concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Non inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse, ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo.
La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: “Sarai portato dove non volevi”. Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un tale essere guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore di Dio.
“Stare davanti a Lui e servirLo”: Gesù Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità prima inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi.
Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera “elevazione” dell’uomo.
“Stare davanti a Lui e servirLo” – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro “sì” alla sua chiamata: “Eccomi. Manda me, Signore” (Is 6, 8). Amen.

domenica 8 dicembre 2013

RINGRAZIAMO come Gesù e con Gesù.



L’UDIENZA GENERALE, 07.12.2011

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di fedeli e pellegrini provenienti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, nell’ambito del ciclo di catechesi sulla preghiera, il Santo Padre Benedetto XVI ha incentrato la Sua meditazione sull’Inno di giubilo messianico di Gesù Cristo (Mt 11,25-30; Lc 10,21-22).
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Il gioiello dell'Inno di giubilo

Cari fratelli e sorelle,

gli evangelisti Matteo e Luca (cfr Mt 11,25-30 e Lc 10, 21-22) ci hanno tramandato un «gioiello» della preghiera di Gesù, che spesso viene chiamato Inno di giubilo o Inno di giubilo messianico. Si tratta di una preghiera di riconoscenza e di lode, come abbiamo ascoltato. Nell’originale greco dei Vangeli il verbo con cui inizia questo inno, e che esprime l’atteggiamento di Gesù nel rivolgersi al Padre, è exomologoumai, tradotto spesso con «rendo lode» (Mt 11,25 e Lc 10,21). 

Ma negli scritti del Nuovo Testamento questo verbo indica principalmente due cose: la prima è «riconoscere fino in fondo» – ad esempio, Giovanni Battista chiedeva di riconoscere fino in fondo i propri peccati a chi andava da lui per farsi battezzare (cfr Mt 3,6) –; la seconda cosa è «trovarsi d’accordo». Quindi, l’espressione con cui Gesù inizia la sua preghiera contiene il suo riconoscere fino in fondo, pienamente, l’agire di Dio Padre, e, insieme, il suo essere in totale, consapevole e gioioso accordo con questo modo di agire, con il progetto del Padre. L’Inno di giubilo è l’apice di un cammino di preghiera in cui emerge chiaramente la profonda e intima comunione di Gesù con la vita del Padre nello Spirito Santo e si manifesta la sua filiazione divina.

Gesù si rivolge a Dio chiamandolo «Padre». Questo termine esprime la coscienza e la certezza di Gesù di essere «il Figlio», in intima e costante comunione con Lui, e questo è il punto centrale e la fonte di ogni preghiera di Gesù. Lo vediamo chiaramente nell’ultima parte dell’Inno, che illumina l’intero testo. 

Gesù dice: «Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Lc 10, 22). Gesù quindi afferma che solo «il Figlio» conosce veramente il Padre. Ogni conoscenza tra le persone - lo sperimentiamo tutti nelle nostre relazioni umane – comporta un coinvolgimento, un qualche legame interiore tra chi conosce e chi è conosciuto, a livello più o meno profondo: non si può conoscere senza una comunione dell'essere. Nell’Inno di giubilo, come in tutta la sua preghiera, Gesù mostra che la vera conoscenza di Dio presuppone la comunione con Lui: solo essendo in comunione con l'altro comincio a conoscere; e così anche con Dio, solo se ho un contatto vero, se sono in comunione, posso anche conoscerlo. Quindi la vera conoscenza è riservata al «Figlio», l’Unigenito che è da sempre nel seno del Padre (cfr Gv 1,18), in perfetta unità con Lui. Solo il Figlio conosce veramente Dio, essendo in comunione intima dell'essere; solo il Figlio può rivelare veramente chi è Dio.

Il nome «Padre» è seguito da un secondo titolo, «Signore del cielo e della terra». Gesù, con questa espressione, ricapitola la fede nella creazione e fa risuonare le prime parole della Sacra Scrittura: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). 

Pregando, Egli richiama la grande narrazione biblica della storia di amore di Dio per l’uomo, che inizia con l’atto della creazione. Gesù si inserisce in questa storia di amore, ne è il vertice e il compimento. Nella sua esperienza di preghiera, la Sacra Scrittura viene illuminata e rivive nella sua più completa ampiezza: annuncio del mistero di Dio e risposta dell’uomo trasformato. Ma attraverso l’espressione «Signore del cielo e della terra» possiamo anche riconoscere come in Gesù, il Rivelatore del Padre, viene riaperta all’uomo la possibilità di accedere a Dio.

Poniamoci adesso la domanda: a chi il Figlio vuole rivelare i misteri di Dio? All’inizio dell’Inno Gesù esprime la sua gioia perché la volontà del Padre è quella di tenere nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti e rivelarle ai piccoli (cfr Lc 10,21). In questa espressione della sua preghiera, Gesù manifesta la sua comunione con la decisione del Padre che schiude i suoi misteri a chi ha il cuore semplice: la volontà del Figlio è una cosa sola con quella del Padre. La rivelazione divina non avviene secondo la logica terrena, per la quale sono gli uomini colti e potenti che possiedono le conoscenze importanti e le trasmettono alla gente più semplice, ai piccoli. Dio ha usato tutt’altro stile: i destinatari della sua comunicazione sono stati proprio i «piccoli». Questa è la volontà del Padre, e il Figlio la condivide con gioia. 

Dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il suo trasalire «Sì, Padre!» esprime la profondità del suo cuore, la sua adesione al beneplacito del Padre, come eco al «Fiat» di sua Madre al momento del suo concepimento e come preludio a quello che egli dirà al Padre durante la sua agonia. Tutta la preghiera di Gesù è in questa amorosa adesione del suo cuore di uomo al "mistero della ... volontà" del Padre (Ef 1,9)» (2603). Da qui deriva l’invocazione che rivolgiamo a Dio nel Padre nostro: «sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»: insieme con Cristo e in Cristo, anche noi chiediamo di entrare in sintonia con la volontà del Padre, diventando così anche noi suoi figli. Gesù, pertanto, in questo Inno di giubilo esprime la volontà di coinvolgere nella sua conoscenza filiale di Dio tutti coloro che il Padre vuole renderne partecipi; e coloro che accolgono questo dono sono i «piccoli».

Ma che cosa significa «essere piccoli», semplici? Qual è «la piccolezza» che apre l’uomo all’intimità filiale con Dio e ad accogliere la sua volontà? Quale deve essere l’atteggiamento di fondo della nostra preghiera? Guardiamo al «Discorso della montagna», dove Gesù afferma: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8). 

E’ la purezza del cuore quella che permette di riconoscere il volto di Dio in Gesù Cristo; è avere il cuore semplice come quello dei bambini, senza la presunzione di chi si chiude in se stesso, pensando di non avere bisogno di nessuno, neppure di Dio.

E’ interessante anche notare l’occasione in cui Gesù prorompe in questo Inno al Padre. Nella narrazione evangelica di Matteo è la gioia perché, nonostante le opposizioni e i rifiuti, ci sono dei «piccoli» che accolgono la sua parola e si aprono al dono della fede in Lui. L’Inno di giubilo, infatti, è preceduto dal contrasto tra l’elogio di Giovanni il Battista, uno dei «piccoli» che hanno riconosciuto l’agire di Dio in Cristo Gesù (cfr Mt 11,2-19), e il rimprovero per l’incredulità delle città del lago «nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi» (cfr Mt 11,20-24). Il giubilo quindi è visto da Matteo in relazione alle parole con cui Gesù constata l’efficacia della sua parola e della sua azione: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Mt 11,4-6).

Anche san Luca presenta l’Inno di giubilo in connessione con un momento di sviluppo dell’annuncio del Vangelo. Gesù ha inviato i «settantadue discepoli» (Lc 10,1) ed essi sono partiti con un senso di paura per il possibile insuccesso della loro missione. Anche Luca sottolinea il rifiuto incontrato nelle città in cui il Signore ha predicato e ha compiuto segni prodigiosi. Ma i settantadue discepoli tornano pieni di gioia, perché la loro missione ha avuto successo; essi hanno constatato che, con la potenza della parola di Gesù, i mali dell’uomo vengono vinti. E Gesù condivide la loro soddisfazione: «in quella stessa ora», in quel momento, Egli esultò di gioia.

Ci sono ancora due elementi che vorrei sottolineare. L’evangelista Luca introduce la preghiera con l’annotazione: «Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Gesù gioisce partendo dall’intimo di se stesso, in ciò che ha di più profondo: la comunione unica di conoscenza e di amore con il Padre, la pienezza dello Spirito Santo. Coinvolgendoci nella sua figliolanza, Gesù invita anche noi ad aprirci alla luce dello Spirito Santo, perché – come afferma l’apostolo Paolo - «(Noi) non sappiamo … come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili … secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27) e ci rivela l’amore del Padre. Nel Vangelo di Matteo, dopo l’Inno di Giubilo, troviamo uno degli appelli più accorati di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Gesù chiede di andare a Lui che è la vera sapienza, a Lui che è «mite e umile di cuore»; propone «il suo giogo», la strada della sapienza del Vangelo che non è una dottrina da imparare o una proposta etica, ma una Persona da seguire: Egli stesso, il Figlio Unigenito in perfetta comunione con il Padre.

Cari fratelli e sorelle, abbiamo gustato per un momento la ricchezza di questa preghiera di Gesù. Anche noi, con il dono del suo Spirito, possiamo rivolgerci a Dio, nella preghiera, con confidenza di figli, invocandolo con il nome di Padre, «Abbà». Ma dobbiamo avere il cuore dei piccoli, dei «poveri in spirito» (Mt 5,3), per riconoscere che non siamo autosufficienti, che non possiamo costruire la nostra vita da soli, ma abbiamo bisogno di Dio, abbiamo bisogno di incontrarlo, di ascoltarlo, di parlargli. La preghiera ci apre a ricevere il dono di Dio, la sua sapienza, che è Gesù stesso, per compiere la volontà del Padre sulla nostra vita e trovare così ristoro nelle fatiche del nostro cammino
Grazie.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana 

sabato 12 ottobre 2013

DOMINGO XXVIII, Tiempo Ord. C : San Lucas 17, 11-19: LOS DIEZ LEPROSOS DE EFRAÍN


LOS DIEZ LEPROSOS DE EFRAÍN






Van siempre entre montes, y montes bastante abruptos, por ciertos senderos por donde no pueden pasar carruajes, sino sólo hombres a pie o sobre cabalgaduras que son unos asnos robustos de montaña, más altos y más fuertes que los de las zonas menos escabrosas. Voy a hacer notar algo, que tal vez pueda parecer inútil, pero no importa, quiero hacerlo. Tanto en el vestir como en otras muchas cosas Samaría se diferencia de otros lugares. Una de ellas es la abundancia de perros, que no se ve en otras partes, y que me llama la atención, como se la llamó la presencia de cerdos en la Decápolis. Tal vez haya muchos perros, porque en Samaría hay muchos pastores y habrá muchos lobos en estos montes intransitables. Otra de las causas es que en Samaría generalmente los pastores están solos, al máximo con un muchacho, apacentando su propio rebaño, mientras que en otras partes hay más pastores que cuidan de grandes rebaños, propiedad de algún rico, el hecho es que cada pastor tiene su perro o más según el número de ovejas. Otra característica la forman estos asnos, que son tan altos como un caballo, robustos, hechos para escalar estos montes con una carga sobre los lomos, y aun cuando sea de leña, bajan lo mismo por estos maravillosos bosques cubiertos de árboles centenarios. Otra particularidad: la conducta de los habitantes que, sin ser "pecadores" como los tenían los judíos y galileos, son abiertos, francos, sin gazmoñería, sin todas esas cosas que tienen los demás. Además son hospitalarios. Esto que compruebo me hace pensarque la intención de la parábola del buen samaritano fue no solo hacer resaltar que el bueno y el malo existen por todas partes, en todos los lugares y en todas las razas, y que aun puede haber rectos de corazón entre los herejes, sino sobre todo para hacer resaltar las buenas costumbres de los samaritanos para con los necesitados. Se han quedado con el Pentateuco, pues oigo que hablan sólo de él y de ningún otro libro sagrado, pero la práctica, por lo menos para con el prójimo, mucho mejor que los otros con sus seiscientos trece preceptos, etc..
Los apóstoles hablan con el Maestro, y pese a que sean incorregiblemente israelitas, deben reconocer y alabar el espíritu que han encontrado en los habitantes de Siquén, los cuales, lo colijo por las conversaciones que oigo, invitaron a Jesús a que se quedase con ellos.

"A NOSOTROS LOS SAMARITANOS POR LO QUE SOMOS 
Y POR LO QUE FUIMOS NOS ODIAN, PERO A TI MUCHO MÁS. 
SU ODIO NO TIENE LÍMITES"

"¿Oíste" dice Pedro, cómo aseguraron que conocen el odio de los judíos? Dijeron: "A nosotros los samaritanos por lo que somos y por lo que fuimos nos odian, pero a Ti mucho más. Su odio no tiene límites"."
"Y qué bien dijo ese viejo: "En el fondo es justo que así sea, porque Tú no eres un hombre, sino el Mesías, el Salvador del mundo y por lo tanto el Hijo de Dios, porque solo un Dios puede salvar el mundo corrompido. Pues como no conoces límites ya que eres Dios, ni hay limitación en tu poder, en tu santidad y en tu amor, como también no tendrá límites tu victoria sobre el Mal, así también es natural que el Mal y el Odio, que son iguales entre sí, no conozcan límites contra Ti". Realmente dijo la verdad. ¡Y esto explica muchas cosas!" dice Zelote.
"¿Qué cosa explica según tú? Yo... yo afirmo que sólo dice que son unos tontos" interviene Tomás con tono decidido.
"No. La necedad sería una razón que excusase. Pero necios no lo son."
"Entonces, unos ebrios, ebrios de odio" replica Tomás.
"Ni siquiera eso. La embriaguez termina después de que pasó. Esta rabia no cede."
"¡Y que si se ha dejado echar encima! Tan grandes es, que... ya debería haberse acabado."
"Amigos, todavía no ha llegado ni a su mitad" dice Jesús calmadamente como si la mitad del odio no fuese su tormento.
"¿Aun no? ¡Pero si jamás nos dejan en paz!"
"Maestro, todavía no se convencen de que dije la verdad. La dije. ¡Que si la dije! Y vuelvo a afirmar que si hubierais sido vosotros, habríais caído todos en la trampa como cayó el Bautista. pero no lo lograrán porque yo vigilo..." dice Iscariote.
Jesús lo mira. Y también yo lo miro preguntándome, y hace algunos días que lo hago, si la conducta de Iscariote se debe a que realmente ha vuelto al camino del bien y del amor por su Maestro, a verse libre de fuerzas humanas y extra humanas que lo tenían maniatado, o se trate de un ardid refinado con que prepara el golpe final, una entrega mayor a los enemigos de Jesús y a Satanás. Judas es en verdad un ser completamente especial que no puede descifrarse. Sólo Dios puede entenderlo. Y Dios que es Jesús, corre un velo de misericordia y prudencia en todas sus acciones y en la personalidad de su apóstol... un velo que se romperá, iluminando completamente tantos "por qué", ahora misteriosos, cuando se abran los libros del cielo.

LOS APÓSTOLES ESTÁN TAN ENSIMISMADOS CON LA IDEA DE QUE EL
 ODIO DE LOS ENEMIGOS NO HA LLEGADO TODAVÍA A SU TÉRMINO, 
QUE NO HABLAN MÁS POR ALGÚN TIEMPO.

Los apóstoles están tan ensimismados con la idea de que el odio de los enemigos no ha llegado todavía a su término, que no hablan más por algún tiempo. Después, Tomás se dirige nuevamente a Zelote preguntándole: "Y entonces, si no son ebrios, ni necios; si su odio explica muchas cosas y no esta, ¿cuál es la explicación? ¿Qué son? No lo has dicho..."
"¿Qué son? Endemoniados. Lo que dicen de El lo son ellos. Esto explica su rabia que no conoce descanso, que cuanto más crece, tanto más se ve su fuerza. Dijo bien aquel samaritano. En El, Hijo del Padre y de María, Hombre y Dios, existe la infinitud de Dios y infinito es el Odio que se opone a esta perfecta Infinitud, aun cuando el Odio por su mismo ser no es perfecto, pues tan sólo lo es Dios en sus acciones. Pero si el Odio pudiese llegar al  abismo infernal contra el Mesías para abatirlo con todas las armas que arrancase a los Infiernos. El firmamento, que Dios gobierna, tiene un sol. Se levanta, irradia, desaparece dejando su lugar a un sol más pequeño que es la luna, y ésta, después de haber brillado, se oculta para dejar paso al sol. Los astros enseñan bien a los hombres. Y un ejemplo de ello es querer oponerse al Maestro. ¿Qué sucedería si la luna, cuando va a salir el sol, dijese: "No quiero ocultarme sino que regreso por el camino que vine"? Claro que chocaría contra él con gran horror y daño de todo lo creado. Esto pretenden hacer ellos, creyendo poder hacer añicos al Sol..."
"Es la lucha de las Tinieblas contra la Luz. La vemos cada día cuando amanece y oscurece. Las dos fuerzas que se disputan, que se apoderan a su vez de la tierra. Pero siempre son vencidas las tinieblas porque no son absolutas. Siempre emana un poco de luz, aun en las noches en que no se ve ningún astro.Parece como si el aire de por sí la crease en los infinitos espacios del firmamento y la derramase, aunque de un modo limitadísimo, para convencer a los hombres que los astros no han sido apagados. Yo afirmo que igualmente en estas tinieblas características del mal contra la Luz que es Jesús, siempre, pese a cualquier esfuerzo de las tinieblas, la Luz consolará a quien crea en Ella" dice Juan sonriendo en sus ideas; recogido en sí como si monologase.
Santiago de Alfeo tomo a su vez el pensamiento de Juan. "En los Libros el Mesías es llamado "Estrella de la mañana". Así pues El conocerá también una noche y -¡horror!- también nosotros la conoceremos. Conoceremos una noche, unas horas en que la Luz no se verá fuerte, sino que se verán triunfadoras las Tinieblas. Pero como El ha sido llamado Estrella de la mañana, y por esto excluye límite en el tiempo, yo afirmo que después de la noche transitoria El será una luz matinal, una luz fresca, virginal, que renovará el mundo, igual a la que vino, a la que sucedió al Caos en el primer día. Sí. ¡El mundo volverá a ser creado en su luz!"
"Vendrán maldición sobre los réprobos que han querido levantar sus manos para atacar a la Luz, repitiendo los errores antes cometidos, a partir de Lucifer hasta los profanadores del pueblo santo. Yeové deja libre al hombre en sus acciones, pero por amor del hombre mismo no permitirá que el Infierno salga vencedor."
"¡Qué consuelo! después de que los corazones han estado adormecidos, y parecíamos como tontos y tardos por vejez precoz. La sabiduría vuelve a florecer en nuestros labios. ¡No parecemos más nosotros! ahora torno a encontrar a Zelote y a Juan, los dos hermanos de otros tiempo" dice Iscariote congratulándose.
"No me parece que hayamos cambiado tanto que no parezcamos más nosotros mismos" afirma Pedro.
"Así ha sido. Todos. y tú el primero. Luego Simón y los otros, aun yo mismo. Si ha habido uno que fuese siempre idéntico a sí mismo, ha sido Juan."
"¡Umh! No sé en qué..."
"¿En qué? Taciturnos, como cansados, indiferentes, pensativos... Jamás habían vuelto a escucharse diálogos iguales, semejantes a los de otros tiempos y que tanto ayudan..."
"Para liarnos en disputas" dice Tadeo recordando cómo en realidad se convirtieron en altercados.
"No. Para formarnos. Porque no todos éramos como Natanael, ni como Simón, ni como vosotros los Alfeos, por nacimiento y sabiduría. y quien lo es menos aprende siempre de quien es más" replica Iscariote.
"Tienes razón... yo diría que lo más necesario es formarse rectamente, en justicia. Y de esto nos ha dado muy buenas lecciones Simón" contesta Tomás.
"¿Yo" Pero tú no ves bien. Soy el más necio de todos" replica Pedro.
"No, es verdad. Eres el que más has cambiado. En esto tiene razón Judas de Keriot. No existe casi en ti aquel Simón que conocí cuando vine a vosotros y que -perdóname- lo fuiste por mucho tiempo. A partir de las Encenias en que volví a encontrarte, no has hecho más que ir transformándote. Ahora eres... y voy a decirlo: más paternal y al mismo tiempo más austero. Compadeces a todos tus pobres hermanos, mientras que antes... Y se nota, por lo menos yo lo veo, lo que te cuesta. Y nunca como ahora, en que hablas y reprendes menos, nos infundes más respeto..."
"¡Pero, amigo mío, eres muy bueno al considerarme así!... Yo, fuera del amor que tengo por el Maestro y que cada día aumenta, no he cambiado en nada."
"Sí. Tomás tiene razón. Has cambiado mucho" aseguran varios.
"¡Bueno! vosotros lo aseguráis..." contesta Pedro levantando los hombros. Luego añade: "Tan sólo el juicio del Maestro puede ser atinado. Pero no quiero preguntárselo. Conoce mi debilidad y sabe que una alabanza mal proferida podría dañar mi corazón. Por esto no me alabaría, y lo hace bien. Comprendo cada vez mejor su corazón y su sistema, y veo que está en lo recto."

"PORQUE TIENES CORAZÓN RECTO Y PORQUE SIEMPRE AMAS MÁS.
 QUIEN TE HACE VER Y COMPRENDER ES TU AMOR POR MÍ. 
TU MAESTRO, EL VERDADERO Y MÁS GRANDE MAESTRO 
QUE TE HACE COMPRENDER A TU MAESTRO, ES EL AMOR" DICE JESÚS

"Porque tienes corazón recto y porque siempre amas más. Quien te hace ver y comprender es tu amor por Mí. Tu Maestro, el verdadero y más grande Maestro que te hace comprender a tu Maestro, es el amor" dice Jesús que hasta estos momentos había escuchado y callado.
"Creo que... puede contribuir también el dolor que llevo dentro..."
"¿Dolor? ¿De qué?" preguntan algunos.
"¡Eh! Por muchas cosas, que vienen a resumirse en una sola: lo que sufre el  Maestro... y el pensamiento de lo que sufrirá. No se puede ser tan distraído como los primeros días, tan distraído como niños que no entienden, ahora que se sabe lo que los hombres pueden ser capaces y de cómo se debe sufrir para salvarlo. ¡Ay! Todo lo creíamos fácil en los primeros días. Creíamos que bastaba con presentarnos para que todos acudiesen a nuestro lado. Creíamosque conquistar Israel y el mundo era como... arrojar la red en lugar abundante de peces.¡Pobres de nosotros! Me imagino que si no logra El hacer una buena presa, nosotros no haremos ninguna. Pienso que ellos son malos y que lo hacen sufrir. Y creo que esto sea el motivo del que hayamos cambiado en general..."
"Tienes razón. Por mi parte, así es" interviene Zelote.
"Por la mía también" van diciendo otros.
"Yo estaba muy tranquilo y por esto traté de... tener ayudas buenas. Pero me traicionaron... y vosotros me habéis comprendido... Yo no os comprendí. Creía que fueseis así por cansancio del espíritu, por desconfianza, desilusión..."
"Nunca he esperado glorias humanas, y por esto no he sufrido ninguna desilusión" replica Zelote.
"Mi hermano y yo lo querríamos ver victorioso, pero para su gloria. Lo hemos seguido al principio más bien por amor de familia, que por el de discípulos. Desde pequeños lo hemos seguido El era el menor de nosotros en edad, de nosotros los hermanos, pero siempre superior a nosotros..." dice Santiago con su admiración ilimitada por su Jesús.
"Si tenemos un dolor es que no todos los de la familia lo amamos en el espíritu y con el espíritu. Pero no somos los únicos en Israel en amarlo mal" dice Tadeo.
Judas Iscariote lo mira y tal vez hubiera hablado, pero lo distrae un grito que llega de un montecillo que domina el poblado que van costeando, tratando de encontrar el camino.

"¡JESÚS! ¡RABÍ! ¡JESÚS! ¡HIJO DE DAVID Y SEÑOR NUESTRO, 
TEN PIEDAD DE NOSOTROS!" GRITAN VARIOS LEPROSOS

"¡Jesús! ¡Rabí! ¡Jesús! ¡Hijo de David y Señor nuestro, ten piedad de nosotros!" 
"¡Leprosos! Vámonos, Maestro, sino la gente acudirá y hará que nos quedemos en sus casas" protestan los apóstoles.
Pero los leprosos que tiene la ventaja de estar arriba del sendero y por lo menos unos quinientos metros distantes de la población bajan cojeando veloces hacia Jesús, repitiendo su súplica.
"Entremos en la población, Maestro. Ellos no pueden" proponen algunos discípulos, pero otros replican. "Algunas mujeres se están ya asomando. Si entramos, evitaremos los leprosos, pero no que nos conozcan y nos detengan."
Y mientras están inciertos en lo que harán, los leprosos se acercan cada vez más a Jesús, que sin preocuparse de las advertencias de sus apóstoles, ha continuado caminando. Los apóstoles se resignan a seguirlo, mientras algunas mujeres con sus niños a los pechos, y alguno que otro anciano que ha quedado en el poblado, se acercan a ver, siempre guardando su distancia de los leprosos, que se detienen a algunos metros de Jesús y tornan a suplicar: "¡Jesús, ten piedad de nosotros!"
Los mira por un momento; luego, sin acercarse a este grupo de dolor, pregunta: "¿Sois de esta población?"
"No, Maestro. De diversos lugares. Sino que el monte donde estamos, que da a la parte del camino de Jericó, nos favorece..."

JESÚS CURA A LOS LEPROSOS

"Id, pues, al poblado cercano a vuestro monte y mostraos a los sacerdotes."
Jesús vuelve a caminar, haciéndose al lado de la vera del sendero para no tocar a los leprosos que lo miran acercarse sin tener otra cosa que una mirada de esperanza en sus pobres ojos enfermos. Jesús al llegar a ellos, levanta la mano y los bendice.
La gente del poblado, desilusionada, vuelve a sus casas... Los leprosos se entran de nuevo por el monte para ir a sus grutas o hacia el camino de Jericó.
"Hiciste bien en no curarlos. No nos hubiera dejado partir la gente..."
"Y es necesario llegar a Efraín antes de que anochezca."
Jesús camina y calla. Las curvas del camino que siguen la configuración del monte han ocultado ya el poblado.

UNO DE LOS LEPROSOS CANTA LAS ALABANZAS AL SEÑOR

Pero un grito llega: "¡Sea alabado el Dios Altísimo y su verdadero Mesías! ¡En El está todo el poder, sabiduría y piedad! ¡Alabado sea el Dios Altísimo que en El nos ha concedido la paz!. ¡Alabadlo, hombres todos de la Judea y Samaría, de la Galilea y de la Transjordania!. En las nieves del gran Hermón, sobre las quemadas rocas de la Idumea, en las arenas que bañan las ondas del Mar grande resuenen la alabanza al Altísimo y a su MesíasLa profecía de Balaam se ha cumplido. La Estrella de Jacob brilla en el cielo de una patria que ha reunido el verdadero Pastor. Ved que las promesas hechas a los patriarcas se han realizado. Oíd, oíd la palabra de Elías que nos amó. Escuchadla, pueblos de Palestina y comprendedlaNo se debe mas cojear por las dos partes, sino escoger a la luz del espíritu, y si el espíritu es recto, sabrá escoger bien. Este es el Señor. ¡Seguidlo! ¡Ah, hasta ahora hemos sido castigados porque no nos hemos esforzado en comprender! El hombre de Dios maldijo el falso altar cuando proféticamente dijo: "He aquí que nacerá de la casa de David un hijo llamado Yeosciué (Josías), que inmolará sobre el altar y quemará huesos humanos. Entonces el altar se hendirá hasta las profundidades de la tierra y las cenizas de la inmolación se esparcirán al norte y al sur, a oriente y hacia donde se oculta el sol". No queráis hacer como el necio de Ocozíasque mandó a consultar al dios de Acarón, estando el Altísimo en Israel. No queráis ser inferiores a la burra de Balaam que por su respeto al espíritu de luz, hubiera merecido vivir, mientras hubiera caído muerto el profeta que no veía. Ved la Luz que pasa entre nosotros. Abrid los ojos, vosotros ciegos del espíritu y mirad" y uno de los leprosos le sigue siempre más cerca aun por el camino principal al que ha llegado mostrando Jesús a los peregrinos.
Los apóstoles aturdidos, se vuelven dos o tres ordenando al leproso, que está completamente curado, que se calle. Y la última casi hasta lo amenazan.
Por un momento deja de levantar la voz y contesta a todos: "¡Y qué! ¿No queréis que glorifique las cosas que Dios ha obrado en mí? ¿Queréis que no lo bendiga?"
"Bendícelo en tu corazón, y cállate" le responden impacientes
"No. No puedo callar. Dios pone en mi boca las palabras" y con voz fuerte continúa: "Gente de los lugares vecinos, gente que por causalidad estáis pasando, deteneos a adorar al que reinará en el nombre del Señor. Me burlaba yo de muchas palabras, pero ahora las repito, porque veo que se realizan.Ved que todas las gentes se ponen en marcha y vienen cantando alabanzas al Señor por las estelas del mar, por los desiertos, por collados y montes. También nosotros, pueblo que ha caminado en las tinieblas, caminaremos hacia la gran Luz que ha nacido, a la vida, saliendo de la región de la muerte. Lobos,leopardos y leones como éramos, volveremos a nacer en el Espíritu del Señor y nos amaremos en El, a la sombra del Retoño de Yesé que se ha convertido en cedro, bajo el que se cobijen las naciones que El ha reunido de los cuatros puntos de la Tierra. Ved que llega el día en que los celos de Efraín terminarán porque no existen más Israel ni Judá, sino un solo reino: el del Mesías del SeñorVed que canto las alabanzas del Señor que me ha salvado y consolado.Ved que os digo que lo alabéis y vengáis a beber la salvación de la fuente del Salvador. ¡Hosanna! ¡Hosanna a las grandes maravillas que El hace! ¡Hosanna al Altísimo que ha puesto en medio de los hombres su Espíritu revistiéndolo de carne, para que fuese el Redentor!"
No se agota. La gente aumenta, se apiña, llena el camino. El que venía detrás corre; el que iba delante, regresa. La gente de un pequeño poblado, donde se han detenido, se une a los viajeros.
"Hazlo callar, Señor. Es samaritano. Así lo dice la gente. No debe hablar de Ti, si no permites que ni siquiera nosotros te precedamos predicándote" dicen inquietos los apóstoles.

"AMIGOS MÍOS, REPITO LAS PALABRAS QUE MOISÉS DIJO A JOSUÉ, 
HIJO DE NUM QUE SE LAMENTABA PORQUE ELDAD Y MEDAD
 PROFETIZABAN EN LOS CAMPAMENTOS: "¿ESTÁIS CELOSO DE MÍ?
 ¡OH, SI PROFETIZASE TODO EL PUEBLO, Y EL SEÑOR DIESE A TODOS 
SU ESPÍRITU!"

"Amigos míos, repito las palabras que Moisés dijo a Josué, hijo de Num que se lamentaba porque Eldad y Medad profetizaban en los campamentos: "¿Estáis celoso de mí? ¡Oh, si profetizase todo el pueblo, y el Señor diese a todos su espíritu!". Voy a detenerme y le diré que se vaya para daros contento."
Se detiene. Se vuelve. Llama a Sí al leproso curado, que corre y se postra delante besando el suelo.

LEVÁNTATE. ¿DÓNDE ESTÁN LOS DEMÁS? ¿NO ERAIS DIEZ? 
¿NO SINTIERON LOS OTROS NUEVE NECESIDAD DE DAR GRACIAS 
AL SEÑOR? 

"Levántate. ¿Dónde están los demás? ¿No erais diez? ¿No sintieron los otros nueve necesidad de dar gracias al Señor? De diez leprosos de los cuales uno es samaritano, ¿no hubo otro, fuera de este extranjero que sintiese el deber de regresar para dar gloria a Dios, antes de volverse a integrar a la vida y a la familia? Se le ha llamado "samaritano". No están más ebrios los samaritanos, pues que ven sin equívocos y corren por el camino de la Salvación sin tropezar. ¿Habla acaso la Palabra un lenguaje extraño, si lo entienden los extranjeros y no los de su pueblo?"
Paseo sus brillantes ojos sobre la multitud de todos los lugares de la Palestina que se encuentra presente. Nadie puede resistir esa mirada... Muchos inclinan la cabeza y suben sobre sus cabalgaduras, o continúan su camino alejándose...
Jesús inclina sus ojos sobre el samaritano arrodillado a sus pies. ¡Qué mirada tan dulce! Levanta la mano que tenía caída, y a manera de bendición dice: "Levántate y vete. Tu fe ha hecho más prodigios en tu corazón que en tu cuerpo. Continúa en la luz de Dios. Vete."
El hombre besa de nuevo el suelo y antes de levantarse suplica: "Dame un nombre, Señor. Un nombre nuevo porque todo es nuevo en mí y para siempre."
"¿En qué región nos encontramos?"
"En la de Efraín."

"LLÁMATE, PUES, EFRÉN DE HOY EN ADELANTE, PORQUE DOS VECES
 LA VIDA TE HA DADO LA VIDA. VETE."

"Llámate, pues, Efrén de hoy en adelante, porque dos veces la Vida te ha dado la vida. Vete."
El hombre se levanta y se va. la gente del lugar y algunos peregrinos quisieran que Jesús se detuviese, pero El los somete con su mirada que no es severa, antes bien muy dulce, pero que de ella deberá brotar una gran fuerza, porque nadie insiste en detenerle.
Jesús deja el camino sin entrar en el pobladucho, atraviesa un campo, luego un riachuelo, un sendero, y sube por el collado oriental, lleno de árboles y se interna con los suyos diciendo: "Para no perdernos, seguiremos el camino, pero sin salir del bosque. Después de aquella curva el camino sigue este monte. Encontraremos alguna cueva para dormir y al amanecer habremos pasado ya Efraín..."
VIII. 336-344

A. M. D. G. et B.V.M.