«In questo anno a Me consacrato, figli prediletti, vi invito a vegliare con Me, vostra Mamma Celeste, e con il mio castissimo sposo Giuseppe nella preghiera, nella fiducia e nell'attesa.
È la notte santa.
Quanta fatica durante il lungo percorso fino a Betlemme;
quanta sofferenza davanti ad ogni rifiuto di aprirci una porta;
quanta fiducia nel Padre che ci conduce per mano alla realizzazione del suo grande disegno di Amore.
Un disegno che si compie con il concorso di circostanze inattese che preparano l'evento di questo straordinario prodigio.
Il gesto pietoso di un pastore che indica una Grotta vicina;
l'aprirsi di una unica porta su un rifugio povero e disadorno;
l'umano affaccendarsi per rendere più ospitale il luogo;
soprattutto la nostra perfetta accettazione del Volere del Padre Celeste, che ha preparato una culla di povertà e di freddo al suo Unigenito Figlio che nasce.
Ma dolce al suo Cuore di Bambino appena nato è il mio caldo di amore,
e morbida culla sono le mie braccia che lo avvolgono di sconfinata tenerezza, e perle preziose diventano i miei baci materni, e manto regale sono per Lui i poveri panni con cui Io lo avvolgo.
All'improvviso la tenebra è penetrata da vivissima luce che piove dal cielo, il silenzio risuona di dolcissimi canti e di armonie celesti, la solitudine viene popolata da innumerevoli schiere di Angeli, mentre la notte si apre al Natale di un giorno che non conosce tramonto.
È la notte santa.
È la notte che per sempre ha vinto ogni tenebra.
È la notte che si apre a un annuncio di gioia che viene dal Cielo: "Vi do un annuncio che è di gioia per tutti: vi è nato un Salvatore che è Cristo Signore".
Oggi la notte avvolge ancora tutto il mondo e la tenebra si addensa sulla vita degli uomini e dei popoli.
È la tenebra della mancanza di fede, della ostinata ribellione, di un così grande rifiuto di Dio.
È il gelo del peccato che uccide nel cuore degli uomini ogni germoglio di vita e di amore.
È la povertà di un uomo tradito nella sua dignità, vilipeso e ridotto ad interiore schiavitù.
È il silenzio di Dio che pesa sul frastuono di voci e di grida, sul continuo diffondersi di parole e di immagini.
Ma, nella notte profonda di questo vostro secolo, ecco la mia Luce materna che sorge come aurora e si diffonde in ogni parte della terra.
Con la mia voce che in tanti luoghi vi faccio sentire; con la mia presenza che si fa più forte e straordinaria; con i miei messaggi che ormai diventano urgenti, nella notte santa di questo anno mariano, voglio ancora ripetere a tutti: Io sono l'aurora che prepara la nascita del sole luminoso di Cristo.
Un annuncio di gioia oggi voglio dare a tutti i miei figli: è ormai vicino il tempo del Suo glorioso ritorno!».
Il Serafico Padre San Francesco e la “Sua devozione al Natale del Signore e come voleva che in tale giorno si portasse soccorso a tutti”
Dalle Fonti Francescane apprendiamo che: “Francesco aveva per il Natale del Signore più devozione che per qualunque altra festività dell’anno. Invero, benché il Signore abbia operato la nostra salvezza nelle altre solennità, diceva il Santo che fu dal giorno della sua nascita che egli si impegnò a salvarci. E voleva che a Natale ogni cristiano esultasse nel Signore e per amore di lui, il quale ha dato a noi tutto se stesso, fosse gioiosamente generoso non solo con i bisognosi, ma anche con gli animali e gli uccelli. ” (FF 1669).
Il brano che in seguito riporto, tratto dalla “Vita Seconda di San Francesco d’Assisi” scritta dal beato Tommaso da Celano, ci fa conoscere quanta devozione avesse il Santo per questa Solennità, e quanto l’amore con cui Cristo ci ha amati venendo al mondo nella santa e umile famiglia di Nazareth povera di mezzi di sussistenza ma ricchissima, sovrabbondante di ogni bene spirituale, infiammasse ancor più Santo Francesco d’amore verso il Creatore e tutte le sue creature, e quanto desiderava che tutti potessero avere cibo in abbondanza; cosi come desiderava che i più ricchi saziassero i poveri e i mendicanti, questo ad imitazione del Signore che, generoso, ricco di ogni bontà, facendosi piccolo e povero, si è donato all’umanità bisognosa. Voleva in quel giorno abbondanza in tutto, come abbondante è l’amore del Signore.
LA SUA DEVOZIONE AL NATALE DEL SIGNORE E COME VOLEVA CHE IN TALE GIORNO Sl PORTASSE SOCCORSO A TUTTI
Al di sopra di tutte le altre solennità celebrava con ineffabile premura il Natale del Bambino Gesù, e chiamava festa delle feste il giorno in cui Dio, fatto piccolo infante, aveva succhiato ad un seno umano. Baciava con animo avido le immagini di quelle membra infantili, e la compassione del Bambino, riversandosi nel cuore, gli faceva anche balbettare parole di dolcezza alla maniera dei bambini. Questo nome era per lui dolce come un favo di miele in bocca. Un giorno i frati discutevano assieme se rimaneva l’obbligo di non mangiare carne, dato che il Natale quell’anno cadeva in venerdì. Francesco rispose a frate Morico: «Tu pecchi, fratello, a chiamare venerdì il giorno in cui è nato per noi il Bambino. Voglio che in un giorno come questo anche i muri mangino carne, e se questo non è possibile, almeno ne siano spalmati all’esterno.
Voleva che in questo giorno i poveri ed i mendicanti fossero saziati dai ricchi, e che i buoi e gli asini ricevessero una razione di cibo e di fieno più abbondante del solito. «Se potrò parlare all’imperatore — diceva — lo supplicherò di emanare un editto generale, per cui tutti quelli che ne hanno possibilità, debbano spargere per le vie frumento e granaglie, affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza».
Non poteva ripensare senza piangere in quanta penuria si era trovata in quel giorno la Vergine poverella. Una volta, mentre era seduto a pranzo, un frate gli ricordò la povertà della beata Vergine e l’indigenza di Cristo suo Figlio. Subito si alzò da mensa, scoppiò in singhiozzi di dolore, e col volto bagnato di lacrime mangiò il resto del pane sulla nuda terra. Per questo chiamava la povertà virtù regale, perché rifulse con tanto splendore nel Re e nella Regina. Infatti ai frati, che adunati a Capitolo gli avevano chiesto quale virtù rendesse una persona più amica a Cristo: « Sappiate–rispose, quasi aprendo il segreto del suo cuore–che la povertà è una via particolare di salvezza. Il suo frutto è molteplice, ma solo da pochi è ben conosciuto ».
Che gli psicofarmaci danneggiano il cervello è ormai accertato da tempo, anche dalla psichiatria ufficiale.
Da qualche tempo a questa parte è sempre più in aumento il numero incredibilmente alto delle persone danneggiate in modo invalidante e cronico in seguito all’assunzione prolungata di psicofarmaci.
Gli psicofarmaci producono danni al cervello di ogni persona che li assume e non soltanto delle persone affette da patologie psichiatriche gravi.
D’altra parte, gli studi neurologici ci insegnano che non appena una sostanza estranea entra in contatto col cervello determina degli effetti tossici, i quali si manifestano in modo immediato anche come effetti psicoattivi, cioè capaci di alterare l’attività mentale.
Tutti gli psicofarmaci danneggiano il cervello e possono causare disfunzioni generalizzate, perché le nostre funzioni cerebrali sono fortemente interconnesse e integrate fra di loro.
Il nostro cervello è strutturato in modo complesso e ogni sua singola parte dipende dal buon funzionamento delle altre.
E’ molto chiaro, dunque, che anche nello svolgimento delle singole funzioni esiste una sorta di reciproca interconnessione e integrazione.
Nelle persone che assumono psicofarmaci il cervello risulta danneggiato nelle più importanti funzioni mentali e psicologiche.
Gli Psicofarmaci danneggiano il cervello e questo accade perché viene aggredito, principalmente, il Lobo Frontale e il Sistema Limbico.
Il Sistema Limbico
Il Sistema Limbico è costituito da una serie di strutture cerebrali che includono l’Ippocampo, l’Amigdala, i Nuclei Talamici Anteriori e la Corteccia Limbica.
Proprio per questo motivo supporta molte funzioni psichiche come l’ emotività, il comportamento e la memoria a breve termine.
___________________________
Il Lobo Frontale
Il Lobo Frontale costituisce la parte anteriore del cervello e contiene l’area corticale motoria e la corteccia premotoria.
Qui risiede il comando dei movimenti del nostro corpo, oltre che l’elaborazione dei nostri pensieri e delle nostre idee.
___________________________
Ecco come funziona la somministrazione degli psicofarmaci…
Sei arrabbiato e non riesci a contenere la rabbia?… Basta un neurolettico per spegnere il cervello e non arrecare più disturbo agli altri!
Sei stanco e apatico?… Basta prendere una droga stimolante!
Sei depresso?… Basta prendere un tranquillante per addormentare il cervello e non pensare più alle tue angosce!
Il neurologo Oliver Sacks definisce le cure psicofarmacologiche una “Lobotomia Chimica”.
Purtroppo, gli psicofarmaci danneggiano il cervello soprattutto nei bambini e il loro utilizzo è sempre più in aumento.
Basta pensare al Ritalin, che è ritenuta la droga per i bambini e si ripercuote sul cervello in modo più potente della cocaina.
Quali sono i danni prodotti al cervello dall’assunzione di psicofarmaci?
Gli studi neurofisiologici dimostrano che le facoltà mentali e fisiche delle persone che assumono psicofarmaci vengono letteralmente distrutte e i danni prodotti ai centri principali della vita mentale sono irreversibilmente compromessi.
E’ noto, che nella maggior parte delle persone che assumono da tempo psicofarmaci insorge una malattia chiamata discinesia tardiva, la quale comporta una perdita, parziale o totale, del controllo delle funzioni motorie del corpo.
Cos’è la discinesia tardiva?
La discinesia tardiva è un disturbo del movimento e riguarda principalmente l’alterazione dei muscoli volontari.
I principali danni della discinesia tardiva sono a carico del sistema extrapiramidale dove risiedono un insieme di centri nervosi deputati al controllo diretto o indiretto della corretta azione motoria.
L’uso di psicofarmaci provoca un’alterazione delle funzioni della dopamina, che è un neurotrasmettitore prodotto dal cervello per trasmettere i messaggi fra le cellule cerebrali.
Oltre tutto la parte dove si sviluppa la discinesia non è circoscritta alle funzioni di controllo motorio ma si espande anche agli ingressi sensoriali.
Da questo danneggiamento ne deriva anche un appiattimento delle emozioni e una forma di apatia.
La discinesia tardiva si manifesta con movimenti involontari anomali, ripetitivi e stereotipati.
Si esprime in una sensazione di irrequietezza motoria o un’incapacità a rimanere fermi, che provoca spesso movimenti ripetuti.
È ben noto in neuro fisiologia che tutte le neurotossine sono agenti dannosi per le cellule nervose e producono danni cronici e irreversibili al cervello.
Ne consegue che tutti i tranquillanti provocano danni alle cellule cerebrali in modo tanto ovvio che si sono guadagnati il nome di “neurolettici”, che è l’ equivalente di neurotossine.
Concludendo
Le più recenti e sofisticate tecniche radiologiche hanno chiaramente e continuativamente mostrato che nelle persone che assumono psicofarmaci il cervello si restringe.
E’ da notare che gli effetti di atrofizzazione frontale del cervello in persone schizofreniche erano stati già rilevati in precedenza… Ma non erano stati correlati all’uso di farmaci neurolettici.
E’ ovvio che per gli psichiatri questa era la prova che lo schizofrenico è veramente schizofrenico nel cervello!
Ma ora con la nuova diagnostica strumentale neurofisiologica risulta chiaro che sono le “cure” psichiatriche ad ammalare il cervello!
RICORDIAMO
La Dipendenza da Psicofarmaci è una vera dipendenza psichica e fisica che si rinforza con l’assunzione continuativa e con la quantità eccessiva assunta.
Dobbiamo tenere in considerazione che molto dipende dai tempi e dalle modalità di assunzione a determinare le conseguenze psico-fisiche.
Particolarmente inducono dipendenza e serie conseguenze psicofisiche: gli Ansiolitici, come le Benzodiazepine, gli Antidepressivi, i Barbiturici e i Sonniferi.
Generalmente l’utilizzo prolungato e in dosi eccessive procurano stati confusionali e ottundimento nel pensiero.
-- Il 15 agosto 1222 nella piazza maggiore di Bologna si trovava Tommaso,
arcidiacono di Spalato in Dalmazia, e poi vescovo della stessa città, che in quel tempo era
studente a Bologna. Egli scrive una sua testimonianza importante nella Historia
Pontificum Salonitanorum et Spalatensium (1266), in cui descrive una predica che
Francesco avrebbe tenuto in quel giorno:
Mi trovavo, in quell’anno (1222) allo Studio di Bologna ed ho potuto ascoltare,
nella festa dell’Assunzione della beata Madre di Dio, il sermone che san Francesco tenne
sulla piazza antistante il palazzo comunale, ove era confluita, si può dire, quasi tutta la
città.
Questo era il tema prescelto: “Gli angeli, gli uomini, i demoni”. Parlò con tanta
chiarezza e proprietà di queste tre specie di creature razionali, che molte persone dotte,
che l’ascoltavano, furono piene di ammirazione per quel discorso di un uomo illetterato.
E tuttavia, non aveva stile di uno che predicasse ma di conversazione. In realtà, tutta la
sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di
nuovi patti di pace. Portava un abito dimesso: la persona era spregevole, la faccia senza
bellezza.
Eppure, Dio conferì alle sue parole tale efficacia, che molte famiglie signorili,
tra le quali il furore irriducibile di inveterate inimicizie era divampato fino allo
spargimento di tanto sangue, erano piegate a consigli di pace. Grandissime poi erano la
riverenza e la devozione della folla, al punto che uomini e donne si gettavano alla rinfusa
su di lui con bramosia di toccare almeno le frange del suo vestito o di impadronirsi di un
brandello dei suoi panni (FF 2252). --
Bologna era una dei grandi centri universitari dell’Europa medievale, insieme a
Parigi, Oxford, Cambridge, Salamanca, Padova, Napoli, Colonia. Era il centro dello
studio del diritto civile ed ecclesiastico. Sappiamo che i frati avevano una casa a
Bologna, e che frate Bonizo, che aiutò Francesco nella stesura della Regola Bollata,
aveva studiato diritto a Bologna. In questo periodo frate Antonio era diventato il primo
lettore di teologia ai frati nello studium di Bologna.
In questo centro di cultura Francesco
annunziò la Parola di Dio con franchezza e semplicità, e ottenne grandi frutti.
Entriamo nel periodo della sua vita in cui, dopo aver rinunziato al governo
dell’Ordine, era più libero per dedicarsi alla predicazione e a momenti lunghi di preghiera
solitaria negli eremi dell’Appennino italiano. Fu questo il periodo della maturazione
della sua scelta di vita, in cui capiva che l’Ordine aveva bisogno di un forte sostegno con
l’aiuto dei frati dotti e anche con una legislazione che poteva rispondere ai bisogni di un
Ordine ormai diffuso un po’ dappertutto.
L’anno 1223 è importante nella storia dell’Ordine, perché segna una tappa
decisiva nella legislazione dei Frati Minori con l’approvazione della Regola Bollata da
parte di Papa Onorio III il 29 novembre 1223.
Cerchiamo di dare un quadro sintetico
delle vicende che accompagnarono la stesura e la conferma della Regola, che doveva
rimanere come il progetto definitivo di vita evangelica di Francesco e dei suoi frati.
La stesura della Regola Bollata viene fatta all’eremo di Fonte Colombo nella
prima metà del 1223. Francesco vi ritirò con frate Leone e frate Bonizo da Bologna,
esperto nel diritto civile e canonico.
Secondo San Bonaventura, che cerchiamo di seguire qui per la sua descrizione abbastanza equilibrata dei fatti, Francesco, volle, prima di farla
approvare, ridurre a forma più compendiosa la Regola, che aveva steso con lunghe e
abbondanti citazioni del Vangelo (LM IV,11).
Bonaventura si riferisce alla Regola non
bollata, che abbiamo già visto, presentata ai frati nel 1221, dopo che Cesario da Speyer
l’aveva arricchita di numerose citazioni bibliche. Questa Regola, forse perché aveva più
l’apparenza di uno scritto spirituale che di un testo legislativo, non fu mai approvata dal
Papa.
Ecco perché Francesco ne prepara una più breve, nella solitudine dell’eremo di
Fonte Colombo.
Perciò, guidato dallo Spirito Santo, salì su un monte con due compagni e là,
digiunando a pane ed acqua, dettò la Regola, secondo quanto gli suggeriva lo Spirito
divino durante la preghiera. Disceso dal monte, la affidò da custodire al suo vicario.
Ma siccome questi, pochi giorni dopo gli disse che l’aveva perduta per trascuratezza, il
Santo tornò di nuovo nella solitudine e subito la rifece in tutto uguale alla precedente,
come se ricevesse le parole dalla bocca di Dio. Ottenne, poi, che venisse confermata,
come aveva desiderato, dal sopraddetto papa Onorio, nell’ottavo anno del suo
pontificato (LM IV,11).
La descrizione che dà Bonaventura è piena di simbolismo. Francesco sale su di
un “monte”, ma di fatto, Fonte Colombo si trova in zona collinare. Scrive la Regola due
volte. Francesco appare evidentemente come un nuovo Mosè, che promulga una nuova
legge dalla montagna, ma che deve ritornare perché la prima stesura viene “persa” dal
vicario (frate Elia), come le prime tavole di pietra del decalogo furono spezzate ai piedi
del Sinai e dovevano essere rifatte dal dito di Dio.
La Regola fu scritta come veniva
dettata dalla bocca di Dio, nello stesso modo in cui Mosè ricevette i dieci comandamenti
dalla bocca di Dio sul Sinai.
Che c’è di vero in questa descrizione? Anche se Bonaventura è ben documentato,
è assai evidente il suo intento di presentare Francesco come nuovo Mosè.
Tuttavia
qualche cosa sarebbe successo lì a Fonte Colombo, nel senso che la Regola non fu accolta
con entusiasmo da una certa sezione di frati. Le Fonti che provengono dall’ala
“spirituale” dell’Ordine, parlano addirittura di una forte tensione che si sviluppò tra
Francesco da una parte e i ministri, capeggiati da fra Elia, dall’altra. Addirittura non fu
vero che la prima stesura fu perduta, ma fu fatta sparire da Elia, con la speranza che
Francesco non l’avrebbe più riscritta.
Ma Francesco ritorna a Fonte Colombo e la
riscrive esattamente come la prima, con le medesime parole che Cristo gli detta.
Le Fonti che parlano di questo fatto sono la Compilatio Assisiensis 17, che
corrisponde a quello che dicono i Verba Sancti Francisci di frate Leone, e lo Speculum
Perfectionis 1. Riportiamo il testo di SP 1:
Il beato Francesco compose tre Regole: quella confermata, senza però la Bolla
pontificia, da papa Innocenzo III; un’altra più breve, che andò smarrita; quella infine
che papa Onorio III approvò con la Bolla, e dalla quale molte cose furono soppresse a
iniziativa dei ministri, contro il volere di Francesco.
Dopo che la seconda Regola composta dal beato Francesco andò perduta, egli
con frate Leone d’Assisi e frate Bonizo da Bologna salì sopra un monte, per comporre
un’altra Regola che egli dettò ispirato da Cristo.
Molti ministri si raccolsero allora intorno a frate Elia, vicario di Francesco e gli
dissero: “Siamo venuti a sapere che questo fratello Francesco fa una nuova Regola, e
abbiamo paura che la faccia troppo rigorosa, così che non possiamo osservarla. Vogliamo quindi che tu vada su da lui e gli dica che non intendiamo essere obbligati a
quella Regola; se proprio vuole, la componga per sé, non per noi”.
Rispose Elia che non voleva recarvisi, temendo la riprensione del beato
Francesco. Insistendo quelli perché ci andasse, rispose che non voleva andarci senza di
loro.
Ci andarono pertanto tutti insieme. Quando furono nei pressi del luogo ove
Francesco dimorava, frate Elia lo chiamò. Rispondendogli e vedendo il gruppo dei
ministri, Francesco domandò: “Cosa desiderano questi frati?” E frate Elia: “Questi
sono i ministri, che avendo saputo che stai facendo una nuova Regola e temendo che sia
troppo severa, dicono e protestano che non vogliono sentirsi obbligati ad essa, e perciò
tu la faccia per te, non per loro”.
Francesco rivolse la faccia al cielo, e parlò a Cristo così: “Signore, non ti dicevo
giustamente che non mi avrebbero creduto?” Allora tutti udirono nell’aria la voce di
Cristo che rispondeva: “Francesco, nulla vi è di tuo nella Regola, poiché tutto quello che
vi sta è mio. E voglio che sia osservata alla lettera, alla lettera, alla lettera, senza
commenti, senza commenti, senza commenti!” E soggiunse: “So bene quanto può la
fragilità umana e so in quale misura intendo aiutarli. Quelli dunque che non vogliono
osservarla, escano dall’Ordine”.
Allora il beato Francesco si volse a quei frati e disse: “Avete udito? Avete udito?
Volete che ve lo faccia ripetere?” I ministri, riconoscendo la propria colpa, si
allontanarono spaventati e confusi. (SP 1; CA 17).
Anche in questo testo abbiamo grosse difficoltà. Lo SP parla di tre Regole; la
prima è la protoregola del 1209/10, l’ultima è la Regola Bollata, che era la causa di
questo malinteso tra Francesco e i ministri. La seconda Regola viene chiamata “più
breve” e si dice che “andò smarrita”. Da quello che risulta la seconda Regola è quella del
1221, che di fatto è la più lunga e che non andò smarrita. Semmai era la protoregola del
1209/10 che andò smarrita.
Qui non entriamo nella questione intricata della formazione
della Regola Francescana, e seguiamo i dati certi che abbiamo, cioè una protoregola nel
1209/10, la Regola non Bollata nel 1221 e la Regola Bollata 1223. Il testo dello SP e
degli altri Fonti dall’ala “Zelante” dell’Ordine può essere pieno di elementi di natura
leggendaria, ma nasconde un nocciolo di verità, e cioè che la Regola fu concepita con
grande fatica da Francesco, e che non fu accolta sempre benevolmente dai frati dotti e
ministri dell’Ordine. La storia Francescana lungo i secoli è la prova di questa verità di
fondo che sta alla base di tutti i racconti che abbiamo visto, sia di quello più equilibrato di
Bonaventura, come di quelli più arditi delle Fonti “spirituali”.
La Regola Bollata fu discussa durante il capitolo generale dell’Ordine che si tenne
alla Porziuncola l’11 giugno 1223 e fu poi presentata da Francesco al Papa Onorio III, il
quale l’approvò con la Bolla Solet annuere del 29 novembre 1223. Il testo originale della
Regola Bollata è conservato come reliquia nella basilica inferiore di San Francesco in
Assisi, e questa è la Regola che tutti i frati Francescani del I Ordine osservano fino ad
oggi.
*
L’anno 1223 si concluse con la celebrazione del Natale del Signore nell’eremo di
Greccio, che non è molto lontano da Fonte Colombo, sempre sullo stesso versante della
Valle Reatina.
Il racconto è ben noto nelle Fonti, e riportiamo intero il racconto più
antico, che è quello di Tommaso da Celano nella Vita Sancti Francisci, 84-87:
83
A questo proposito è degno di perenne memoria e di devota celebrazione, quello
che il Santo realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del
Natale del Signore nostro Gesù Cristo.
C’era in quella contrada un uomo di nome
Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco
perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobilità
dello spirito che quella della carne.
Circa due settimane prima della festa della Natività,
il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: “Se vuoi che
celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei
rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del
corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato,
come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”.
Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel
luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo.
E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza!
Per l’occasione sono qui
convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della
regione, portando, ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare
quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e
i tempi.
Arriva alla fine Francesco, vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio,
ed è raggiante di letizia.
Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono
il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si
loda la povertà, si raccomanda l’umiltà.
Greccio è divenuto come una nuova Betlemme.
Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali. La gente
accorre e si allieta di un gaudio mai assoporato prima, davanti al nuovo mistero. La
selva risuona di voce e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte
lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia.
Il Santo è lì estatico di fronte
al presepio, pieno di sospiri, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile.
Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una
consolazione mai gustata prima.
Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, perché era diacono, e canta con
voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in
desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re
povero e la piccola città di Betlemme.
Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù,
infervorato di amore celeste lo chiamava “il Bambino di Betlemme”, e quel nome
“Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto,
producendo un suono come belato di pecora.
E ogni volta che diceva “Bambino di
Betlemme” o “Gesù” passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la
dolcezza di quelle parole.
Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e
uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione.
Gli sembrava che un bambino
giacesse privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicinasse e lo destasse da
quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, poiché il
fanciullo Gesù, che era stato dimenticato nel cuore di molti, per grazia di lui, veniva
risuscitato attraverso il servo suo, san Francesco, e il ricordo di lui rimaneva impresso
profondamente nella loro memoria.
Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a
casa sua pieno di ineffabile gioia.
Il fieno che era stato collocato nella mangiatoia fu conservato, perché per mezzo
di esso il Signore guarisse nella sua misericordia giumenti e altri animali ...
Oggi quel luogo è stato consacrato al Signore, e sopra il presepio è stato costruito un altare e
dedicata una chiesa ad onore di san Francesco, affinché là dove un tempo gli animali
hanno mangiato il fieno, ora gli uomini possano mangiare, come nutrimento dell’anima e
santificazione del corpo, la carne dell’Agnello immacolato e incontaminato, Gesù Cristo
nostro Signore, che con amore infinito ha donato se stesso per noi.
Il santuario francescano di Greccio è ancora oggi testimone di questo
avvenimento così famoso nella vita di San Francesco, come pure il piccolo castello di
Greccio, che sta a qualche distanza dall’eremo.
L’anno 1223 finisce con questo episodio
e dà inizio agli ultimi due anni di vita di San Francesco. Di fatto, anche Tommaso da
Celano, scrivendo la sua biografia di Francesco, termina la prima parte con il Natale di
Greccio, e dedica tutta la seconda parte agli avvenimenti successi nel 1224-1226, che
sono caratterizzati dall’evento della stimmatizzazione sul monte della Verna, dalle
malattie e sofferenze del santo, e dalla sua morte e glorificazione. ///
--------------------------------
DICE Papa Benedetto XVI:........Natale è epifania – il manifestarsi di Dio e della sua grande luce in un bambino che è nato per noi. Nato nella stalla di Betlemme, non nei palazzi dei re. Quando, nel 1223, San Francesco di Assisi celebrò a Greccio il Natale con un bue e un asino e una mangiatoia piena di fieno, si rese visibile una nuova dimensione del mistero del Natale. Francesco di Assisi ha chiamato il Natale “la festa delle feste” – più di tutte le altre solennità – e l’ha celebrato con “ineffabile premura” (2 Celano, 199: Fonti Francescane, 787). Baciava con grande devozione le immagini del bambinello e balbettava parole di dolcezza alla maniera dei bambini, ci racconta Tommaso da Celano (ivi). Per la Chiesa antica, la festa delle feste era la Pasqua: nella risurrezione, Cristo aveva sfondato le porte della morte e così aveva radicalmente cambiato il mondo: aveva creato per l’uomo un posto in Dio stesso. Ebbene, Francesco non ha cambiato, non ha voluto cambiare questa gerarchia oggettiva delle feste, l’interna struttura della fede con il suo centro nel mistero pasquale. Tuttavia, attraverso di lui e mediante il suo modo di credere è accaduto qualcosa di nuovo: Francesco ha scoperto in una profondità tutta nuova l’umanità di Gesù. Questo essere uomo da parte di Dio gli si rese evidente al massimo nel momento in cui il Figlio di Dio, nato dalla Vergine Maria, fu avvolto in fasce e venne posto in una mangiatoia. La risurrezione presuppone l’incarnazione. Il Figlio di Dio come bambino, come vero figlio di uomo – questo toccò profondamente il cuore del Santo di Assisi, trasformando la fede in amore. “Apparvero la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini”: questa frase di san Paolo acquistava così una profondità tutta nuova. Nel bambino nella stalla di Betlemme, si può, per così dire, toccare Dio e accarezzarlo. Così l’anno liturgico ha ricevuto un secondo centro in una festa che è, anzitutto, una festa del cuore.
Tutto ciò non ha niente di sentimentalismo.
Proprio nella nuova esperienza della realtà dell’umanità di Gesù si rivela il grande mistero della fede. Francesco amava Gesù, il bambino, perché in questo essere bambino gli si rese chiara l’umiltà di Dio.
Dio è diventato povero.
Il suo Figlio è nato nella povertà della stalla.
Nel bambino Gesù, Dio si è fatto dipendente, bisognoso dell’amore di persone umane, in condizione di chiedere il loro – il nostro – amore.
Oggi il Natale è diventato una festa dei negozi, il cui luccichio abbagliante nasconde il mistero dell’umiltà di Dio, la quale ci invita all’umiltà e alla semplicità. Preghiamo il Signore di aiutarci ad attraversare con lo sguardo le facciate luccicanti di questo tempo fino a trovare dietro di esse il bambino nella stalla di Betlemme, per scoprire così la vera gioia e la vera luce.
Sulla mangiatoia, che stava tra il bue e l’asino, Francesco faceva celebrare la santissima Eucaristia (cfr 1 Celano, 85: Fonti, 469). Successivamente, sopra questa mangiatoia venne costruito un altare, affinché là dove un tempo gli animali avevano mangiato il fieno, ora gli uomini potessero ricevere, per la salvezza dell’anima e del corpo, la carne dell’Agnello immacolato Gesù Cristo, come racconta il Celano (cfr 1 Celano, 87: Fonti, 471).
Nella Notte santa di Greccio, Francesco quale diacono aveva personalmente cantato con voce sonora il Vangelo del Natale. Grazie agli splendidi canti natalizi dei frati, la celebrazione sembrava tutta un sussulto di gioia (cfr 1 Celano, 85 e 86: Fonti, 469 e 470). Proprio l’incontro con l’umiltà di Dio si trasformava in gioia: la sua bontà crea la vera festa.
Chi oggi vuole entrare nella chiesa della Natività di Gesù a Betlemme, scopre che il portale, che un tempo era alto cinque metri e mezzo e attraverso il quale gli imperatori e i califfi entravano nell’edificio, è stato in gran parte murato. È rimasta soltanto una bassa apertura di un metro e mezzo. L’intenzione era probabilmente di proteggere meglio la chiesa contro eventuali assalti, ma soprattutto di evitare che si entrasse a cavallo nella casa di Dio.
Chi desidera entrare nel luogo della nascita di Gesù, deve chinarsi. Mi sembra che in ciò si manifesti una verità più profonda, dalla quale vogliamo lasciarci toccare in questa Notte santa: se vogliamo trovare il Dio apparso quale bambino, allora dobbiamo scendere dal cavallo della nostra ragione “illuminata”. Dobbiamo deporre le nostre false certezze, la nostra superbia intellettuale, che ci impedisce di percepire la vicinanza di Dio.
Dobbiamo seguire il cammino interiore di san Francesco – il cammino verso quell’estrema semplicità esteriore ed interiore che rende il cuore capace di vedere. Dobbiamo chinarci, andare spiritualmente, per così dire, a piedi, per poter entrare attraverso il portale della fede ed incontrare il Dio che è diverso dai nostri pregiudizi e dalle nostre opinioni: il Dio che si nasconde nell’umiltà di un bimbo appena nato. Celebriamo così la liturgia di questa Notte santa e rinunciamo a fissarci su ciò che è materiale, misurabile e toccabile. Lasciamoci rendere semplici da quel Dio che si manifesta al cuore diventato semplice. E preghiamo in quest’ora anzitutto anche per tutti coloro che devono vivere il Natale in povertà, nel dolore, nella condizione di migranti, affinché appaia loro un raggio della bontà di Dio; affinché tocchi loro e noi quella bontà che Dio, con la nascita del suo Figlio nella stalla, ha voluto portare nel mondo. Amen.
«Vivete con Me il mistero di questa Notte Santa, nel silenzio, nella preghiera, nell'attesa.
Partecipate alla gioia profonda della vostra Mamma Celeste, che si prepara a donarvi il suodivino Bambino.
Il Figlio che nasce da Me è anche il mio Dio.
Gesù è il Figlio unigenito del Padre; è il Verbo per cui tutto è stato creato; è Luce da Luce, Dio da Dio, consustanziale al Padre. Gesù è al di fuori del tempo: è eterno. Come Dio porta in se stesso la sintesi di tutte le perfezioni. Per mezzo di me questo Dio si fa vero uomo.
Nel mio seno verginale è avvenuta la sua umana concezione.
E nella notte santa nasce da Me in una grotta povera e disadorna; viene deposto in una fredda mangiatoia; è adorato da sua madre e dal suo padre legale; viene circondato dall'umile presenza dei pastori; è glorificato dalla schiera celeste degli Angeli, che cantano l'inno della gloria a Dio e della pace agli uomini da Lui amati e salvati.
Chinatevi con Me ad adorare Gesù Bambino appena nato: è l'Emmanuele, è il Dio con Noi.
- È il Dio con noi, perché nella divina persona di Gesù sono unite la natura divina e la natura umana. Nel Verbo incarnato si realizza la unità sostanziale della divinità e della umanità.
Come Dio, Gesù è al di sopra del tempo e dello spazio; è immutabile, è impassibile.
Ma come uomo, Gesù entra nel tempo, porta il limite dello spazio, soggiace a tutta la fragilità della natura umana.
- È il Dio con noi, che si fa uomo per la nostra salvezza.
In questa notte santa nasce per tutti il Salvatore e il Redentore.
La fragilità di questo divino Bambino diventa rimedio a tutta l'umana fragilità:
il suo pianto è sollievo ad ogni dolore;
la sua povertà è ricchezza per ogni miseria;
il suo dolore è conforto a tutti gli afflitti;
la sua mansuetudine è speranza per tutti i peccatori;
la sua bontà diviene salvezza per tutti i perduti.
- È il Dio con noi, che si fa redenzione e rifugio per tutta l'umanità.
Entrate con Me nella grotta luminosa del suo divino Amore.
Lasciatevi deporre da Me nella culla dolce e soave del suo Cuore, che ha appena incominciato a battere.
Chinatevi con Me, in estasi di sovrumana beatitudine, a sentire i suoi primi battiti. Ascoltate la divina armonia che da essi si sprigiona con note celestiali di amore, di gioia, di pace, che il mondo non ha mai conosciuto.
È un canto che ripete ad ogni uomo l'eterno e dolcissimo ritmo dell'amore: ti amo, ti amo, ti amo.
Ogni suo battito è un nuovo dono di amore per tutti.
Sentite con Me i suoi primi vagiti di pianto.
È il pianto di un Bimbo appena nato;
è il dolore di un Dio, che porta su di sé tutto il dolore del mondo.
- È il Dio con noi, perché, anche nella sua umana fragilità, Gesù è vero Dio. Gesù Cristo è Dio, al di fuori del mutare del tempo e della storia: è lo stesso ieri, oggi e sempre.
Durante questo anno in cui la Chiesa vi invita ad entrare nella contemplazione del mistero di Cristo, entrate tutti nel rifugio del mio Cuore Immacolato.
Come Mamma vi conduco a comprendere il grande dono di questa notte santa.
Il Padre ha tanto amato il mondo, da donargli il suo Figlio Unigenito, per la sua salvezza.
Lo Spirito Santo ha reso fecondo il mio seno verginale, perché il Figlio nato da Me è solo frutto prezioso della sua divina azione di Amore.
La vostra Mamma Celeste ha donato il suo assenso materno, perché si potesse compiere il divino prodigio di questa notte santa.
Figli prediletti, chinatevi con Me a baciare mio Figlio appena nato, e amate e adorate e ringraziate perché questo fragile Bambino è Dio fatto uomo, è l'Emmanuele, è il Dio con noi».