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giovedì 10 novembre 2022

La Regola bollata (1223) di San Francesco d'Assisi

La Regola bollata (1223) 

Onorio, vescovo, servo dei servi di Dio, ai diletti figli, a frate Francesco e agli altri frati dell’Ordine dei frati minori, salute e apostolica benedizione.
La Sede Apostolica suole accondiscendere ai pii voti e accordare benevolo favore agli onesti desideri dei richiedenti. Pertanto, diletti figli nel Signore, noi, accogliendo le vostre pie suppliche, vi confermiamo con l’autorità apostolica, la Regola del vostro Ordine, approvata dal nostro predecessore papa Innocenzo, di buona memoria e qui trascritta, e l’avvaloriamo con il patrocinio del presente scritto. La Regola è questa:

CAPITOLO I: NEL NOME DEL SIGNORE! INCOMINCIA LA VITA DEI FRATI MINORI – 
In nomine Domini incipit vita minorum fratrum: Regula et vita Minorum Fratrum haec est, scilicet Domini Nostri Jesu Christi sanctum Evangelium observare vivendo in obedientia, sine proprio et in castitate. Frater Franciscus promittit obedientiam et reverentiam domino papae Honorio ac successoribus eius canonice intrantibus et Ecclesiae Romanae. Et alii fratres teneantur fratri Francisco et eius sucessoribus obedire.
La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità.
Frate Francesco promette obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate Francesco e ai suoi successori.

CAPITOLO II: Dl COLORO CHE VOGLIONO INTRAPRENDERE QUESTA VITA E COME DEVONO ESSERE RICEVUTI – Se alcuni vorranno intraprendere questa vita e verranno dai nostri frati, questi li mandino dai loro ministri provinciali, ai quali soltanto e non ad altri sia concesso di ammettere i frati. I ministri, poi, diligentemente li esaminino intorno alla fede cattolica e ai sacramenti della Chiesa E se credono tutte queste cose e le vogliono fedelmente professare e osservare fermamente fino alla fine; e non hanno mogli o, qualora le abbiano, esse siano già entrate in monastero o abbiano dato loro il permesso con l’autorizzazione del vescovo diocesano, dopo aver fatto voto di castità; e le mogli siano di tale età che non possa nascere su di loro alcun sospetto; dicano ad essi la parola del santo Vangelo, che “vadano e vendano tutto quello che posseggono e procurino di darlo ai poveri” (Cfr. Mt 19,21). Se non potranno farlo, basta ad essi la buona volontà.
E badino i frati e i loro ministri di non essere solleciti delle loro cose temporali, affinché dispongano delle loro cose liberamente, secondo l’ispirazione del Signore. Se tuttavia fosse loro chiesto un consiglio i ministri abbiano la facoltà di mandarli da persone timorate di Dio, perché con il loro consiglio i beni vengano elargiti ai poveri.
Poi concedano loro i panni della prova cioè due tonache senza cappuccio e il cingolo e i pantaloni e il capperone fino al cingolo a meno che qualche volta ai ministri non sembri diversamente secondo Dio.
Terminato, poi, I’anno della prova, siano ricevuti all’obbedienza, promettendo di osservare sempre questa vita e Regola. E in nessun modo sarà loro lecito di uscire da questa Religione, secondo il decreto del signor Papa; poiché, come dice il Vangelo, “nessuno che mette la mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62).
E coloro che hanno già promesso obbedienza, abbiano una tonaca con il cappuccio e un’altra senza, coloro che la vorranno avere. E coloro che sono costretti da necessità possano portare calzature.
E tutti i frati si vestano di abiti vili e possano rattopparli con sacco e altre pezze con la benedizione di Dio. Li ammonisco, però, e li esorto a non disprezzare e a non giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso.

CAPITOLO III: DEL DIVINO UFFICIO E DEL DIGIUNO, E COME I FRATI DEBBANO ANDARE PER IL MONDO – I chierici recitino il divino ufficio, secondo il rito della santa Chiesa romana, eccetto il salterio, e perciò potranno avere i breviari.
l laici, invece, dicano ventiquattro Pater noster per il mattutino, cinque per le lodi; per prima, terza, sesta, nona, per ciascuna di queste ore, sette; per il Vespro dodici; per compieta sette; e preghino per i defunti.
E digiunino dalla festa di Tutti i Santi fino alla Natività del Signore. 6 La santa Quaresima, invece, che incomincia dall’Epifania e dura ininterrottamente per quaranta giorni, quella che il Signore consacrò con il suo santo digiuno , coloro che volontariamente la digiunano siano benedetti dal Signore, e coloro che non vogliono non vi siano obbligati. Ma l’altra, fino alla Resurrezione del Signore, la digiunino. 8 Negli altri tempi non siano tenuti a digiunare, se non il venerdì. 9 Ma in caso di manifesta necessità i frati non siano tenuti al digiuno corporale.
Consiglio invece, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo che, quando vanno per il mondo, non litighino ed evitino le dispute di parole (Cfr. 2Tm 2,14 e Tt 3,2), e non giudichino gli altri; ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti, così come conviene. E non debbano cavalcare se non siano costretti da evidente necessità o infermità 
In qualunque casa entreranno dicano, prima di tutto: Pace a questa casa (Lc 10,5); e, secondo il santo Vangelo, è loro lecito mangiare di tutti i cibi che saranno loro presentati (Lc 10,8).

CAPITOLO IV: CHE I FRATI NON RICEVANO DENARI – Comando fermamente a tutti i frati che in nessun modo ricevano denari o pecunia, direttamente o per interposta persona. Tuttavia, i ministri e i custodi, ed essi soltanto, per mezzo di amici spirituali, si prendano sollecita cura per le necessità dei malati e per vestire gli altri frati, secondo i luoghi e i tempi e i paesi freddi, così come sembrerà convenire alla necessità, salvo sempre il principio, come è stato detto, che non ricevano denari o pecunia.

CAPITOLO V: DEL MODO Dl LAVORARE – Quei frati ai quali il Signore ha concesso la grazia di lavorare, lavorino con fedeltà e con devozione  così che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, non spengano (Cfr. 1Ts 5,19) lo spirito della santa orazione e devozione, al quale devono servire tutte le altre cose temporaIi. Come ricompensa del lavoro ricevano le cose necessarie al corpo, per sé e per i loro fratelli, eccetto denari o pecunia, e questo umilmente, come conviene a servi di Dio e a seguaci della santissima povertà.

CAPITOLO VI: CHE I FRATI Dl NIENTE Sl APPROPRINO, E DEL CHIEDERE L’ELEMOSINA E DEI FRATI INFERMI – I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri (1Pt 2,11) in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. Questa è la sublimità dell’altissima povertà (Cfr. 2Cor 8,9) quella che ha costituito voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del regno dei cieli (Cfr. Gc 2,5), vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. Questa sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi (Cfr. Sal 141,6). E, aderendo totalmente a questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo.
E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro reciprocamente E ciascuno manifesti con fiducia all’altro le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale?
E se uno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi (Cfr. Mt 7,11).

CAPITOLO VII: DELLA PENITENZA DA IMPORRE Al FRATI CHE PECCANO – Se dei frati, per istigazione del nemico, avranno mortalmente peccato, per quei peccati per i quali sarà stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali, i predetti frati siano tenuti a ricorrere ad essi, quanto prima potranno senza indugio.
I ministri, poi, se sono sacerdoti, loro stessi impongano con misericordia ad essi la penitenza; se invece non sono sacerdoti, la facciano imporre da altri sacerdoti dell’Ordine, così come sembrerà ad essi più opportuno, secondo Dio.
E devono guardarsi dall’adirarsi e turbarsi per il peccato di qualcuno, perché l’ira ed il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri.

CAPITOLO VIII: DELLA ELEZIONE DEL MINISTRO GENERALE Dl QUESTA FRATERNITÀ E DEL CAPITOLO Dl PENTECOSTE – Tutti i frati siano tenuti ad avere sempre uno dei frati di quest’Ordine come ministro generale e servo di tutta la fraternità e a lui devono fermamente obbedire. Alla sua morte, l’elezione del successore sia fatta dai ministri provinciali e dai custodi nel Capitolo di Pentecoste, al quale i ministri provinciali siano tenuti sempre ad intervenire, dovunque sarà stabilito dal ministro generale; e questo, una volta ogni tre anni o entro un termine maggiore o minore, così come dal predetto ministro sarà ordinato.
E se talora ai ministri provinciali ed ai custodi all’unanimità sembrasse che detto ministro non fosse idoneo al servizio e alla comune utilità dei frati, i predetti frati ai quali è commessa l’elezione, siano tenuti, nel nome del Signore, ad eleggersi un altro come loro custode. Dopo il Capitolo di Pentecoste, i singoli ministri e custodi possano, se vogliono e lo credono opportuno, convocare, nello stesso anno, nei loro territori, una volta i loro frati a capitolo.

CAPITOLO IX: DEI PREDICATORI – I frati non predichino nella diocesi di alcun vescovo qualora dallo stesso vescovo sia stato loro proibito. E nessun frate osi affatto predicare al popolo, se prima non sia stato esaminato ed approvato dal ministro generale di questa fraternità e non abbia ricevuto dal medesimo l’ufficio della predicazione.
Ammonisco anche ed esorto gli stessi frati che, nella loro predicazione, le loro parole siano ponderate e caste (Cfr. Sal 11,7 e 17,31), a utilità e a edificazione del popolo, annunciando ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso, poiché il Signore sulla terra parlò con parole brevi (Cfr. Rm 9,22).

CAPITOLO X: DELL’AMMONIZIONE E DELLA CORREZIONE DEI FRATI. – I frati, che sono ministri e servi degli altri frati, visitino ed ammoniscano i loro frati e li correggano con umiltà e carità, non comandando ad essi niente che sia contro alla loro anima e alla nostra Regola.
I frati, poi, che sono sudditi, si ricordino che per Dio hanno rinnegato la propria volontà. Perciò comando loro fermamente di obbedire ai loro ministri in tutte quelle cose che promisero al Signore di osservare e non sono contrarie all’anima e alla nostra Regola.
E dovunque vi siano dei frati che si rendono conto e riconoscano di non poter osservare spiritualmente la Regola, debbano e possono ricorrere ai loro ministri. I ministri, poi, li accolgano con carità e benevolenza e li trattino con tale familiarità che quelli possano parlare e fare con essi così come parlano e fanno i padroni con i loro servi; infatti, così deve essere, che i ministri siano i servi di tutti i frati.
Ammonisco, poi, ed esorto nel Signore Gesù Cristo, che si guardino i frati da ogni superbia, vana gloria, invidia, avarizia (Cfr. Lc 12,15), cure o preoccupazioni di questo mondo (Cfr. Mt 13,22), dalla detrazione e dalla mormorazione.
E coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle, ma facciano attenzione che ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, di pregarlo sempre con cuore puro e di avere umiltà, pazienza nella persecuzione e nella infermità, e di amare quelli che ci perseguitano e ci riprendono e ci calunniano, poiché dice il Signore: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano (Mt 5,44); beati quelli che sopportano persecuzione a causa della giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,10). E chi persevererà fino alla fine, questi sarà salvo” (Mt 10,22).

CAPITOLO XI: CHE I FRATI NON ENTRINO NEI MONASTERI DELLE MONACHE – Comando fermamente a tutti i frati di non avere rapporti o conversazioni sospette con donne, e di non entrare in monasteri di monache, eccetto quelli ai quali è stata data dalla Sede Apostolica una speciale licenza.
Né si facciano padrini di uomini o di donne affinché per questa occasione non sorga scandalo tra i frati o riguardo ai frati.

CAPITOLO XII: Dl COLORO CHE VANNO TRA I SARACENI E TRA GLI ALTRI INFEDELI – Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. I ministri poi non concedano a nessuno il permesso di andarvi se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati.
Inoltre, impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità, affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella fede (Cfr. Col 1,23) cattolica, osserviamo la povertà, I’umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso.
Pertanto a nessuno, in alcun modo, sia lecito di invalidare questo scritto della nostra conferma o di opporsi ad esso con audacia e temerarietà. Se poi qualcuno presumerà di tentarlo, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio onnipotente e dei suoi beati apostoli Pietro e Paolo. Dal Laterano, il 29 novembre (1223), anno ottavo del nostro pontificato.
Fratelli, mentre abbiamo tempo
operiamo il Bene 
(Gal. 6, 10)


mercoledì 1 dicembre 2021

CONOSCIAMO E AMIAMO IL SERAFICO PADRE SAN FRANCESCO

 

Qual’è la vera devozione a San Francesco?

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San Francesco imbarca per la quinta crociata.

La parola italiana “devozione” viene dal verbo latino, « devovere » (cioè, consacrare). La devozione, in quanto relazione tra i pellegrini e i Santi, non è nient’altro che la fedeltà, la lealtà e la risoluzione nel seguire Cristo imitando il loro esempio ammirevole.

Il seguace devoto è colui che ha consacrato – ossia, dedicato – tutta la sua vita all’attività di discepolo. Nel linguaggio comune il devoto di un Santo è una persona che lo invoca ogni giorno e frequenta le celebrazioni, le chiese, le cappelle e i santuari costruiti in suo onore. Ma il seguace devoto, il discepolo devoto, è qualcosa di molto più grande. Per lui, l’imitazione del Santo è l’elemento fondamentale della sua esistenza, il fondamento della sua identità, la chiave per il suo destino personale in Cristo.

La devozione a San Francesco non è nient’altro che questa. La devozione che i figli di San Francesco dovrebbero avere non dovrebbe essere nient’altro che questa.

Si può imitare un Santo incorporando al proprio comportamento, ai propri ideali, alle proprie abitudini, ai propri costumi, elementi tratti dalla sua vita e dalle sue virtù. Ma tale devozione opera solo a livello materiale. Esattamente come, nella filosofia aristotelica, la causa materiale è subordinata alla causa formale, anche la devozione a elementi particolari associati alla vita e ai tempi di un Santo è subordinata alla vera devozione.

La vera devozione a un Santo necessita un’unione formale del cuore e della mente col Santo stesso. Non esiste imitazione più grande per il discepolo che diventare una sola cosa col suo maestro. Nostro Signore ha insegnato questo tipo di devozione quando ha detto ai Suoi discepoli: “Nessun discepolo è più grande del suo maestro; un discepolo deve rallegrarsi di essere come il suo maestro”.

Dunque, la vera devozione a un Santo deve trascendere la devozione materiale, poiché quest’ultima non arriva a incorporare la verità in Cristo che i Santi sono mezzi e non fini per l’imitazione di Cristo Gesù, l’Unico Maestro di tutti. Imitare veramente un Santo significa pertanto fare propri il suo stesso desiderio, la sua stessa saggezza e risolutezza nel seguire e imitare Cristo. In tal modo, la devozione a un Santo si transfigura in un’autentica vita di perfezione cristiana.

La vera devozione a San Francesco, perciò, non deve sforzarsi di raggiungere o di ammirare solamente lo spirito del Poverello e del suo stile di vita. La vera devozione a San Francesco deve amare quel che Egli amava con l’amore e il proposito con cui egli lo ha amato.

Ora, le fonti storiche sulla vita di San Francesco delineano chiaramente qual era l’amore preminente nel cuore di San Francesco. Egli stesso dichiarò, la mattina del 24 febbraio 1208, alla Porziuncola, vicino ad Assisi: “Questo è ciò che voglio; questo è ciò che io anelo con tutto il mio cuore”.

Il Santo pronunciò queste parole riferendosi a quel passaggio della Scrittura che il sacerdote gli aveva appena spiegato, e che era stato letto quella mattina nella Messa in onore di San Mattia Apostolo. Si trattava dell’invio degli Apostoli da parte di Nostro Signore e della fondazione della vita apostolica di mendicità: “Non prendete nulla con voi nel cammino…”.

La fiducia illimitata da parte del discepolo nei confronti del maestro che questo stile di vita richiede fu il marchio fondamentale della spiritualità e della consacrazione religiosa del Poverello d’Assisi. Questa è la chiave della sua vita e del suo amore per Cristo Crocifisso.

Ne segue pertanto che la vera devozione a San Francesco necessita quest’adozione fondamentale dello stile di vita della mendicità in tutto il suo rigore e in tutta la sua semplicità, non perché San Francesco l’abbia adottato, ma perché Cristo l’ha insegnato. Non per diventare un discepolo di San Francesco, ma piuttosto per camminare col Santo in questa vita per diventare un perfetto discepolo di Gesù Cristo Nostro Signore.

Tale devozione non richiede quindi altro che un ritorno all’osservanza risoluta dei precetti della Regola di San Francesco. Questo è lo stile di vita che il Santo ha voluto espressamente tramandare ai suoi figli come eredità e retaggio perpetui. Questa Regola incarna semplicemente e rigorosamente i principi della vita di mendicità che Cristo ha insegnato agli Apostoli. Questo è l’insegnamento di Papa Niccolò III e di Clemente V.

Essere un autentico figlio di San Francesco significa perciò essere un osservante della Regola. Una persona che trova l’essenza e la forma della sua vita, della sua vocazione e del suo carisma, non nelle costituzioni o negli statuti o nei costumi della comunità francescana a cui appartenga; ma piuttosto, una persona che trova l’essenza e la forma della sua vita consacrata e della sua vocazione, e finanche la sua vera identità e il suo vero destino, nella Regola di San Francesco, considerandola l’autentica disciplina che può guidare, giorno dopo giorno, la sua vita personale e il suo apostolato.

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Cos’è « l’osservanza antica » della Regola di San Francesco?

san+francesco+accoglie+frati+miniaturaL’osservanza antica della Regola Bollata di San Francesco d’Assisi è la forma di vita ispirata di Gesù Cristo, scritta dalle mani di San Francesco, approvata da Papa Onorio III il 26 Novembre 1223 e confermata da più che 20 papi.  Essa è la forma di vita originaria della vita Francescana che non si osserva in nessun altra comunità religiosa in tutto il mondo.

Questa vita è distinta dal non uso dei soldi, il non avere di proprietà sia personale sia in comune, il portare indosso del saio francescano sempre e ovunque ecc., della predica dei quattro nuovissimi: in somma, dalla osservanza di tutti i precetti della Regola Bollata di San Francesco senza mitigazioni.

Deo Volente, un giorno [non molto lontano, dopo la fine dei tempi malvagi] l’abbreviazione per indicare questi frati sarà [o potrebbe essere] « O.F.M. A.O. », cioè, l’Ordine di Frati Minori dell’Osservanza Antica. Così sia! Fiat, fiat. Amen!

Per il testo Latino originale e una traduzione letterale italiana, eccolo.

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Torniamo a seguire le orme del nostro Serafico Patriarca

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Sono passati ottocento anni da quando Dio Altissimo si è degnato di rivolgere il Suo sguardo al Suo servo Francesco per chiamarlo a una vita di semplicità evangelica. In un primo momento, tramite la visione miracolosa a San Damiano, durante i primi giorni dell’inverno del 1206; poi, durante la festa di San Mattia, il 24 febbraio 1209, quando San Francesco, che aveva l’abitudine di assistere ogni giorno al Santissimo Sacrificio della Messa nella chiesa della Vergine Regina degli Angeli alla Porziuncola, nella vallata sottostante al paese di Assisi, in Italia, udì con le sue orecchie il Vangelo dell’invio dei discepoli e rimase dopo la celebrazione per chiedere al sacerdote di spiegargliene il significato. Dopo aver compreso il significato di questo brano della Scrittura, il Serafico Padre esclamò con gioia: Questo è ciò che voglio, questo è ciò che anelo con tutto il mio cuore!

Che gran giorno fu quello, che giorno pieno di speranza fu per tutti i figli e le figlie del Poverello! Possiamo scorrere le innumerevoli pagine degli anni e tornare indietro a quel giorno meraviglioso e sorprendente in cui un uomo così umile, Francesco di Bernardone, che desiderava con tutta la sua anima e il suo corpo seguire il Signore Gesù, intraprese la vita evangelica in un modo straordinario e apostolico, mettendo in pratica le parole del Vangelo in modo letterale. Perché a partire da quel giorno San Francesco fece ciò che Nostro Signore comandò: non prese nulla con sé, né oro né argento, né una seconda tunica, né un bastone né una bisaccia, e cominciò una vita di completa, intera e perfetta dedizione al servizio di Gesù Cristo nella Sua Chiesa, predicando il pentimento ai peccatori e offrendo opere di carità ai lebbrosi e ai poveri.

Che giorni pieni di speranza sono quelli per tutti noi Francescani! Possiamo vedere che ciò che ha reso San Francesco così grande è qualcosa a cui non solo possiamo aspirare, ma che possiamo tutti ottenere, perché a San Francesco fu concesso dalla grazia di Dio, che Egli, nella Sua impenetrabile misericordia e generosità, si è degnato di concedere anche a noi, tramite la nostra vocazione, e verso cui e in cui possiamo camminare e progredire, se solo vogliamo seguire le orme del nostro Serafico Padre, San Francesco.

Umiliamoci, dunque, e camminiamo ancóra una volta con nostro Padre. Mostriamoci suoi figli ascoltando le sue parole e osservando la sua Regola. Imitiamo soprattutto la sua semplicità nella sua fede nel Vangelo, che era pari a quella di un bambino, come lo era il suo distacco da tutti gli interessi e le ambizioni mondani.

Sì, la grazia grande e consolatrice che è stata concessa a San Francesco in quei giorni gloriosissimi e meravigliosi è a nostra disposizione e a disposizione dell’intero Ordine: è sufficiente che allunghiamo le mani per riceverla, e che apriamo i nostri cuori per accettarla.

E non siamo soli, perché nel Cielo che ci sovrasta è schierata, insieme al nostro gloriosissimo Patriarca, San Francesco, l’intera compagnia dei Martiri e delle Vergini, dei Dottori e dei Vescovi, dei Sacerdoti e dei Fratelli Francescani, e delle Povere Clarisse, delle Sorelle e dei membri del Terz’Ordine che regnano oggi con Cristo nella Gloria eterna. I membri di questa schiera ci guardano dal Cielo con i loro cuori pieni di misericordia e affetto, con le loro mani piene di grazie per ciascuno di noi, se soltanto vogliamo riceverle.

Ma se dobbiamo celebrare degnamente questi anni di grazie, possiamo farlo solamente aprendo i nostri cuori con la disposizione ad accettare le stesse grazie che stiamo commemorando. E possiamo aprire i nostri cuori solo se torniamo all’umiltà di San Francesco; poiché, se è vero che Dio dà la Sua grazia all’umile e respinge l’orgoglioso, con quanta maggior ragione San Francesco e tutta la compagnia dei Santi Francescani ci offrirà delle grazie quando ci umilieremo e metteremo da parte il nostro orgoglio.

Ciò che rende necessario l’aprirci a questa speranza è oggi, sventuratamente, la coscienza del fatto che lo stato dell’Ordine, in tutte le sue comunità, è affardellato da molti problemi, da molti peccati, da molti vizi, da molti scandali, da molte imperfezioni, dalla sfiducia, dal dissenso, dall’infedeltà, dalla carnalità, da molte concupiscenze, da molti desideri carnali, da molta mondanità.

Sì, è un giorno triste quello che vede l’Ordine incapace di celebrare degnamente l’ottocentesimo anniversario della conversione di San Francesco: incapace, perché le tormente della storia e l’infedeltà dei suoi leader l’hanno sospinto ben lontano dalla semplicità evangelica, dalla Regula Bullata e dalla purezza e semplicità di San Francesco.

Ma per questa stessa ragione è anche un giorno e un anno pieno di speranza. Perché in nessuna epoca come la presente l’Ordine ha avuto tanto bisogno di ricevere di nuovo la grazia della conversione personale del suo Serafico fondatore.

Quest’anno, facciamoci un dovere di lasciarci rinnovare nella grazia della nostra vocazione francescana. Ascoltiamo il consiglio di un grande Santo Francescano, San Bonaventura, che ci mostra il cammino. Egli scrive: ubi est reformatio, ibi est conformatio et informatio [I. Sent., d. 17, p. I, a. unic, q. 1, sed contra 2.]

Vale a dire, laddove cè bisogno di una riforma delle anime, è necessario tornare all’Ideale da cui, originariamente, si è ricevuta la vocazione, ed accettarlo.

E se ci sono dubbi su quale sia l’Ideale da cui abbiamo ricevuto la nostra vocazione, e unicamente nel quale essa può vivere, muoversi ed esistere, non dobbiamo far altro che rivolgere lo sguardo a quell’evento trasformatore nella vita del nostro Serafico Padre, un evento che lo ha marcato per sempre con il Sigillo della Passione stessa del Cristo: le sante stimmate.

Il nostro Ideale è Cristo Crocifisso. Ciò non vuol dire che ci possiamo considerare in alcun senso comparabili a Lui, Che trascende il tempo e lo spazio essendone lo stesso Creatore, Che stringe nelle Sue mani tutto l’universo e tutte le ere, Che è adorato dalle miriadi degli Angeli e dalla formidabile compagnia dei Santi. No, ma piuttosto, come figli di San Francesco, siamo chiamati a seguire spiritualmente le orme della Sua Sanguinosa Passione, che Egli ha sofferto come Uomo, ascoltando i Suoi consigli:

 Se non rinneghi te stesso, non puoi essere Mio discepolo!

— Cerca in primo luogo il Regno di Dio e la Sua Giustizia!

— Se non farete penitenza perirete tutti allo stesso modo!

Quando il Poverello, sulla montagna della Verna, è stato marcato con le sante stimmate, era come una massa di cera sciolta che ha ricevuto il Sigillo dell’Anello del Regno Eterno, e quindi egli reca per sempre il marchio di Cristo e dirige ora il Coro dei Santi nell’eterna lode del Cristo Crocifisso. L’intero proposito della sua vocazione, dunque, era quello di far rivivere nei cuori degli uomini sulla terra la memoria vivida e la viva devozione del Cristo Crocifisso, di tutto quanto Egli ha fatto, detto e sofferto per noi; e di corrispondere veramente a tutto ciò tramite il pentimento, la penitenza, la riforma della vita e della morale e la costruzione del Suo Regno, la Chiesa.

Ne segue che, dato che la vocazione di San Francesco è la nostra, anche noi dobbiamo aprire i nostri cuori per accettare il sigillo del Regno, tramite il nostro vivo pentimento, tramite le nostre rigide penitenze, tramite un’autentica riforma della nostra vita e della nostra morale, e tramite una generosa offerta di noi stessi per l’opera di costruzione del Regno di Dio, la Chiesa Cattolica.

E se ciò deve essere fatto, dobbiamo in tutta umiltà riconoscere gli ostacoli che si ergono di fronte a noi oggi: che le Costituzioni della nostra comunità aggiustano attualmente la semplicità evangelica alle convenienze moderne e ad ogni forma di egoismo personale; che i nostri programmi di formazione permettono e incentivano il dissenso, l’eresia, l’immoralità e ogni sorta di vizio, invece di richiedere e imporre in modo estremamente rigido una riforma della morale e degli ideali in ciascuno di noi, un rigoroso programma di penitenza per ciascuno di noi e per la comunità, ed opere di carità che siano consone ed armoniose con essi, coscienti del fatto che il progresso autentico non è dato da questo mondo, ma da quella stessa conversione e penitenza a cui il Vangelo e San Francesco ci chiamano.

Se il nostro Serafico Padre ci parlasse oggi, individualmente e come comunità, non c’è dubbio che griderebbe con tutte le sue forze:  << Penitenza! Penitenza! Penitenza! Sii un esempio di penitenza nella tua comunità, nella Chiesa e nel mondo! Io venni chiamato a questo, per essere un araldo di penitenza per il mondo, e ciò è quel che desidero, con ardente anelo, da tutti voi, miei figli e mie figlie! 

Penitenza! Penitenza! Penitenza! Tornate alla fede; tornate alla giusta morale! Tornate alle tradizioni spirituali e corporali del mio Ordine! Seguite le mie orme e quelle dei vostri Santi fratelli e delle vostre Sante sorelle che vi hanno preceduto! Mettete da parte il mondo e le persone mondane, siate sobri, cambiate i vostri cuori e tornate a me e al mio esempio! 

Non vi lasciate ingannare! Avete vagabondato a lungo in una terra deserta, pieni di fame per cose che non potranno mai soddisfarvi! Pentitevi e date una svolta radicale alle vostre vite, tornate alla terra in cui scorrono fiumi di latte e miele! Alla terra della fede, della penitenza, della mortificazione, e del Vangelo vivente! Non lasciatevi sedurre, perché l’amore del denaro è la radice di tutti i mali, e voi vi siete saziati abbondantemente di essa! Allontanatela di tra di voi insieme a tutti i suoi desideri! 

Siate di nuovo miei figli e mie figlie! Non scendete a compromessi con il mondo, con la carne e con il diavolo!  >>

FRATRES: 

DUM TEMPUS HABEMUS OPEREMUR BONUM

mercoledì 25 agosto 2021

REGOLA BOLLATA -1223- E' la seconda Regola di san Francesco d'Assisi

 


REGOLA BOLLATA  -1223-

[74a] Onorio, vescovo, servo dei servi di Dio, ai diletti figli, frate Francesco e agli altri frati dell'Ordine dei frati minori, salute e apostolica benedizione. 

La Sede Apostolica suole accondiscendere ai pii voti e accordare benevolo favore agli onesti desideri dei richiedenti. Pertanto, diletti figli nel Signore, noi, accogliendo le vostre pie suppliche, vi confermiamo con l'autorità apostolica, la Regola del vostro Ordine, approvata dal nostro predecessore papa Innocenzo, di buona memoria e qui trascritta, e l'avvaloriamo con il patrocinio del presente scritto. La Regola è questa: 

CAPITOLO I [74] NEL NOME DEL SIGNORE! INCOMINCIA LA VITA DEI FRATI MINORI 

[75] La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità. [76] Frate Francesco promette obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate Francesco e ai suoi successori. 

CAPITOLO II Dl COLORO CHE VOGLIONO INTRAPRENDERE QUESTA VITA E COME DEVONO ESSERE RICEVUTI [77] Se alcuni vorranno intraprendere questa vita e verranno dai nostri frati, questi li mandino dai loro ministri provinciali, ai quali soltanto e non ad altri sia concesso di ammettere i frati. I ministri, poi, diligentemente li esaminino intorno alla fede cattolica e ai sacramenti della Chiesa. E se credono tutte queste cose e le vogliono fedelmente professare e osservare fermamente fino alla fine; e non hanno mogli o, qualora le abbiano, esse siano già entrate in monastero o abbiano dato loro il permesso con l'autorizzazione del vescovo diocesano, dopo aver fatto voto di castità; e le mogli siano di tale età che non possa nascere su di loro alcun sospetto; dicano ad essi la parola del santo Vangelo, che “vadano e vendano tutto quello che posseggono e procurino di darlo ai poveri”. Se non potranno farlo, basta ad essi la buona volontà. [78] E badino i frati e i loro ministri di non essere solleciti delle loro cose temporali, affinché dispongano delle loro cose liberamente, secondo l'ispirazione del Signore. Se tuttavia fosse loro chiesto un consiglio i ministri abbiano la facoltà di mandarli da persone timorate di Dio, perché con il loro consiglio i beni vengano elargiti ai poveri. [79] Poi concedano loro i panni della prova cioè due tonache senza cappuccio eä il cingolo e i pantaloni e il capperone fino al cingolo a meno che qualche volta ai ministri non sembri diversamente secondo Dio. [80] Terminato, poi, I'anno della prova, siano ricevuti all'obbedienza, promettendo di osservare sempre questa vita e Regola. E in nessun modo sarà loro lecito di uscire da questa Religione, secondo il decreto del signor Papa; poiché, come dice il Vangelo, “nessuno che mette la mano all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio”. [81] E coloro che hanno già promesso obbedienza, abbiano una tonaca con il cappuccio e un'altra senza, coloro che la vorranno avere. E coloro che sono costretti da necessità possano portare calzature. E tutti i frati si vestano di abiti viliä e possano rattopparli con sacco e altre pezze con la benedizione di Dio. Li ammonisco, però, e li esorto a non disprezzare e a non giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso. 



CAPITOLO III DEL DIVINO UFFICIO E DEL DIGIUNO, E COME I FRATI DEBBANO ANDARE PER IL MONDO [82] I chierici recitino il divino ufficio, secondo il rito della santa Chiesa romana, eccetto il salterio, e perciò potranno avere i breviari. [83] l laici, invece, dicano ventiquattro Pater noster per il mattutino, cinque per le lodi; per prima, terza, sesta, nona, per ciascuna di queste ore, sette; per il Vespro dodici; per compieta sette; e preghino per i defunti. [84] E digiunino dalla festa di Tutti i Santi fino alla Natività del Signore. La santa Quaresima, invece, che incomincia dall'Epifania e dura ininterrottamente per quaranta giorni, quella che il Signore consacrò con il suo santo digiuno , coloro che volontariamente la digiunano siano benedetti dal Signore, e coloro che non vogliono non vi siano obbligati. Ma l'altra, fino alla Resurrezione del Signore, la digiunino. Negli altri tempi non siano tenuti a digiunare, se non il venerdì. Ma in caso di manifesta necessità i frati non siano tenuti al digiuno corporale. [85] Consiglio invece, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo che, quando vanno per il mondo, non litighino ed evitino le dispute di parole, e non giudichino gli altri; ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti, così come conviene. E non debbano cavalcare se non siano costretti da evidente necessità o infermità [86] In qualunque casa entreranno dicano, prima di tutto: Pace a questa casa; e, secondo il santo Vangelo, è loro lecito mangiare di tutti i cibi che saranno loro presentati. 

CAPITOLO IV CHE I FRATI NON RICEVANO DENARI [87] Comando fermamente a tutti i frati che in nessun modo ricevano denari o pecunia, direttamente o per interposta persona. Tuttavia, i ministri e i custodi, ed essi soltanto, per mezzo di amici spirituali, si prendano sollecita cura per le necessità dei malati e per vestire gli altri frati, secondo i luoghi e i tempi e i paesi freddi, così come sembrerà convenire alla necessità, salvo sempre il principio, come è stato detto, che non ricevano denari o pecunia. 



CAPITOLO V DEL MODO Dl LAVORARE [88] Quei frati ai quali il Signore ha concesso la grazia di lavorare, lavorino con fedeltà e con devozione così che, allontanato l'ozio, nemico dell'anima, non spengano lo spirito della santa orazione e devozione, al quale devono servire tutte le altre cose temporaIi. Come ricompensa del lavoro ricevano le cose necessarie al corpo, per sé e per i loro fratelli, eccetto denari o pecunia, e questo umilmente, come conviene a servi di Dio e a seguaci della santissima povertà. 

CAPITOLO Vl [89] CHE I FRATI Dl NIENTE Sl APPROPRINO, E DEL CHIEDERE L'ELEMOSINA E DEI FRATI INFERMI [90] I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l'elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. Questa è la sublimità dell'altissima povertà quella che ha costituito voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del regno dei cieli, vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. Questa sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi. E, aderendo totalmente a questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo. [91] E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro reciprocamente. E ciascuno manifesti con fiducia all'altro le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale? [92] E se uno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi. 

CAPITOLO Vll [93] DELLA PENITENZA DA IMPORRE Al FRATI CHE PECCANO. Se dei frati, per istigazione del nemico, avranno mortalmente peccato, per quei peccati per i quali sarà stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali, i predetti frati siano tenuti a ricorrere ad essi, quanto prima potranno senza indugio. [94] I ministri, poi, se sono sacerdoti, loro stessi impongano con misericordia ad essi la penitenza; se invece non sono sacerdoti, la facciano imporre da altri sacerdoti dell'Ordine, così come sembrerà ad essi più opportuno, secondo Dio. [95] E devono guardarsi dall'adirarsi e turbarsi per il peccato di qualcuno, perché l'ira ed il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri. 

CAPITOLO Vlll [96] DELLA ELEZIONE DEL MINISTRO GENERALE Dl QUESTA FRATERNITÀ E DEL CAPITOLO Dl PENTECOSTE. Tutti i frati siano tenuti ad avere sempre uno dei frati di quest'Ordine come ministro generale e servo di tutta la fraternità e a lui devono fermamente obbedire. Alla sua morte, l'elezione del successore sia fatta dai ministri provinciali e dai custodi nel Capitolo di Pentecoste, al quale i ministri provinciali siano tenuti sempre ad intervenire, dovunque sarà stabilito dal ministro generale; e questo, una volta ogniä tre anni o entro un termine maggiore o minore, così come dal predetto ministro sarà ordinato. [97] E se talora ai ministri provinciali ed ai custodi all'unanimità sembrasse che detto ministro non fosse idoneo al servizio e alla comune utilità dei frati, i predetti frati ai quali è commessa l'elezione, siano tenuti, nel nome del Signore, ad eleggersi un altro come loro custode. Dopo il Capitolo di Pentecoste, i singoli ministri e custodi possano, se vogliono e lo credono opportuno, convocare, nello stesso anno, nei loro territori, una volta i loro frati a capitolo. 

CAPITOLO IX DEI PREDICATORI [98] I frati non predichino nella diocesi di alcun vescovo qualora dallo stesso vescovo sia stato loro proibito. E nessun frate osi affatto predicare al popolo, se prima non sia stato esaminato ed approvato dal ministro generale di questa fraternità e non abbia ricevuto dal medesimo l'ufficio della predicazione. [99] Ammonisco anche ed esorto gli stessi frati che, nella loro predicazione, le loro parole siano ponderate e caste, a utilità e a edificazione del popolo, annunciando ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso, poiché il Signore sulla terra parlò con parole brevi. 

CAPITOLO X DELL'AMMONIZIONE E DELLA CORREZIONE DEI FRATI. [100] I frati, che sono ministri e servi degli altri frati, visitino ed ammoniscano i loro frati e li correggano con umiltà e carità, non comandando ad essi niente che sia contro alla loro anima e alla nostra Regola. [101] I frati, poi, che sono sudditi, si ricordino che per Dio hanno rinnegato la propria volontà. Perciò comando loro fermamente di obbedire ai loro ministri in tutte quelle cose che promisero al Signore di osservare e non sono contrarie all'anima e alla nostra Regola. [102] E dovunque vi siano dei frati che si rendono conto e riconoscano di non poter osservare spiritualmente la Regola, debbano e possono ricorrere ai loro ministri. I ministri, poi, li accolgano con carità e benevolenza e li trattino con tale familiarità che quelli possano parlare e fare con essi così come parlano e fanno i padroni con i loro servi; infatti, così deve essere, che i ministri siano i servi di tutti i frati. [103] Ammonisco, poi, ed esorto nel Signore Gesù Cristo, che si guardino i frati da ogni superbia, vana gloria, invidia, avarizia, cure o preoccupazioni di questo mondo, dalla detrazione e dalla mormorazione. [104] E coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle, ma facciano attenzione che ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, di pregarlo sempre con cuore puro e di avere umiltà, pazienza nella persecuzione e nella infermità, e di amare quelli che ci perseguitano e ci riprendono e ci calunniano, poiché dice il Signore: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano; beati quelli che sopportano persecuzione a causa della giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli. E chi persevererà fino alla fine, questi sarà salvo”. 

CAPITOLO Xl CHE I FRATI NON ENTRINO NEI MONASTERI DELLE MONACHE [105] Comando fermamente a tutti i frati di non avere rapporti o conversazioni sospette con donne, e di non entrare in monasteri di monache, eccetto quelli ai quali è stata data dalla Sede Apostolica una speciale licenza. [106] Né si facciano padrini di uomini o di donne affinché per questa occasione non sorga scandalo tra i frati o riguardo ai frati. 

CAPITOLO Xll Dl COLORO CHE VANNO TRA I SARACENI E TRA GLI ALTRI INFEDELI 

[107] Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. I ministri poi non concedano a nessuno il permesso di andarvi se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati. 

[108] Inoltre, impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità, [109] affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, I'umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso. 

[109a] Pertanto a nessuno, in alcun modo, sia lecito di invalidare questo scritto della nostra conferma o di opporsi ad esso con audacia e temerarietà. Se poi qualcuno presumerà di tentarlo, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio onnipotente e dei suoi beati apostoli Pietro e Paolo. Dal Laterano, il 29 novembre 1223, anno ottavo del nostro pontificato. 


AMDG et DVM

venerdì 22 dicembre 2017

In verità: OGNI GIORNO E' NATALE: giorno della letizia, tempo dell’esultanza!

22 dicembre A.D. 2017 - Terzo Millennio dopo C.
Capitolo 14 
LA REGOLA BOLLATA DEL 1223 
E IL NATALE A GRECCIO 

-- Il 15 agosto 1222 nella piazza maggiore di Bologna si trovava Tommaso, arcidiacono di Spalato in Dalmazia, e poi vescovo della stessa città, che in quel tempo era studente a Bologna. Egli scrive una sua testimonianza importante nella Historia Pontificum Salonitanorum et Spalatensium (1266), in cui descrive una predica che Francesco avrebbe tenuto in quel giorno: 

Mi trovavo, in quell’anno (1222) allo Studio di Bologna ed ho potuto ascoltare, nella festa dell’Assunzione della beata Madre di Dio, il sermone che san Francesco tenne sulla piazza antistante il palazzo comunale, ove era confluita, si può dire, quasi tutta la città. 

Questo era il tema prescelto: “Gli angeli, gli uomini, i demoni”. Parlò con tanta chiarezza e proprietà di queste tre specie di creature razionali, che molte persone dotte, che l’ascoltavano, furono piene di ammirazione per quel discorso di un uomo illetterato. E tuttavia, non aveva stile di uno che predicasse ma di conversazione. In realtà, tutta la sostanza delle sue parole mirava a spegnere le inimicizie e a gettare le fondamenta di nuovi patti di pace. Portava un abito dimesso: la persona era spregevole, la faccia senza bellezza. 
Eppure, Dio conferì alle sue parole tale efficacia, che molte famiglie signorili, tra le quali il furore irriducibile di inveterate inimicizie era divampato fino allo spargimento di tanto sangue, erano piegate a consigli di pace. Grandissime poi erano la riverenza e la devozione della folla, al punto che uomini e donne si gettavano alla rinfusa su di lui con bramosia di toccare almeno le frange del suo vestito o di impadronirsi di un brandello dei suoi panni (FF 2252). --

Bologna era una dei grandi centri universitari dell’Europa medievale, insieme a Parigi, Oxford, Cambridge, Salamanca, Padova, Napoli, Colonia. Era il centro dello studio del diritto civile ed ecclesiastico. Sappiamo che i frati avevano una casa a Bologna, e che frate Bonizo, che aiutò Francesco nella stesura della Regola Bollata, aveva studiato diritto a Bologna. In questo periodo frate Antonio era diventato il primo lettore di teologia ai frati nello studium di Bologna. 
In questo centro di cultura Francesco annunziò la Parola di Dio con franchezza e semplicità, e ottenne grandi frutti. 

Entriamo nel periodo della sua vita in cui, dopo aver rinunziato al governo dell’Ordine, era più libero per dedicarsi alla predicazione e a momenti lunghi di preghiera solitaria negli eremi dell’Appennino italiano. Fu questo il periodo della maturazione della sua scelta di vita, in cui capiva che l’Ordine aveva bisogno di un forte sostegno con l’aiuto dei frati dotti e anche con una legislazione che poteva rispondere ai bisogni di un Ordine ormai diffuso un po’ dappertutto. 

L’anno 1223 è importante nella storia dell’Ordine, perché segna una tappa decisiva nella legislazione dei Frati Minori con l’approvazione della Regola Bollata da parte di Papa Onorio III il 29 novembre 1223. 

Cerchiamo di dare un quadro sintetico delle vicende che accompagnarono la stesura e la conferma della Regola, che doveva rimanere come il progetto definitivo di vita evangelica di Francesco e dei suoi frati. La stesura della Regola Bollata viene fatta all’eremo di Fonte Colombo nella prima metà del 1223. Francesco vi ritirò con frate Leone e frate Bonizo da Bologna, esperto nel diritto civile e canonico. 

Secondo San Bonaventura, che cerchiamo di seguire qui per la sua descrizione abbastanza equilibrata dei fatti, Francesco, volle, prima di farla approvare, ridurre a forma più compendiosa la Regola, che aveva steso con lunghe e abbondanti citazioni del Vangelo (LM IV,11). 

Bonaventura si riferisce alla Regola non bollata, che abbiamo già visto, presentata ai frati nel 1221, dopo che Cesario da Speyer l’aveva arricchita di numerose citazioni bibliche. Questa Regola, forse perché aveva più l’apparenza di uno scritto spirituale che di un testo legislativo, non fu mai approvata dal Papa. 

Ecco perché Francesco ne prepara una più breve, nella solitudine dell’eremo di Fonte Colombo. Perciò, guidato dallo Spirito Santo, salì su un monte con due compagni e là, digiunando a pane ed acqua, dettò la Regola, secondo quanto gli suggeriva lo Spirito divino durante la preghiera. Disceso dal monte, la affidò da custodire al suo vicario. Ma siccome questi, pochi giorni dopo gli disse che l’aveva perduta per trascuratezza, il Santo tornò di nuovo nella solitudine e subito la rifece in tutto uguale alla precedente, come se ricevesse le parole dalla bocca di Dio. Ottenne, poi, che venisse confermata, come aveva desiderato, dal sopraddetto papa Onorio, nell’ottavo anno del suo pontificato (LM IV,11). 

La descrizione che dà Bonaventura è piena di simbolismo. Francesco sale su di un “monte”, ma di fatto, Fonte Colombo si trova in zona collinare. Scrive la Regola due volte. Francesco appare evidentemente come un nuovo Mosè, che promulga una nuova legge dalla montagna, ma che deve ritornare perché la prima stesura viene “persa” dal vicario (frate Elia), come le prime tavole di pietra del decalogo furono spezzate ai piedi del Sinai e dovevano essere rifatte dal dito di Dio. 

La Regola fu scritta come veniva dettata dalla bocca di Dio, nello stesso modo in cui Mosè ricevette i dieci comandamenti dalla bocca di Dio sul Sinai. Che c’è di vero in questa descrizione? Anche se Bonaventura è ben documentato, è assai evidente il suo intento di presentare Francesco come nuovo Mosè. 
Tuttavia qualche cosa sarebbe successo lì a Fonte Colombo, nel senso che la Regola non fu accolta con entusiasmo da una certa sezione di frati. Le Fonti che provengono dall’ala “spirituale” dell’Ordine, parlano addirittura di una forte tensione che si sviluppò tra Francesco da una parte e i ministri, capeggiati da fra Elia, dall’altra. Addirittura non fu vero che la prima stesura fu perduta, ma fu fatta sparire da Elia, con la speranza che Francesco non l’avrebbe più riscritta. 

Ma Francesco ritorna a Fonte Colombo e la riscrive esattamente come la prima, con le medesime parole che Cristo gli detta. Le Fonti che parlano di questo fatto sono la Compilatio Assisiensis 17, che corrisponde a quello che dicono i Verba Sancti Francisci di frate Leone, e lo Speculum Perfectionis 1. Riportiamo il testo di SP 1: 

Il beato Francesco compose tre Regole: quella confermata, senza però la Bolla pontificia, da papa Innocenzo III; un’altra più breve, che andò smarrita; quella infine che papa Onorio III approvò con la Bolla, e dalla quale molte cose furono soppresse a iniziativa dei ministri, contro il volere di Francesco. Dopo che la seconda Regola composta dal beato Francesco andò perduta, egli con frate Leone d’Assisi e frate Bonizo da Bologna salì sopra un monte, per comporre un’altra Regola che egli dettò ispirato da Cristo. 

Molti ministri si raccolsero allora intorno a frate Elia, vicario di Francesco e gli dissero: “Siamo venuti a sapere che questo fratello Francesco fa una nuova Regola, e abbiamo paura che la faccia troppo rigorosa, così che non possiamo osservarla. Vogliamo quindi che tu vada su da lui e gli dica che non intendiamo essere obbligati a quella Regola; se proprio vuole, la componga per sé, non per noi”. 

Rispose Elia che non voleva recarvisi, temendo la riprensione del beato Francesco. Insistendo quelli perché ci andasse, rispose che non voleva andarci senza di loro. 

Ci andarono pertanto tutti insieme. Quando furono nei pressi del luogo ove Francesco dimorava, frate Elia lo chiamò. Rispondendogli e vedendo il gruppo dei ministri, Francesco domandò: “Cosa desiderano questi frati?” E frate Elia: “Questi sono i ministri, che avendo saputo che stai facendo una nuova Regola e temendo che sia troppo severa, dicono e protestano che non vogliono sentirsi obbligati ad essa, e perciò tu la faccia per te, non per loro”. Francesco rivolse la faccia al cielo, e parlò a Cristo così: “Signore, non ti dicevo giustamente che non mi avrebbero creduto?” Allora tutti udirono nell’aria la voce di Cristo che rispondeva: “Francesco, nulla vi è di tuo nella Regola, poiché tutto quello che vi sta è mio. E voglio che sia osservata alla lettera, alla lettera, alla lettera, senza commenti, senza commenti, senza commenti!” E soggiunse: “So bene quanto può la fragilità umana e so in quale misura intendo aiutarli. Quelli dunque che non vogliono osservarla, escano dall’Ordine”. Allora il beato Francesco si volse a quei frati e disse: “Avete udito? Avete udito? Volete che ve lo faccia ripetere?” I ministri, riconoscendo la propria colpa, si allontanarono spaventati e confusi. (SP 1; CA 17). 

Anche in questo testo abbiamo grosse difficoltà. Lo SP parla di tre Regole; la prima è la protoregola del 1209/10, l’ultima è la Regola Bollata, che era la causa di questo malinteso tra Francesco e i ministri. La seconda Regola viene chiamata “più breve” e si dice che “andò smarrita”. Da quello che risulta la seconda Regola è quella del 1221, che di fatto è la più lunga e che non andò smarrita. Semmai era la protoregola del 1209/10 che andò smarrita. 

Qui non entriamo nella questione intricata della formazione della Regola Francescana, e seguiamo i dati certi che abbiamo, cioè una protoregola nel 1209/10, la Regola non Bollata nel 1221 e la Regola Bollata 1223. Il testo dello SP e degli altri Fonti dall’ala “Zelante” dell’Ordine può essere pieno di elementi di natura leggendaria, ma nasconde un nocciolo di verità, e cioè che la Regola fu concepita con grande fatica da Francesco, e che non fu accolta sempre benevolmente dai frati dotti e ministri dell’Ordine. La storia Francescana lungo i secoli è la prova di questa verità di fondo che sta alla base di tutti i racconti che abbiamo visto, sia di quello più equilibrato di Bonaventura, come di quelli più arditi delle Fonti “spirituali”. 

La Regola Bollata fu discussa durante il capitolo generale dell’Ordine che si tenne alla Porziuncola l’11 giugno 1223 e fu poi presentata da Francesco al Papa Onorio III, il quale l’approvò con la Bolla Solet annuere del 29 novembre 1223. Il testo originale della Regola Bollata è conservato come reliquia nella basilica inferiore di San Francesco in Assisi, e questa è la Regola che tutti i frati Francescani del I Ordine osservano fino ad oggi. 
*


L’anno 1223 si concluse con la celebrazione del Natale del Signore nell’eremo di Greccio, che non è molto lontano da Fonte Colombo, sempre sullo stesso versante della Valle Reatina. 

Il racconto è ben noto nelle Fonti, e riportiamo intero il racconto più antico, che è quello di Tommaso da Celano nella Vita Sancti Francisci, 84-87: 83 A questo proposito è degno di perenne memoria e di devota celebrazione, quello che il Santo realizzò tre anni prima della sua gloriosa morte, a Greccio, il giorno del Natale del Signore nostro Gesù Cristo. 

C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobilità dello spirito che quella della carne. 

Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo. 

E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! 

Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando, ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. 
Arriva alla fine Francesco, vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. 

Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. 

Greccio è divenuto come una nuova Betlemme. Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali. La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assoporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voce e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia. 

Il Santo è lì estatico di fronte al presepio, pieno di sospiri, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima. 
Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali, perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme. 

Spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava “il Bambino di Betlemme”, e quel nome “Betlemme” lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. 
E ogni volta che diceva “Bambino di Betlemme” o “Gesù” passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole. 
Vi si manifestano con abbondanza i doni dell’Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. 
Gli sembrava che un bambino giacesse privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicinasse e lo destasse da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, poiché il fanciullo Gesù, che era stato dimenticato nel cuore di molti, per grazia di lui, veniva risuscitato attraverso il servo suo, san Francesco, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria. 
Terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia. Il fieno che era stato collocato nella mangiatoia fu conservato, perché per mezzo di esso il Signore guarisse nella sua misericordia giumenti e altri animali ... 

Oggi quel luogo è stato consacrato al Signore, e sopra il presepio è stato costruito un altare e dedicata una chiesa ad onore di san Francesco, affinché là dove un tempo gli animali hanno mangiato il fieno, ora gli uomini possano mangiare, come nutrimento dell’anima e santificazione del corpo, la carne dell’Agnello immacolato e incontaminato, Gesù Cristo nostro Signore, che con amore infinito ha donato se stesso per noi. 

Il santuario francescano di Greccio è ancora oggi testimone di questo avvenimento così famoso nella vita di San Francesco, come pure il piccolo castello di Greccio, che sta a qualche distanza dall’eremo. 

L’anno 1223 finisce con questo episodio e dà inizio agli ultimi due anni di vita di San Francesco. Di fatto, anche Tommaso da Celano, scrivendo la sua biografia di Francesco, termina la prima parte con il Natale di Greccio, e dedica tutta la seconda parte agli avvenimenti successi nel 1224-1226, che sono caratterizzati dall’evento della stimmatizzazione sul monte della Verna, dalle malattie e sofferenze del santo, e dalla sua morte e glorificazione.  ///
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DICE Papa Benedetto XVI: ........Natale è epifania – il manifestarsi di Dio e della sua grande luce in un bambino che è nato per noi. Nato nella stalla di Betlemme, non nei palazzi dei re. Quando, nel 1223, San Francesco di Assisi celebrò a Greccio il Natale con un bue e un asino e una mangiatoia piena di fieno, si rese visibile una nuova dimensione del mistero del Natale. Francesco di Assisi ha chiamato il Natale “la festa delle feste” – più di tutte le altre solennità – e l’ha celebrato con “ineffabile premura” (2 Celano, 199: Fonti Francescane, 787). Baciava con grande devozione le immagini del bambinello e balbettava parole di dolcezza alla maniera dei bambini, ci racconta Tommaso da Celano (ivi). Per la Chiesa antica, la festa delle feste era la Pasqua: nella risurrezione, Cristo aveva sfondato le porte della morte e così aveva radicalmente cambiato il mondo: aveva creato per l’uomo un posto in Dio stesso. Ebbene, Francesco non ha cambiato, non ha voluto cambiare questa gerarchia oggettiva delle feste, l’interna struttura della fede con il suo centro nel mistero pasquale. Tuttavia, attraverso di lui e mediante il suo modo di credere è accaduto qualcosa di nuovo: Francesco ha scoperto in una profondità tutta nuova l’umanità di Gesù. Questo essere uomo da parte di Dio gli si rese evidente al massimo nel momento in cui il Figlio di Dio, nato dalla Vergine Maria, fu avvolto in fasce e venne posto in una mangiatoia. La risurrezione presuppone l’incarnazione. Il Figlio di Dio come bambino, come vero figlio di uomo – questo toccò profondamente il cuore del Santo di Assisi, trasformando la fede in amore. “Apparvero la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini”: questa frase di san Paolo acquistava così una profondità tutta nuova. Nel bambino nella stalla di Betlemme, si può, per così dire, toccare Dio e accarezzarlo. Così l’anno liturgico ha ricevuto un secondo centro in una festa che è, anzitutto, una festa del cuore.

Tutto ciò non ha niente di sentimentalismo. 

Proprio nella nuova esperienza della realtà dell’umanità di Gesù si rivela il grande mistero della fede. Francesco amava Gesù, il bambino, perché in questo essere bambino gli si rese chiara l’umiltà di Dio. 

Dio è diventato povero. 

Il suo Figlio è nato nella povertà della stalla. 

Nel bambino Gesù, Dio si è fatto dipendente, bisognoso dell’amore di persone umane, in condizione di chiedere il loro – il nostro – amore. 

Oggi il Natale è diventato una festa dei negozi, il cui luccichio abbagliante nasconde il mistero dell’umiltà di Dio, la quale ci invita all’umiltà e alla semplicità. Preghiamo il Signore di aiutarci ad attraversare con lo sguardo le facciate luccicanti di questo tempo fino a trovare dietro di esse il bambino nella stalla di Betlemme, per scoprire così la vera gioia e la vera luce.

Sulla mangiatoia, che stava tra il bue e l’asino, Francesco faceva celebrare la santissima Eucaristia (cfr 1 Celano, 85: Fonti, 469). Successivamente, sopra questa mangiatoia venne costruito un altare, affinché là dove un tempo gli animali avevano mangiato il fieno, ora gli uomini potessero ricevere, per la salvezza dell’anima e del corpo, la carne dell’Agnello immacolato Gesù Cristo, come racconta il Celano (cfr 1 Celano, 87: Fonti, 471). 
Nella Notte santa di Greccio, Francesco quale diacono aveva personalmente cantato con voce sonora il Vangelo del Natale. Grazie agli splendidi canti natalizi dei frati, la celebrazione sembrava tutta un sussulto di gioia (cfr 1 Celano, 85 e 86: Fonti, 469 e 470). Proprio l’incontro con l’umiltà di Dio si trasformava in gioia: la sua bontà crea la vera festa.

Chi oggi vuole entrare nella chiesa della Natività di Gesù a Betlemme, scopre che il portale, che un tempo era alto cinque metri e mezzo e attraverso il quale gli imperatori e i califfi entravano nell’edificio, è stato in gran parte murato. È rimasta soltanto una bassa apertura di un metro e mezzo. L’intenzione era probabilmente di proteggere meglio la chiesa contro eventuali assalti, ma soprattutto di evitare che si entrasse a cavallo nella casa di Dio. 

Chi desidera entrare nel luogo della nascita di Gesù, deve chinarsi. Mi sembra che in ciò si manifesti una verità più profonda, dalla quale vogliamo lasciarci toccare in questa Notte santa: se vogliamo trovare il Dio apparso quale bambino, allora dobbiamo scendere dal cavallo della nostra ragione “illuminata”. Dobbiamo deporre le nostre false certezze, la nostra superbia intellettuale, che ci impedisce di percepire la vicinanza di Dio. 

Dobbiamo seguire il cammino interiore di san Francesco – il cammino verso quell’estrema semplicità esteriore ed interiore che rende il cuore capace di vedere. Dobbiamo chinarci, andare spiritualmente, per così dire, a piedi, per poter entrare attraverso il portale della fede ed incontrare il Dio che è diverso dai nostri pregiudizi e dalle nostre opinioni: il Dio che si nasconde nell’umiltà di un bimbo appena nato. Celebriamo così la liturgia di questa Notte santa e rinunciamo a fissarci su ciò che è materiale, misurabile e toccabile. Lasciamoci rendere semplici da quel Dio che si manifesta al cuore diventato semplice. E preghiamo in quest’ora anzitutto anche per tutti coloro che devono vivere il Natale in povertà, nel dolore, nella condizione di migranti, affinché appaia loro un raggio della bontà di Dio; affinché tocchi loro e noi quella bontà che Dio, con la nascita del suo Figlio nella stalla, ha voluto portare nel mondo. Amen.

(BENEDETTO XVI Basilica Vaticana Sabato, 24 dicembre 2011)



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