martedì 10 ottobre 2017

San Francesco Borgia


Lettura 4
Francesco IV, duca di Candia, figlio di Giovanni Borgia e di Giovanna d'Aragona, nipote di Ferdinando il Cattolico, dopo aver trascorsa in seno alla famiglia un'infanzia ammirabile per innocenza e pietà, si mostrò ancora più ammirabile per la pratica esemplare delle virtù cristiane e per l'austerità della vita, prima alla corte dell'imperatore Carlo V, e poi nel governo della Catalogna. 


Nell'accompagnare la salma dell'imperatrice Isabella alla tomba di Granata, al vedere il di lei volto orribilmente trasformato, riflettendo alla vanità di tutto ciò ch'è mortale, fece voto di spogliarsi, appena gli fosse stato possibile, d'ogni cosa per servire unicamente al Re dei re. D'allora avanzò talmente nella virtù, da offrire in sé, in mezzo a un mondo di affari, il modello della perfezione religiosa, sì da essere chiamato un prodigio di principe.

Lettura 5
Mortagli la moglie Eleonora del Castro, entrò nella Compagnia di Gesù, per esservi più nascosto e per precludersi l'adito alle dignità coll'impegno sacro d'un voto; meritando d'esser seguito da parecchi principi nell'abbracciare un genere di vita più austero, e lo stesso Carlo V, abdicato all'impero, dichiarò di averlo avuto per ispiratore e guida. 

In questa professione di vita rigorosa, Francesco ridusse il suo corpo a una magrezza estrema con digiuni, catenelle di ferro, asprissimo cilizio, prolungate discipline a sangue, dormendo pochissimo, non risparmiandosi intanto nessuna fatica per vincersi per salvare le anime.

Adorno pertanto di tante virtù, fu nominalo da sant'Ignazio prima commissario generale della compagnia in Spagna, e non molto dopo eletto, benché riluttante, terzo generale di tutta la compagnia. Nella qual carica si rese sommamente caro ai principi e ai sommi Pontefici colla sua prudenza e santità, e, oltre a fondare o sviluppare dovunque numerose case, inviò sudditi nel regno di Polonia, nelle isole dell'Oceano, nelle regioni del Messico e del Perù, e diresse altresì in altre contrade missionari che colla predicazione, coi sudori e col sangue propagarono la fede cattolica Romana.

Lettura 6
Aveva sì bassa opinione di sé, da appropriarsi il nome di peccatore. Ricusò con invitta umiltà e fermezza la porpora cardinalizia offertagli più volte dai sommi Pontefici. Scopare la casa, mendicare il pane alle porte, servire i malati negli ospedali per disprezzo di sé e del mondo, egli faceva sue delizie. 
Tutti i giorni consacrava lunghe ore, ordinariamente otto e qualche volta dieci, alla meditazione delle cose celesti. Cento volte al giorno faceva la genuflessione per adorar Dio. 
Non omise mai di celebrare, e l'ardore divino che lo consumava si manifestava dallo splendore del suo volto, allorché offriva l'Ostia santa, e qualche volta anche mentre predicava. 
Un istinto celeste gli indicava dove si conservava il corpo santissimo di Cristo sotto i veli Eucaristici. Dato da san Pio come compagno al cardinale Aldobrandini, legato presso i principi cristiani per formare una lega contro i Turchi, egli intraprese per obbedienza l'arduo viaggio, nonostante l'affievolimento delle sue forze; e terminò felicemente il corso della sua vita a Roma, come aveva desiderato, a sessantadue anni di età, nel 1572 di nostra salute. 
S. Teresa, che ricorreva ai suoi consigli, lo chiamava un santo, e Gregorio XIII un fedele amministratore; infine, glorificato da numerosi e grandi miracoli, Clemente X l'iscrisse nel catalogo dei Santi.

V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.


Orazione 
V. O Signore, esaudisci la mia preghiera.
R. E il mio grido giunga fino a Te. 
Preghiamo
Signore Gesù Cristo, modello e premio della vera umiltà: come hai reso il beato Francesco glorioso tuo imitatore nel disprezzo degli onori terreni, così dona a noi d'imitarlo e di essergli compagni nella gloria.
Tu che sei Dio, e vivi e regni con Dio Padre in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen

“Vieni, Spirito Santo, vieni
per mezzo della potente intercessione
del Cuore Immacolato di Maria,
tua Sposa amatissima”

La potenza della sacra Liturgia

Un regalo da Oriente. Che cosa mi sta insegnando un monaco ortodosso

     
Per una circostanza che ritengo altamente provvidenziale in questi giorni mi è stato messo a disposizione l’insegnamento di un monaco ortodosso che mi sta fornendo una serie di osservazioni sulla vita di preghiera e di fede. È un’esperienza bellissima, sorprendente e stimolante, sotto diversi aspetti.
Ammetto di aver sempre avuto un debole per la spiritualità orientale, per molteplici motivi. Forse perché sono ambrosiano e dunque figlio di quell’Ambrogio che è santo anche per le Chiese d’Oriente e ha permesso di conservare nel rito che porta il suo nome influssi provenienti dall’universo bizantino. Forse perché gli orientali non hanno perso per strada, o l’hanno persa meno di noi cattolici, quella dimensione contemplativa che mi sembra così importante e che noi cristiani occidentali rischiamo spesso di considerare invece un po’ secondaria rispetto a quella operativa. Forse perché i riti orientali sono impregnati di una sacralità e di un senso del mistero (e di conseguenza di una bellezza) che fra i cattolici sono andati stemperandosi.
Sia come sia, sto vivendo questa opportunità di confrontarmi con un religioso ortodosso come un autentico dono del Cielo. Ed ecco che cosa mi ha colpito di più, finora.
Prima di tutto il fatto che, per loro, la divina liturgia (la nostra santa messa) è davvero azione sacra, per cui non va presa alla leggera, come semplice rappresentazione. Lì, in quel momento, non si mette in scena qualcosa, non va in onda qualcosa, non si fa una rievocazione, ma si celebra un mistero, la cui sacralità è massima. Ecco perché non è opportuno che alla divina liturgia prenda parte chi ha un altro credo.  Non è un’esclusione: è rispetto del mistero sacro in atto.  Certo, nessun uomo è in grado di vedere nel cuore di un altro uomo, per cui non ci sono, né potrebbero esserci, divieti. Il punto riguarda la considerazione che si ha per la liturgia.
È evidente che qui siamo dinnanzi a un’idea di sacro che da noi si è largamente persa o quanto meno appannata. Da noi la messa più che mistero sacro è diventata assemblea e incontro, e la chiesa, più che luogo reso sacro dalla presenza reale di Cristo e dal mistero eucaristico che lì si rinnova realmente, è diventata appunto il luogo dell’assemblea e dell’incontro. Ecco perché sentirmi dire che la divina liturgia merita il rispetto che si attribuisce alle cose più sacre mi ha lasciato dapprima stupito ma in un secondo tempo ammirato. Rispetto vuol dire anche cura dei dettagli. Vuol dire preservare quello spazio e quel tempo dalle brutture tipiche del mondo: la superficialità, il lasciar correre, il protagonismo, la maleducazione.
Sento già l’obiezione: ma questo è formalismo e, alla fine, fondamentalismo. Non lo so. A me sembra coerenza. Mi sembra giusta considerazione per il sacro e il mistero. Ma da noi è così difficile parlare di sacro e di mistero. Da noi, per esempio, nella liturgia tutto deve essere mostrato, spiegato, illustrato, compreso, digerito. Ma che cos’è l’azione liturgica senza mistero? A che cosa si riduce il sacro se tutto lo sforzo è didascalico? Il sacro non è in larga parte indicibile?
Sento già l’altra obiezione: ma questi sono discorsi preconciliari! Non lo so. A me sembra che da questo fratello d’Oriente mi stia arrivando una lezione salutare, sulla quale sto meditando seriamente.
In secondo luogo mi ha colpito il costante riferimento al giudizio del Signore. In una spiritualità come la nostra, ormai dominata dall’idea di misericordia come vaga consolazione, sentir parlare di nuovo del giudizio divino, e dunque del timor di Dio, è qualcosa che fa pensare. Da noi certe espressioni sono andate quasi perdute, perché la nostra spiritualità è impregnata di sentimentalismo: la fede come una terapia a scopo riabilitativo, il rito come un’esperienza emotiva, la preghiera, quando c’è, come esercizio utile al benessere psicofisico. Per cui l’idea di giudizio, così scomoda perché può anche inquietare e, sì, spaventare, è meglio emarginarla, offuscarla, lasciarla un po’ sullo sfondo, come il residuo di un passato dal quale ci si è finalmente liberati. E invece questo monaco ortodosso l’ha costantemente al centro della sua vita spirituale: tutto si fa in un certo modo, tutto si vive in un certo modo, tutto si pensa e si dice in un  certo modo perché si è giudicati già ora e perché saremo giudicati in via insindacabile e definitiva nell’aldilà. È spaventoso? Non lo so. A me sembra che sia grandioso. Che renda l’uomo grande e importante.
In terzo luogo mi ha colpito la richiesta di non restare sempre fanciulli nella fede. E anche qui il contrasto con la nostra spiritualità è forte. Da noi man mano che si è persa la dimensione del giudizio si è parallelamente incrementata quella della giustificazione, intesa come scusante, come discolpa, come difesa. Per ogni comportamento non in linea con la dottrina, morale o di altro tipo, ecco la scappatoia, ecco il tentativo di comprendere e, appunto, giustificare. Proprio come si fa (ma non si dovrebbe esagerare nemmeno con loro) quando si tratta con i bambini piccoli. Anzi, la dottrina stessa è piegata a questo fine: è bene che sia più flessibile, così da non impensierire nessuno, così da non turbare i nostri equilibri tanto fragili. Ma nella vita di fede non si può restare sempre piccoli nel senso di non sviluppati, di inconsapevoli, di incoscienti. Occorre crescere, proprio come nella vita fisica e affettiva. E per crescere ci vuole l’impegno, ci vuole lo studio, ci vuole l’applicazione, ci vuole la volontà. Altrimenti si resta fermi al sentimentalismo, altrimenti ci si costruisce una fede vaga, a propria misura.
E qui vengo all’ultimo punto: Dio come fine e misura, Gesù come via per la salvezza. Il monaco dice: concentra tutta la tua attenzione sul sacro nome di Cristo, perché è Lui la strada che porta a Dio e alla salvezza. Quindi ripeti spesso: Signore, abbi pietà di me, peccatore. Anche qui la misericordia divina è ben presente, ma non come gentile concessione che raggiunge, a pioggia, un po’ tutti, come elargizione vaga, benevola e comprensiva, bensì come dono, per la precisione dono di salvezza (il più grande, il più decisivo), per chi invoca pietà in quanto si riconosce peccatore! Il monaco suggerisce di esclamarlo a voce alta: Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore. Ripeterlo non farà mai male.
In poche parole, mi sto confrontando con una spiritualità al cui centro c’è Dio, non l’uomo. E c’è l’anima, non lo stato psicofisico. Giusto? Sbagliato? Ognuno può fare le proprie valutazioni.
Per quanto mi riguarda, è come riscoprire un tesoro rimasto a lungo velato, in un angolo. Sapevo della sua esistenza, sapevo che da qualche parte qualcuno l’aveva conservato. Ed ecco che ora, attraverso una via d’Oriente, inaspettatamente e immeritatamente, con semplicità e umiltà, ricevo una parola che mi aiuta a svelarlo. Un miracolo. Nel senso etimologico del termine: qualcosa di cui  meravigliarsi. E quindi qualcosa per cui ringraziare.
Aldo Maria Valli
AMDG et BVM

ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE "SACRAMENTUM CARITATIS"

BE DE EN ES FR HU IT LA NL PL PT ]

ESORTAZIONE APOSTOLICA
POSTSINODALE
SACRAMENTUM CARITATIS
DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
ALL'EPISCOPATO, AL CLERO
ALLE PERSONE CONSACRATE
E AI FEDELI LAICI
SULL'EUCARISTIA
FONTE E CULMINE DELLA VITA
E DELLA MISSIONE DELLA CHIESA

INDICE
Il cibo della verità [2]
Lo sviluppo del rito eucaristico [3]
Il Sinodo dei Vescovi e l'Anno dell'Eucaristia [4]
Scopo della presente Esortazione [5]
PRIMA PARTE
EUCARISTIA, MISTERO DA CREDERE
La fede eucaristica della Chiesa [6]
Il pane disceso dal cielo [7]
Dono gratuito della Santissima Trinità [8]
La nuova ed eterna alleanza nel sangue dell'Agnello [9]
L'istituzione dell'Eucaristia [10]
Figura transit in veritatem 
[11]
Gesù e lo Spirito Santo [12]
Spirito Santo e Celebrazione eucaristica [13]
Eucaristia principio causale della Chiesa [14]
Eucaristia e comunione ecclesiale [15]
Sacramentalità della Chiesa [16]
I. Eucaristia e iniziazione cristiana
Eucaristia, pienezza dell'iniziazione cristiana [17]
L'ordine dei Sacramenti dell'iniziazione [18]
Iniziazione, comunità ecclesiale e famiglia [19]
II. Eucaristia e sacramento della Riconciliazione
Loro nesso intrinseco [20]
Alcune attenzioni pastorali [21]
III. Eucaristia e Unzione degli infermi [22]
IV. Eucaristia e sacramento dell'Ordine 
In persona Christi capitis 
[23]
Eucaristia e celibato sacerdotale [24]
Scarsità di clero e pastorale vocazionale [25]
Gratitudine e speranza [26]
V. Eucaristia e Matrimonio
Eucaristia, sacramento sponsale [27]
Eucaristia e unicità del matrimonio [28]
Eucaristia e indissolubilità del matrimonio [29]
Eucaristia: dono all'uomo in cammino [30]
Il banchetto escatologico [31]
Preghiera per i defunti [32]
SECONDA PARTE
EUCARISTIA, MISTERO DA CELEBRARE
Lex orandi lex credendi [34]
Bellezza e liturgia [35]
Christus totus in capite et in corpore [36]
Eucaristia e Cristo risorto [37]
Il Vescovo, liturgo per eccellenza [39]
Il rispetto dei libri liturgici e della ricchezza dei segni [40]
Arte al servizio della celebrazione [41]
Il canto liturgico [42]
Unità intrinseca dell'azione liturgica [44]
La liturgia della Parola [45]
L'omelia [46]
Presentazione dei doni [47]
La preghiera eucaristica [48]
Scambio della pace [49]
Distribuzione e ricezione dell'Eucaristia [50]
Il congedo: « Ite, missa est » [51]
Autentica partecipazione [53]
Partecipazione e ministero sacerdotale [53]
Celebrazione eucaristica e inculturazione [54]
Condizioni personali per una « actuosa participatio [55] »
Partecipazione dei cristiani non cattolici [56]
Partecipazione attraverso i mezzi di comunicazione [57]
« Actuosa participatio » degli infermi [58]
L'attenzione per i carcerati [59]
I migranti e la partecipazione all'Eucaristia [60]
Le grandi concelebrazioni [61]
La lingua latina [62]
Celebrazioni eucaristiche in piccoli gruppi [63]
Catechesi mistagogica [64]
La riverenza verso l'Eucaristia [65]
Il rapporto intrinseco tra celebrazione e adorazione [66]
La pratica dell'adorazione eucaristica [67]
Forme di devozione eucaristica [68]
Il luogo del tabernacolo nella chiesa [69]
TERZA PARTE
EUCARISTIA, MISTERO DA VIVERE
Il culto spirituale – logiké latreía (Rm 12,1) [70]
Efficacia onnicomprensiva del culto eucaristico [71]
Iuxta dominicam viventes
 – Vivere secondo la Domenica [72]
Vivere il precetto festivo [73] 
Il senso del riposo e del lavoro [74]
Assemblee domenicali in assenza di sacerdote [75] 
Una forma eucaristica dell'esistenza cristiana, l'appartenenza ecclesiale [76]
Spiritualità e cultura eucaristica [77]
Eucaristia ed evangelizzazione delle culture [78] 
Eucaristia e fedeli laici [79]
Eucaristia e spiritualità sacerdotale [80] 
Eucaristia e vita consacrata [81]
Eucaristia e trasformazione morale [82] 
Coerenza eucaristica [83]
Eucaristia e missione [84]
Eucaristia e testimonianza [85]
Cristo Gesù, unico Salvatore [86]
Libertà di culto [87]
Eucaristia, pane spezzato per la vita del mondo [88]
Le implicazioni sociali del Mistero eucaristico [89]
Il cibo della verità e l'indigenza dell'uomo [90]
La dottrina sociale della Chiesa [91]
Santificazione del mondo e salvaguardia del creato [92]
Utilità di un Compendio eucaristico [93]

AMDG et BVM

Salve - ciao - vale atque salve 'addio e stai bene'

Sull'uso di salve come formula di saluto

Quesito: 
Molti lettori hanno notato il rilancio nell'italiano contemporaneo della formula di saluto salve e domandano quali siano i contesti più adatti in cui utilizzarla; a questa domanda ha risposto Raffaella Setti sul n. 39 (ottobre 2009) della nostra rivista La Crusca per voi.
Sull'uso di salve come formula di saluto

«La formula di saluto salve è un'espressione tradizionale giuntaci direttamente dal latino e attestata in ogni epoca per l'italiano. Si tratta della forma dell'imperativo del verbo latino salvĒre 'essere in buona salute' ed è quindi un'espressione augurale, 'salute a te', che si è fissata in una formula di saluto perdendo il contatto con il significato etimologico. In latino era spesso associata a vale 'addio' nella formula di commiato vale atque salve 'addio e stai bene', mentre già nell'italiano rinascimentale si documentano casi che testimoniano la specializzazione delle due formule: salve come saluto d'incontro e vale come saluto di commiato. Una lettera di Leon Battista Alberti a Matteo de' Pasti del 1454 si apre appunto con salve e si chiude con vale, ma gli esempi potrebbero continuare numerosi.

Nel tempo il legame con il significato etimologico si è opacizzato e salve ha subito un'evoluzione semantica simile a molte altre formule allocutive di saluto come pronto (risposta telefonica che deriva dall'avviso che era pronto il collegamento), ma anche arrivederci (augurio di potersi rivedere) e ciao (che deriva dal veneziano e originariamente significava 'schiavo', 'servo vostro'). Non deve stupirci che salve abbia progressivamente ampliato i contesti d'uso, anche a scapito di altre locuzioni di saluto, poiché nel sistema dell'italiano manca una forma di livello medio: a fronte di un'ampia scelta di saluti di formalità medio-alta (buon giornoarrivederciaddio fino a arrivederlaossequi), e del saluto informale per eccellenza ciao, risulta assolutamente carente la fascia di media formalità.

Il generale abbassamento del livello di formalità nei rapporti che caratterizza il nostro tempo ha indubbiamente favorito il recupero e il rilancio di questa forma di saluto che sentiamo e vediamo utilizzata in nuovi contesti e con funzioni più ampie. Fino a qualche decennio fa salve era considerato valido solo come saluto d'ingresso e si poteva trovare come espressione di commiato in generi particolari di scrittura (ad esempio nel fumetto disneyano, come messo in rilievo nel recente studio di Daniela Pietrini, Parola di papero, Firenze, Cesati, 2008), mentre oggi questa distribuzione d'uso non sembra più così rigida. I messaggi di posta elettronica sono attualmente la tipologia testuale in cui si assiste, forse in modo più evidente, al proliferare di salve: la formula appare come risolutiva quando ci siano incertezze sul grado di formalità del registro da tenere con l'interlocutore (spesso più di uno e talvolta assolutamente sconosciuto) e non risulta vincolante rispetto al momento della giornata in cui scriviamo o in cui viene letto il nostro messaggio.

Proprio per questa sua "genericità", salve può non piacere o essere avvertito come un modo sbrigativo e poco coinvolgente di salutare, ma non si tratta certo di una forma da evitare o di cui dobbiamo scandalizzarci».

cià-o

SIGN Saluto confidenziale
dal veneto: s'ciavo schiavo, a sua volta dal latino sclavus col medesimo significato e con cui venivano indicate le persone di etnia slava (identico etimo), visto che il maggior numero di schiavi del mediterraneo erano di questa etnia.

Salutare dicendo "schiavo" può parere strano. Ma così come altre espressioni di saluto - ad esempio "servo suo" - è il retaggio di un rispetto, profondo o di convenienza che fosse, che si rinnovava ad ogni incontro mettendosi simbolicamente a disposizione dell'altro come un servo, come uno schiavo.

Questa parola, poi, è diventata una cifra dell'italianità, un saluto ormai internazionale e di grande carattere - che proprio per questa nobiltà acquisita, magari si potrebbe pensare di non considerare più così informale e strettamente confidenziale, ma adatto ad un numero di circostanze più ampio. Circostanze che per certo, fin dal saluto sarebbero meno tirate e tese.


Testo originale pubblicato su unaparolaalgiorno.it: https://unaparolaalgiorno.it/significato/C/ciao

Ancora:  CIAO


"Ciao"
 è una forma di saluto che siamo abituati a rivolgere verso coloro con i quali abbiamo certa familiarità o confidenza, comunque verso persone che siano almeno nostri "pari grado", cui diamo il "tu", mentre verso i nostri "superiori" o verso i più anziani, le buone maniere prevedono l'utilizzo di forme meno dirette come "buongiorno", "arrivederci", "salve", etc...
In realtà, in origine il dialetto veneto aveva trasformato la parola schiavo in s-ciao o s-ciavo che successivamente nel corso dei secoli fu assimilata dalla lingua italiana trasformandosi nell'odierno usatissimo "ciao" che, però, ai tempi, non significava altro che: "schiavo suo", oppure "servo vostro". Altro che saluto confidenziale....almeno alle origini, era un saluto che esprimeva totale sottomissione e rispetto (sia pure soltanto formale) molto più dell'attuale buongiorno e buonasera !

AMDG et BVM

La concelebrazione...

Considerazioni teologiche e liturgiche sulla concelebrazione

(di Cristiana de Magistris) Fino al Concilio Vaticano II la concelebrazione non è stata una questione particolarmente disputata. La tradizione e la prassi della Chiesa erano ben consolidate e non v’era motivo di sollevar questioni. La diatriba è iniziata col modernismo ed è culminata nell’ultima assise conciliare, a partire dalla quale la concelebrazione è divenuta una consuetudine “selvaggia”, che ha oscurato pesantemente e spesso ostacolato la celebrazione individuale.
Nel 1981 il padre carmelitano Joseph de Sainte-Marie dedicò al “problema” della concelebrazione – ché tale era divenuto dopo il Vaticano II – un ampio e documentato volume, il quale a tutt’oggi sembra essere lo studio più esauriente sul tema (L’Eucharistie, salut du monde, Dominique Martin Morin, Paris 1982).
Il punto centrale del problema della concelebrazione è stabilire se nella concelebrazione si ha un solo sacrificio, ossia una sola Messa, o tante Messe quante sono i concelebranti. È a tale questione che il padre Joseph dedica gran parte dei suoi sforzi, poiché è dalla risposta a tale domanda che dipende conseguenzialmente l’opportunità della concelebrazione per il bene comune della Chiesa, o il suo contrario. In fin dei conti, la ragione ultima della disputa è sapere qual è il modo di celebrare il santo Sacrificio della Messa che dà a Dio maggior gloria e procura la più grande ricchezza di grazia redentrice per la Chiesa.
Una prima osservazione riguarda la distinzione capitale tra l’antica concelebrazione “cerimoniale” e quella “sacramentale”. Il padre Joseph de Sainte-Marie la spiega bene, ricordandone le origini storiche. La concelebrazione delle origini è esclusivamente “cerimoniale”: il vescovo, o il Papa, celebra e i sacerdoti stanno intorno. Con l’Ordo Romanus III (ultimi anni dell’VIII secolo) appare per la prima volta, a Roma, la concelebrazione “sacramentale”: essa si svolge in quattro occasioni durante l’anno (Pasqua, Pentecoste, festa di S. Pietro, Natività).
I preti-cardinali della città di Roma si riuniscono intorno al Papa per concelebrare. Nel IX secolo, in seguito all’Ordo Romanus IV, vi sono dei documenti che parlano di Messa crismale del Giovedì Santo concelebrata in alcune città della Francia (es. Lione) e di alcune altre feste liturgiche come l’Epifania e l’Ascensione. Con la fine del XII secolo scompare la concelebrazione a Roma. Nel XVI secolo riappare inizialmente in forma sporadica poi più generalizzata per le Messe di ordinazione, specialmente sacerdotali ed episcopali.
Nel XVIII secolo in Oriente inizia ad essere adottata la concelebrazione “sacramentale” per l’influenza che arriva dall’Occidente, ma è prevista solo nei giorni di festa per dar maggior risalto alla liturgia. In Oriente si era sempre avuta la concelebrazione “cerimoniale” dove permane ancora esclusivamente nella maggior parte delle chiese (riti Caldei, Armeni, Etiopici, Greci ortodossi, Siriaci).
Il tema della concelebrazione riapparve dopo la Seconda guerra mondiale, lanciato dal movimento liturgico: il principio teologico soggiacente era la soppressione della distinzione tra sacerdozio del prete e quello dei fedeli che “concelebrano” insieme. Papa Pio XII denunciò tali errori nell’enciclica Mediator Dei (20-11-1947). Nel 1954 Pio XII ribadì che solo il sacerdote ha il potere di offrire il sacrificio della Messa e condannò il principio secondo cui una Messa alla quale partecipano 100 sacerdoti sia uguale a 100 Messe.
Il 22 settembre 1956 nel Congresso Internazionale di Liturgia, Pio XII chiarì il suo pensiero spiegando che «nel caso d’una concelebrazione nel senso vero e proprio della parola, Cristo invece di agire per il tramite di un solo ministro, agisce per mezzo di più». Nel discorso del Papa è chiara la necessaria differenza tra concelebrazione “sacramentale” e concelebrazione “cerimoniale”.
Negli anni del Concilio avvenne il passaggio dalla concelebrazione cerimoniale a quella sacramentale, “lanciata” da teologi e liturgisti progressisti, ma rigorosi, come padre Karl Rahner, mons. A.G. Martimort, Dom Bette, consapevoli del fatto che la concelebrazione sacramentale comportava un unico atto liturgico e dunque un’unica Messa. Questa linea influenzò il Concilio, in cui si discusse molto sull’argomento.
Il 25 gennaio 1964, Paolo VI, con il Motu Proprio Sacram Liturgiam istituì una commissione con il compito di attuare le prescrizioni presenti nella Sacrosanctum Concilium. Paolo VI concelebrò in San Pietro il 14 settembre dello stesso anno all’apertura della III sessione del Concilio. Da allora la concelebrazione sacramentale dilagò nella Chiesa, in modo preoccupante.
L’unicità del Sacrificio nel caso della concelebrazione è ritenuto dal padre de Sainte-Marie un dato certo e non suscettibile di dibattito. Già san Tommaso aveva posto la questione: «Se più sacerdoti possano consacrare una medesima ostia», a cui aveva dato la seguente spiegazione: «Se ciascun sacerdote agisse per virtù propria, gli altri celebranti sarebbero superflui, bastandone uno soloMa poiché il sacerdote non consacra che in persona di Cristo, e i molti non sono che «una cosa sola in Cristo», poco importa che questo sacramento venga consacrato da uno o da molti, purché si rispetti il rito della Chiesa» (Summa Theologica, III, q.82, a.2, ad. 2 m).
In sostanza san Tommaso ritiene superfluo che più sacerdoti facciano ciò che può fare uno solo. Di conseguenza per la concelebrazione di una Messa importa poco o importa nulla il numero dei celebranti. E il solo modo di moltiplicare il numero dei sacrifici eucaristici (per la gloria di Dio e la salvezza delle anime) non è quella di moltiplicare i ministri della concelebrazione, che produce l’effetto contrario, ma di moltiplicare le celebrazioni liturgiche del rito sacramentale della Messa.
Il teologo domenicano Roger Thomas Calmel fornisce un calzante esempio per spiegare l’unicità del sacrificio nel caso della concelebrazione: «Se per fucilare un traditore si riunisce un plotone di 12 soldati, ci saranno certamente dodici atti “uccisivi”, ma l’uccisione è una sola. Immaginate che ci siano tanti traditori. Ebbene, la patria sarà molto più efficacemente soccorsa se ciascuno dei soldati mette a morte un traditore, piuttosto che si raggruppassero 12 soldati per uccidere un solo traditore. Parimenti la Chiesa di Dio sarà ben più aiutata (e soprattutto Dio sarà ben più glorificato) se, per esempio, 40 preti dicono ciascuno una Messa, piuttosto che se 40 preti si riuniscono per fare insieme una consacrazione unica, una sola Messa(…) La gloria resa a Dio, l’intercessione propiziatoria per le anime è certamente minore quando c’è un solo sacrificio sacramentale (concelebrazione) che quando ci sono 40 sacrifici sacramentali. Dico “sacramentali” per distinguerli dal sacrificio cruento che è unico».
Più tardi, nel 1991, in una lettera al card. Pietro Palazzini, padre Enrico Zoffoli, autore del testo La Messa unico tesoro e la sua concelebrazione, si chiede: quante sono realmente le Messe: una, oppure quanti sono i sacerdoti concelebranti? «Non esito a rispondere – scrive – che tutti celebrano una sola Messa, se veramente con-celebrano.
Infatti: se nella Messa individuale uno è il ministro offerente, in quella concelebrata sono molti; tali però solo fisicamente, non MORALMENTE; distinzione che, a mio parere, è sufficiente a risolvere la controversia. In realtà: unico è l’altare…, unica la materia da consacrare…, unica la consacrazione…, unico il tempo della pronunzia delle parole della medesima…; unico il sacerdozio ministeriale messo in evidenza dalla concelebrazione… Tutti, dunque, rappresentano e si comportano come se fossero (formassero) UN SOLO MINISTRO con l’intenzione di compiere una sola azione liturgica: Multi sunt unum in Christo…» (S. Th., III, q.82, a.2, 3um).
L’importante è che «omnium intentio debet ferri ad idem instans consecrationis» (iv., c.). «Il quesito – scrive il teologo passionista –, antecedentemente ad ogni mia affermazione e spiegazione, è stato più volte proposto a numerosi e scelti gruppi di fedeli, che all’unanimità e senza alcuna esitazione si sono pronunciati sostenendo che “la Messa” concelebrata è una, non molte Messe celebrate quanti sono i sacerdoti».
Da parte di taluni si vorrebbe far passare Pio XII come un apripista della concelebrazione.  In realtà, sotto il pontificato di Pio XII, la concelebrazione non ebbe diritto di cittadinanza se non – com’era già tradizione della Chiesa – in occasione delle ordinazioni episcopali e sacerdotali. L’unica novità è contenuta nell’Episcopalis Consecrationis con cui si apre la “concelebrazione episcopale” (ossia l’imposizione delle mani sul nuovo Vescovo) ai Vescovi assistenti, secondo precise indicazioni. Con l’affermazione che nella concelebrazione v’è una “consacrazione simultanea” (Allocuzione in occasione della chiusura del Congresso nazionale di Liturgia pastorale – Assisi 1956) sembra abbastanza chiaro che si tratti di un unico Sacrificio, come sostenuto anche dal cardinal Journet, il quale afferma che nella concelebrazione ci sono molti consacranti, «plures ex aequo consecrantes», ma una sola azione consacratoria, «una consecratio» (Le sacrifice de la Messe, in Nova et Vetera, 46 (1971), p. 248).
Va pure notato che gl’interventi magisteriali più autorevoli in materia liturgica (la Costituzione apostolica Episcopalis Consecrationis e l’Enciclica Mediator Dei) non trattano della concelebrazione eucaristica in senso stretto. Di essa Pio XII trattò solo nell’allocuzione del 22 settembre 1956 in cui affermò che «nel caso di una concelebrazione nel senso proprio della parola, Cristo invece di agire per il tramite di un solo ministro, agisce per mezzo di più».
Il primo esperimento di concelebrazione venne effettuato il 19 giugno 1964 nella chiesa di Sant’Anselmo con la concelebrazione di 20 sacerdoti. Da allora la concelebrazione si è diffusa in modo esponenziale e selvaggio. Ma – a chiarire le intenzioni dei novatores – occorre leggere il cap. XI “Concelebrazione” del volume di mons. Annibale Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975) (C.L.V.- Edizioni Liturgiche, Roma 1997, pp. 133-144 e passi), in cui l’autore, segretario della Commissione Liturgica preparatoria, spiega come si arrivò al «primo rito completamente nuovo della riforma» (p. 133), quello della concelebrazione e della comunione sotto le due specie, entrato in vigore il 15 aprile 1965. Bugnini conferma come «in questa forma di celebrazione, più sacerdoti, in virtù dello stesso sacerdozio e nella persona del Sommo Sacerdote, agiscono insieme, con una sola volontà e una sola voce, e celebrano l’unico sacrificio con un unico atto sacramentale e insieme vi partecipano» (p. 138).
Al di là della diatriba teologico-liturgica, bisogna tener presenti i risvolti pastorali della concelebrazione. Certamente la concelebrazione non aiuta né sacerdoti né fedeli nella vita spirituale, e quindi nella salus animarum che è – fino a prova contraria – la suprema lex. Nella concelebrazione i sacerdoti sono immersi in mille distrazioni e certamente sono molto meno partecipi del mistero che se celebrassero da soli.
I fedeli vedono diminuire le Messe in modo vertiginoso, poiché i preti spesso preferiscono la veloce e meno impegnativa concelebrazione. Se poi la concelebrazione viene, gradualmente imposta, allora per i fedeli sarà sempre più difficile trovare Messe a diversi orari, visto che per ogni concelebrazione c’è una diminuzione di Messe (e di grazie) inversamente proporzionale al numero dei concelebranti. Dunque, meno Messe per quel popolo di Dio, quel gregge, che nell’attuale Pontificato sembra essere il grande privilegiato di tutte le scelte pastorali. Ma in tema di concelebrazione è, in realtà, il grande penalizzato. A meno che non si voglia leggere l’attuale disposizione come un capzioso e lento invito ad abbandonare progressivamente la Santa Messa.  (Cristiana de Magistris)
“Vieni, Spirito Santo, vieni
per mezzo della potente intercessione
del Cuore Immacolato di Maria ,
tua amatissima Sposa”