mercoledì 22 febbraio 2017

GESÙ Cristo YHShWH

Io ti amo,
ISRAELE

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22 febbraio 2007

JNSR:   Signore, mio Tenero Amore Divino, io voglio obbedirti e seguirti. Parla di tutto quello che desideri da me o da altri. Io farò tutto ciò che Tu mi chiedi. Come fare per raggiungere Israele e chiedere loro di mettere il Tuo Nome, YHShWH, nella loro vita quotidiana e nella loro memoria? Tu, il Dio della Parola che li ha salvati, Tu, il Figlio di Dio che ha ricevuto ogni potere da Dio, il Padre Santissimo. Amen.


GESÙ:    Tu l'hai detto, ed Io ti dico che niente deve più restare nascosto e che Io ritorno per farMi vedere da tutti i Miei fratelli in Dio. Il Dio d'Israele è Misericordioso, e la Sua collera è giusta. Oggi, Dio sarà in mezzo a voi per la grande riconciliazione di tutti i Popoli tra loro e con il loro Creatore.

Dio ha donato il Figlio Suo a Israele
affinchè Israele lo doni oggi al Mondo peccatore.

È cosa Buona e Giusta obbedire agli Ordini divini. È un Tesoro che voi mettete nei vostri paesi accogliendo il Figlio di Dio. Io affido questo incarico al Paese che ha visto nascere il Dio Vivente. ISRAELE ha l'incarico:

- di presentare il Divino Bambino al Mondo, come il padre che mostra a tutta la famiglia il bimbo appena nato nella sua casa: il bimbo neonato è fragile ed esposto a tutte le aggressioni.

-  ISRAELE, in nome dalla sua Fede, deve difendere questa Verità: che GESÙ Cristo, YHShWH, è il Dio fatto Uomo che ha voluto nascere in Israele, a Betlemme. Oggi tutti i Popoli riconosceranno ISRAELE nella Pace e nella Gioia di Dio, perché ISRAELE riconoscerà il suo Salvatore nel Figlio di Dio, Colui che è la Parola, il Verbo di Dio fatto Carne.


ISRAELE, uno dei più piccoli Paesi del mondo, presentando il Divino Bambino ai grandi di questo mondo, diventa il Padre di tutte le Nazioni, con San GIUSEPPE che fu il padre putativo del Bambino Divino che è Dio fatto Uomo, YHShWH, GESÙ il Salvatore del Mondo. Amen.

GESÙ Cristo
YHShWH

ANDATE NELLA MIA VIGNA...


Parabola degli operai alla vigna (329.11)

Un padrone allo spuntare del giorno, uscì per assoldare degli operai per la sua vigna, e pattuì con loro un denaro al giorno.

Uscito all'ora di terza nuovamente, e pensando che i lavoratori presi all'opera erano pochi, vedendo sulla piazza altri sfaccendati in attesa di chi li prendesse, li prese e disse: "Andate nella mia vigna e vi darò quello che ho promesso agli altri". E quelli andarono.

Uscito a sesta e a nona ne vide altri ancora, e disse loro: "Volete lavorare alle mie dipendenze? Io dò un denaro al giorno ai miei lavoratori". Quelli accettarono e andarono.

Uscito infine verso l'undecima ora vide altri stare dimessi all'ultimo sole. "Che fate qui, così oziosi? Non vi fa vergogna stare senza fare nulla per tutto il giorno?" chiese loro. "Nessuno ci ha presi a giornata. Avremmo voluto lavorare e guadagnarci il cibo. Ma nessuno ci chiamò alla sua vigna". "Ebbene io vi chiamo alla mia vigna. Andate ed avrete la mercede degli altri". Così disse perché era un buon padrone ed aveva pietà dell'avvilimento del suo prossimo.

Venuta la sera e finiti i lavori, l'uomo chiamò il suo fattore e disse: "Chiama i lavoratori e paga la loro mercede, secondo che ho fissato, cominciando dagli ultimi, che sono i più bisognosi non avendo avuto nel giorno il cibo che gli altri hanno una o più volte avuto e che, anche, sono quelli che per riconoscenza verso la mia pietà hanno più di tutti lavorato; io li osservavo, e licenziali, che vadano al riposo meritato, godendo con i famigliari i frutti del loro lavoro". E il fattore fece come il padrone ordinava, dando ad ognuno un denaro.

Venuti per ultimi quelli che lavoravano dalla prima ora del giorno, rimasero stupiti di avere essi pure un solo denaro, e fecero delle lagnanze fra di loro e con il fattore il quale disse: "Ho avuto quest'ordine. Andate a lagnarvi con il padrone e non da me". E quelli andarono e dissero: "Ecco, tu non sei giusto! Noi abbiamo lavorato dodici ore prima fra la guazza, e poi al sole cocente, e poi da capo nell'umido della sera, e tu ci hai dato come a quei poltroni che hanno lavorato una sola ora!...Perché ciò?" E uno specialmente alzava la voce dicendosi tradito e sfruttato indegnamente.
"Amico, e in che ti fo' torto? Cosa ho pattuito con te all'alba? Una giornata di continuo lavoro e per mercede di un denaro. Non è vero?"
"Sì. E' vero. Ma tu lo stesso hai dato a quelli, per tanto lavoro di meno..."
"Tu hai acconsentito a quella mercede parendoti buona?"
"Sì. Ho acconsentito perchè gli altri davano anche meno".
"Fosti seviziato qui da me?"
"No, in coscienza no".
"Ti ho concesso riposo lungo il giorno e cibo, non è vero? Tre pasti ti ho dato. E cibo e riposo non erano pattuiti. Non è vero?"
"Sì, non erano pattuiti".
"Perchè allora li hai accettati?"
"Ma... Tu hai detto: <Preferisco così per non farvi stancare tornando alle case>. E a noi non parve vero... Il tuo cibo era buono, era un risparmio, era..."
"Era una grazia che vi davo gratuitamente e che nessuno poteva pretendere. Non è vero?"
"E' vero".
"Dunque vi ho beneficati. Perchè allora vi lamentate? Io dovrei lamentarmi di voi che, comprendendo di avere a che fare con un padrone buono, lavoravate pigramente, mentre costoro, venuti dopo di voi, con beneficio di un solo pasto, e gli ultimi di nessun pasto, lavorarono con più lena, facendo in meno tempo lo stesso lavoro fatto da voi in dodici ore. Traditi vi avrei se vi avessi dimezzata la mercede per pagare anche questi. Non così. Perciò piglia il tuo e vattene. Vorresti in casa mia venirmi ad imporre ciò che ti pare? Io faccio ciò che voglio e ciò che è giusto. Non volere essere maligno e tentarmi all'ingiustizia. Buono io sono."


In Cathedra S. Petri Apostoli ~ II. classis



Sermone di sant'Agostino Vescovo
Sermone 15 sui Santi
L'istituzione dell'odierna solennità ricevé dai nostri antenati il nome di Cattedra, perché è tradizione che Pietro, principe degli Apostoli, prendesse possesso quest'oggi della sua sede episcopale. I fedeli perciò, con ragione, celebrano l'origine di quella Sede onde l'Apostolo fu investito per la salute delle chiese con quelle parole del Signore: «Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa» (Matth. 16, 18).


Il Signore dunque ha chiamato Pietro il fondamento della Chiesa: ed è perciò che la Chiesa venera giustamente questo fondamento sul quale poggia tutto l'edificio ecclesiastico. Quindi ben a ragione si dice nel Salmo ch'è stato letto: «Lo esaltino nell'adunanza del popolo, e lo lodino nel consesso dei seniori» (Ps. 106, 32). Benedetto Dio, che prescrive d'esaltare il beato Pietro Apostolo nell'adunanza del fedeli; è giusto infatti che la Chiesa veneri questo fondamento per cui si sale al cielo.

Celebrando dunque quest'oggi l'origine della Cattedra, noi onoriamo il ministero sacerdotale. Le chiese si rendono questo mutuo onore, comprendendo esse che la Chiesa tanto più cresce in dignità, quanto più viene onorato il ministero sacerdotale. Avendo dunque una pia usanza introdotto giustamente nelle chiese questa solennità, mi meraviglio delle grandi proporzioni che ha preso oggi un pernicioso errore tutto pagano, di portare cioè sulle tombe dei defunti dei cibi e del vino, come se le anime, che hanno abbandonato i loro corpi, reclamassero questi cibi propri della carne.


Lettura del santo Vangelo secondo Matteo
Matt 16:13-19
In quell'occasione: Gesù, venuto nelle parti di Cesarea di Filippo, interrogò i suoi discepoli dicendo: La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo? Eccetera.

Omelia di san Leone Papa
Sermone 3 nell'anniversario della sua elezione, dopo il principio
Il Signore domanda agli Apostoli, chi dicesse la gente ch'egli sia: e la loro risposta è comune finché essi esprimono l'incertezza dello spirito degli uomini. Ma appena interroga i discepoli sul proprio sentire, il primo in dignità fra gli Apostoli è il primo ancora a confessare il Signore. Ed avendo egli detto: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matth. 16, 16); Gesù gli rispose: «Beato te, Simone, figlio di Giona, perché non te l'ha rivelato la natura e l'istinto, ma il Padre mio ch'è nei cieli» (Matth. 16, 17). Vale a dire: Perciò tu sei beato, perché te l'ha insegnato il Padre mio; non sei stato ingannato dall'opinione terrena, ma te l'ha dichiarato l'ispirazione celeste: e non la natura e l'istinto mi ti han fatto conoscere, ma colui del quale sono il Figlio unigenito.


«E io, continua, ti dico» (Matth. 16, 18); cioè: Come il Padre mio ti ha manifestato la mia divinità, così io pure ti faccio conoscere la tua propria eccellenza. Perché tu sei Pietro: cioè: Mentre io sono la pietra inviolabile, la pietra angolare che di due (popoli) ne faccio uno, io il fondamento all'infuori del quale nessuno può porne altro; tuttavia anche tu sei pietra, essendo confermato dalla mia virtù, così che quanto m'appartiene di proprio, quanto al potere, ti sia comune per la mia partecipazione. «E su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non prevarranno contro di lei» (Matth. 16, 18): Su questa fortezza, dice, edificherò un tempio eterno; e la sublimità della mia Chiesa, che deve penetrare il cielo, si eleverà sulla fermezza di questa fede.


Le porte dell'inferno non impediranno mai questa confessione (di Pietro), né la legheranno punto le catene della morte; poiché questa parola è parola di vita. E come essa innalza al cielo i suoi confessori, così ne sommerge nell'inferno i negatori. Perciò dice al beatissimo Pietro: «Ti darò le chiavi del regno dei cieli: e qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa scioglierai sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli» (Matth. 16, 19). Certo, questo potere fu comunicato anche agli altri Apostoli, e questo decreto costitutivo riguarda egualmente tutti i principi della Chiesa; ma confidando questa prerogativa, non senza motivo il Signore s'indirizza a uno solo, benché parli a tutti. Essa è affidata particolarmente a Pietro, perché Pietro è stabilito capo di tutti i pastori della Chiesa. Il privilegio dunque di Pietro sussiste in ogni giudizio portato in virtù della sua legittima autorità. E non c'è eccesso né di severità né di indulgenza, dove non si lega né si scioglie se non ciò che il beato Pietro avrà sciolto o legato.
R. Grazie a Dio.

martedì 21 febbraio 2017

TESTI APOCRIFI Narrazione di Giuseppe da Arimatea


TESTI APOCRIFI

Narrazione di Giuseppe da Arimatea


Narrazione di Giuseppe da Arimatea che chiese il corpo del Signore, in cui sono contenuti anche i motivi della condanna dei due ladroni.

[1, 1] Io, Giuseppe da Arimatea, che ho chiesto a Pilato il corpo di nostro Signore Gesù per seppellirlo, fui imprigionato dagli Ebrei omicidi e deicidi i quali mantenendo la legge di Mosè sono diventati agenti di afflizione: hanno suscitato l'ira del legislatore misconoscendo il Dio da loro crocifisso, e hanno dimostrato la sua divinità a tutti i credenti. Presentazione dei due ladroni. Sette giorni prima che essi condannassero alla morte in croce il figlio di Dio, a Pilato erano stati mandati due uomini catturati a Gerico con i seguenti capi d'accusa.

[2] Il primo, di nome Gesta, aveva assassinato dei viandanti e depredato altri, appeso donne con i piedi in alto e la testa in basso e tagliato loro i seni, e bevuto il sangue dei bambini, dopo averli mutilati; non aveva mai riconosciuto alcun dio, né obbedito ad alcuna legge: si era comportato così fin dall'inizio della sua vita. 


Ecco invece qual era la situazione dell'altro. Si chiamava Dema, era galileo e aveva un albergo; ospitava i ricchi, ma faceva anche del bene ai bisognosi e, come Tobia, seppelliva segretamente i morti poveri; si industriava di derubare i beni degli Ebrei, rubò anche la legge a Gerusalemme; depredò la stessa figlia di Caifa, sacerdotessa del santuario, e sottrasse persino il deposito segreto collocatovi da Salomone. Queste le azioni delle quali si era reso colpevole.

[3] Gesù fu dunque arrestato tre giorni prima della pasqua, nella sera. 

Né Caifa né tutto il popolo ebraico volevano festeggiare la pasqua a causa del loro profondo dolore per il furto che era stato consumato nel santuario. Il compito di Giuda. Chiamarono Giuda Iscariota e glielo dissero: egli era, infatti, figlio del fratello del grande sacerdote Caifa; siccome non era uno dei discepoli che seguivano Gesù, tutti gli Ebrei l'istigarono a seguirlo, non per credere ai prodigi che egli operava n‚ per approvare i suoi discorsi, ma per consegnare Gesù nelle loro mani dandogli una parola menzognera. Per questa bella impresa ricevette due dramme d'oro al giorno. C'era pure, a quanto si dice, uno dei discepoli chiamato Giovanni che aveva passato due anni con Gesù.

[4] Tre giorni prima di impadronirsi di Gesù, Giuda disse agli Ebrei: "Su, teniamo consiglio e deliberiamo che non è il ladrone che ha rubato la legge, ma Gesù in persona. Io poi mi incarico dell'arresto". Quando furono pronunciate queste parole uno di noi, di nome Nicodemo, che custodiva le chiavi del santuario, si rivolse a tutti dicendo: "Non commettete un simile crimine!". Nicodemo era più leale di tutti gli altri Ebrei. Ma la moglie di Caifa, di nome Sarra, gridò: "Parlando in questo luogo santo, Gesù stesso disse: "Io posso distruggere il tempio e ricostruirlo in tre giorni"". Gli Ebrei le risposero: "Noi tutti crediamo alle tue parole!". Terminato il consiglio, Gesù fu arrestato.

[2, 1] Gesù davanti a Anna e Caifa. Il giorno appresso, il quattro del mese, all'ora nona lo condussero davanti a Caifa. Anna e Caifa: "Perchè hai tu rubato la nostra legge, e messo all'asta pubblica le promesse di Mosè e dei profeti?". Ma Gesù non rispose. Radunatasi nuovamente la moltitudine, qualcuno gli domando: "Perchè volevi tu distruggere in un istante il tempio che Salomone ha costruito in quarantasei anni?". Gesù non rispose: il tempio che è stato saccheggiato dal ladro è quello della sinagoga.

[2] Verso sera, sulla fine del quarto giorno, tutta la moltitudine domandava che, a motivo della perdita della legge, la figlia di Caifa fosse data alle fiamme; e non si sapeva come celebrare la pasqua. Ma lei disse: "Perseverate, figli, continuate e mettete a morte questo Gesù. Così è la legge e in tal modo celebreremo la festività". 


Giuda accusatore. 
Anna e Caifa ricompensarono segretamente Giuda Iscariota dandogli una somma molto forte e gli dissero: "Parla come ci hai detto: "Io ho visto che la legge è stata rubata da Gesù e non da questa irreprensibile giovane"". Giuda rispose loro: "E' indispensabile che tutto il popolo ignori queste raccomandazioni che mi avete fatto a proposito di Gesù. Lasciatelo e io mi incarico di persuadere il popolo che le cose sono così". E, astutamente, misero Gesù in libertà.

[3] Nel quinto giorno, Giuda andò nel tempio e, rivoltosi a tutto il popolo, disse: "Che cosa mi darete s'io vi consegno colui che ha detronizzato la legge e rubato i profeti?". Gli Ebrei gli risposero: "Se tu ce lo consegni, ti daremo trenta denari d'oro"

Il popolo ignorava che Giuda intendeva parlare di Gesù: era, infatti, opinione diffusa che egli fosse figlio di Dio. Giuda si prese i trenta denari d'oro.

[4] Andato al santuario all'ora quarta e all'ora quinta Giuda trovò Gesù che discorreva nell'atrio. Fattasi sera, disse agli Ebrei: "Datemi una scorta di soldati armati di spade e di bastoni, e ve lo consegnerò". Gli diedero così una scorta per prenderlo. Cammin facendo, Giuda disse ai suoi compagni: "Afferrate colui ch'io bacerò. E' lui che ha rubato la legge e i profeti". E avvicinatosi a Gesù, lo baciò, dicendo: "Salve, Rabbi!". Era la sera del quinto giorno. Afferratolo, lo portarono da Caifa e dai sommi sacerdoti; Giuda disse: "Costui è quegli che ha rubato la legge e i profeti". E gli Ebrei sottoposero Gesù a un iniquo interrogatorio dicendo: "Perché tu hai fatto questo?". Ma Gesù non rispondeva. Vedendo questa cattedra di empi, Nicodemo e io, Giuseppe, ci allontanammo da loro, non volendo perderci con il consiglio degli empi.

[3, 1] Gesù in croce tra i due ladroni. Durante questa notte inflissero a Gesù molti trattamenti indegni e, nella vigilia del sabato, lo consegnarono a Pilato, il governatore, affinchè fosse crocifisso: in questo convennero tutti. E' per questo che, dopo averlo interrogato, il governatore Pilato ordinò che fosse crocifisso con due ladroni: insieme a Gesù furono crocifissi Gesta, alla sua sinistra, e Dema, alla sua destra.

[2] Quello che si trovava a sinistra cominciò a gridare dicendo a Gesù: "Guarda quanti delitti ho commesso sulla terra! Sebbene sapessi che tu sei re, pensavo che saresti perito. Perchè tu che dici di essere figlio di Dio, non puoi salvare te stesso, nel bisogno? Come puoi tu soccorrere un altro che ti invochi? Se tu sei il Cristo, discendi dalla croce, ed io crederò in te. Per ora io non ti considero un uomo, ma una bestia feroce condannata a morire con me". E proseguì dicendo molte altre cose su Gesù, bestemmiando e digrignando i denti contro di lui. Questo ladrone era, infatti, caduto negli inganni del demonio.

[3] Il buon ladrone. Ma il ladrone di destra, che si chiamava Dema, vedendo che la grazia divina era diffusa su Gesù, gli rivolse la parola così: "Io vedo, Gesù Cristo, che tu sei il figlio di Dio. Io ti vedo, Cristo, adorato da migliaia di miriadi di angeli. Perdona i peccati da me commessi! Fa' che n‚ le stelle, n‚ gli astri della notte assistano alla mia condanna allorchè tu verrai a giudicare tutta la terra: è, infatti, durante la notte che ho portato a compimento i miei perversi disegni. Fa' che il sole, oscuratosi adesso per te, non si muova per illuminare il male che è dentro il mio cuore: io, nulla posso offrirti per espiare le mie colpe. Ecco che mi sovrasta la morte a causa dei miei peccati, ma tu sei l'espiazione: liberami, o padrone dell'universo, dalla tua terribile riprovazione; non permettere al demonio di inghiottirmi e di ereditare l'anima mia come quella del miserabile che è crocifisso alla tua sinistra. Vedo, infatti, che il demonio si impadronisce con gioia della sua anima, mentre il suo corpo diventa a poco a poco invisibile. Non mettermi neppure dalla parte degli Ebrei, giacchè vedo Mosè e i patriarchi immersi in una profonda desolazione, mentre il demonio gioisce del loro dolore. Perciò, o padrone, prima che io renda il mio spirito, ordina che siano rimessi i miei peccati, ricordati di me, povero peccatore, nel tuo regno, allorchè sull'alto tuo trono che domina i cieli, verrai a giudicare le dodici tribù di Israele, poichè per opera tua hai offerto al mondo il mezzo di evitare un grande castigo".

[4] Mentre questo ladrone parlava così, Gesù gli rispose: "In verità ti dico, tu, Dema, sarai oggi con me in paradiso, e i figli del regno, i discendenti di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Mosè, saranno gettati nelle tenebre esteriori, ove sarà pianto e stridore di denti. Tu solo abiterai nel paradiso fino alla mia seconda venuta, quando verrò per giudicare quanti non avranno confessato il mio nome". 


Disse ancora al ladrone: "Quando sarai partito, dì ai cherubini e alle dominazioni che portano la spada fiammeggiante, custodi del paradiso dal quale è stato scacciato il primo uomo Adamo ch'io avevo posto nel paradiso ma non ha osservato i miei ordini, che nessuno dei primi vedrà il paradiso fino a quando verrò io per la seconda volta per giudicare i vivi e i morti: così sta scritto. Io Gesù Cristo, figlio di Dio, disceso dal più alto dei cieli, uscito dall'invisibile seno del Padre mio, senza esserne separato, venuto sulla terra per prendere un corpo ed essere crocifisso per salvare Adamo, mia creatura, alle dominazioni dei miei arcangeli, ai portieri del paradiso, ai ministri del Padre mio, prescrivo e ordino l'ammissione di colui che è stato crocifisso con me; in virtù mia abbia la remissione dei peccati, vestito di un corpo immortale entri nel paradiso e abiti là ove nessuno mai ha potuto abitare". 
Dopo queste parole, Gesù rese lo spirito: era la vigilia del sabato, l'ora nona. Tenebre si estesero su tutta la terra e si sentì un grande terremoto: crollò il santuario e anche il pinnacolo del tempio.

[4, 1] Sepoltura di Gesù e sua apparizione a Giuseppe

Io, Giuseppe, chiesi il corpo di Gesù e lo seppellii in un sepolcro nuovo dove ancora non era stato posto alcuno; ma il corpo del ladrone che era stato crocifisso alla sua destra non lo si trovò più, mentre il corpo di quello che era stato crocifisso alla sua sinistra era simile a quello di un dragone. Poichè io avevo chiesto il corpo di Gesù per seppellirlo, gli Ebrei si irritarono contro di me e mi rinchiusero in una prigione ove, con la forza, erano trattenuti i malfattori. Era la sera del sabato quando mi si inflisse questo trattamento con il quale la nostra nazione recava oltraggio alla giustizia. Ecco quale terribile malvagità la nostra nazione praticava nel giorno di sabato.

[2] Precisamente nella sera del primo giorno della settimana, all'ora quinta della notte. 

Gesù venne da me in prigione, con il ladrone che era stato crocifisso alla sua destra e che aveva mandato in paradiso: nella camera risplendette una luce accecante, la casa fu sospesa ai quattro angoli, si aprì così un passaggio e io sono uscito. Prima dunque riconobbi Gesù, poi il ladrone che portava una lettera a Gesù. Quando ci mettemmo in cammino per la Galilea brillò una luce così grande che la creazione non poteva sopportare; mentre dal ladrone emanava un gradito profumo che è quello del paradiso.

[3] Lettera dei cherubini. 

Gesù si assise in un luogo e lesse così: "Noi cherubini e angeli, che dalla tua divinità ricevemmo l'ordine di custodire il giardino del paradiso, ti comunichiamo quanto segue per opera del ladrone che è stato crocifisso con te: alla vista dell'impronta dei chiodi del ladrone che fu crocifisso con te e dello splendore delle lettere della tua divinità, il fuoco s'è spento, incapace di resistere allo splendore di questa impronta e venne su di noi un timore grande; udimmo il creatore del cielo e della terra e di tutta la creazione, che discendeva dalle regioni più elevate fino alle profondità della terra per il primo uomo, Adamo. Vedendo la croce immacolata che sfolgorava, per mezzo del ladrone, con uno splendore sette volte più vivo di quello del sole, fummo colti dalla paura, risentimmo il tremore della terra e la grande voce dei servi degli inferi che dicevano con noi: "Santo, santo, santo è colui che comanda nel più alto dei cieli"; mentre le potestà innalzavano il grido: "Signore, ti sei manifestato in cielo e sulla terra apportando al mondo la gioia, ma con un dono ancora più bello di questo, con la tua invisibile volontà eterna tu hai liberato la stessa opera dalla morte!"".

[5, 1] Gesù, Giovanni, il ladrone, Giuseppe. 

Io ho contemplato queste cose mentre andavo in Galilea con Gesù e il ladrone. Gesù si trasfigurò e non era più come prima che fosse crocifisso, ma era diventato tutto luce. Gli angeli lo servivano continuamente e Gesù parlava con essi. Io passai con lui tre giorni: non c'era con lui alcuno dei suoi discepoli, ma soltanto il ladrone.

[2] A metà della festa degli azzimi sopraggiunge il suo discepolo Giovanni. Noi non notammo più il ladrone, né sapevamo che cosa ne era avvenuto. Giovanni allora domandò a Gesù: "Chi era costui che tu non mi hai neppure presentato a lui?". Ma Gesù non gli rispose. Giovanni si prostrò allora davanti a lui, dicendo: "Signore, so che tu mi hai amato fin da principio, e perchè mai non mi fai conoscere quest'uomo?". 

Gesù gli rispose: "Perchè domandi tu cose nascoste? Sei diventato ottuso a un tratto? Non percepisci il profumo del paradiso che pervade questo luogo? Non conosci tu quest'uomo? E' il ladrone crocifisso il quale ha ottenuto il paradiso. In verità in verità ti dico che lui solo non attenderà il gran giorno". Giovanni gli chiese: "Rendimi degno di vederlo!".

[3] Giovanni stava ancora parlando allorchè, tutt'a un tratto, gli apparve il ladrone; Giovanni, esterrefatto, si prostrò a terra. Il ladrone non era più come prima dell'arrivo di Giovanni, bensì assomigliava a un re soffuso da una grande potenza; portava la sua croce e s'udirono più voci dire insieme: "Vieni nel luogo del paradiso che ti è stato preparato! Abbiamo disposto che tu sia servito fino al gran giorno, per volere di colui che ti ha mandato". Dopo queste parole, il ladrone e io, Giuseppe, diventammo invisibili: io mi ritrovai a casa mia, ma non vidi più Gesù.


[4] Avendo visto queste cose, le scrissi affinchè tutti credano in Gesù Cristo crocifisso, nostro Signore, e più nessuno serva alla legge di Mosè; si presti fede, invece, ai segni e prodigi da lui operati, e per mezzo di questa fede ereditiamo la vita eterna e possiamo incontrarci nel regno dei cieli. Giacchè a lui spetta gloria, potenza, lode e grandezza nei secoli dei secoli. Amen.


AMDG et BVM

Per il mondo agnostico, il mondo in cui Dio non c’entra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra proprio che Dio è considerato e vissuto come realtà.




Il papa "ripensa" il celibato del 



clero. Per rafforzarlo


È il segno, dice, che Dio c'è e ci si appassiona per lui. Per questo è un grande scandalo e lo si vuol fare sparire. La trascrizione integrale dell'ultimo intervento di Benedetto XVI sul tema. E di una sua sorprendente anteprima del 2006

di Sandro Magister


ROMA, 15 giugno 2010 – A chi si aspettava un "ripensamento" della regola del celibato del clero latino, Benedetto XVI è andato incontro. Ma a modo suo.

La sera di giovedì 10 giugno, in piazza San Pietro, nella veglia di chiusura dell'Anno Sacerdotale, rispondendo a cinque domande di altrettanti preti dei cinque continenti, papa Joseph Ratzinger ha dedicato una risposta proprio a illustrare il significato della castità dei sacerdoti. E l'ha fatto in forma originale, distaccandosi dalla letteratura storica, teologica e spirituale corrente.

La trascrizione integrale e autenticata della risposta del papa, diffusa dal Vaticano due giorni dopo e riprodotta più sotto, consente di capire in profondità il suo ragionamento.

Il celibato – ha detto il papa – è un'anticipazione "del mondo della risurrezione". È il segno "che Dio c’è, che Dio c’entra nella mia vita, che posso fondare la mia vita su Cristo, sulla vita futura".

Per questo – ha detto ancora – il celibato "è un grande scandalo". Non solo per il mondo di oggi "in cui Dio non c’entra". Ma per la stessa cristianità, nella quale "non si pensa più al futuro di Dio e sembra sufficiente solo il presente di questo mondo".

*

Basta questo per capire che un caposaldo di questo pontificato non è l'allentamento del celibato del clero ma il suo rafforzamento. Strettamente connesso con quella che Benedetto XVI ha più volte indicato come la "priorità" della sua missione:

"Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo [...] in Gesù Cristo crocifisso e risorto".

Così il papa nella memorabile lettera aperta da lui scritta ai vescovi di tutto il mondo il 10 marzo 2009.

Ma prima ancora, c'è stato un altro importante discorso nel quale Benedetto XVI ha esplicitamente legato il celibato del clero alla "priorità" del condurre gli uomini verso Dio, e ha spiegato il perché di questo legame.

È il discorso che egli ha rivolto alla curia romana il 22 dicembre 2006, commentando i suoi viaggi fuori d'Italia di quell'anno.

A proposito del suo viaggio in Germania di tre mesi prima, quello della celebre lezione di Ratisbona, il papa così esordì:

"Il grande tema del mio viaggio in Germania era Dio. La Chiesa deve parlare di tante cose: di tutte le questioni connesse con l’essere uomo, della propria struttura e del proprio ordinamento e così via. Ma il suo tema vero e – sotto certi aspetti – unico è 'Dio'. E il grande problema dell’Occidente è la dimenticanza di Dio: è un oblio che si diffonde. In definitiva, tutti i singoli problemi possono essere riportati a questa domanda, ne sono convinto. Perciò, in quel viaggio la mia intenzione principale era di mettere ben in luce il tema 'Dio', memore anche del fatto che in alcune parti della Germania vive una maggioranza di non-battezzati, per i quali il cristianesimo e il Dio della fede sembrano cose che appartengono al passato.

"Parlando di Dio, tocchiamo anche precisamente l'argomento che, nella predicazione terrena di Gesù, costituiva il suo interesse centrale. Il tema fondamentale di tale predicazione è il dominio di Dio, il 'Regno di Dio'. Con ciò non è espresso qualcosa che verrà una volta o l’altra in un futuro indeterminato. Neppure si intende con ciò quel mondo migliore che cerchiamo di creare passo passo con le nostre forze. Nel termine 'Regno di Dio' la parola 'Dio' è un genitivo soggettivo. Questo significa: Dio non è un’aggiunta al 'Regno', che forse si potrebbe anche lasciar cadere. Dio è il soggetto. Regno di Dio vuol dire in realtà: Dio regna. Egli stesso è presente ed è determinante per gli uomini nel mondo. Egli è il soggetto, e dove manca questo soggetto non resta nulla del messaggio di Gesù. Perciò Gesù ci dice: il Regno di Dio non viene in modo che si possa, per così dire, mettersi sul lato della strada ed osservare il suo arrivo. 'È in mezzo a voi!' (cfr. Lc 17, 20s). Esso si sviluppa dove viene realizzata la volontà di Dio. È presente dove vi sono persone che si aprono al suo arrivo e così lasciano che Dio entri nel mondo. Perciò Gesù è il Regno di Dio in persona: l’uomo nel quale Dio è in mezzo a noi e attraverso il quale noi possiamo toccare Dio, avvicinarci a Dio. Dove questo accade, il mondo si salva".

Detto questo, Benedetto XVI proseguì legando alla questione di Dio proprio quella del sacerdozio e del celibato sacerdotale:

"Paolo chiama Timoteo – e in lui il vescovo e, in genere, il sacerdote – “uomo di Dio” (1 Tim 6, 11). È questo il compito centrale del sacerdote: portare Dio agli uomini. Certamente può farlo soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio. Ciò è espresso meravigliosamente in un versetto di un salmo sacerdotale che noi – la vecchia generazione – abbiamo pronunciato durante l’ammissione allo stato clericale: "Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (Sal 16 [15], 5). L’orante-sacerdote di questo salmo interpreta la sua esistenza a partire dalla forma della distribuzione del territorio fissata nel Deuteronomio (cfr. 10, 9). Dopo la presa di possesso della terra ogni tribù ottiene per mezzo del sorteggio la sua porzione della terra santa e con ciò prende parte al dono promesso al capostipite Abramo. Solo la tribù di Levi non riceve alcun terreno: la sua terra è Dio stesso. Questa affermazione aveva certamente un significato del tutto pratico. I sacerdoti non vivevano, come le altre tribù, della coltivazione della terra, ma delle offerte. Tuttavia, l’affermazione va più in profondità. Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. La Chiesa, in questa interpretazione anticotestamentaria dell’esistenza sacerdotale – un’interpretazione che emerge ripetutamente anche nel salmo 118 [119]  – ha visto con ragione la spiegazione di ciò che significa la missione sacerdotale nella sequela degli apostoli, nella comunione con Gesù stesso. Il sacerdote può e deve dire anche oggi con il levita: “Dominus pars hereditatis meae et calicis mei”; Dio stesso è la mia parte di terra, il fondamento esterno ed interno della mia esistenza. Questa teocentricità dell’esistenza sacerdotale è necessaria proprio nel nostro mondo totalmente funzionalistico, nel quale tutto è fondato su prestazioni calcolabili e verificabili. Il sacerdote deve veramente conoscere Dio dal di dentro e portarlo così agli uomini: è questo il servizio prioritario di cui l'umanità di oggi ha bisogno. Se in una vita sacerdotale si perde questa centralità di Dio, si svuota passo passo anche lo zelo dell’agire. Nell’eccesso delle cose esterne manca il centro che dà senso a tutto e lo riconduce all’unità. Lì manca il fondamento della vita, la 'terra', sulla quale tutto questo può stare e prosperare.

"Il celibato, che vige per i vescovi in tutta la Chiesa orientale ed occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli apostoli, per i sacerdoti in genere nella Chiesa latina, può essere compreso e vissuto, in definitiva, solo in base a questa impostazione di fondo. Le ragioni solamente pragmatiche, il riferimento alla maggiore disponibilità, non bastano: una tale maggiore disponibilità di tempo potrebbe facilmente diventare anche una forma di egoismo, che si risparmia i sacrifici e le fatiche richieste dall’accettarsi e dal sopportarsi a vicenda nel matrimonio; potrebbe così portare ad un impoverimento spirituale o ad una durezza di cuore. Il vero fondamento del celibato può essere racchiuso solo nella frase: 'Dominus pars', tu sei la mia terra. Può essere solo teocentrico. Non può significare il rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi grazie ad un più intimo stare con lui a servire pure gli uomini.

"Il celibato deve essere una testimonianza di fede: la fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di lui, rinunciando al matrimonio ed alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarlo agli uomini. Il nostro mondo diventato totalmente positivistico, in cui Dio entra in gioco tutt’al più come ipotesi, ma non come realtà concreta, ha bisogno di questo poggiare su Dio nel modo più concreto e radicale possibile. Ha bisogno della testimonianza per Dio che sta nella decisione di accogliere Dio come 'terra' su cui si fonda la propria esistenza.

"Per questo il celibato è così importante proprio oggi, nel nostro mondo attuale, anche se il suo adempimento in questa nostra epoca è continuamente minacciato e messo in questione. Occorre una preparazione accurata durante il cammino verso questo obiettivo; un accompagnamento persistente da parte del vescovo, di amici sacerdoti e di laici, che sostengano insieme questa testimonianza sacerdotale. Occorre la preghiera che invoca senza tregua Dio come il Dio vivente e si appoggia a lui nelle ore di confusione come nelle ore della gioia. In questo modo, contrariamente al 'trend' culturale che cerca di convincerci che non siamo capaci di prendere tali decisioni, questa testimonianza può essere vissuta e così, nel nostro mondo, può rimettere in gioco Dio come realtà".

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Riletto questo discorso del dicembre 2006, non stupisce che Benedetto XVI continui tuttora a dedicare tante energie al clero.

L'indizione dell'Anno Sacerdotale, la proposta di figure esemplari come il santo Curato d'Ars, il rafforzamento del celibato fanno parte – nella visione del papa – di un disegno coerentissimo, che fa tutt'uno con "la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo", cioè col "condurre gli uomini verso Dio".

A conferma di ciò è venuta lo scorso 10 giugno la risposta del papa al prete che lo interpellava sul significato del celibato, integralmente trascritta qui di seguito.

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DAL COLLOQUIO DI BENEDETTO XVI CON I SACERDOTI

Roma, Piazza San Pietro, 10 giugno 2010


SULLO "SCANDALO" DEL CELIBATO


D. – Padre Santo, sono don Karol Miklosko e vengo dall’Europa, precisamente dalla Slovacchia, e sono missionario in Russia. Quando celebro la santa messa trovo me stesso e capisco che lì incontro la mia identità e la radice e l’energia del mio ministero. Il sacrificio della croce mi svela il Buon Pastore che dà tutto per il gregge, per ciascuna pecora, e quando dico: "Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue" dato e versato in sacrificio per voi, allora capisco la bellezza del celibato e dell’obbedienza, che ho liberamente promesso al momento dell’ordinazione. Pur con le naturali difficoltà, il celibato mi sembra ovvio, guardando Cristo, ma mi trovo frastornato nel leggere tante critiche mondane a questo dono. Le chiedo umilmente, Padre Santo, di illuminarci sulla profondità e sul senso autentico del celibato ecclesiastico.

R. – Grazie per le due parti della sua domanda. La prima, dove mostra il fondamento permanente e vitale del nostro celibato; la seconda che mostra tutte le difficoltà nelle quali ci troviamo nel nostro tempo.

Importante è la prima parte, cioè: centro della nostra vita deve realmente essere la celebrazione quotidiana della santa eucaristia; e qui sono centrali le parole della consacrazione: "Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue"; cioè: parliamo "in persona Christi". Cristo ci permette di usare il suo "io", parliamo nell’"io" di Cristo, Cristo ci "tira in sé" e ci permette di unirci, ci unisce con il suo "io". E così, tramite questa azione, questo fatto che egli ci "tira" in se stesso, in modo che il nostro "io" diventa unito al suo, realizza la permanenza, l’unicità del suo sacerdozio; così lui è realmente sempre l’unico sacerdote, e tuttavia molto presente nel mondo, perché "tira" noi in se stesso e così rende presente la sua missione sacerdotale. Questo vuol dire che siamo "tirati" nel Dio di Cristo: è questa unione con il suo "io" che si realizza nelle parole della consacrazione.

Anche nell’"io ti assolvo" – perché nessuno di noi potrebbe assolvere dai peccati – è l’"io" di Cristo, di Dio, che solo può assolvere. Questa unificazione del suo "io" con il nostro implica che siamo "tirati" anche nella sua realtà di Risorto, andiamo avanti verso la vita piena della risurrezione, della quale Gesù parla ai sadducei in Matteo, capitolo 22: è una vita "nuova", nella quale già siamo oltre il matrimonio (cfr. Mt 22, 23-32). È importante che ci lasciamo sempre di nuovo penetrare da questa identificazione dell’"io" di Cristo con noi, da questo essere "tirati fuori" verso il mondo della risurrezione.

In questo senso, il celibato è un’anticipazione. Trascendiamo questo tempo e andiamo avanti, e così "tiriamo" noi stessi e il nostro tempo verso il mondo della risurrezione, verso la novità di Cristo, verso la nuova e vera vita. Quindi, il celibato è un’anticipazione resa possibile dalla grazia del Signore che ci "tira" a sé verso il mondo della risurrezione; ci invita sempre di nuovo a trascendere noi stessi, questo presente, verso il vero presente del futuro, che diventa presente oggi.

E qui siamo a un punto molto importante. Un grande problema della cristianità del mondo di oggi è che non si pensa più al futuro di Dio: sembra sufficiente solo il presente di questo mondo. Vogliamo avere solo questo mondo, vivere solo in questo mondo. Così chiudiamo le porte alla vera grandezza della nostra esistenza. Il senso del celibato come anticipazione del futuro è proprio aprire queste porte, rendere più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già come presente. Vivere, quindi, così in una testimonianza della fede: crediamo realmente che Dio c’è, che Dio c’entra nella mia vita, che posso fondare la mia vita su Cristo, sulla vita futura.

E conosciamo adesso le critiche mondane delle quali lei ha parlato. È vero che per il mondo agnostico, il mondo in cui Dio non c’entra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra proprio che Dio è considerato e vissuto come realtà. Con la vita escatologica del celibato, il mondo futuro di Dio entra nelle realtà del nostro tempo. E questo dovrebbe scomparire!

In un certo senso, può sorprendere questa critica permanente contro il celibato, in un tempo nel quale diventa sempre più di moda non sposarsi. Ma questo non sposarsi è una cosa totalmente, fondamentalmente diversa dal celibato, perché il non sposarsi è basato sulla volontà di vivere solo per se stessi, di non accettare alcun vincolo definitivo, di avere la vita in ogni momento in una piena autonomia, decidere in ogni momento come fare, cosa prendere dalla vita; e quindi un "no" al vincolo, un "no" alla definitività, un avere la vita solo per se stessi. Mentre il celibato è proprio il contrario: è un "sì" definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo "io", e quindi è un atto di fedeltà e di fiducia, un atto che suppone anche la fedeltà del matrimonio; è proprio il contrario di questo "no", di questa autonomia che non vuole obbligarsi, che non vuole entrare in un vincolo; è proprio il "sì" definitivo che suppone, conferma il "sì" definitivo del matrimonio. E questo matrimonio è la forma biblica, la forma naturale dell’essere uomo e donna, fondamento della grande cultura cristiana, di grandi culture del mondo. E se scompare questo, andrà distrutta la radice della nostra cultura.

Perciò il celibato conferma il "sì" del matrimonio con il suo "sì" al mondo futuro, e così vogliamo andare avanti e rendere presente questo scandalo di una fede che pone tutta l’esistenza su Dio. Sappiamo che accanto a questo grande scandalo, che il mondo non vuole vedere, ci sono anche gli scandali secondari delle nostre insufficienze, dei nostri peccati, che oscurano il vero e grande scandalo, e fanno pensare: "Ma non vivono realmente sul fondamento di Dio". Ma c’è tanta fedeltà! Il celibato, proprio le critiche lo mostrano, è un grande segno della fede, della presenza di Dio nel mondo. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a renderci liberi dagli scandali secondari, perché renda presente il grande scandalo della nostra fede: la fiducia, la forza della nostra vita, che si fonda in Dio e in Cristo Gesù!

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La sera del 10 giugno 2010 in piazza San Pietro, in questa medesima veglia di chiusura dell'Anno Sacerdotale, Benedetto XVI ha risposto anche ad altre domande su altri temi.

Ecco qui di seguito due di questi botta e risposta: il primo sullo studio della teologia, il secondo sul calo delle vocazioni.


SULLA TEOLOGIA "SCIENTIFICA"


D. – Santità, sono Mathias Agnero e vengo dall’Africa, precisamente dalla Costa d’Avorio. Lei è un papa teologo, mentre noi, quando riusciamo, leggiamo appena qualche libro di teologia per la formazione. Ci pare, tuttavia, che si sia creata una frattura tra teologia e dottrina e, ancor più, tra teologia e spiritualità. Si sente la necessità che lo studio non sia tutto accademico ma alimenti la nostra spiritualità. Ne sentiamo il bisogno nello stesso ministero pastorale. Talvolta la teologia non sembra che abbia Dio al centro e Gesù Cristo come primo "luogo teologico", ma abbia invece i gusti e le tendenze diffuse; e la conseguenza è il proliferare di opinioni soggettive che permettono l’introdursi, anche nella Chiesa, di un pensiero non cattolico. Come non disorientarci nella nostra vita e nel nostro ministero, quando è il mondo che giudica la fede e non viceversa? Ci sentiamo "scentrati"!

R. – Lei tocca un problema molto difficile e doloroso. C’è realmente una teologia che vuole soprattutto essere accademica, apparire scientifica e dimentica la realtà vitale, la presenza di Dio, la sua presenza tra di noi, il suo parlare oggi, non solo nel passato. Già san Bonaventura ha distinto due forme di teologia, nel suo tempo; ha detto: "C’è una teologia che viene dall’arroganza della ragione, che vuole dominare tutto, fa passare Dio da soggetto a oggetto che noi studiamo, mentre dovrebbe essere soggetto che ci parla e ci guida".

C’è realmente questo abuso della teologia, che è arroganza della ragione e non nutre la fede, ma oscura la presenza di Dio nel mondo. Poi, c’è una teologia che vuole conoscere di più per amore dell’amato, è stimolata dall’amore e guidata dall’amore, vuole conoscere di più l’amato. E questa è la vera teologia, che viene dall’amore di Dio, di Cristo e vuole entrare più profondamente in comunione con Cristo.

In realtà, le tentazioni, oggi, sono grandi; soprattutto, si impone la cosiddetta "visione moderna del mondo" (Bultmann: "modernes Weltbild"), che diventa il criterio di quanto sarebbe possibile o impossibile. E così, proprio con questo criterio che tutto è come sempre, che tutti gli avvenimenti storici sono dello stesso genere, si esclude proprio la novità del Vangelo, si esclude l’irruzione di Dio, la vera novità che è la gioia della nostra fede.

Che cosa fare? Io direi prima di tutto ai teologi: abbiate coraggio. E vorrei dire un grande grazie anche ai tanti teologi che fanno un buon lavoro. Ci sono gli abusi, lo sappiamo, ma in tutte le parti del mondo ci sono tanti teologi che vivono veramente della Parola di Dio, si nutrono della meditazione, vivono la fede della Chiesa e vogliono aiutare affinché la fede sia presente nel nostro oggi.

E direi ai teologi in generale: "Non abbiate paura di questo fantasma della scientificità!". Io seguo la teologia dal 1946; ho incominciato a studiare la teologia nel gennaio 1946 e quindi ho visto quasi tre generazioni di teologi, e posso dire: le ipotesi che in quel tempo e poi negli anni Sessanta e Ottanta erano le più nuove, assolutamente scientifiche, assolutamente quasi dogmatiche, nel frattempo sono invecchiate e non valgono più! Molte di loro appaiono quasi ridicole. Quindi, avere il coraggio di resistere all’apparente scientificità, di non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, ma pensare realmente a partire dalla grande fede della Chiesa, che è presente in tutti i tempi e ci apre l’accesso alla verità. Soprattutto, anche, non pensare che la ragione positivistica, che esclude il trascendente – che non può essere accessibile – sia la vera ragione! Questa ragione debole, che presenta solo le cose sperimentabili, è realmente una ragione insufficiente. Noi teologi dobbiamo usare la ragione grande, che è aperta alla grandezza di Dio. Dobbiamo avere il coraggio di andare oltre il positivismo alla questione delle radici dell’essere.

Questo mi sembra di grande importanza. Quindi, occorre avere il coraggio della grande, ampia ragione, avere l’umiltà di non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, vivere della grande fede della Chiesa di tutti i tempi. Non c’è una maggioranza contro la maggioranza dei santi: la vera maggioranza sono i santi nella Chiesa e ai santi dobbiamo orientarci!

Poi, ai seminaristi e ai sacerdoti dico lo stesso: pensate che la Sacra Scrittura non è un libro isolato: è vivente nella comunità vivente della Chiesa, che è lo stesso soggetto in tutti i secoli e garantisce la presenza della Parola di Dio. Il Signore ci ha dato la Chiesa come soggetto vivo, con la struttura dei vescovi in comunione con il papa, e questa grande realtà dei vescovi del mondo in comunione con il papa ci garantisce la testimonianza della verità permanente. Abbiamo fiducia in questo magistero permanente della comunione dei vescovi con il papa, che ci rappresenta la presenza della Parola; abbiamo fiducia nella vita della Chiesa.

E poi dobbiamo essere critici. Certamente la formazione teologica – questo vorrei dire ai seminaristi – è molto importante. Nel nostro tempo dobbiamo conoscere bene la Sacra Scrittura, anche proprio contro gli attacchi delle sette; dobbiamo essere realmente amici della Parola. Dobbiamo conoscere anche le correnti del nostro tempo per poter rispondere ragionevolmente, per poter dare – come dice san Pietro – "ragione della nostra fede". La formazione è molto importante. Ma dobbiamo essere anche critici: il criterio della fede è il criterio con il quale vedere anche i teologi e le teologie. Papa Giovanni Paolo II ci ha donato un criterio assolutamente sicuro nel catechismo della Chiesa cattolica: qui vediamo la sintesi della nostra fede, e questo catechismo è veramente il criterio per vedere dove va una teologia accettabile o non accettabile. Quindi, raccomando la lettura, lo studio di questo testo, e così possiamo andare avanti con una teologia critica nel senso positivo, cioè critica contro le tendenze della moda e aperta alle vere novità, alla profondità inesauribile della Parola di Dio, che si rivela nuova in tutti i tempi, anche nel nostro tempo.


SUL CALO DELLE VOCAZIONI



D. – Beatissimo Padre, sono don Anthony Denton e vengo dall'Oceania, dall’Australia. Questa sera qui siamo in tantissimi sacerdoti. Sappiamo però che i nostri seminari non sono pieni e che, nel futuro, in varie parti del mondo, ci attende un calo, anche brusco. Cosa fare di davvero efficace per le vocazioni? Come proporre la nostra vita, in ciò che di grande e bello c’è in essa, ad un giovane del nostro tempo?

R. – Realmente lei tocca un problema grande e doloroso del nostro tempo: la mancanza di vocazioni, a causa della quale Chiese locali sono in pericolo di inaridire, perché manca la Parola di vita, manca la presenza del sacramento dell’eucaristia e degli altri sacramenti. Cosa fare? La tentazione è grande: di prendere noi stessi in mano la cosa, di trasformare il sacerdozio – il sacramento di Cristo, l’essere eletto da lui – in una normale professione, in un "job" che ha le sue ore, e per il resto uno appartiene solo a se stesso; e così rendendolo come una qualunque altra vocazione: renderlo accessibile e facile.

Ma è una tentazione, questa, che non risolve il problema. Mi fa pensare alla storia di Saul, il re di Israele, che prima della battaglia contro i filistei aspetta Samuele per il necessario sacrificio a Dio. E quando Samuele, nel momento atteso, non viene, lui stesso compie il sacrificio, pur non essendo sacerdote (cfr. 1 Sam 13); pensa di risolvere così il problema, che naturalmente non risolve, perché se prende in mano lui stesso quanto non può fare, si fa lui stesso Dio, o quasi, e non può aspettarsi che le cose vadano realmente nel modo di Dio.

Così, anche noi, se svolgessimo solo una professione come altri, rinunciando alla sacralità, alla novità, alla diversità del sacramento che dà solo Dio, che può venire soltanto dalla sua vocazione e non dal nostro "fare", non risolveremo nulla. Tanto più dobbiamo – come ci invita il Signore – pregare Dio, bussare alla porta, al cuore di Dio, affinché ci dia le vocazioni; pregare con grande insistenza, con grande determinazione, con grande convinzione anche, perché Dio non si chiude ad una preghiera insistente, permanente, fiduciosa, anche se lascia fare, aspettare, come Saul, oltre i tempi che noi abbiamo previsto. Questo mi sembra il primo punto: incoraggiare i fedeli ad avere questa umiltà, questa fiducia, questo coraggio di pregare con insistenza per le vocazioni, di bussare al cuore di Dio perché ci dia dei sacerdoti.

Oltre a questo direi forse tre punti. Il primo: ognuno di noi dovrebbe fare il possibile per vivere il proprio sacerdozio in maniera tale da risultare convincente, in maniera tale che i giovani possano dire: questa è una vera vocazione, così si può vivere, così si fa una cosa essenziale per il mondo. Penso che nessuno di noi sarebbe diventato sacerdote se non avesse conosciuto sacerdoti convincenti nei quali ardeva il fuoco dell’amore di Cristo. Quindi, questo è il primo punto: cerchiamo di essere noi stessi sacerdoti convincenti.

Il secondo punto è che dobbiamo invitare, come ho già detto, all’iniziativa della preghiera, ad avere questa umiltà, questa fiducia di parlare con Dio con forza, con decisione.

Il terzo punto: avere il coraggio di parlare con i giovani se possono pensare che Dio li chiami, perché spesso una parola umana è necessaria per aprire l’ascolto alla vocazione divina; parlare con i giovani e soprattutto aiutarli a trovare un contesto vitale in cui possano vivere. Il mondo di oggi è tale che quasi appare esclusa la maturazione di una vocazione sacerdotale; i giovani hanno bisogno di ambienti in cui si vive la fede, in cui appare la bellezza della fede, in cui appare che questo è un modello di vita, "il" modello di vita, e quindi aiutarli a trovare movimenti, o la parrocchia – la comunità in parrocchia – o altri contesti dove realmente siano circondati dalla fede, dall’amore di Dio, e possano quindi essere aperti affinché la vocazione di Dio arrivi e li aiuti. Del resto, ringraziamo il Signore per tutti i seminaristi del nostro tempo, per i giovani sacerdoti, e preghiamo. Il Signore ci aiuterà!


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La trascrizione integrale del colloquio del 10 giugno 2010 tra Benedetto XVI e i sacerdoti:

> Veglia a conclusione dell'Anno Sacerdotale

E la documentazione completa in più lingue dell'Anno Sacerdotale, nel sito del Vaticano:

> Anno Sacerdotale

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Il discorso del papa alla curia romana del 22 dicembre 2006:

> "Signori cardinali..."

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Il servizio di www.chiesa del 28 maggio 2010 sulla questione del celibato del clero:

> Eunuchi per il Regno dei Cieli. La disputa sul celibato


A questo proposito, tra gli studi più recenti, va segnalata l'eccellente sintesi storica e teologica scritta da Cesare Bonivento, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere e vescovo di Vanimo in Papua-Nuova Guinea:

Cesare Bonivento, "Il celibato sacerdotale. Istituzione ecclesiastica o tradizione apostolica?", San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 184, euro 14,00.

Nella seconda sezione del libro Bonivento mostra – sulla base dell'ininterrotta tradizione della Chiesa latina – come la regola della continenza dovrebbe valere anche per gli uomini sposati ordinati diaconi dopo il Concilio Vaticano II.



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15.6.2010 
AMDG et BVM