(di Giovanni Turco) Un classico brocardo esprime uno dei principi elementari di giustizia: nessuna pena senza colpa. La pena presuppone la colpa. E quella è giusta solo se è proporzionata a questa. Si tratta di un criterio basilare della sapienza giuridica. Vi si attualizza l’istanza del giusto, la quale è perenne e vincolante per tutti e nei confronti di chiunque. Perciò intramontabile ed inconfutabile. La giustizia, infatti, trova compimento quando si dà a ciascuno il suo. Non quando si infliggono sanzioni per asservire altri al proprio volere.
Non quando si esercita un potere che rimuove i criteri del retto operare,alla stregua di ostacoli o di ingombri. Nessuna pena è intrinsecamente legittima senza che essa si riferisca ad una colpa. Solo in presenza della colpa la pena è giustificata. Altrimenti è arbitraria. Ovvio che debba trattarsi di una colpa reale, non ipotetica. Accertata, non presunta. Ma affinché la colpa sia riconosciuta come tale e (posta che sia stata compiuta) sia valutata nella sua obiettiva gravità, occorre che l’imputato abbia la possibilità di difendersi. Che possa esporre le proprie ragioni. Che abbia la possibilità di fare emergere fatti e situazioni. Giacché, come è noto, contra factum non valet argumentum. A tal fine esiste il processo. Breve o lungo, che sia. Essenziale o complesso, che sia.
L’incolpato ha diritto al processo. Tanto civile, quanto canonico. Proprio perché ne sia verificata la colpa, se colpa vi è. Perché vi sia agio per capire, quindi per ascoltare, per confrontare, per discutere. Difatti senza capire non è possibile giudicare. E senza giudicare è arbitrario sanzionare. La ricerca del giusto è anzitutto questione di razionalità. E se la sanzione è priva di razionalità (cioè di autentica giustificazione), essa assume il carattere della sopraffazione. D’altra parte, se la colpa non è accertata, oltre ogni ragionevole dubbio, come può qualcuno essere considerato meritevole di sanzioni?
La presunzione di innocenza è questione di giustizia. Ciascuno ha diritto all’onorabilità, fino a prova contraria. Si tratta di un diritto, richiesto dal primato del giusto. Non da quello (inesistente) del desiderio. Ed altro è la colpa, altro è il sospetto. La storia delle tirannie e delle rivoluzioni è costellata di esecuzioni penali contro i sospetti. Non quella della civiltà giuridica, laica o ecclesiastica che sia. Ogni atto umano, come tale è imputabile, proprio in quanto consapevole e libero. Ma altro è, per chicchessia, essere imputabile, altro è essere imputato. Ed, eventualmente, altro è essere imputato, altro è essere condannato. Tra tali termini non vi è continuità. Vi è un abisso. L’autorità autentica è sottomessa alla giustizia. Non è arbitra della giustizia. Presuppone la giustizia.
Non la “inventa”, ad libitum. Senza intrinseca finalizzazione di giustizia, all’autorità non resterebbe se non il potere. Tale da presumere di essere criterio a se medesimo, così da identificare libito e lecito. Insomma, tale da assumere il proprio volere come regola a se stesso, escludendo ogni principio superiore, che, come tale, va al di là del volere e del potere. Di chiunque. Dal supremo all’infimo dei poteri. Non altrimenti si esprime il Diritto canonico. Si pensi, esemplarmente, a quanto stabiliscono alcuni canoni, in tema di connessione tra pena e colpa: «I fedeli hanno il diritto di non essere colpiti da pene canoniche, se non a norma di legge» (can. 221); «Per pronunciare una sentenza qualsiasi si richiede nell’animo del giudice la certezza morale su quanto deve decidere con essa. Il giudice deve attingere questa certezza dagli atti e da quanto è stato dimostrato» (can. 1608); «Nessuno è punito, se la violazione esterna della legge o del precetto da lui commessa non sia gravemente imputabile per dolo o per colpa» (can. 1321).
A sua volta il Diritto canonico stesso presuppone il diritto naturale, ovvero il giusto in quanto tale. E nessuna procedura legale può surrogarlo. Infatti, come ha ricordato Benedetto XVI, «il vero diritto è inseparabile dalla giustizia. Il principio vale ovviamente anche per la legge canonica, nel senso che essa non può essere rinchiusa in un sistema normativo meramente umano, ma deve essere collegata a un ordine giusto della Chiesa, in cui vige una legge superiore» (Discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale della Rota romana, 21/1/2012).
Ora, se tali considerazioni non fanno che profilare quanto l’intelligenza del giusto richiede per se stessa, finiscono per apparire – almeno a chi scrive – ingiustificabili quelle restrizioni della libertà imposte al Fondatore dei Francescani dell’Immacolata, padre Stefano M. Manelli. Come quella che si esprime nel divieto di partecipare ad incontri, di apparire comunque in pubblico, di rilasciare dichiarazioni, o di incontrare i Frati dello stesso Istituto (ad eccezione dei frati che ne abitassero al momento il medesimo convento). È innegabile che tali limitazioni della libertà di comunicare, di incontrare, di partecipare – quindi di esercitare anche in tal modo il proprio ministero – giungano ad avere un carattere obiettivamente afflittivo (indipendentemente dalle intenzioni o delle finalità soggettive di chi le ha comminate), non solo quanto agli atti impediti ma anche quanto al soggetto cui sono destinate.
Per se stesse, altresì, gettano un’ombra sulla reputazione (se pure non la feriscono esplicitamente) dell’uomo, del sacerdote e del religioso, a cui sono dirette. Senza che ad esse sia preceduta alcuna incriminazione, alcun accertamento, alcun giudizio, alcuna condanna. A quali colpe corrispondono tali restrizioni della libertà? Quali leggi ha violato chi ne è destinatario? Quali reati ha commesso? Quando sono stati accertati? Quando è stata data la possibilità di difendersi al destinatario della restrizione? C’è mai stato un regolare dibattimento ed una regolare sentenza, che abbiano concluso per una qualche colpevolezza in qualsivoglia materia? Perché tali provvedimenti restrittivi precedono, anziché seguire, un rigoroso accertamento giudiziale? Si tratta di domande sostanziali, che valgono per se stesse, indipendentemente da chi le ponga.
Ad esigere una risposta è la natura stessa della giustizia, a cui nessuno è, o può dirsi, superiore. La quale trascende ogni preferenza, e non è il risultato di qualsivoglia appartenenza. La giustizia è quella che Antigone invocò di fronte al tiranno Creonte. Ed è quella stessa che Gesù oppose al servo che lo percuoteva: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23). (Giovanni Turco)