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venerdì 10 febbraio 2017

Nessuna pena senza colpa

Nulla poena sine culpa (il caso Manelli)


(di Giovanni Turco) Un classico brocardo esprime uno dei principi elementari di giustizia: nessuna pena senza colpa. La pena presuppone la colpa. E quella è giusta solo se è proporzionata a questa. Si tratta di un criterio basilare della sapienza giuridica. Vi si attualizza l’istanza del giusto, la quale è perenne e vincolante per tutti e nei confronti di chiunque. Perciò intramontabile ed inconfutabile. La giustizia, infatti, trova compimento quando si dà a ciascuno il suo. Non quando si infliggono sanzioni per asservire altri al proprio volere.
Non quando si esercita un potere che rimuove i criteri del retto operare,alla stregua di ostacoli o di ingombri. Nessuna pena è intrinsecamente legittima senza che essa si riferisca ad una colpa. Solo in presenza della colpa la pena è giustificata. Altrimenti è arbitraria. Ovvio che debba trattarsi di una colpa reale, non ipotetica. Accertata, non presunta. Ma affinché la colpa sia riconosciuta come tale e (posta che sia stata compiuta) sia valutata nella sua obiettiva gravità, occorre che l’imputato abbia la possibilità di difendersi. Che possa esporre le proprie ragioni. Che abbia la possibilità di fare emergere fatti e situazioni. Giacché, come è noto, contra factum non valet argumentum. A tal fine esiste il processo. Breve o lungo, che sia. Essenziale o complesso, che sia.
L’incolpato ha diritto al processo. Tanto civile, quanto canonico. Proprio perché ne sia verificata la colpa, se colpa vi è. Perché vi sia agio per capire, quindi per ascoltare, per confrontare, per discutere. Difatti senza capire non è possibile giudicare. E senza giudicare è arbitrario sanzionare. La ricerca del giusto è anzitutto questione di razionalità. E se la sanzione è priva di razionalità (cioè di autentica giustificazione), essa assume il carattere della sopraffazione. D’altra parte, se la colpa non è accertata, oltre ogni ragionevole dubbio, come può qualcuno essere considerato meritevole di sanzioni?
La presunzione di innocenza è questione di giustizia. Ciascuno ha diritto all’onorabilità, fino a prova contraria. Si tratta di un diritto, richiesto dal primato del giusto. Non da quello (inesistente) del desiderio. Ed altro è la colpa, altro è il sospetto. La storia delle tirannie e delle rivoluzioni è costellata di esecuzioni penali contro i sospetti. Non quella della civiltà giuridica, laica o ecclesiastica che sia. Ogni atto umano, come tale è imputabile, proprio in quanto consapevole e libero. Ma altro è, per chicchessia, essere imputabile, altro è essere imputato. Ed, eventualmente, altro è essere imputato, altro è essere condannato. Tra tali termini non vi è continuità. Vi è un abisso. L’autorità autentica è sottomessa alla giustizia. Non è arbitra della giustizia. Presuppone la giustizia.
 Non la “inventa”, ad libitum. Senza intrinseca finalizzazione di giustizia, all’autorità non resterebbe se non il potere. Tale da presumere di essere criterio a se medesimo, così da identificare libito e lecito. Insomma, tale da assumere il proprio volere come regola a se stesso, escludendo ogni principio superiore, che, come tale, va al di là del volere e del potere. Di chiunque. Dal supremo all’infimo dei poteri. Non altrimenti si esprime il Diritto canonico. Si pensi, esemplarmente, a quanto stabiliscono alcuni canoni, in tema di connessione tra pena e colpa: «I fedeli hanno il diritto di non essere colpiti da pene canoniche, se non a norma di legge» (can. 221); «Per pronunciare una sentenza qualsiasi si richiede nell’animo del giudice la certezza morale su quanto deve decidere con essa. Il giudice deve attingere questa certezza dagli atti e da quanto è stato dimostrato» (can. 1608); «Nessuno è punito, se la violazione esterna della legge o del precetto da lui commessa non sia gravemente imputabile per dolo o per colpa» (can. 1321).
A sua volta il Diritto canonico stesso presuppone il diritto naturale, ovvero il giusto in quanto tale. E nessuna procedura legale può surrogarlo. Infatti, come ha ricordato Benedetto XVI, «il vero diritto è inseparabile dalla giustizia. Il principio vale ovviamente anche per la legge canonica, nel senso che essa non può essere rinchiusa in un sistema normativo meramente umano, ma deve essere collegata a un ordine giusto della Chiesa, in cui vige una legge superiore» (Discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale della Rota romana, 21/1/2012).
Ora, se tali considerazioni non fanno che profilare quanto l’intelligenza del giusto richiede per se stessa, finiscono per apparire – almeno a chi scrive – ingiustificabili quelle restrizioni della libertà imposte al Fondatore dei Francescani dell’Immacolata, padre Stefano M. Manelli. Come quella che si esprime nel divieto di partecipare ad incontri, di apparire comunque in pubblico, di rilasciare dichiarazioni, o di incontrare i Frati dello stesso Istituto (ad eccezione dei frati che ne abitassero al momento il medesimo convento). È innegabile che tali limitazioni della libertà di comunicare, di incontrare, di partecipare – quindi di esercitare anche in tal modo il proprio ministero – giungano ad avere un carattere obiettivamente afflittivo (indipendentemente dalle intenzioni o delle finalità soggettive di chi le ha comminate), non solo quanto agli atti impediti ma anche quanto al soggetto cui sono destinate.
Per se stesse, altresì, gettano un’ombra sulla reputazione (se pure non la feriscono esplicitamente) dell’uomo, del sacerdote e del religioso, a cui sono dirette. Senza che ad esse sia preceduta alcuna incriminazione, alcun accertamento, alcun giudizio, alcuna condanna. A quali colpe corrispondono tali restrizioni della libertà? Quali leggi ha violato chi ne è destinatario? Quali reati ha commesso? Quando sono stati accertati? Quando è stata data la possibilità di difendersi al destinatario della restrizione? C’è mai stato un regolare dibattimento ed una regolare sentenza, che abbiano concluso per una qualche colpevolezza in qualsivoglia materia? Perché tali provvedimenti restrittivi precedono, anziché seguire, un rigoroso accertamento giudiziale? Si tratta di domande sostanziali, che valgono per se stesse, indipendentemente da chi le ponga.
Ad esigere una risposta è la natura stessa della giustizia, a cui nessuno è, o può dirsi, superiore. La quale trascende ogni preferenza, e non è il risultato di qualsivoglia appartenenza. La giustizia è quella che Antigone invocò di fronte al tiranno Creonte. Ed è quella stessa che Gesù oppose al servo che lo percuoteva: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23). (Giovanni Turco)

martedì 21 febbraio 2012

SERAFINO EUCARISTICO: San Francesco d’Assisi "ardeva di amore in tutte le fibre del suo essere verso il Sacramento del Corpo del Signore, preso da stupore oltre ogni misura per tanta benevola degnazione e generosissima carità.



SAN FRANCESCO D’ASSISI
modello di amore eucaristico per i sacerdoti e per i fedeli
S. Francesco d’Assisi "ardeva di amore in tutte le fibre del suo essere verso il Sacramento del Corpo del Signore, preso da stupore oltre ogni misura per tanta benevola degnazione e generosissima carità. Riteneva grave segno di disprezzo non ascoltare almeno una Messa al giorno, se il tempo lo permet­teva. Si comunicava spesso e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri...
Un giorno volle mandare i frati per il mondo con pissi­di preziose, perchè riponessero in luogo il più degno possibi­le il prezzo della redenzione, ovunque lo vedessero conserva­to con poco decoro.
Voleva che si dimostrasse grande rispetto alle mani del Sacerdote, perché ad esse è stato conferito il Divino potere di consacrare questo Sacramento. "Se mi capitasse - diceva spesso - di incontrare insieme un Santo che viene dal cielo ed un Sacerdote poverello, saluterei prima il Prete e correrei a baciargli le mani. Direi infatti: Ohi! Aspetta, San Lorenzo, perché le mani di costui toccano il Verbo di vita e possiedo­no un potere sovrumano!'".
In questa stupenda pagina del beato Tommaso da Celano, primo biografo di san Francesco d’Assisi, è riassunta tutta la vita Eucaristica di S. Francesco, ricca di amore e di fede, di devozione e di ardore. Non manca proprio nulla all'esempla­rità di una vita Eucaristica piena e perfetta per tutti: per gli stessi sacerdoti, come per i semplici fedeli.
La S. Messa, la S. Comunione, l'adorazione Eucaristica, il decoro dell'altare e delle Chiese, la venerazione per i Sacerdoti ministri dell'Eucaristia: in tutto questo S. Francesco ci è maestro e modello in misura tale da farlo considerare non solo un Santo Eucaristico ma un serafino innamorato dell' Eucaristia.
E tra i suoi figli noi avremo le figure mirabili di serafini dell'Eucaristia come S. Antonio di Padova e S. Bonaventura che hanno scritto pagine di sublime dottrina e di struggente amore all'Eucaristia, come S. Pasquale Baylon, diventato protettore dei congressi Eucaristici, come S. Giuseppe da Copertino che si levava in volo estatico verso gli Ostensori e verso i Tabernacoli, come il B. Matteo da Girgenti e il B. Bo­naventura da Potenza che dopo morte, anche con il corpo­ cadavere venerarono l'Eucaristia, come san Pio da Pietrelcina che per più ore di giorno e di notte sostava in preghiera presso l’altare eucaristico.
La S. Messa era per S. Francesco un mistero di grazia così sublime che nella lettera al Capitolo generale e a tutti i frati scrisse queste esclamazioni di fuoco: "L'umanità trepi­di, l'universo intero tremi, e il cielo esulti, quando sull'alta­re, nelle mani del Sacerdote, è il Cristo figlio di Dio vivo".
La cosa che sconvolge S. Francesco è l'amore di Gesù spinto fino ad un'umiltà inconcepibile: "O ammirabile altez­za, o degnazione stupenda! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell'Universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, in poca appa­renza di pane!".
Per questo egli considerava grave mancanza di amore da parte nostra l'assenza alla S. Messa quotidiana. Per questo egli non solo partecipava almeno ad una S. Messa, ma quan­do era infermo, per quanto era possibile, si faceva celebrare la S. Messa in cella, o almeno si faceva leggere la pagina del Vangelo della Messa del giorno: "Voleva sempre ascoltare il Vangelo del giorno - è scritto nella Leggenda perugina - quando non aveva potuto partecipare alla Messa".
Quale lezione per noi tutti, che spesso siamo così pigri e facciamo fatica anche a partecipare alla Messa solo la do­menica! Non parliamo poi della Messa giornaliera, disertata al punto che in tante Chiese il Sacerdote deve celebrare la S. Messa ai banchi o a quattro devote vecchiette.
File:Jacopo chimenti detto l'empoli, madonna che porge il bambino a san francesco.jpg
Per la S. Comunione, S. Francesco ci insegna come rice­verla da serafini ardenti di amore: "Si comunicava spesso - dice il Celano - e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri". Ecco la vera devozione: quella che edifica, che costruisce, che spinge al meglio anche gli altri. S. Bona­ventura infatti dice che la devozione di S. Francesco nel fare la S. Comunione era tale "da rendere devoti anche gli altri". Basti pensare che subito dopo la Comunione "il più delle volte veniva rapito in estasi". E il Celano ci svela l'intimo di S. Francesco scrivendo che "quando riceveva l'Agnello im­molato, immolava lo spirito in quel fuoco, che ardeva sem­pre sull'altare del suo cuore". Questo e l'amore che diventa fusione, l'immolazione d'amore che non ammette divisioni: "Chi mangia la mia carne e beve il mio Sangue rimane in Me e Io in lui" (Gv 6,56).
S. Francesco si preparava alla S. Comunione con una premura attentissima: non solo la sua vita Santa, ricca di eroismi quotidiani, ma anche la Confessione sacramentale doveva preparare ogni volta la sua anima a ricevere Gesù Eucaristico con il massimo candore di grazia. A quei tempi non più di tre volte alla settimana poteva comunicarsi: ebbe­ne, tre volte alla settimana S. Francesco si confessava. Quan­do si ama, si vuol compiacere la persona amata donandole tutto ciò che possa farla gioire. L'anima purificata dal Sacramento della Confessione diventa una dimora piena di cando­re e di profumo per Gesù Ostia immacolata. S. Francesco non solo lo sapeva e lo faceva, ma lo raccomandava a tutti con fervore veramente serafico. Nella Lettera a tutti i fedeli S. Francesco scrisse così: Gesù "vuole che tutti siamo salvi per Lui, e che lo si riceva con cuore puro e corpo casto. Ma pochi sono coloro che lo vogliono ricevere...". Nella Lettera ai reggitori dei popoli scrive: "Vi consiglio, signori miei, di mettere da parte ogni cura e preoccupazione e di ricevere devotamente la comunione del Santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo".
Quando si ama, inoltre, si guarda con occhi d'amore non solo la persona amata, ma anche tutto ciò che riguarda la persona amata. In tal senso S. Francesco coltivò a tensione altissima d'amore sia l'adorazione all'Eucaristia, sia la vene­razione per tutto ciò che riguarda l'Eucaristia, ossia le Chiese e i Sacerdoti.
La passione d'amore per l'adorazione Eucaristica fu cosi ardente in S. Francesco, che non erano poche le notti intere da lui trascorse ai piedi del Tabernacolo. E se talvolta il sonno lo prendeva, si appisolava per un poco sui gradini dell'altare, e poi riprendeva instancabile e fervente. Chi lo sosteneva? La fede e l'amore verso questo "mirabile Sacramento" (dalla Liturgia).
La sua fede e il suo amore all'Eucaristia si irradiano dalla sua vita e dai suoi scritti con un fulgore luminosissimo. Ai frati una volta scrisse: "Prego tutti voi, fratelli, baciando­vi i piedi e con quanto ardore posso, di tributare tutta la riverenza e tutto l'onore che potete al Santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo".
Per S. Francesco la fede nell'Eucaristia fa tutt'uno con la fede nella SS. Trinità e nel Verbo Incarnato. E così voleva che fosse per tutti. Perciò scriveva con vigore e calore: "Il Figlio, in quanto Dio come il Padre, non differisce in qualche cosa dal Padre e dallo Spirito Santo. E allora tutti coloro che si fermarono alla sola umanità del Si­gnore Gesù Cristo e non videro e non credettero nello Spiri­to di Dio, che egli era vero Figlio di Dio, furono condannati; similmente adesso tutti coloro che vedono il sacramento del corpo di Cristo, il quale viene sacrificato sull'altare mediante le parole del Signore, però per il ministero del Sacerdote, Sotto le specie del pane e del vino, e non vedono e non cre­dono, secondo lo Spirito di Dio che esso è veramente il San­tissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo, sono condannati". E poco oltre continua la sua ammonizione con un efficace paragone: "Come ai Santi apostoli apparve in ve­ra Carne, così ora si mostra a noi nel Pane Consacrato; e co­me essi con lo sguardo fisico vedevano solo la sua Carne ma, contemplandolo con gli occhi della fede, credevano che egli era Dio, così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, vediamo e fermamente crediamo che il suo Santis­simo Corpo e Sangue sono vivi e veri".
Questa fede e questo amore arriveranno al punto di far­gli esclamare più volte che "dell'altissimo Figlio di Dio nient'altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il Santissimo Corpo e il Sangue suo... E questi Santissimi mi­steri sopra ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e col­locati in luoghi preziosi".
L'amore alla Casa del Signore è inseparabile dall'amore all'Eucaristia. Non si può amare Gesù e trascurare la sua di­mora. Anche in questo S. Francesco ci ha lasciato una lezio­ne stupenda per ardore e concretezza. Personalmente, egli si preoccupava della pulizia delle Chiese, dei calici e delle pissidi, delle tovaglie e delle ostie, dei vasi di fiori e delle lampade.
Esortava i ministri dell'altare ad essere ferventi e fedeli nel circondare il SS. Sacramento di ogni decoro e riverenza. In una lettera ai Custodi sembra scrivere proprio in ginoc­chio: "Vi prego, più che se lo facessi per me stesso, perché quando conviene e lo vedrete necessario, supplichiate umil­mente i Sacerdoti perché venerino sopra ogni cosa il Santissi­mo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo... I calici, i corporali, gli ornamenti degli altari e tutto ciò che riguarda il Sacrificio devono essere preziosi. E se il Santissimo Corpo del Signore sarà collocato in modo miserevole in qualche luogo, secondo il precetto della Chiesa, sia posto da essi in un luogo prezioso e sia custodito e sia portato con grande venerazione e nel dovuto modo sia dato agli altri... E quan­do è consacrato dal Sacerdote sull'altare ed è portato in qualche parte, tutti, in ginocchio, rendano lode, gloria e onore al Signore Dio vivo e vero".
Queste cose S. Francesco le scriveva e le diceva. Quando arrivava in un paese, dopo aver predicato al popolo, di solito radunava a parte il clero e parlava di questi problemi con ardore appassionato, ricorrendo perfino alla minaccia delle pene eterne: "Non si muove a pietà il nostro animo - escla­mava - sapendo che il Signore, così buono, si mette nelle nostre mani e noi possiamo toccarlo e riceverlo? O ignoria­mo che cadremo nelle sue mani? Emendiamoci decisamen­te, dunque, di queste e di altre cose, e dovunque si trovasse il Santissimo Corpo del Signore nostro Gesù Cristo riposto e lasciato indegnamente, rimoviamolo da quel luogo e riponia­molo e racchiudiamolo in un luogo prezioso".
Più concretamente ancora, S. Francesco stesso, andan­do a predicare per città e villaggi "portava una scopa per pu­lire le Chiese", come riferisce la Leggenda perugina, perché "molto soffriva Francesco nell'entrare in una chiesa e veder­la sporca", e ciò lo spingeva a raccomandare ai Sacerdoti "di avere la massima cura nel mantenere pulite le Chiese, gli alta­ri e tutta la suppellettile che serve per la celebrazione dei divini misteri".
Inoltre, "una volta volle mandare alcuni frati per tutte le province, - dice lo Specchio di perfezione - a portare pissidi belle e splendenti, affinché dovunque trovassero il Corpo del Signore conservato in modo sconveniente, lo col­locassero con onore in quelle pissidi. E anche volle mandare altri frati per tutte le regioni con molti e buoni ferri da o­stie, per fare delle particole belle e pure".
Se a questo aggiungiamo che S. Francesco faceva pre­parare da S. Chiara i corporali da donare alle Chiese povere e che egli stesso a volte preparava i vasi di fiori per l'altare, possiamo farci un'idea più completa del fervore Eucaristico di S. Francesco.
* * *
Che cosa dire, in particolare, della venerazione di san Francesco per i Sacerdoti all’altare? Basti qui riportare le parole del suo Testamento: "Il signore mi dette e mi dà tanta fede nei Sacerdoti che vivono secondo la forma della Santa Chiesa romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi e non voglio in loro considerare il peccato, perché in essi io vedo il Figlio di Dio".
Ecco la visione soprannaturale di S. Francesco riguardo ai consacrati in “Persona Christi”, ossia ai Sacerdoti: "In essi io vedo il Figlio di Dio". Per questo egli voleva che "fossero onorati in maniera particolare i Sacerdoti - dicono i Tre compagni – i quali amministrano sacramenti così venerandi e sublimi: dovunque li incontrassero, doveva­no chinare il capo davanti a loro e baciare loro le mani... E difatti, dovunque s'imbattessero in un Sacerdote, non impor­ta se ricco o povero, degno o indegno, s'inchinavano umil­mente in segno di reverenza".
Agli stessi Sacerdoti egli dice con amore: "Badate alla vostra dignità, frati Sacerdoti, e siate Santi perché Egli è Santo. E come il Signore Dio onorò voi sopra tutti gli uomini, per questo mistero, così voi più di ogni altro uomo amate, riverite, onorate Lui". E’ davvero ineffabile la dignità di colui che “impersona Cristo” ed è chiamato ad essere ovunque “presenza di Cristo” e a pensare, parlare e operare in tutto “come Cristo”.
Per questo san Francesco si preoccupa che i Sacerdoti possano sempre “celebrare la Messa puri e ripieni di purezza compiano con riverenza il vero sacrificio del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo, con intenzione santa e monda…”. Abbiano sempre, essi, la massima devozione e il massimo candore dell’anima, con la perfet­ta obbedienza a tutte le norme della Chiesa e con tutta la delicatezza nel portarlo fra le mani e nel distribuirlo agli al­tri, facendo così stupire gli angeli che li assistono.
San Francesco non si stanca di raccomandare ai sacerdoti soprattutto l’umiltà, riferendo l’esempio di Gesù stesso il quale “ogni giorno si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine: ogni giorno, infatti, egli stesso viene a noi in apparenza umile, ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote”.
E le mani del sacerdote dovrebbero essere pure come quelle della Madonna, raccomanda il Serafico Padre, esprimendosi con queste parole sublimi: “Ascoltate, fratelli miei. Se la Beata Vergine è così onorata, come è giusto, perché lo portò nel suo santissimo grembo [….] quanto deve essere santo, giusto e degno colui che tocca con le sue mani, riceve nel cuore e con la bocca e offre agli altri, perché ne mangino, Lui non già morituro, ma in eterno vivente e glorificato, sul quale gli angeli desiderano fissare lo sguardo”.
Per questo, considerando tali compiti così sublimi del Sacerdote, san Francesco non può trattenersi dal fare una dolorosa e amara costatazione nei riguardi di ogni Sacerdote: “E’ una grande miseria e una miseranda debolezza, che avendo lui così presente, voi vi prendiate cura di qualche altra cosa in tutto il mondo”. Se ogni Sacerdote riflettesse sui richiami del Serafico Padre!
La conclusione di tutto il discorso sulla pietà e sulla vita Eucaristica secondo S. Francesco d’Assisi possiamo trovarla in questa sua esortazio­ne che vale certamente anche per tutti noi: "Nulla di voi tenete per voi; affinché vi accolga tutti Colui che a voi si dà tutto". Essere l’uno dell’altro, essere l’uno nell’altro: non è forse questo il contenuto delle divine parole d’amore sommo di Gesù: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6, 56)?
P. Stefano Maria Manelli FI

LAUDETUR JESUS CHRISTUS!
LAUDETUR CUM MARIA!
SEMPER LAUDENTUR!