martedì 20 dicembre 2016

È il segno, dice, che Dio c'è e ci si appassiona per lui.


Per rafforzarlo - Il papa Benedetto XVI 


"ripensa" il celibato del clero. 


È il segno, dice, che Dio c'è e ci si appassiona per lui. Per questo è un grande scandalo e lo si vuol fare sparire. La trascrizione integrale dell'ultimo intervento di Benedetto XVI sul tema. E di una sua sorprendente anteprima del 2006

di Sandro Magister


ROMA, 15 giugno 2010 – A chi si aspettava un "ripensamento" della regola del celibato del clero latino, Benedetto XVI è andato incontro. Ma a modo suo.


La sera di giovedì 10 giugno, in piazza San Pietro, nella veglia di chiusura dell'Anno Sacerdotale, rispondendo a cinque domande di altrettanti preti dei cinque continenti, papa Joseph Ratzinger ha dedicato una risposta proprio a illustrare il significato della castità dei sacerdoti. E l'ha fatto in forma originale, distaccandosi dalla letteratura storica, teologica e spirituale corrente.

La trascrizione integrale e autenticata della risposta del papa, diffusa dal Vaticano due giorni dopo e riprodotta più sotto, consente di capire in profondità il suo ragionamento.

Il celibato – ha detto il papa – è un'anticipazione "del mondo della risurrezione". È il segno "che Dio c’è, che Dio c’entra nella mia vita, che posso fondare la mia vita su Cristo, sulla vita futura".

Per questo – ha detto ancora – il celibato "è un grande scandalo". Non solo per il mondo di oggi "in cui Dio non c’entra". Ma per la stessa cristianità, nella quale "non si pensa più al futuro di Dio e sembra sufficiente solo il presente di questo mondo".

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Basta questo per capire che un caposaldo di questo pontificato non è l'allentamento del celibato del clero ma il suo rafforzamento. Strettamente connesso con quella che Benedetto XVI ha più volte indicato come la "priorità" della sua missione:

"Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo [...] in Gesù Cristo crocifisso e risorto".

Così il papa nella memorabile lettera aperta da lui scritta ai vescovi di tutto il mondo il 10 marzo 2009.

Ma prima ancora, c'è stato un altro importante discorso nel quale Benedetto XVI ha esplicitamente legato il celibato del clero alla "priorità" del condurre gli uomini verso Dio, e ha spiegato il perché di questo legame.

È il discorso che egli ha rivolto alla curia romana il 22 dicembre 2006, commentando i suoi viaggi fuori d'Italia di quell'anno. 

A proposito del suo viaggio in Germania di tre mesi prima, quello della celebre lezione di Ratisbona, il papa così esordì:

"Il grande tema del mio viaggio in Germania era Dio. La Chiesa deve parlare di tante cose: di tutte le questioni connesse con l’essere uomo, della propria struttura e del proprio ordinamento e così via. Ma il suo tema vero e – sotto certi aspetti – unico è 'Dio'. E il grande problema dell’Occidente è la dimenticanza di Dio: è un oblio che si diffonde. In definitiva, tutti i singoli problemi possono essere riportati a questa domanda, ne sono convinto. Perciò, in quel viaggio la mia intenzione principale era di mettere ben in luce il tema 'Dio', memore anche del fatto che in alcune parti della Germania vive una maggioranza di non-battezzati, per i quali il cristianesimo e il Dio della fede sembrano cose che appartengono al passato.

"Parlando di Dio, tocchiamo anche precisamente l'argomento che, nella predicazione terrena di Gesù, costituiva il suo interesse centrale. Il tema fondamentale di tale predicazione è il dominio di Dio, il 'Regno di Dio'. Con ciò non è espresso qualcosa che verrà una volta o l’altra in un futuro indeterminato. Neppure si intende con ciò quel mondo migliore che cerchiamo di creare passo passo con le nostre forze. Nel termine 'Regno di Dio' la parola 'Dio' è un genitivo soggettivo. Questo significa: Dio non è un’aggiunta al 'Regno', che forse si potrebbe anche lasciar cadere. Dio è il soggetto. Regno di Dio vuol dire in realtà: Dio regna. Egli stesso è presente ed è determinante per gli uomini nel mondo. Egli è il soggetto, e dove manca questo soggetto non resta nulla del messaggio di Gesù. Perciò Gesù ci dice: il Regno di Dio non viene in modo che si possa, per così dire, mettersi sul lato della strada ed osservare il suo arrivo. 'È in mezzo a voi!' (cfr. Lc 17, 20s). Esso si sviluppa dove viene realizzata la volontà di Dio. È presente dove vi sono persone che si aprono al suo arrivo e così lasciano che Dio entri nel mondo. Perciò Gesù è il Regno di Dio in persona: l’uomo nel quale Dio è in mezzo a noi e attraverso il quale noi possiamo toccare Dio, avvicinarci a Dio. Dove questo accade, il mondo si salva".

Detto questo, Benedetto XVI proseguì legando alla questione di Dio proprio quella del sacerdozio e del celibato sacerdotale:

"Paolo chiama Timoteo – e in lui il vescovo e, in genere, il sacerdote – “uomo di Dio” (1 Tim 6, 11). È questo il compito centrale del sacerdote: portare Dio agli uomini. Certamente può farlo soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio. Ciò è espresso meravigliosamente in un versetto di un salmo sacerdotale che noi – la vecchia generazione – abbiamo pronunciato durante l’ammissione allo stato clericale: "Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (Sal 16 [15], 5). L’orante-sacerdote di questo salmo interpreta la sua esistenza a partire dalla forma della distribuzione del territorio fissata nel Deuteronomio (cfr. 10, 9). Dopo la presa di possesso della terra ogni tribù ottiene per mezzo del sorteggio la sua porzione della terra santa e con ciò prende parte al dono promesso al capostipite Abramo. Solo la tribù di Levi non riceve alcun terreno: la sua terra è Dio stesso. Questa affermazione aveva certamente un significato del tutto pratico. I sacerdoti non vivevano, come le altre tribù, della coltivazione della terra, ma delle offerte. Tuttavia, l’affermazione va più in profondità. Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. La Chiesa, in questa interpretazione anticotestamentaria dell’esistenza sacerdotale – un’interpretazione che emerge ripetutamente anche nel salmo 118 [119]  – ha visto con ragione la spiegazione di ciò che significa la missione sacerdotale nella sequela degli apostoli, nella comunione con Gesù stesso. Il sacerdote può e deve dire anche oggi con il levita: “Dominus pars hereditatis meae et calicis mei”; Dio stesso è la mia parte di terra, il fondamento esterno ed interno della mia esistenza. Questa teocentricità dell’esistenza sacerdotale è necessaria proprio nel nostro mondo totalmente funzionalistico, nel quale tutto è fondato su prestazioni calcolabili e verificabili. Il sacerdote deve veramente conoscere Dio dal di dentro e portarlo così agli uomini: è questo il servizio prioritario di cui l'umanità di oggi ha bisogno. Se in una vita sacerdotale si perde questa centralità di Dio, si svuota passo passo anche lo zelo dell’agire. Nell’eccesso delle cose esterne manca il centro che dà senso a tutto e lo riconduce all’unità. Lì manca il fondamento della vita, la 'terra', sulla quale tutto questo può stare e prosperare.

"Il celibato, che vige per i vescovi in tutta la Chiesa orientale ed occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli apostoli, per i sacerdoti in genere nella Chiesa latina, può essere compreso e vissuto, in definitiva, solo in base a questa impostazione di fondo. Le ragioni solamente pragmatiche, il riferimento alla maggiore disponibilità, non bastano: una tale maggiore disponibilità di tempo potrebbe facilmente diventare anche una forma di egoismo, che si risparmia i sacrifici e le fatiche richieste dall’accettarsi e dal sopportarsi a vicenda nel matrimonio; potrebbe così portare ad un impoverimento spirituale o ad una durezza di cuore. Il vero fondamento del celibato può essere racchiuso solo nella frase: 'Dominus pars', tu sei la mia terra. Può essere solo teocentrico. Non può significare il rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi grazie ad un più intimo stare con lui a servire pure gli uomini.

"Il celibato deve essere una testimonianza di fede: la fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di lui, rinunciando al matrimonio ed alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarlo agli uomini. Il nostro mondo diventato totalmente positivistico, in cui Dio entra in gioco tutt’al più come ipotesi, ma non come realtà concreta, ha bisogno di questo poggiare su Dio nel modo più concreto e radicale possibile. Ha bisogno della testimonianza per Dio che sta nella decisione di accogliere Dio come 'terra' su cui si fonda la propria esistenza.

"Per questo il celibato è così importante proprio oggi, nel nostro mondo attuale, anche se il suo adempimento in questa nostra epoca è continuamente minacciato e messo in questione. Occorre una preparazione accurata durante il cammino verso questo obiettivo; un accompagnamento persistente da parte del vescovo, di amici sacerdoti e di laici, che sostengano insieme questa testimonianza sacerdotale. Occorre la preghiera che invoca senza tregua Dio come il Dio vivente e si appoggia a lui nelle ore di confusione come nelle ore della gioia. In questo modo, contrariamente al 'trend' culturale che cerca di convincerci che non siamo capaci di prendere tali decisioni, questa testimonianza può essere vissuta e così, nel nostro mondo, può rimettere in gioco Dio come realtà".

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Riletto questo discorso del dicembre 2006, non stupisce che Benedetto XVI continui tuttora a dedicare tante energie al clero.

L'indizione dell'Anno Sacerdotale, la proposta di figure esemplari come il santo Curato d'Ars, il rafforzamento del celibato fanno parte – nella visione del papa – di un disegno coerentissimo, che fa tutt'uno con "la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo", cioè col "condurre gli uomini verso Dio".

A conferma di ciò è venuta lo scorso 10 giugno la risposta del papa al prete che lo interpellava sul significato del celibato, integralmente trascritta qui di seguito. 



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DAL COLLOQUIO DI BENEDETTO XVI CON I SACERDOTI

Roma, Piazza San Pietro, 10 giugno 2010


SULLO "SCANDALO" DEL CELIBATO


D. – Padre Santo, sono don Karol Miklosko e vengo dall’Europa, precisamente dalla Slovacchia, e sono missionario in Russia. Quando celebro la santa messa trovo me stesso e capisco che lì incontro la mia identità e la radice e l’energia del mio ministero. Il sacrificio della croce mi svela il Buon Pastore che dà tutto per il gregge, per ciascuna pecora, e quando dico: "Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue" dato e versato in sacrificio per voi, allora capisco la bellezza del celibato e dell’obbedienza, che ho liberamente promesso al momento dell’ordinazione. Pur con le naturali difficoltà, il celibato mi sembra ovvio, guardando Cristo, ma mi trovo frastornato nel leggere tante critiche mondane a questo dono. Le chiedo umilmente, Padre Santo, di illuminarci sulla profondità e sul senso autentico del celibato ecclesiastico.

R. – Grazie per le due parti della sua domanda. La prima, dove mostra il fondamento permanente e vitale del nostro celibato; la seconda che mostra tutte le difficoltà nelle quali ci troviamo nel nostro tempo.

Importante è la prima parte, cioè: centro della nostra vita deve realmente essere la celebrazione quotidiana della santa eucaristia; e qui sono centrali le parole della consacrazione: "Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue"; cioè: parliamo "in persona Christi". Cristo ci permette di usare il suo "io", parliamo nell’"io" di Cristo, Cristo ci "tira in sé" e ci permette di unirci, ci unisce con il suo "io". E così, tramite questa azione, questo fatto che egli ci "tira" in se stesso, in modo che il nostro "io" diventa unito al suo, realizza la permanenza, l’unicità del suo sacerdozio; così lui è realmente sempre l’unico sacerdote, e tuttavia molto presente nel mondo, perché "tira" noi in se stesso e così rende presente la sua missione sacerdotale. Questo vuol dire che siamo "tirati" nel Dio di Cristo: è questa unione con il suo "io" che si realizza nelle parole della consacrazione.

Anche nell’"io ti assolvo" – perché nessuno di noi potrebbe assolvere dai peccati – è l’"io" di Cristo, di Dio, che solo può assolvere. Questa unificazione del suo "io" con il nostro implica che siamo "tirati" anche nella sua realtà di Risorto, andiamo avanti verso la vita piena della risurrezione, della quale Gesù parla ai sadducei in Matteo, capitolo 22: è una vita "nuova", nella quale già siamo oltre il matrimonio (cfr. Mt 22, 23-32). È importante che ci lasciamo sempre di nuovo penetrare da questa identificazione dell’"io" di Cristo con noi, da questo essere "tirati fuori" verso il mondo della risurrezione.

In questo senso, il celibato è un’anticipazione. Trascendiamo questo tempo e andiamo avanti, e così "tiriamo" noi stessi e il nostro tempo verso il mondo della risurrezione, verso la novità di Cristo, verso la nuova e vera vita. Quindi, il celibato è un’anticipazione resa possibile dalla grazia del Signore che ci "tira" a sé verso il mondo della risurrezione; ci invita sempre di nuovo a trascendere noi stessi, questo presente, verso il vero presente del futuro, che diventa presente oggi.

E qui siamo a un punto molto importante. Un grande problema della cristianità del mondo di oggi è che non si pensa più al futuro di Dio: sembra sufficiente solo il presente di questo mondo. Vogliamo avere solo questo mondo, vivere solo in questo mondo. Così chiudiamo le porte alla vera grandezza della nostra esistenza. Il senso del celibato come anticipazione del futuro è proprio aprire queste porte, rendere più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già come presente. Vivere, quindi, così in una testimonianza della fede: crediamo realmente che Dio c’è, che Dio c’entra nella mia vita, che posso fondare la mia vita su Cristo, sulla vita futura.

E conosciamo adesso le critiche mondane delle quali lei ha parlato. È vero che per il mondo agnostico, il mondo in cui Dio non c’entra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra proprio che Dio è considerato e vissuto come realtà. Con la vita escatologica del celibato, il mondo futuro di Dio entra nelle realtà del nostro tempo. E questo dovrebbe scomparire!

In un certo senso, può sorprendere questa critica permanente contro il celibato, in un tempo nel quale diventa sempre più di moda non sposarsi. Ma questo non sposarsi è una cosa totalmente, fondamentalmente diversa dal celibato, perché il non sposarsi è basato sulla volontà di vivere solo per se stessi, di non accettare alcun vincolo definitivo, di avere la vita in ogni momento in una piena autonomia, decidere in ogni momento come fare, cosa prendere dalla vita; e quindi un "no" al vincolo, un "no" alla definitività, un avere la vita solo per se stessi. Mentre il celibato è proprio il contrario: è un "sì" definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani del Signore, nel suo "io", e quindi è un atto di fedeltà e di fiducia, un atto che suppone anche la fedeltà del matrimonio; è proprio il contrario di questo "no", di questa autonomia che non vuole obbligarsi, che non vuole entrare in un vincolo; è proprio il "sì" definitivo che suppone, conferma il "sì" definitivo del matrimonio. E questo matrimonio è la forma biblica, la forma naturale dell’essere uomo e donna, fondamento della grande cultura cristiana, di grandi culture del mondo. E se scompare questo, andrà distrutta la radice della nostra cultura.

Perciò il celibato conferma il "sì" del matrimonio con il suo "sì" al mondo futuro, e così vogliamo andare avanti e rendere presente questo scandalo di una fede che pone tutta l’esistenza su Dio. Sappiamo che accanto a questo grande scandalo, che il mondo non vuole vedere, ci sono anche gli scandali secondari delle nostre insufficienze, dei nostri peccati, che oscurano il vero e grande scandalo, e fanno pensare: "Ma non vivono realmente sul fondamento di Dio". Ma c’è tanta fedeltà! Il celibato, proprio le critiche lo mostrano, è un grande segno della fede, della presenza di Dio nel mondo. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a renderci liberi dagli scandali secondari, perché renda presente il grande scandalo della nostra fede: la fiducia, la forza della nostra vita, che si fonda in Dio e in Cristo Gesù!

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La sera del 10 giugno 2010 in piazza San Pietro, in questa medesima veglia di chiusura dell'Anno Sacerdotale, Benedetto XVI ha risposto anche ad altre domande su altri temi.

Ecco qui di seguito due di questi botta e risposta: il primo sullo studio della teologia, il secondo sul calo delle vocazioni.


SULLA TEOLOGIA "SCIENTIFICA"


D. – Santità, sono Mathias Agnero e vengo dall’Africa, precisamente dalla Costa d’Avorio. Lei è un papa teologo, mentre noi, quando riusciamo, leggiamo appena qualche libro di teologia per la formazione. Ci pare, tuttavia, che si sia creata una frattura tra teologia e dottrina e, ancor più, tra teologia e spiritualità. Si sente la necessità che lo studio non sia tutto accademico ma alimenti la nostra spiritualità. Ne sentiamo il bisogno nello stesso ministero pastorale. Talvolta la teologia non sembra che abbia Dio al centro e Gesù Cristo come primo "luogo teologico", ma abbia invece i gusti e le tendenze diffuse; e la conseguenza è il proliferare di opinioni soggettive che permettono l’introdursi, anche nella Chiesa, di un pensiero non cattolico. Come non disorientarci nella nostra vita e nel nostro ministero, quando è il mondo che giudica la fede e non viceversa? Ci sentiamo "scentrati"!

R. – Lei tocca un problema molto difficile e doloroso. C’è realmente una teologia che vuole soprattutto essere accademica, apparire scientifica e dimentica la realtà vitale, la presenza di Dio, la sua presenza tra di noi, il suo parlare oggi, non solo nel passato. Già san Bonaventura ha distinto due forme di teologia, nel suo tempo; ha detto: "C’è una teologia che viene dall’arroganza della ragione, che vuole dominare tutto, fa passare Dio da soggetto a oggetto che noi studiamo, mentre dovrebbe essere soggetto che ci parla e ci guida".

C’è realmente questo abuso della teologia, che è arroganza della ragione e non nutre la fede, ma oscura la presenza di Dio nel mondo. Poi, c’è una teologia che vuole conoscere di più per amore dell’amato, è stimolata dall’amore e guidata dall’amore, vuole conoscere di più l’amato. E questa è la vera teologia, che viene dall’amore di Dio, di Cristo e vuole entrare più profondamente in comunione con Cristo.

In realtà, le tentazioni, oggi, sono grandi; soprattutto, si impone la cosiddetta "visione moderna del mondo" (Bultmann: "modernes Weltbild"), che diventa il criterio di quanto sarebbe possibile o impossibile. E così, proprio con questo criterio che tutto è come sempre, che tutti gli avvenimenti storici sono dello stesso genere, si esclude proprio la novità del Vangelo, si esclude l’irruzione di Dio, la vera novità che è la gioia della nostra fede.

Che cosa fare? Io direi prima di tutto ai teologi: abbiate coraggio. E vorrei dire un grande grazie anche ai tanti teologi che fanno un buon lavoro. Ci sono gli abusi, lo sappiamo, ma in tutte le parti del mondo ci sono tanti teologi che vivono veramente della Parola di Dio, si nutrono della meditazione, vivono la fede della Chiesa e vogliono aiutare affinché la fede sia presente nel nostro oggi.

E direi ai teologi in generale: "Non abbiate paura di questo fantasma della scientificità!". Io seguo la teologia dal 1946; ho incominciato a studiare la teologia nel gennaio 1946 e quindi ho visto quasi tre generazioni di teologi, e posso dire: le ipotesi che in quel tempo e poi negli anni Sessanta e Ottanta erano le più nuove, assolutamente scientifiche, assolutamente quasi dogmatiche, nel frattempo sono invecchiate e non valgono più! Molte di loro appaiono quasi ridicole. Quindi, avere il coraggio di resistere all’apparente scientificità, di non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, ma pensare realmente a partire dalla grande fede della Chiesa, che è presente in tutti i tempi e ci apre l’accesso alla verità. Soprattutto, anche, non pensare che la ragione positivistica, che esclude il trascendente – che non può essere accessibile – sia la vera ragione! Questa ragione debole, che presenta solo le cose sperimentabili, è realmente una ragione insufficiente. Noi teologi dobbiamo usare la ragione grande, che è aperta alla grandezza di Dio. Dobbiamo avere il coraggio di andare oltre il positivismo alla questione delle radici dell’essere.

Questo mi sembra di grande importanza. Quindi, occorre avere il coraggio della grande, ampia ragione, avere l’umiltà di non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, vivere della grande fede della Chiesa di tutti i tempi. Non c’è una maggioranza contro la maggioranza dei santi: la vera maggioranza sono i santi nella Chiesa e ai santi dobbiamo orientarci!

Poi, ai seminaristi e ai sacerdoti dico lo stesso: pensate che la Sacra Scrittura non è un libro isolato: è vivente nella comunità vivente della Chiesa, che è lo stesso soggetto in tutti i secoli e garantisce la presenza della Parola di Dio. Il Signore ci ha dato la Chiesa come soggetto vivo, con la struttura dei vescovi in comunione con il papa, e questa grande realtà dei vescovi del mondo in comunione con il papa ci garantisce la testimonianza della verità permanente. Abbiamo fiducia in questo magistero permanente della comunione dei vescovi con il papa, che ci rappresenta la presenza della Parola; abbiamo fiducia nella vita della Chiesa.

E poi dobbiamo essere critici. Certamente la formazione teologica – questo vorrei dire ai seminaristi – è molto importante. Nel nostro tempo dobbiamo conoscere bene la Sacra Scrittura, anche proprio contro gli attacchi delle sette; dobbiamo essere realmente amici della Parola. Dobbiamo conoscere anche le correnti del nostro tempo per poter rispondere ragionevolmente, per poter dare – come dice san Pietro – "ragione della nostra fede". La formazione è molto importante. Ma dobbiamo essere anche critici: il criterio della fede è il criterio con il quale vedere anche i teologi e le teologie. Papa Giovanni Paolo II ci ha donato un criterio assolutamente sicuro nel catechismo della Chiesa cattolica: qui vediamo la sintesi della nostra fede, e questo catechismo è veramente il criterio per vedere dove va una teologia accettabile o non accettabile. Quindi, raccomando la lettura, lo studio di questo testo, e così possiamo andare avanti con una teologia critica nel senso positivo, cioè critica contro le tendenze della moda e aperta alle vere novità, alla profondità inesauribile della Parola di Dio, che si rivela nuova in tutti i tempi, anche nel nostro tempo.


SUL CALO DELLE VOCAZIONI


D. – Beatissimo Padre, sono don Anthony Denton e vengo dall'Oceania, dall’Australia. Questa sera qui siamo in tantissimi sacerdoti. Sappiamo però che i nostri seminari non sono pieni e che, nel futuro, in varie parti del mondo, ci attende un calo, anche brusco. Cosa fare di davvero efficace per le vocazioni? Come proporre la nostra vita, in ciò che di grande e bello c’è in essa, ad un giovane del nostro tempo?

R. – Realmente lei tocca un problema grande e doloroso del nostro tempo: la mancanza di vocazioni, a causa della quale Chiese locali sono in pericolo di inaridire, perché manca la Parola di vita, manca la presenza del sacramento dell’eucaristia e degli altri sacramenti. Cosa fare? La tentazione è grande: di prendere noi stessi in mano la cosa, di trasformare il sacerdozio – il sacramento di Cristo, l’essere eletto da lui – in una normale professione, in un "job" che ha le sue ore, e per il resto uno appartiene solo a se stesso; e così rendendolo come una qualunque altra vocazione: renderlo accessibile e facile.

Ma è una tentazione, questa, che non risolve il problema. Mi fa pensare alla storia di Saul, il re di Israele, che prima della battaglia contro i filistei aspetta Samuele per il necessario sacrificio a Dio. E quando Samuele, nel momento atteso, non viene, lui stesso compie il sacrificio, pur non essendo sacerdote (cfr. 1 Sam 13); pensa di risolvere così il problema, che naturalmente non risolve, perché se prende in mano lui stesso quanto non può fare, si fa lui stesso Dio, o quasi, e non può aspettarsi che le cose vadano realmente nel modo di Dio.

Così, anche noi, se svolgessimo solo una professione come altri, rinunciando alla sacralità, alla novità, alla diversità del sacramento che dà solo Dio, che può venire soltanto dalla sua vocazione e non dal nostro "fare", non risolveremo nulla. Tanto più dobbiamo – come ci invita il Signore – pregare Dio, bussare alla porta, al cuore di Dio, affinché ci dia le vocazioni; pregare con grande insistenza, con grande determinazione, con grande convinzione anche, perché Dio non si chiude ad una preghiera insistente, permanente, fiduciosa, anche se lascia fare, aspettare, come Saul, oltre i tempi che noi abbiamo previsto. Questo mi sembra il primo punto: incoraggiare i fedeli ad avere questa umiltà, questa fiducia, questo coraggio di pregare con insistenza per le vocazioni, di bussare al cuore di Dio perché ci dia dei sacerdoti.

Oltre a questo direi forse tre punti. Il primo: ognuno di noi dovrebbe fare il possibile per vivere il proprio sacerdozio in maniera tale da risultare convincente, in maniera tale che i giovani possano dire: questa è una vera vocazione, così si può vivere, così si fa una cosa essenziale per il mondo. Penso che nessuno di noi sarebbe diventato sacerdote se non avesse conosciuto sacerdoti convincenti nei quali ardeva il fuoco dell’amore di Cristo. Quindi, questo è il primo punto: cerchiamo di essere noi stessi sacerdoti convincenti.

Il secondo punto è che dobbiamo invitare, come ho già detto, all’iniziativa della preghiera, ad avere questa umiltà, questa fiducia di parlare con Dio con forza, con decisione.

Il terzo punto: avere il coraggio di parlare con i giovani se possono pensare che Dio li chiami, perché spesso una parola umana è necessaria per aprire l’ascolto alla vocazione divina; parlare con i giovani e soprattutto aiutarli a trovare un contesto vitale in cui possano vivere. Il mondo di oggi è tale che quasi appare esclusa la maturazione di una vocazione sacerdotale; i giovani hanno bisogno di ambienti in cui si vive la fede, in cui appare la bellezza della fede, in cui appare che questo è un modello di vita, "il" modello di vita, e quindi aiutarli a trovare movimenti, o la parrocchia – la comunità in parrocchia – o altri contesti dove realmente siano circondati dalla fede, dall’amore di Dio, e possano quindi essere aperti affinché la vocazione di Dio arrivi e li aiuti. Del resto, ringraziamo il Signore per tutti i seminaristi del nostro tempo, per i giovani sacerdoti, e preghiamo. Il Signore ci aiuterà!

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La trascrizione integrale del colloquio del 10 giugno 2010 tra Benedetto XVI e i sacerdoti:


E la documentazione completa in più lingue dell'Anno Sacerdotale, nel sito del Vaticano:


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Il discorso del papa alla curia romana del 22 dicembre 2006:


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Il servizio di www.chiesa del 28 maggio 2010 sulla questione del celibato del clero:


A questo proposito, tra gli studi più recenti, va segnalata l'eccellente sintesi storica e teologica scritta da Cesare Bonivento, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere e vescovo di Vanimo in Papua-Nuova Guinea:


Nella seconda sezione del libro Bonivento mostra – sulla base dell'ininterrotta tradizione della Chiesa latina – come la regola della continenza dovrebbe valere anche per gli uomini sposati ordinati diaconi dopo il Concilio Vaticano II.




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15.6.2010 



MEMENTOTE

RICORDATE








(la pubblicazione della presente nota è stata accompagnata da
NUMEROSI E FORTI Segni di conferma, davanti al mio altarino)

lunedì 19 dicembre 2016

Chi di spada ferisce di spada perisce!

Ma lei è davvero rinato da acqua e Spirito Santo?



https://gloria.tv/video/dkgHnv8Hjtgh4cyyVCEuvvrR1

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI

DE EN ES FR IT PT ]
DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE
DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI
Sala Clementina
Venerdì, 22 dicembre 2006



Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli!
Con grande gioia vi incontro oggi e rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto. Vi ringrazio per la vostra presenza a questo tradizionale appuntamento, che si tiene nell’imminenza del Santo Natale. Ringrazio in particolare il Cardinale Angelo Sodano per le parole con cui si è fatto interprete dei sentimenti di tutti i presenti, prendendo spunto dal tema centrale dell’Enciclica Deus caritas est. In questa significativa circostanza desidero rinnovargli l’espressione della mia gratitudine per il servizio che in tanti anni ha reso al Papa e alla Santa Sede, segnatamente in qualità di Segretario di Stato, e chiedo al Signore di ricompensarlo per il bene che ha compiuto con la sua saggezza e il suo zelo per la missione della Chiesa. Al tempo stesso, mi piace rinnovare uno speciale augurio al Cardinale Tarcisio Bertone per il nuovo compito che gli ho affidato. Estendo volentieri questi miei sentimenti a quanti, nel corso di quest’anno, sono entrati al servizio della Curia Romana o del Governatorato, mentre con affetto e gratitudine ricordiamo coloro che il Signore ha chiamato a sé da questa vita.

L'anno che volge al termine - lo ha detto Lei, Eminenza - rimane nella nostra memoria con la profonda impronta degli orrori della guerra svoltasi nei pressi della Terra Santa come anche in generale del pericolo di uno scontro tra culture e religioni – un pericolo che incombe tuttora minaccioso su questo nostro momento storico. Il problema delle vie verso la pace è così diventato una sfida di primaria importanza per tutti coloro che si preoccupano dell'uomo. 

Ciò vale in modo particolare per la Chiesa, per la quale la promessa che ne ha accompagnato gli inizi significa insieme una responsabilità e un compito: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra per gli uomini che egli ama" (Lc 2,14).
Questo saluto dell'angelo ai pastori nella notte della nascita di Gesù a Betlemme rivela una connessione inscindibile tra il rapporto degli uomini con Dio e il loro rapporto vicendevole. 

La pace sulla terra non può trovarsi senza la riconciliazione con Dio, senza l'armonia tra cielo e terra. 
Questa correlazione del tema "Dio" col tema "pace" è stato l'aspetto determinante dei quattro Viaggi Apostolici di quest'anno: ad essi vorrei riandare con la memoria in questo momento. 

C'è stata innanzitutto la Visita Pastorale in Polonia, il Paese natale del nostro amato Papa Giovanni Paolo II. Il viaggio nella sua Patria è stato per me un intimo dovere di gratitudine per tutto ciò che egli, durante il quarto di secolo del suo servizio, ha donato a me personalmente e soprattutto alla Chiesa e al mondo. Il suo dono più grande per tutti noi è stata la sua fede incrollabile e il radicalismo della sua dedizione. “Totus tuus” era il suo motto: in esso si rispecchiava tutto il suo essere. Sì, egli si è donato senza riserve a Dio, a Cristo, alla Madre di Cristo, alla Chiesa: al servizio del Redentore ed alla redenzione dell’uomo. Non ha serbato nulla, si è lasciato consumare fino in fondo dalla fiamma della fede. Ci ha mostrato così come, da uomini di questo nostro oggi, si possa credere in Dio, nel Dio vivente resosi vicino a noi in Cristo. Ci ha mostrato che è possibile una dedizione definitiva e radicale dell’intera vita e che, proprio nel donarsi, la vita diventa grande e vasta e feconda. 

In Polonia, ovunque sono andato, ho trovato la gioia della fede. “La gioia del Signore è la vostra forza” – questa parola che, in mezzo alla miseria del nuovo inizio, lo scriba Esdra gridò al popolo di Israele appena tornato dall'esilio (Ne 8,10), qui si poteva sperimentarla come realtà. Sono rimasto profondamente colpito dalla grande cordialità con cui sono stato accolto dappertutto. La gente ha visto in me il successore di Pietro a cui è affidato il ministero pastorale per tutta la Chiesa. 
Vedevano colui al quale, nonostante tutta la debolezza umana, allora come oggi è rivolta la parola del Signore risorto: “Pasci le mie pecorelle” (cfr Gv 21,15-19); vedevano il successore di colui al quale Gesù presso Cesarèa di Filippo disse: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt 16,18). Pietro, da sé, non era una roccia, ma un uomo debole ed incostante. Il Signore, però, volle fare proprio di lui la pietra e dimostrare che, attraverso un uomo debole, Egli stesso sostiene saldamente la sua Chiesa e la mantiene nell’unità. 

Così la visita in Polonia è stata per me, nel senso più profondo, una festa della cattolicità. Cristo è la nostra pace che riunisce i separati: Egli, al di là di tutte le diversità delle epoche storiche e delle culture, è la riconciliazione. Mediante il ministero petrino sperimentiamo questa forza unificatrice della fede che, sempre di nuovo, partendo dai molti popoli edifica l’unico popolo di Dio. Con gioia abbiamo fatto realmente questa esperienza che, provenendo da molti popoli, noi formiamo l’unico popolo di Dio, la sua santa Chiesa. Per questo il ministero petrino può essere il segno visibile che garantisce questa unità e forma un’unità concreta.

Per questa toccante esperienza di cattolicità vorrei ringraziare la Chiesa in Polonia ancora una volta in modo esplicito e di tutto cuore.
Nei miei spostamenti in Polonia non poteva mancare la visita ad Auschwitz-Birkenau nel luogo della barbarie più crudele – del tentativo di cancellare il popolo di Israele, di vanificare così anche l’elezione da parte di Dio, di bandire Dio stesso dalla storia. Fu per me motivo di grande conforto veder comparire nel cielo in quel momento l’arcobaleno, mentre io, davanti all’orrore di quel luogo, nell'atteggiamento di Giobbe gridavo verso Dio, scosso dallo spavento della sua apparente assenza e, al contempo, sorretto dalla certezza che Egli anche nel suo silenzio non cessa di essere e di rimanere con noi. L’arcobaleno era come una risposta: Sì, Io ci sono, e le parole della promessa, dell’Alleanza, che ho pronunciato dopo il diluvio, sono valide anche oggi (cfr Gn 9,12-17).

Il viaggio in Spagna – a Valencia – è stato tutto all'insegna del tema del matrimonio e della famiglia. È stato bello ascoltare, davanti all’assemblea di persone di tutti i continenti, la testimonianza di coniugi che – benedetti da una schiera numerosa di figli – si sono presentati davanti a noi e hanno parlato dei rispettivi cammini nel sacramento del matrimonio e all'interno delle loro famiglie numerose. 

Non hanno nascosto il fatto di aver avuto anche giorni difficili, di aver dovuto attraversare tempi di crisi. Ma proprio nella fatica del sopportarsi a vicenda giorno per giorno, proprio nell'accettarsi sempre di nuovo nel crogiolo degli affanni quotidiani, vivendo e soffrendo fino in fondo il sì iniziale – proprio in questo cammino del "perdersi" evangelico erano maturati, avevano trovato se stessi ed erano diventati felici. 
Il sì che si erano dato reciprocamente, nella pazienza del cammino e nella forza del sacramento con cui Cristo li aveva legati insieme, era diventato un grande sì di fronte a se stessi, ai figli, al Dio Creatore e al Redentore Gesù Cristo. Così dalla testimonianza di queste famiglie ci giungeva un’onda di gioia, non di un’allegrezza superficiale e meschina che si dilegua presto, ma di una gioia maturata anche nella sofferenza, di una gioia che va nel profondo e redime veramente l’uomo. Davanti a queste famiglie con i loro figli, davanti a queste famiglie in cui le generazioni si stringono la mano e il futuro è presente, il problema dell’Europa, che apparentemente quasi non vuol più avere figli, mi è penetrato nell’anima. 
Per l’estraneo, quest’Europa sembra essere stanca, anzi sembra volersi congedare dalla storia. Perché le cose stanno così? Questa è la grande domanda. Le risposte sono sicuramente molto complesse. Prima di cercare tali risposte è doveroso un ringraziamento ai tanti coniugi che anche oggi, nella nostra Europa, dicono sì al figlio e accettano le fatiche che questo comporta: i problemi sociali e finanziari, come anche le preoccupazioni e fatiche giorno dopo giorno; la dedizione necessaria per aprire ai figli la strada verso il futuro. Accennando a queste difficoltà si rendono forse anche chiare le ragioni perché a tanti il rischio di aver figli appare troppo grande. Il bambino ha bisogno di attenzione amorosa. 

Ciò significa: dobbiamo dargli qualcosa del nostro tempo, del tempo della nostra vita. Ma proprio questa essenziale “materia prima” della vita – il tempo – sembra scarseggiare sempre di più. Il tempo che abbiamo a disposizione basta appena per la propria vita; come potremmo cederlo, darlo a qualcun altro? 
Avere tempo e donare tempo – è questo per noi un modo molto concreto per imparare a donare se stessi, a perdersi per trovare se stessi. 
A questo problema si aggiunge il calcolo difficile: di quali norme siamo debitori al bambino perché segua la via giusta e in che modo dobbiamo, nel fare ciò, rispettare la sua libertà? Il problema è diventato così difficile anche perché non siamo più sicuri delle norme da trasmettere; perché non sappiamo più quale sia l’uso giusto della libertà, quale il modo giusto di vivere, che cosa sia moralmente doveroso e che cosa invece inammissibile. 

Lo spirito moderno ha perso l’orientamento, e questa mancanza di orientamento ci impedisce di essere per altri indicatori della retta via. Anzi, la problematica va ancora più nel profondo. L’uomo di oggi è insicuro circa il futuro. È ammissibile inviare qualcuno in questo futuro incerto? In definitiva, è una cosa buona essere uomo? Questa profonda insicurezza sull’uomo stesso – accanto alla volontà di avere la vita tutta per se stessi – è forse la ragione più profonda, per cui il rischio di avere figli appare a molti una cosa quasi non più sostenibile. 
Di fatto, possiamo trasmettere la vita in modo responsabile solo se siamo in grado di trasmettere qualcosa di più della semplice vita biologica e cioè un senso che regga anche nelle crisi della storia ventura e una certezza nella speranza che sia più forte delle nuvole che oscurano il futuro. 

Se non impariamo nuovamente i fondamenti della vita – se non scopriamo in modo nuovo la certezza della fede – ci sarà anche sempre meno possibile affidare agli altri il dono della vita e il compito di un futuro sconosciuto. 

Connesso con ciò è, infine, anche il problema delle decisioni definitive: può l’uomo legarsi per sempre? Può dire un sì per tutta la vita? Sì, lo può. Egli è stato creato per questo. Proprio così si realizza la libertà dell’uomo e così si crea anche l’ambito sacro del matrimonio che si allarga diventando famiglia e costruisce futuro.

A questo punto non posso tacere la mia preoccupazione per le leggi sulle coppie di fatto. Molte di queste coppie hanno scelto questa via, perché – almeno per il momento – non si sentono in grado di accettare la convivenza giuridicamente ordinata e vincolante del matrimonio. Così preferiscono rimanere nel semplice stato di fatto. Quando vengono create nuove forme giuridiche che relativizzano il matrimonio, la rinuncia al legame definitivo ottiene, per così dire, anche un sigillo giuridico. In tal caso il decidersi per chi già fa fatica diventa ancora più difficile. Si aggiunge poi, per l'altra forma di coppie, la relativizzazione della differenza dei sessi. Diventa così uguale il mettersi insieme di un uomo e una donna o di due persone dello stesso sesso. 
Con ciò vengono tacitamente confermate quelle teorie funeste che tolgono ogni rilevanza alla mascolinità e alla femminilità della persona umana, come se si trattasse di un fatto puramente biologico; teorie secondo cui l’uomo – cioè il suo intelletto e la sua volontà – deciderebbe autonomamente che cosa egli sia o non sia. C'è in questo un deprezzamento della corporeità, da cui consegue che l’uomo, volendo emanciparsi dal suo corpo – dalla “sfera biologica” – finisce per distruggere se stesso. 
Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere: forse che l’uomo non ci interessa? I credenti, in virtù della grande cultura della loro fede, non hanno forse il diritto di pronunciarsi in tutto questo?  Non  è piuttosto il loro - il nostro - dovere alzare la voce per difendere l’uomo, quella creatura che, proprio nell’unità inseparabile di corpo e anima, è immagine di Dio? 
Il viaggio a Valencia è diventato per me un viaggio alla ricerca di che cosa significhi l’essere uomo.

Proseguiamo mentalmente verso la Baviera – München, Altötting, Regensburg, Freising. Lì ho potuto vivere giornate indimenticabilmente belle dell’incontro con la fede e con i fedeli della mia patria. Il grande tema del mio viaggio in Germania era Dio. La Chiesa deve parlare di tante cose: di tutte le questioni connesse con l’essere uomo, della propria struttura e del proprio ordinamento e così via. Ma il suo tema vero e – sotto certi aspetti – unico è "Dio". 
E il grande problema dell’Occidente è la dimenticanza di Dio: è un oblio che si diffonde. In definitiva, tutti i singoli problemi possono essere riportati a questa domanda, ne sono convinto. Perciò, in quel viaggio la mia intenzione principale era di mettere ben in luce il tema "Dio", memore anche del fatto che in alcune parti della Germania vive una maggioranza di non-battezzati, per i quali il cristianesimo e il Dio della fede sembrano cose che appartengono al passato. Parlando di Dio, tocchiamo anche precisamente l'argomento che, nella predicazione terrena di Gesù, costituiva il suo interesse centrale. Il tema fondamentale di tale predicazione è il dominio di Dio, il “Regno di Dio”. Con ciò non è espresso qualcosa che verrà una volta o l’altra in un futuro indeterminato. Neppure si intende con ciò quel mondo migliore che cerchiamo di creare passo passo con le nostre forze. 

Nel termine “Regno di Dio” la parola “Dio” è un genitivo soggettivo. Questo significa: Dio non è un’aggiunta al “Regno” che forse si potrebbe anche lasciar cadere. Dio è il soggetto. Regno di Dio vuol dire in realtà: Dio regna. Egli stesso è presente ed è determinante per gli uomini nel mondo. Egli è il soggetto, e dove manca questo soggetto non resta nulla del messaggio di Gesù. 

Perciò Gesù ci dice: il Regno di Dio non viene in modo che si possa, per così dire, mettersi sul lato della strada ed osservare il suo arrivo. “È in mezzo a voi!” (cfr Lc 17,20s). Esso si sviluppa dove viene realizzata la volontà di Dio. È presente dove vi sono persone che si aprono al suo arrivo e così lasciano che Dio entri nel mondo. Perciò Gesù è il Regno di Dio in persona : l’uomo nel quale Dio è in mezzo a noi e attraverso il quale noi possiamo toccare Dio, avvicinarci a Dio. Dove questo accade, il mondo si salva.
Con il tema di Dio erano e sono collegati due temi che hanno dato un’impronta alle giornate della visita in Baviera: il tema del sacerdozio e quello del dialogo. 

Paolo chiama Timoteo – e in lui il Vescovo e, in genere, il sacerdote – “uomo di Dio” (1 Tim 6,11). È questo il compito centrale del sacerdote: portare Dio agli uomini. Certamente può farlo soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio. Ciò è espresso meravigliosamente in un versetto di un Salmo sacerdotale che noi – la vecchia generazione – abbiamo pronunciato durante l’ammissione allo stato chiericale: "Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita” (Sal 16 [15],5). L’orante-sacerdote di questo Salmo interpreta la sua esistenza a partire dalla forma della distribuzione del territorio fissata nel Deuteronomio (cfr 10,9). Dopo la presa di possesso della Terra ogni tribù ottiene per mezzo del sorteggio la sua porzione della Terra santa e con ciò prende parte al dono promesso al capostipite Abramo. 
Solo la tribù di Levi non riceve alcun terreno: la sua terra è Dio stesso. Questa affermazione aveva certamente un significato del tutto pratico. I sacerdoti non vivevano, come le altre tribù, della coltivazione della terra, ma delle offerte. Tuttavia, l’affermazione va più in profondità. Il vero fondamento della vita del sacerdote, il suolo della sua esistenza, la terra della sua vita è Dio stesso. 
La Chiesa, in questa interpretazione anticotestamentaria dell’esistenza sacerdotale – un’interpretazione che emerge ripetutamente anche nel Salmo 118 [119]  – ha visto con ragione la spiegazione di ciò che significa la missione sacerdotale nella sequela degli Apostoli, nella comunione con Gesù stesso. Il sacerdote può e deve dire anche oggi con il levita: “Dominus pars hereditatis meae et calicis mei”. Dio stesso è la mia parte di terra, il fondamento esterno ed interno della mia esistenza. 

Questa teocentricità dell’esistenza sacerdotale è necessaria proprio nel nostro mondo totalmente funzionalistico, nel quale tutto è fondato su prestazioni calcolabili e verificabili. 

Il sacerdote deve veramente conoscere Dio dal di dentro e portarlo così agli uomini: è questo il servizio prioritario di cui l'umanità di oggi ha bisogno. Se in una vita sacerdotale si perde questa centralità di Dio, si svuota passo passo anche lo zelo dell’agire. Nell’eccesso delle cose esterne manca il centro che dà senso a tutto e lo riconduce all’unità. Lì manca il fondamento della vita, la “terra”, sulla quale tutto questo può stare e prosperare.

Il celibato, che vige per i Vescovi in tutta la Chiesa orientale ed occidentale e, secondo una tradizione che risale a un’epoca vicina a quella degli Apostoli, per i sacerdoti in genere nella Chiesa latina, può essere compreso e vissuto, in definitiva, solo in base a questa impostazione di fondo. Le ragioni solamente pragmatiche, il riferimento alla maggiore disponibilità, non bastano: una tale maggiore disponibilità di tempo potrebbe facilmente diventare anche una forma di egoismo, che si risparmia i sacrifici e le fatiche richieste dall’accettarsi e dal sopportarsi a vicenda nel matrimonio; potrebbe così portare ad un impoverimento spirituale o ad una durezza di cuore. 
Il vero fondamento del celibato può essere racchiuso solo nella frase: Dominus pars – Tu sei la mia terra. Può essere solo teocentrico. Non può significare il rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi grazie ad un più intimo stare con Lui a servire pure gli uomini. 
Il celibato deve essere una testimonianza di fede: la fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di Lui, rinunciando al matrimonio ed alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarlo agli uomini. 

Il nostro mondo diventato totalmente positivistico, in cui Dio entra in gioco tutt’al più come ipotesi, ma non come realtà concreta, ha bisogno di questo poggiare su Dio nel modo più concreto e radicale possibile. Ha bisogno della testimonianza per Dio che sta nella decisione di accogliere Dio come terra su cui si fonda la propria esistenza. Per questo il celibato è così importante proprio oggi, nel nostro mondo attuale, anche se il suo adempimento in questa nostra epoca è continuamente minacciato e messo in questione. 
Occorre una preparazione accurata durante il cammino verso questo obiettivo; un accompagnamento persistente da parte del Vescovo, di amici sacerdoti e di laici, che sostengano insieme questa testimonianza sacerdotale. 
Occorre la preghiera che invoca senza tregua Dio come il Dio vivente e si appoggia a Lui nelle ore di confusione come nelle ore della gioia. In questo modo, contrariamente al "trend" culturale che cerca di convincerci che non siamo capaci di prendere tali decisioni, questa testimonianza può essere vissuta e così, nel nostro mondo, può rimettere in gioco Dio come realtà.

L’altro grande tema collegato col tema di Dio è quello del dialogo. Il cerchio interno del complesso dialogo che oggi occorre, l’impegno comune di tutti i cristiani per l’unità, si è reso evidente nei Vespri ecumenici nel duomo di Regensburg, dove oltre ai fratelli e alle sorelle della Chiesa cattolica, ho potuto incontrare molti amici dell’Ortodossia e del Cristianesimo Evangelico. Nella recita dei Salmi e nell’ascolto della Parola di Dio eravamo lì tutti riuniti, e non è una cosa da poco che questa unità ci sia stata donata. 
L'incontro con l'Università era dedicato – come si addice a quel luogo – al dialogo tra fede e ragione. In occasione del mio incontro col filosofo Jürgen Habermas, qualche anno fa a Monaco, questi aveva detto che ci occorrerebbero pensatori capaci di tradurre le convinzioni cifrate della fede cristiana nel linguaggio del mondo secolarizzato per renderle così efficaci in modo nuovo. 
Di fatto diventa sempre più evidente, quanto urgentemente il mondo abbia bisogno del dialogo tra fede e ragione. 

Immanuel Kant, a suo tempo, aveva visto espressa l'essenza dell'illuminismo nel detto "sapere aude": nel coraggio del pensiero che non si lascia mettere in imbarazzo da alcun pregiudizio. 

Ebbene, la capacità cognitiva dell'uomo, il suo dominio sulla materia mediante la forza del pensiero, ha fatto nel frattempo progressi allora inimmaginabili. Ma il potere dell'uomo, che gli è cresciuto nelle mani grazie alla scienza, diventa sempre più un pericolo che minaccia l'uomo stesso e il mondo. La ragione orientata totalmente ad impadronirsi del mondo non accetta più limiti. 
Essa è sul punto di trattare ormai l'uomo stesso come semplice materia del suo produrre e del suo potere. 
La nostra conoscenza aumenta, ma al contempo si registra un progressivo accecamento della ragione circa i propri fondamenti; circa i criteri che le danno orientamento e senso. 
La fede in quel Dio che è in persona la Ragione creatrice dell'universo deve essere accolta dalla scienza in modo nuovo come sfida e chance. Reciprocamente, questa fede deve riconoscere nuovamente la sua intrinseca vastità e la sua propria ragionevolezza. 
La ragione ha bisogno del Logos che sta all'inizio ed è la nostra luce; la fede, per parte sua, ha bisogno del colloquio con la ragione moderna, per rendersi conto della propria grandezza e corrispondere alle proprie responsabilità. È questo che ho cercato di evidenziare nella mia lezione a Regensburg. 
È una questione che non è affatto di natura soltanto accademica; in essa si tratta del futuro di noi tutti.

A Regensburg il dialogo tra le religioni venne toccato solo marginalmente e sotto un duplice punto di vista. La ragione secolarizzata non è in grado di entrare in un vero dialogo con le religioni. Se resta chiusa di fronte alla questione di Dio, questo finirà per condurre allo scontro delle culture. 

L'altro punto di vista riguardava l'affermazione che le religioni devono incontrarsi nel compito comune di porsi al servizio della verità e quindi dell'uomo. La visita in Turchia mi ha offerto l'occasione di illustrare anche pubblicamente il mio rispetto per la Religione islamica, un rispetto, del resto, che il Concilio Vaticano II (cfr Dich. Nostra Aetate, 3) ci ha indicato come atteggiamento doveroso. Vorrei in questo momento esprimere ancora una volta la mia gratitudine verso le Autorità della Turchia e verso il popolo turco, che mi ha accolto con un'ospitalità così grande e mi ha offerto giorni indimenticabili di incontro. In un dialogo da intensificare con l'Islam dovremo tener presente il fatto che il mondo musulmano si trova oggi con grande urgenza davanti a un compito molto simile a quello che ai cristiani fu imposto a partire dai tempi dell'illuminismo e che il Concilio Vaticano II, come frutto di una lunga ricerca faticosa, ha portato a soluzioni concrete per la Chiesa cattolica. Si tratta dell'atteggiamento che la comunità dei fedeli deve assumere di fronte alle convinzioni e alle esigenze affermatesi nell'illuminismo. 
Da una parte, ci si deve contrapporre a una dittatura della ragione positivista che esclude Dio dalla vita della comunità e dagli ordinamenti pubblici, privando così l'uomo di suoi specifici criteri di misura. 
D'altra parte, è necessario accogliere le vere conquiste dell'illuminismo, i diritti dell'uomo e specialmente la libertà della fede e del suo esercizio, riconoscendo in essi elementi essenziali anche per l'autenticità della religione. 
Come nella comunità cristiana c'è stata una lunga ricerca circa la giusta posizione della fede di fronte a quelle convinzioni – una ricerca che certamente non sarà mai conclusa definitivamente – così anche il mondo islamico con la propria tradizione sta davanti al grande compito di trovare a questo riguardo le soluzioni adatte. 

Il contenuto del dialogo tra cristiani e musulmani sarà in questo momento soprattutto quello di incontrarsi in questo impegno per trovare le soluzioni giuste. Noi cristiani ci sentiamo solidali con tutti coloro che, proprio in base alla loro convinzione religiosa di musulmani, s'impegnano contro la violenza e per la sinergia tra fede e ragione, tra religione e libertà. In questo senso, i due dialoghi di cui ho parlato si compenetrano a vicenda.

Ad Istanbul, infine, ho potuto vivere ancora una volta ore felici di vicinanza ecumenica nell'incontro con il Patriarca ecumenico Bartholomaios I. Giorni fa egli mi ha scritto una lettera le cui parole di gratitudine provenienti dal profondo del cuore mi hanno reso di nuovo molto presente l'esperienza di comunione di quei giorni. 
Abbiamo sperimentato di essere fratelli non soltanto sulla base di parole e di eventi storici, ma dal profondo dell'animo; di essere uniti dalla fede comune degli Apostoli fin dentro il nostro pensiero e sentimento personale. 
Abbiamo fatto l'esperienza di un'unità profonda nella fede e pregheremo il Signore ancora più insistentemente affinché ci doni presto anche la piena unità nella comune frazione del Pane. La mia profonda gratitudine e la mia preghiera fraterna si rivolgono in quest'ora al Patriarca Bartholomaios e ai suoi fedeli come anche alle diverse comunità cristiane che ho potuto incontrare ad Istanbul. 
Speriamo e preghiamo che la libertà religiosa, che corrisponde alla natura intima della fede ed è riconosciuta nei principi della costituzione turca, trovi nelle forme giuridiche adatte come nella vita quotidiana del Patriarcato e delle altre comunità cristiane una sempre più crescente realizzazione pratica.

"Et erit iste pax" – tale sarà la pace, dice il profeta Michea (5,4) circa il futuro dominatore di Israele, di cui annuncia la nascita a Betlemme. Ai pastori che pascolavano le loro pecore sui campi intorno a Betlemme gli angeli dissero: l'Atteso è arrivato. "Pace in terra agli uomini" (Lc 2,14). Egli stesso Cristo, il Signore, ha detto ai suoi discepoli: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace" (Gv 14,27). Da queste parole si è sviluppato il saluto liturgico: "La pace sia con voi". Questa pace che viene comunicata nella liturgia è Cristo stesso. Egli si dona a noi come la pace, come la riconciliazione oltre ogni frontiera. Dove Egli viene accolto crescono isole di pace. 

Noi uomini avremmo desiderato che Cristo bandisse una volta per sempre tutte le guerre, distruggesse le armi e stabilisse la pace universale. Ma dobbiamo imparare che la pace non può essere raggiunta unicamente dall'esterno con delle strutture e che il tentativo di stabilirla con la violenza porta solo a violenza sempre nuova. Dobbiamo imparare che la pace – come diceva l'angelo di Betlemme – è connessa con l'eudokia, con l'aprirsi dei nostri cuori a Dio. Dobbiamo imparare che la pace può esistere solo se l'odio e l'egoismo vengono superati dall'interno. 
L'uomo deve essere rinnovato a partire dal suo interno, deve diventare nuovo, diverso. Così la pace in questo mondo rimane sempre debole e fragile. 
Noi ne soffriamo. Proprio per questo siamo tanto più chiamati a lasciarci penetrare interiormente dalla pace di Dio, e a portare la sua forza nel mondo. Nella nostra vita deve realizzarsi ciò che nel Battesimo è avvenuto in noi sacramentalmente: il morire dell'uomo vecchio e così il risorgere di quello nuovo. 

E sempre di nuovo pregheremo il Signore con ogni insistenza: Scuoti tu i cuori! Rendici uomini nuovi! Aiuta affinché la ragione della pace vinca l'irragionevolezza della violenza! Rendici portatori della tua pace!
Ci ottenga questa grazia la Vergine Maria, alla quale affido voi e il vostro lavoro. A ciascuno di voi qui presenti e alle persone care rinnovo i miei più fervidi voti augurali. 
E come segno della nostra gioia, il giorno di domani sarà un giorno libero per la Curia, per prepararsi bene, materialmente e spiritualmente, al Natale. 
Ai collaboratori dei vari Dicasteri e Uffici della Curia Romana e del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano imparto con affetto la Benedizione Apostolica. Buon Natale e tanti auguri anche per il Nuovo Anno.

© Copyright 2006 - Libreria Editrice Vaticana

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