"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
venerdì 16 dicembre 2016
L’apostolicità della Chiesa

Da Azaria
- L’apostolicità della Chiesa non è finita con gli Apostoli; continua con gli apostoli minori. Ogni santo ne è uno, ogni “voce” ne è uno ed Io Capo della Chiesa apostolica, posso in ogni luogo scegliere e spargere questi miei piccoli apostoli per il bene vostro.
Sono umili rispetto a voi dotti? E che erano i primi dodici? Pescatori, analfabeti, ignoranti; ma ho preso loro e non i dotti rabbini, perché costoro, perché consci di non essere nulla, erano capaci di accettare la Parola, mentre rabbini, saturi d’orgoglio, non avevano capacità di farlo. L’umiltà è quella che Io cerco, e se costoro, pur rimanendo amorosi, puri e generosi, divenissero superbi, li abbandonerei senza fallo. 20.7.44Perché l’uomo, tanti, troppi uomini, non accolgono l’invito che li vuole uniti in una sola Chiesa fondata da Chi per gli uomini è morto? Perché i rami vogliono rimanere separati e selvatici, mentre ricongiunti al tronco sarebbero nutriti di succhi buoni? Peggiore l’uomo delle piante che accolgono l’innesto e il trapianto per essere più utili e feconde.
Sì, l’uomo è peggiore dell’albero e si priva di tanto bene per essere cocciuto nella sua separazione. E benché non manchino i retti di cuore fra i separati, ecco che essi mutilano e sterilizzano la loro rettezza perché vogliono rimanere separati dal tronco le cui radici sono abbrancate alla terra catacombale e la cui vetta tocca i Cieli: da Roma, per cui Romana è detta l’Unica Chiesa Cattolica, L’Apostolica, creata non da un povero uomo, povero anche se re potente su un trono umano, non da uno scomunicato già segnato dal segno dell’Inferno, ma dall’Uomo Dio, Re eterno, Santo, Santo, Santo. Az. 5.5.46
giovedì 15 dicembre 2016
Il discorso di Mons. Athanasius Schneider
Roma, 5 dicembre. Una esperienza 'forte' di Chiesa e di Cattolicità. Il discorso di Mons. Schneider
Un'esperienza forte di Chiesa e di cattolicità, nel cuore ancor oggi vibrante della Roma paleocristiana.
Magnificat anima mea Dominum!
Il 5 dicembre, si è tenuto a Roma, presso la Fondazione Lepanto, a ridosso dell'antichissima Basilica di Santa Balbina, un incontro, introdotto dal Prof. Roberto De Mattei, con due dei Cardinali dei Dubia, Raymond Leo Burke e Walter Brandmüller e con il vescovo Athanasius Schneider, che li ha preceduti e seguiti con le sue prese di posizione pubbliche [qui e qui], il quale ha pronunciato un discorso grandioso, il cui testo potete leggere di seguito. A loro si è aggiunto Mons. Andreas Laun, vescovo di Salisburgo.
Vi do le mie prime impressioni, ma non mancherò di approfondire in seguito.
Un incontro in cui era palpabile, a partire dal solenne silenzio che ha accolto gli illustri ospiti e la vibrante commossa attenzione con cui si è rimasti in ascolto per finire, in chiusura, col canto corale del Credo in perfetta consonanza di pensieri e sentimenti fortificata dalla comune esperienza, seguìto dalla benedizione impartita dal Card. Burke.
Lo dico con gioia, ma soprattutto col conforto grande di essere confermata e benedetta dai nostri Pastori, che non incontravo per la prima volta e con i quali sono riuscita a intrattenermi brevemente. Di questo e dell'intera esperienza sono molto grata agli organizzatori.
Vi do le mie prime impressioni, ma non mancherò di approfondire in seguito.
Un incontro in cui era palpabile, a partire dal solenne silenzio che ha accolto gli illustri ospiti e la vibrante commossa attenzione con cui si è rimasti in ascolto per finire, in chiusura, col canto corale del Credo in perfetta consonanza di pensieri e sentimenti fortificata dalla comune esperienza, seguìto dalla benedizione impartita dal Card. Burke.Lo dico con gioia, ma soprattutto col conforto grande di essere confermata e benedetta dai nostri Pastori, che non incontravo per la prima volta e con i quali sono riuscita a intrattenermi brevemente. Di questo e dell'intera esperienza sono molto grata agli organizzatori.
La maggior parte dei presenti, provenienti non solo da tutta Italia ma da ogni paese, era costituita da numerosissimi sacerdoti e religiosi, alcuni molto giovani, tra cui i Francescani dell'Immacolata (non posso che chiamarli con la loro denominazione originaria non cancellabile per via del loro voto mariano indissolubile). Oltre al più discreto numero di laici, spiccavano per la loro attenta partecipazione alcuni dei maggiori vaticanisti esteri tra coloro che si distinguono particolarmente per l'assenza nei loro contenuti di fraintendimenti della realtà (per l'Italia, Sandro Magister). Con loro ho potuto scambiare alcune impressioni.Mi scuso per la scarsa qualità delle immagini scattate dal mio cellulare.
I sorrisi di mons. Schneider e del Cardinale Burke, che lo ha ringraziato per le sue parole luminose, accompagnano la frase: I suoi genitori dovevano essere davvero ispirati per averle dato quel nome. Doppia allusione: al glorioso Atanasio della crisi Ariana del IV secolo e anche alla vicenda personale di mons. Schneider, cresciuto e fortificatosi ai tempi della persecuzione sovietica. (Maria Guarini)
La grandezza non negoziabile del matrimonio cristiano
Mons. Athanasius Schneider, Roma, 5 dicembre 2016
Quando Nostro Signore Gesù Cristo ha predicato le verità eterne due mila anni fa, la cultura o lo spirito regnante di quel tempo Gli erano radicalmente contrari. In concreto lo erano il sincretismo religioso, lo gnosticismo delle élite intellettuali e il permissivismo morale delle masse, specialmente riguardo all’istituto del matrimonio. “Egli era nel mondo, eppure il mondo non lo riconobbe” (Giov. 1, 10).
La gran parte del popolo d’Israele, ed in particolare i sommi sacerdoti, gli scribi e i farisei hanno rigettato il Magistero della rivelazione Divina di Cristo e persino la proclamazione dell’assoluta indissolubilità del matrimonio: “Venne fra la Sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Giov. 1, 11). L’intera missione del Figlio di Dio sulla terra consisteva nel rivelare la verità: “Per questo sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (Giov. 18, 37).
Nostro Signore Gesù Cristo è morto sulla Croce per salvare gli uomini dai peccati, offrendo se stesso in perfetto e gradito sacrificio di lode e di espiazione a Dio Padre. La morte redentrice di Cristo contiene anche la testimonianza che Egli dava di ogni Sua parola. Cristo era pronto a morire per la verità di ciascuna delle Sue parole: “Voi cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio. Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete?” (Giov. 8, 40-46). La prontezza di Gesù nel morire per la verità includeva tutte le verità da Lui annunziate, certamente anche la verità dell’indissolubilità assoluta del matrimonio.
Gesù Cristo è il restauratore dell’indissolubilità e della santità originaria del matrimonio non soltanto per mezzo della Sua parola Divina, ma in modo più radicale per mezzo della Sua morte redentrice, con la quale Egli ha elevato la dignità creata e naturale del matrimonio alla dignità di sacramento. “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa. […] Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Ef. 5, 25.29-32). Per questa ragione anche al matrimonio si applicano le seguenti parole della preghiera della Chiesa: “Dio che in modo meraviglioso creasti la dignità della natura umana e in maniera ancora più meravigliosa la riformasti”.
Gli Apostoli e i suoi successori, in primo luogo i Romani Pontefici, successori di Pietro, hanno santamente custodito e fedelmente trasmesso la dottrina non negoziabile del Verbo Incarnato sulla santità e indissolubilità del matrimonio anche riguardo alla prassi pastorale. Questa dottrina di Cristo è espressa nelle seguenti affermazioni degli Apostoli: “Il matrimonio sia onorato ed il talamo sia senza macchia. I fornicatori e gli adulteri saranno giudicati da Dio” (Ebr. 13, 4) e “Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito, e qualora si separi, rimanga senza sposarsi, e il marito non ripudi la moglie” (1 Cor. 7, 10-11). Queste parole ispirate dallo Spirito Santo furono sempre proclamate nella Chiesa durante due mila anni, servendo come un’indicazione vincolante e come norma indispensabile per la disciplina sacramentale e per la vita pratica dei fedeli.
Il comandamento di rimanere senza sposarsi dopo una separazione dal proprio coniuge legittima, non è nel fondo una norma positiva o canonica della Chiesa, ma è parola di Dio, come insegnava l’apostolo San Paolo: “Ordino non io, ma il Signore” (1 Cor. 7, 10). La Chiesa ha ininterrottamente proclamato queste parole, vietando ai fedeli validamente sposati di attentare il matrimonio con un nuovo partner. Di conseguenza, la Chiesa secondo la logica Divina e umana non ha la competenza di approvare nemmeno implicitamente una convivenza more uxorio al di fuori di un valido matrimonio, ammettendo tali persone adultere alla Santa Comunione.
Un’autorità ecclesiastica che emana norme o orientamenti pastorali che prevedono una tale ammissione, si arroga un diritto che Dio non le ha dato. Un accompagnamento e discernimento pastorale che non propone alle persone adultere, i cosiddetti divorziati risposati, l’obbligo divinamente stabilito di vivere in continenza come condizione sine qua non all’ammissione ai sacramenti, si rivela in realtà come un clericalismo arrogante. Poiché non esiste un clericalismo più farisaico che quello che si arroga diritti divini.
Uno dei più antichi ed inequivocabili testimoni dell’immutabile prassi della Chiesa Romana di non accettare per mezzo della disciplina sacramentale la convivenza adulterina dei fedeli, che sono ancora legati al loro legittimo coniuge tramite il vincolo matrimoniale, è l’autore di una catechesi penitenziale conosciuta sotto il titolo pseudonimo Il Pastore di Erma. La catechesi è stata scritta con molta probabilità da un presbitero romano all’inizio del secondo secolo sotto la forma letteraria di un’apocalisse o di un racconto di visioni.
Il seguente dialogo tra Erma e l’angelo della penitenza che gli appare nella forma di un pastore, dimostra con ammirevole chiarezza l’immutabile dottrina e prassi della Chiesa cattolica in questa materia: “Che cosa, Signore, farà il marito se la moglie persiste in questa passione dell’adulterio?”. “L'allontani e il marito rimanga per sé solo. Se dopo aver allontanato la moglie sposa un’altra donna, anch’egli commette adulterio“. “Se, signore, la moglie, dopo che è stata allontanata, si pente e vuole ritornare dal marito non sarà ripresa?”. “Sì, dice; e se il marito non la riceve pecca e si addossa una grande colpa. Deve, invece, ricevere chi ha peccato e si è pentito. […] A causa della possibilità di tale pentimento, il marito non deve risposarsi. Questa direttiva vale sia per la donna che per l’uomo. Non solo si ha adulterio se uno corrompe la propria carne, ma anche chi compie cose simili ai pagani è un adultero. […] Per questo vi fu ordinato di rimanere da soli, per la donna e per l’uomo. Vi può essere in loro pentimento, … ma chi ha peccato non pecchi più” (Herm. Mand., IV, 1, 6-11).
Sappiamo che il primo grande peccato clericale fu il peccato del sommo sacerdote Aronne, quando costui cedette alle domande impertinenti dei peccatori e permise loro di venerare l’idolo del vitello d’oro (cfr. Es. 32, 4), sostituendo in questo concreto caso il Primo Comandamento del Decalogo di Dio, cioè sostituendo la volontà e la parola di Dio, con la volontà peccatrice dell’uomo. Aronne giustificava questo suo atto di clericalismo esasperato con il ricorso alla misericordia e alla comprensione con le esigenze degli uomini. La Sacra Scrittura dice appunto: “Mosè vide che il popolo non aveva più freno, perché Aronne avevo tolto ogni freno al popolo, così da farne il ludibrio dei loro avversari” (Es. 32, 25).
Si ripete oggi nuovamente nella vita della Chiesa, quel primo peccato clericale. Aronne aveva dato il permesso di peccare contro il Primo Comandamento del Decalogo di Dio e di poter essere allo stesso tempo sereni e lieti nel farlo, e la gente appunto danzava. Si trattava in quel caso di una letizia nell’idolatria: “Il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzo per darsi al divertimento” (Es. 32, 6). Invece del Primo Comandamento come era al tempo di Aronne, parecchi chierici, anche ai più alti livelli, sostituiscono ai nostri giorni il Sesto Comandamento con il nuovo idolo della pratica sessuale tra persone non validamente sposate, che è in un certo senso il vitello d’oro venerato dai chierici dei nostri giorni.
L’ammissione di tale persone ai sacramenti senza chieder loro la vita in continenza come conditio sine qua non, significa nel fondo un permesso di non dover osservare in questo caso il Sesto Comandamento. Tali chierici, come nuovi “Aronne”, tranquillizzano queste persone, dicendo che possono essere serene e liete, cioè continuare nella gioia dell’adulterio a causa di una nuova “via caritatis” e del senso “materno“ della Chiesa e che possono persino ricevere il cibo Eucaristico. Con tale orientamento pastorale i nuovi “Aronne” clericali fanno del popolo cattolico il ludibrio dei loro nemici, cioè del mondo non credente e immorale, il quale potrà davvero dire, ad esempio:
- Nella Chiesa cattolica si può avere un nuovo partner accanto al proprio coniuge, e la convivenza con lui è ammessa nella prassi
- Nella Chiesa cattolica è ammessa di conseguenza una specie di poligamia.
- Nella Chiesa cattolica l’osservanza del Sesto Comandamento del Decalogo, tanto odiato da parte della nostra società moderna ecologica ed illuminata, può avere delle legittime eccezioni.
- Il principio del progresso morale dell’uomo moderno, secondo il quale si deve accettare la legittimità degli atti sessuali fuori del matrimonio, è finalmente riconosiuto accettare in maniera implicita dalla Chiesa cattolica, che era stata sempre retrograda, rigida e nemica della letizia dell’amore e del progresso morale dell’uomo moderno.
Così già cominciano parlare i nemici di Cristo e della verità Divina, che sono i veri nemici della Chiesa. Per opera del nuovo clericalismo aronnitico l’ammissione degli adulteri praticanti ed impenitenti ai sacramenti, rende i figli della Chiesa Cattolica ludibrio di fatto dei loro avversari.
Rimane sempre una grande lezione e un serio ammonimento ai Pastori e ai fedeli della Chiesa il fatto che il Santo che per primo diede la sua vita come testimone di Cristo, fu San Giovanni Battista, il Precursore del Signore. La sua testimonianza per Cristo consisteva nel difendere senza ombra di dubbi e di ambiguità l’indissolubilità del matrimonio e nel condannare l’adulterio. La storia della Chiesa cattolica si gloria di possedere esempi luminosi che hanno seguito l’esempio di San Giovanni Battista o hanno dato come lui la testimonianza del sangue, soffrendo delle persecuzioni e svantaggi personali. Questi esempi devono guidare specialmente i Pastori della Chiesa dei nostri giorni, perché non cedano alla tipica tentazione clericale di voler piacere più agli uomini che alla santa ed esigente volontà di Dio, una volontà allo stesso tempo amorevole e sommamente saggia.
Tra la numerosa schiera di tanti imitatori di San Giovanni Battista come martiri e confessori dell’indissolubilità del matrimonio, possiamo ricordare solo alcuni più significativi. Il primo grande testimone fu il Papa San Nicolò I, detto il Grande. Si tratta dello scontro nel secolo IX tra Papa Niccolò I e Lotario II re di Lotaringia. Lotario, inizialmente unito, ma non sposato, con una aristocratica di nome Gualdrada, poi unitosi in matrimonio con la nobile Teutberga per interessi politici e poi ancora separatosi da questa e sposatosi con la precedente compagna, volle a tutti i costi che il Papa riconoscesse la validità del suo secondo matrimonio. Ma nonostante Lotario godesse dell’appoggio dei vescovi della sua regione e del sostegno dell’imperatore Ludovico, che arrivò ad invadere Roma col suo esercito, papa Niccolò I non si piegò alle sue pretese e non riconobbe mai come legittimo il suo secondo matrimonio.
Lotario II re di Lorena, dopo aver respinta e chiusa in un monastero la sua consorte Teutberga, conviveva con una certa Valdrada e ricorrendo a calunnie, minacce, torture, richiedeva ai vescovi locali il divorzio per poterla sposare. I vescovi di Lorena, nel Sinodo di Aquisgrana dell’862, cedendo alle astuzie del Re, accettarono la confessione d’infedeltà di Teutberga, senza tener conto che le era stata estorta con la violenza. Lotario II sposò quindi Valdrada che divenne regina. Seguì un appello della deposta Regina al Papa, il quale intervenne contro i vescovi consenzienti suscitando disubbidienze, scomuniche e ritorsioni da parte di due di loro, i quali si rivolsero all’imperatore Lodovico II, fratello di Lotario.
L’imperatore Ludovico decise di agire con la forza e al principio dell’864 venne a Roma con le armi, invadendo con i suoi soldati la città leonina, disperdendo anche le processioni religiose. Papa Niccolò dovette lasciare il Laterano e rifugiarsi in S. Pietro e il Papa si disse pronto di morire piuttosto che permettere una vita more uxorio al di fuori del valido matrimonio. Infine l’imperatore cedette alla costanza eroica del Papa e accettò i decreti del Papa, costringendo anche i due arcivescovi ribelli Guntero di Colonia e Teutgardo di Treviri ad accettare la sentenza papale.
Il cardinale Walter Brandmüller dà la seguente valutazione di questo caso emblematico della storia della Chiesa:
“Nel caso esaminato, ciò significa che dal dogma dell’unità, della sacramentalità e dell’indissolubilità, radicati nel matrimonio tra due battezzati, non c’è una strada che porti indietro, se non quella – inevitabile e per questo da rigettare – del ritenerli un errore dal quale emendarsi. Il modo di agire di Niccolò I nella disputa sul nuovo matrimonio di Lotario II, tanto consapevole dei principi quanto inflessibile ed impavido, costituisce una tappa importante sul cammino per l’affermazione dell’insegnamento sul matrimonio nell’ambito culturale germanico. Il fatto che il Papa, come anche suoi diversi successori in occasioni analoghe, si sia dimostrato avvocato della dignità della persona e della libertà dei deboli – per la maggior parte erano donne – ha fatto meritare a Niccolò I il rispetto della storiografia, la corona della santità ed il titolo di Magnus“.
Un altro esempio luminoso di confessori e martiri dell’indissolubilità del matrimonio ci è offerto da tre personaggi storici coinvolti nella vicenda del divorzio di Enrico VIII, Re d’Inghilterra. Si tratta del cardinale san Giovanni Fisher, di san Tommaso Moro e del cardinale Reginaldo Pole.
Quando si seppe per la prima volta che Enrico VIII stava cercando delle strade attraverso cui divorziare dalla sua legittima moglie Caterina d’Aragona, il vescovo di Rochester, Giovanni Fisher, si oppose pubblicamente a tali tentativi. San Giovanni Fisher è autore di sette pubblicazioni in cui condanna il divorzio imminente di Enrico VIII. Il Primate d’Inghilterra il cardinale Wolsey e tutti i vescovi del paese, con l’eccezione del vescovo di Rochester John Fisher appoggiarono il tentativo del Re di sciogliere il suo primo e valido matrimonio. Forse lo fecero per motivi pastorali e adducendo la possibilità di un accompagnamento e discernimento pastorale.
Invece, il vescovo Giovanni Fisher ebbe persino il coraggio di fare una dichiarazione molto chiara nella Camera dei Lords affermando, che il matrimonio era legittimo, che un divorzio sarebbe stato illegale e che il Re non aveva il diritto di avanzare su questa strada. Nella stessa sessione del Parlamento fu approvato il famoso “Act of Succession”, con il quale tutti cittadini dovevano fare il giuramento di successione, riconoscendo la prole di Enrico e Anna Boleyn come legittimi eredi del trono, sotto pena di essere colpevoli del crimine di alto tradimento. Il cardinale Fisher rifiutò il giuramento, fu imprigionato nel 1534 nella Torre di Londra e l’anno seguente fu decapitato.
Il cardinale Fisher aveva dichiarato, che nessun potere sia umano o Divino, poteva sciogliere il matrimonio del Re e della Regina, perché il matrimonio era indissolubile e che lui sarebbe stato pronto a dare volentieri la sua vita per questa verità. Il cardinale Fisher notava in quella circostanza che Giovanni Battista non vedeva altra strada per morire più gloriosamente che morire per la causa del matrimonio, nonostante il fatto che il matrimonio non era così sacro a quel tempo come lo divenne quando Cristo versò il Suo Sangue per santificare il matrimonio.
In almeno due racconti del suo processo, san Tommaso Moro osservò che la vera causa dell’inimicizia di Enrico VIII contro di lui, era il fatto che Tommaso Moro non credeva che Anna Boleyn fose la moglie di Enrico VIII. Una delle cause dell’incarcerazione di Tommaso Moro fu il suo rifiuto di affermare con giuramento la validità del matrimonio tra Enrico VIII e Anna Boleyn. In quel tempo, al contrario del nostro, nessun cattolico credeva che una relazione adultera avebbe potuto, in determinate circonstanze o per motivi pastorali, essere trattata come se essa fosse un vero matrimonio.
Reginaldo Pole, futuro cardinale, era un lontano cugino di Re Enrico VIII, e nella sua gioventù aveva ricevuto da lui una generosa borsa di studio. Enrico VIII gli offri l’arcivescovado di York nel caso che egli lo avesse appoggiato nella causa del divorzio. Così Pole avrebbe dovuto essere complice nel disprezzo che Enrico VIII aveva per il matrimonio. Durante un colloquio con il Re nel palazzo reale, Reginaldo Pole gli disse che egli non poteva approvare i suoi piani, per la salvezza dell’anima del Re e a causa della propria coscienza. Nessuno, fino a quel momento, aveva osato opporsi al Re a viso aperto. Quando Reginaldo Pole pronunciò queste sue parole, il Re si adirò al punto di prendere il suo pugnale. Pole pensò in quel momento che il Re lo avrebbe accoltellato. Però la semplicità candida con la quale parlava Pole come se lui avesse pronunciato un messaggio di Dio, e il suo coraggio nella presenza di un tiranno, gli salvarono la vita.
Alcuni chierici in quel tempo suggerirono al cardinale Fisher, al cardinale Pole e a Tommaso More di essere più “realisti” nella vicenda dell’unione irregolare e adultera di Enrico VIII con Anna Boleyn e meno “nero-bianco” e che forse si sarebbe potuto fare un breve processo canonico per constatare la nullità del primo matrimonio. Con questo si sarebbe potuto evitare lo scisma e impedire a Enrico VIII di commettere ulteriori gravi e mostruosi peccati. Tuttavia contro un tale ragionamento esiste un grande problema: l’intera testimonianza della Parola rivelata di Divina e dell’ininterrotta tradizione della Chiesa dicono che non si può rinnegare la realtà dell’indissolubilità di un vero matrimonio o tollerare un adulterio consolidato nel tempo, quali che siano le circostanze.
Un ultimo esempio è la testimonianza dei cosiddetti cardinali “neri” nella vicenda del divorzio di Napoleone I, un nobile e glorioso esempio di membri collegio cardinalizio per tutti i tempi. Nel 1810 il cardinale Ercole Consalvi, allora Segretario di Stato, rifiutò di assistere alla celebrazione del matrimonio fra Napoleone I e Maria Luisa d’Austria, visto che il Papa non aveva potuto esprimersi sull’invalidità della prima unione fra l’Imperatore e Giuseppina Beauharnais. Furioso, Napoleone ordinò che i beni del Consalvi e di altri 12 cardinali fossero confiscati e che essi fossero privati del loro rango. Questi cardinali avrebbero dovuto quindi vestire come normali sacerdoti e furono perciò soprannominati i “cardinali neri”. Il cardinale Consalvi raccontò la vicenda dei 13 cardinali “neri” nelle sue Memorie:
“Nello stesso giorno noi ci trovammo obbligati a più non far uso delle insegne cardinalizie e a vestire di nero, dal che nacque poi la denominazione dei “Neri” e dei “Rossi”, con cui furono distinte le due parti del Collegio. … Fu un prodigio che, avendo nel primo furore dato l’Imperatore l’ordine di fucilare 3 dei 13 cardinali, cioè Opizzoni, me [Cadinale Consalvi] e un terzo, che non si è saputo chi fosse (forse fu il Cardinale di Pietro), ed essendosi poi limitato a me solo, la cosa non si realizzasse”.
Poi il cardinale Consalvi racconta più dettagliatamente:
“Dopo molte deliberazioni fra noi 13, si concluse che agli inviti dell’Imperatore, che riguardavano il matrimonio, non saremmo intervenuti, cioè non all’ecclesiastico per la ragione detta di sopra, non al civile perché non credevamo che convenisse a dei Cardinali autorizzare con la loro presenza la nuova legislazione, che separa un tale atto dalla così chiamata benedizione nuziale, prescindendo, anche dal supporre con quell’atto medesimo già sciolto quel precedente vincolo, che noi non credevamo sciolto legittimamente. Decidemmo dunque di non intervenire. Quando si fece il matrimonio civile in S. Cloud i 13 non intervennero. Arrivò il giorno, in cui si fece il matrimonio ecclesiastico. Si videro preparate le sedie per tutti i Cardinali, non essendosi perduta sino alla fine la speranza che almeno a quello, che era ciò che più interessava la Corte, tutti interverrebbero. Ma i 13 cardinali non vi intervennero. Gli altri 14 cardinali intervennero. … Quando l’Imperatore entrò nella cappella, il suo primo sguardo fu al luogo dove erano i Cardinali e, al vederne il solo numero 14, dimostrò nel viso tanto furore, che tutti gli astanti se ne avvidero manifestamente”.
“Arrivò così il giorno della resa dei conti. Giunti tutti i 13 cardinali dal Ministro dei Culti, fummo introdotti nella sua camera, dove trovammo anche il Ministro della Polizia Fouché. Appena entrati, il Ministro Fouché ch’era al camino, a cui io mi accostai per salutarlo, mi disse a voce bassa: «Ve lo predissi io, Sig. Cardinale, che le conseguenze sarebbero state terribili: quello che mi trafigge è il veder Voi nel numero delle vittime». Prende la parola il Ministro dei Culti ed accusa il Cardinale ed i suoi 12 colleghi di complotto. Di questo delitto, vietato e punito severissimamente dalle leggi veglianti, si trovava nella dispiacevole necessità di manifestarci gli ordini di Sua Maestà a nostro riguardo, i quali si riducevano a queste tre cose, cioè: 1° che i nostri beni non meno ecclesiastici, che patrimoniali rimanevano fin da quel momento a noi tolti e posti sotto sequestro, dichiarandocene affatto spogliati e privati; 2° che ci si vietava di più far uso delle insegne cardinalizie e di qualunque divisa della nostra dignità, non considerandoci più Sua Maestà come Cardinali; 3° che Sua Maestà si riservava di statuire in appresso sulle nostre persone, alcune delle quali ci fece intendere che sarebbero state messe sotto un giudizio. … Nello stesso giorno dunque noi ci trovammo obbligati a più non far uso delle insegne cardinalizie e a vestire di nero, dal che nacque poi la denominazione dei Neri e dei Rossi, con cui furono distinte le due parti del Collegio”.
Voglia lo Spirito Santo suscitare in tutti i membri della Chiesa, dal più semplice e umile fedele fino al Supremo Pastore sempre più numerosi e coraggiosi difensori della verità dell’indissolubilità del matrimonio e della corrispondente prassi immutabile della Chiesa, anche se a causa di tale difesa essi rischiassero considerevoli svantaggi personali. La Chiesa deve più che mai adoperarsi nell’annuncio della dottrina e nella pastorale matrimoniale, affinché nella vita dei coniugi e specialmente dei cosiddetti divorziati risposati sia osservato quello che lo Spirito Santo ha detto nella Sacra Scrittura: “Il matrimonio sia onorato ed il talamo sia senza macchia” (Eb. 13, 4). Solo una pastorale matrimoniale, che prenda ancora sul serio questa parole di Dio, si rivela come veramente misericordiosa, poiché conduce le anime peccatrici sulla strada sicura della vita eterna. E questo è ciò che conta.
Francia: Cattolici ringiovaniti. In rito antico.
Francia: Cattolici ringiovaniti. In rito antico.
Leggiamo su Blondet & Friends.
“Aiuto, torna Gesù!”, titolava giorni fa Libération, il quotidiano della gauche (editore Rotschild, naturalmente), sentinella sempre attenta ai possibili disturbi dello status quo. Nessun pericolo in realtà: in Francia i cattolici sono, come sempre, il 5 per cento della popolazione, una minoranza assoluta. La novità è che hanno abbandonato i socialisti e la sinistra, di cui erano i satelliti obbedienti, ed hanno determinato la vittoria alle primarie di François Fillon.
Il candidato di centro destra, filorusso, ha dichiarato che “la famiglia deve essere al centro delle politiche pubbliche”; Hollande ha deliberatamente e sistematicamente smantellato le notevoli (ed efficaci) misure di sostegno alla natalità e alla famiglia: ridotta di un terzo la durata del congedo maternità, sostanziale cancellazione di una maggiorazione di pensione per le donne che hanno allevato tre figli o più, rincaro delle mense scolastiche per famiglie numerose, tagli al sostegno all’affitto per tali famiglie, abbassamento del tetto per il quoziente familiare…”. Risultato: 19 mila nascite in meno nel 2015”, denuncia Ludovine de la Rochère.
mercoledì 14 dicembre 2016
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II, SAN GIOVANNI DELLA CROCE
VIAGGIO APOSTOLICO IN SPAGNA
CELEBRAZIONE DELLA PAROLA IN ONORE DI SAN GIOVANNI DELLA CROCE
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Segovia, 4 novembre 1982
colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati . . .; se, stupiti per la loro bellezza . . . pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza” (Sap 13, 5.4.3).
Abbiamo proclamato queste parole del libro della Sapienza, cari fratelli e sorelle, nel corso di
questa celebrazione in onore di san Giovanni della Croce, accanto al suo sepolcro. Il libro della Sapienza ci parla della conoscenza di Dio per mezzo delle creature; della conoscenza dei beni visibili che rivelano il loro Artefice; della notizia che porta fino al Creatore partendo delle sue opere.
Potremmo benissimo mettere queste parole sulle labbra di Giovanni della Croce e comprendere il
senso profondo che ad esse ha voluto dare l’autore sacro. Sono parole di un saggio e di un poeta che ha conosciuto, amato e cantato la bellezza delle opere di Dio; ma soprattutto, parole di un teologo e di un mistico che ha conosciuto il suo Autore; e che attinge con incredibile radicalità alla fonte della bontà e della bellezza, addolorato per lo spettacolo del peccato che rompe l’originario equilibrio, offusca la ragione, paralizza la volontà, impedisce la contemplazione e l’amore verso
l’Autore della creazione.
2. Rendo grazie alla Provvidenza che mi ha concesso di venire a venerare le reliquie e ad evocare la figura e la dottrina di san Giovanni della Croce, al quale debbo tanto nella mia formazione spirituale. Ho imparato a conoscerlo sin dalla mia giovinezza e sono entrato in un dialogo intimo con questo maestro della fede, con il suo linguaggio e il suo pensiero, fino a culminare con l’elaborazione della mia tesi di dottorato su “La fede in san Giovanni della Croce”. Fin d’allora ho trovato in lui un amico e maestro, che mi ha indicato la luce che brilla nell’oscurità, per camminare sempre verso Dio, “senza altra luce né guida / che quella che nel cuore ardeva / Codesta mi guidava / più certo che la luce del meriggio” (S. Giovanni della Croce, Notte Oscura, 3-4).
In questa occasione saluto cordialmente i membri della provincia e diocesi di Segovia, il loro Pastore, i sacerdoti e i religiosi e religiose, le autorità e tutto il popolo di Dio che vive qui, sotto il cielo limpido della Castilla, così come coloro che sono venuti dai dintorni e dalle altre parti della Spagna.
3. Il santo di Fontiveros è il grande “maestro dei sentieri che conducono all’unione con Dio”. I suoi scritti continuano ad essere attuali e in certo qual modo spiegano e complementano i libri di santa Teresa di Gesù. Egli indica le vie della conoscenza mediante la fede, perché soltanto tale
conoscenza nella fede dispone l’intelletto “all’unione col Dio vivente”.
Quante volte, con una convinzione che sgorga dall’esperienza ci dice che la fede è il mezzo
proprio e adatto per l’unione con Dio!
È sufficiente citare un celebre testo del secondo libro della Salita al Monte Carmelo: “La fede è
essa sola il mezzo più vicino e proporzionato perché l’anima si unisca a Dio . . . perché così come Dio è infinito, essa ce lo propone infinito; e così come Egli è Trino e Uno, ce lo propone Trino e Uno . . . e così per questo solo mezzo, si manifesta Dio all’anima in divina luce, che eccede ogni intendimento. E perciò quanta più fede ha l’anima in Dio, tanto più unita è a Lui” (S. Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, II, 9, 1)
Con questa insistenza sulla purezza della fede, Giovanni della Croce non vuol negare che la
conoscenza di Dio si possa raggiungere gradualmente partendo dalle creature, come insegna il libro della Sapienza e ripete san Paolo nella Lettera ai Romani (cf. Rm 1, 18-21; cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 4, 1). Il dottore mistico insegna che nella fede è anche necessario privarsi delle creature, sia di quelle che si percepiscono per mezzo dei sensi che di quelle che si raggiungono con l’intelletto, per unirsi in una maniera conoscitiva con lo stesso Dio. Questa via che conduce all’unione, passa attraverso la “notte oscura” della fede.
4. L’atto di fede si concentra, secondo il santo, in Gesù Cristo, il quale, come ha affermato il
Vaticano II, “è contemporaneamente il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione” (Dei
Verbum, 2). Tutti conoscono la meravigliosa pagina del dottore mistico su Cristo come Parola
definitiva del Padre e totalità della rivelazione, in quel dialogo tra Dio e gli uomini: “Egli è tutto il
mio parlare e la mia risposta, Egli è tutta la mia visione e la mia rivelazione. In Lui vi ho già
parlato, risposto, manifestato e rivelato, donandolo a voi come fratello, compagno e maestro, prezzo e premio” (S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II, 22, 5).
E così raccogliendo noti testi biblici (cf. Mt 17, 5; Eb 1, 1), riassume: “Perché nel donarci, come ci ha dato, il Figlio suo, che è una Parola sua e non ne ha un’altra, ci ha detto tutto ed in una volta sola in questa unica Parola, e non ha più niente da dire” (S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II, 22, 3). Per questo la fede è la ricerca amorosa del “Dio nascosto” che si rivela in Gesù Cristo, l’Amato (cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, I, 1-3.11).
Per di più, il dottore della fede non tralascia di puntualizzare che “Il Cristo lo troviamo nella
Chiesa”, Sposa e Madre; e che nel suo magistero troviamo la norma sicura della fede, la medicina
delle nostre ferite, la fonte della grazia: “E così”, scrive il santo, “in tutto ci dobbiamo lasciar
guidare dalla legge di Cristo uomo e della Chiesa e i suoi ministri, umanamente e visibilmente, e
tramite questa via rimediare alla nostra ignoranza e pigrizia spirituale; poiché in questa via
troveremo abbondante medicina per ogni cosa” (S. Giovanni della Croce, Salita del Monte
Carmelo, II, 22, 7).
5. In queste parole del dottore mistico troviamo una dottrina di assoluta coerenza e modernità.
Giovanni della Croce invita l’uomo di oggi, angosciato dal significato dell’esistenza, spesso
indifferente alla predicazione della Chiesa, forse scettico riguardo alle mediazioni della rivelazione di Dio, ad una ricerca onesta, che lo conduca fino alla fonte stessa della rivelazione che è il Cristo, la Parola e il Dono del Padre. Lo persuade a prescindere da tutto quello che potrebbe essere un ostacolo per la fede e lo colloca davanti a Cristo. Davanti a Colui che rivela e offre la verità e la vita divina nella Chiesa, la quale nella sua visibilità e nella sua umanità è sempre Sposa di Cristo,
il suo Corpo Mistico, garanzia assoluta della verità della fede (cf. S. Giovanni della Croce, Fiamma viva d’amore, Prol., 1).
Per questo esorta ad intraprendere una ricerca di Dio nella preghiera, affinché l’uomo “si renda
conto” della sua limitatezza temporale e della sua vocazione all’eternità (cf. S. Giovanni della
Croce, Cantico spirituale, 1, 1). Nel silenzio della preghiera si realizza l’incontro con Dio e si
ascolta quella Parola che Dio ci dice in eterno silenzio e che nel silenzio deve essere ascoltata (cf. S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 104). Un grande raccoglimento e un
abbandono interiore, uniti al fervore della preghiera, aprono le profondità dell’anima “al potere purificatore dell’amore divino”.
6. Giovanni della Croce seguì le orme del Maestro, che si ritirava a pregare in luoghi solitari (cf. S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, III, 44, 4). Amò la solitudine sonora dove si ascolta la musica silente, il rumore della fonte che sgorga e zampilla anche se è notte. Lo ha fatto durante le lunghe veglie di preghiera ai piedi dell’Eucarestia, quel pane vivo che dona la vita e che porta fino alla sorgente dell’amore trinitario.
Non si possono dimenticare le immense solitudini del Duruelo, l’oscurità e nudità del carcere di Toledo, i paesaggi andalusi della Peñuela, del Calvario, de los Mártires, a Granada. La bella e sonora solitudine segoviana dell’eremo, nelle rocce di questo convento fondato dal santo. Qui si sono consumati dialoghi d’amore e di fede; fino a quell’ultimo, commovente, che il Santo confidava con queste parole dette al Signore che gli offriva il premio per le sue opere: “Signore, quello che voglio è che Voi mi doniate di patire per Voi, e che sia io disprezzato e tenuto in poco conto”.
Così fino alla consumazione della sua identificazione con Cristo Crocifisso e della sua gloriosa pasqua a Ubeda, quando annunziò che andava a cantare il mattutino in cielo.
7. Una delle cose che più attirano l’attenzione negli scritti di san Giovanni della Croce è la lucidità con cui ha descritto la sofferenza umana, quando l’anima è investita dalla tenebra luminosa e purificatrice della fede.
Le sue osservazioni sorprendono il filosofo, il teologo e perfino lo psicologo. Il dottore mistico ci insegna la necessità di una purificazione passiva, di una notte oscura che Dio provoca nel
credente, affinché sia più pura la sua adesione nella fede, speranza e amore. Infatti è così. La
forza purificatrice dell’anima umana viene da Dio stesso. E Giovanni della Croce fu cosciente,
come pochi, di questa forza purificatrice. Dio stesso purifica l’anima fino ai più profondi abissi del suo essere, accendendo nell’uomo la fiamma viva d’amore: il suo Spirito.
Egli ha contemplato con un’ammirabile profondità di fede, e a partire dalla sua propria esperienza della purificazione della fede, il mistero di Cristo Crocifisso; fino al culmine del suo abbandono sulla croce, dove viene offerto a noi, come esempio e luce dell’uomo spirituale. Lì, il Figlio amato del Padre “ha avuto bisogno di esclamare: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato? (Mt 27, 46)
Quello fu l’abbandono più grande che mai aveva provato nella sua vita. E in esso Gesù ha operato
il miracolo più grande che mai avesse potuto operare nella sua vita, né in terra né in cielo, e che consistette nel riconciliare ed unire il genere umano con Dio” (cf. S. Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, II, 7, 11).
8. Anche l’uomo moderno, nonostante le sue conquiste, sfiora nella sua esperienza personale e
collettiva l’abisso dell’abbandono, la tentazione del nichilismo, l’assurdità di tante sofferenze
fisiche, morali e spirituali. La notte oscura, la prova che fa toccare il mistero del male ed esige
l’apertura della fede, acquisisce a volte dimensioni di epoca e proporzioni collettive.
Anche il cristiano e la stessa Chiesa possono sentirsi identificati con il Cristo di San Giovanni della Croce, nel culmine del suo dolore e del suo abbandono. Tutte queste sofferenze sono state
assunte dal Cristo nel suo grido di dolore e nella sua fiduciosa consegna al Padre. Nella fede, la
speranza e l’amore, la notte si converte in giorno, la sofferenza in gioia, la morte in vita.
Giovanni della Croce, con la sua esperienza, ci invita alla fiducia, a lasciarci purificare da Dio;
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nella fede intessuta di speranza e di amore, la notte comincia a conoscere “le luci dell’aurora”; si
fa luminosa come una notte di Pasqua - “O vere beata nox”, “Oh notte amabile più dell’alba” - e
annuncia la risurrezione e la vittoria, la venuta dello Sposo che unisce a sé e trasforma il cristiano:
“Amata nell’Amato trasformata”.
Magari le notti oscure che si addensano sulle coscienze individuali e sulle collettività del nostro tempo fossero vissute nella fede pura; nella speranza “che tanto ottiene quanto spera”; nell’amore ardente della forza dello Spirito, affinché si convertano in giornate luminose per la nostra umanità addolorata, in vittoria del Risorto che libera col potere della sua croce!
9. Abbiamo ricordato nella lettura del Vangelo le parole del profeta Isaia, che Cristo fece sue: “Lo
Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19).
Anche il “santo Fraticello Giovanni” - come lo chiamava la madre Teresa - fu, come Cristo, un
povero che evangelizzò con immensa gioia e amore i poveri; e la sua dottrina è come una
spiegazione di quel vangelo della liberazione dalle schiavitù e oppressioni del peccato, della
luminosità della fede che guarisce ogni cecità. Se la Chiesa lo venera come dottore mistico sin
dall’anno 1926, è perché riconosce in lui il gran maestro della verità vivente riguardo a Dio e
all’uomo.
La “Salita del Monte” e la “Notte oscura” culminano nella gioiosa libertà dei figli di Dio nella partecipazione alla vita di Dio e alla comunione con la vita trinitaria (cf. S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 39, 3-6). Soltanto Dio può liberare l’uomo; questi acquisisce totalmente dignità e libertà soltanto quando sperimenta in profondità, come san Giovanni della Croce indica, la grazia redentrice e trasformante di Cristo. La vera libertà dell’uomo è la comunione con Dio.
10. Il testo del libro della Sapienza ci avvertiva “Se tanto poterono sapere da scrutare l’universo,
come mai non ne hanno trovato più presto il padrone?” (Sap 13, 19). Ecco una nobile sfida per l’uomo contemporaneo che ha esplorato le vie dell’universo. Ed ecco la risposta del mistico che
dall’altura di Dio scopre l’orma del Creatore nelle sue creature e contempla in anticipo la
liberazione della creazione (cf. Rm 8, 19-21).
Tutta la creazione, dice San Giovanni della Croce, è come bagnata dalla luce dell’Incarnazione e
della Resurrezione: “In questo innalzamento della Incarnazione del suo Figlio e della gloria della sua Resurrezione secondo la carne non soltanto il Padre ha abbellito in parte le creature, ma possiamo dire che le ha completamente vestite di bellezza e dignità” (S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 39, 5.4). Il Dio che è “Bellezza” si riflette nelle sue creature.
In un abbraccio cosmico che in Cristo unisce il cielo e la terra, Giovanni della Croce ha potuto
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esprimere la pienezza della vita cristiana: “Non mi toglierai, Dio mio, quello che una volta mi
donasti nel tuo unico figlio Gesù Cristo in cui mi hai dato tutto quello che voglio . . . Miei sono i cieli
e mia è la terra; miei sono le genti; i giusti sono miei, e miei i peccatori; gli angeli sono miei, e la
Madre di Dio e tutte le cose sono mie, e lo stesso Dio è mio ed è per me, perché Cristo è mio e
tutto per me” (S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 29-31).
11. Fratelli e sorelle: ho voluto con queste mie parole rendere un omaggio di gratitudine a San
Giovani della Croce, teologo e mistico, poeta e artista, “uomo celestiale e divino” - come lo ha
chiamato Santa Teresa di Gesù - amico dei poveri e saggio direttore spirituale delle anime. Egli è
padre e maestro spirituale di tutto il Carmelo Teresiano, il plasmatore di quella fede viva che brilla nei figli più illustri del Carmelo: Teresa di Lisieux, Elisabetta della Trinità, Raffaele Kalinowski, Edith Stein.
Chiedo alle figlie di Giovanni della Croce, le carmelitane scalze, che sappiano vivere l’essenza
contemplativa di quell’amore puro che è eminentemente fecondo per la Chiesa (cf. S. Giovanni
della Croce, Cantico spirituale, 29, 2-3). Raccomando ai suoi figli, i carmelitani scalzi, fedeli custodi di questo convento e animatori del Centro di Spiritualità dedicato al Santo, la fedeltà alla sua dottrina e la dedizione alla direzione spirituale delle anime, così come allo studio e
approfondimento della teologia spirituale.
Per tutti i figli di Spagna e di questa nobile terra segoviana, come garanzia di rigenerazione
ecclesiale, lascio queste magnifiche consegne di san Giovanni della Croce universalmente valide:
intelligenza perspicace per vivere la fede: “Un pensiero dell’uomo vale più di tutto il mondo;
pertanto solo Dio è degno di esso” (S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 32).
Volontà impavida per esercitare la carità: “Dove non c’è amore, metti amore ed otterrai amore” (S.Giovanni della Croce, Lettera 25, a Maria dell’Incarnazione). Una fede solida e confortante, che muova costantemente ad amare veramente Dio e l’uomo; perché alla fine della vita, “quando giungerà la sera sarai giudicato sull’amore” (S. Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 64).
Con la mia benedizione apostolica per tutti.
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