mercoledì 26 ottobre 2016

IL DIARIO CINESE DI PADRE PIERO GHEDDO del P.I.M.E con pagine di grande interesse

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Sono uscite in Italia le memorie di padre Piero Gheddo, del Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano, grande missionario d'antica scuola. Le ha edite la EMI col titolo: "Inviato speciale ai confini della fede".
Alla Cina padre Gheddo dedica pagine di grande interesse. Eccone qui di seguito un assaggio, sugli anni bui della Rivoluzione culturale e sul dopo.
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HO VISTO LA RISURREZIONE DELLA CHIESA IN CINA
di Piero Gheddo
Dopo l’ordinazione sacerdotale, nel 1953, mi impegnai subito nel giornalismo, intervistando – tra gli altri – i nostri missionari del Pontificio Istituto Missioni Estere che in quegli anni venivano espulsi dalla Cina: 140 in tutto, con cinque vescovi.
Nel 1973 vado in Cina come membro di una commissione della Montedison, sostituendo un ammalato. Era il tempo della "rivoluzione culturale" e quella Cina, dico la verità, mi aveva quasi affascinato: disciplina, ordine, pulizia, povertà dignitosa e orgoglio nazionale, uguaglianza nell’avere tutti il necessario. Non si vedevano per le città poveri né mendicanti né lebbrosi. Poi, leggendo il Libretto rosso di Mao, parevano sentenze degne di san Paolo: "A ciascuno tutto quello di cui ha bisogno, da ciascuno tutto quello che può dare"; "Servire il popolo è l’ideale del buon cinese"; "L’ideale del comunismo è cambiare il cuore dell’uomo".
Ho avuto momenti di dubbio nel mio granitico convincimento che il comunismo senza Dio non può produrre frutti positivi per l’uomo. La Cina pareva dimostrare il contrario e la guida non mancava di ripetere: "La Cina ha imparato a fare a meno di Dio". Non solo i cristiani, ma anche i buddisti, i musulmani, i confuciani erano scomparsi: l’ateismo di Stato pareva condiviso dal popolo. In Occidente e in Italia, Mao era considerato da giornalisti e "profeti" il vero salvatore della Cina, che, si diceva, ogni giorno dà una ciotola di riso a tutti i cinesi.
Tornato in Italia, ho poi scritto che in Cina la Chiesa cattolica non esiste più, secoli di missione non hanno prodotto frutti. Pensavo: i cosiddetti "cristiani del riso", convertiti dagli aiuti alimentari, non esistono più. Per cui, quando ci sarà libertà in Cina, si dovrà "ricominciare da capo l’evangelizzazione dei cinesi"! Ero ingenuo e cieco, vedevo la realtà cinese solo con i miei poveri occhi umani, non era ancora maturata bene in me la fiducia nello Spirito Santo, protagonista della missione della Chiesa!
Il nostro viaggio in Cina aveva come base un albergo per stranieri a Canton. Dalla città ci portano a vedere le conquiste della Cina maoista, una grande caserma. Al mattino suona la sveglia alle sei: musiche, canti patriottici in tutta la metropoli. Poco dopo, nel grande viale lungo il fiume scendono uomini e donne vestiti tutti più o meno allo stesso modo, pantaloni neri o blu scuro, camicetta bianca. Incomincia la ginnastica quotidiana, diretta da una voce robusta e sonora, con un sottofondo di musiche patriottiche, diffuse in ogni zona della grande città. Poi, tutti al lavoro.
Non visitiamo la Cina, ma una ristretta regione vicina a Canton, dove tornavamo alla sera. Ci mostrano alcune scuole, un ospedale moderno, le "comuni agricole" con la vita comunitaria delle famiglie, tutte impegnate nei lavori, e i bambini mantenuti ed educati dallo Stato. E poi una grande diga, costruita da migliaia di uomini e donne divisi in gruppi: portano pesi sulle spalle, salgono su scale di bambù che solo al vederle vengono i brividi, il lavoro è in gran parte manuale. I vari gruppi di un settore sono in competizione, ovunque bandierine di vario colore per segnare il lavoro fatto, un grande spettacolo. Alla sera si premia il gruppo che ha lavorato di più. Interessante anche la visita all’università. I palazzi antichi, le aule, i laboratori nelle facoltà scientifiche, tutto più o meno come in Occidente. Ma quando entriamo nella grande biblioteca vediamo subito molti scaffali e pochi libri, tutti o quasi in lingua cinese. L’anziano bibliotecario, che parla in francese, mi prende in disparte e mi dice: "I libri in altre lingue li hanno bruciati tutti".
Alla fine, due giorni di libertà. Un mattino esco col permesso della nostra guida e vado verso la maestosa cattedrale cattolica in stile gotico, costruita dai missionari francesi alla fine dell’Ottocento. La cattedrale è dietro a una cancellata chiusa. La fotografo con un quadro di Mao sopra il portale. Di fianco alla cattedrale una grande tettoia dove scaricano i rifiuti di quel quartiere. I miei confratelli di Hong Kong mi hanno poi spiegato che quello era un marchio di disprezzo per quell’edificio straniero. Dopo la cattedrale, mi fermo un po’ su una panca nella piazza vicina e rientro in albergo. Vado in stanza e mi accorgo che una delle mie due macchine fotografiche non ha più il coperchietto di plastica per la lente. Scendo al ristorante e un cameriere mi porge su un vassoio quel coperchio e dice: "L’ha lasciato lei sulla panca della piazza qui vicino?". E io, ingenuo, pensavo di essere libero!
In albergo, mi alzo alle due del mattino e celebro la messa sul tavolo della stanza. Messe commoventi nel silenzio notturno, pensando a tutti i cristiani nelle carceri e nei campi di lavoro e di sterminio cinesi, i laogai. Mentre era in corso la "rivoluzione culturale", non c’era nessuna chiesa aperta: sembrava che la Chiesa in Cina fosse letteralmente scomparsa.
Ma dopo la morte di Mao, che avviene nel 1976, la Chiesa risorge dalle ceneri. Verso il 1979-1980, cristiani cinesi incominciano a scrivere ai missionari italiani del PIME espulsi dalla Cina 20-25 anni prima. Lettere molto semplici, di gente di campagna, che ha sperimentato la sofferenza, la persecuzione, il carcere, i campi di lavoro forzato e arriva a scrivere frasi come questa: "Sono contento di aver sofferto per la fede in Gesù Cristo".
Quella gente ha conservato la fede in condizioni difficilissime, senza chiese, senza sacerdoti, senza comunità cristiana, anzi in presenza di uno Stato totalitario che per quasi trent’anni ha perseguitato tutte le religioni. In quelle lettere i cristiani cinesi chiedono non denaro, ma oggetti sacri: rosari, Vangeli, immagini della Madonna, medaglie, libri di preghiera.
La rinascita della Chiesa cinese è un vero e proprio miracolo. Torno in Cina una seconda volta nell’estate 1980, insieme con padre Giancarlo Politi, missionario a Hong Kong, che parlava bene il cinese. Così visitiamo una diocesi dove nel 1973 non avevo trovato nessun segno di presenza cristiana. A Sheqi incontriamo il vescovo e un sacerdote, con alle spalle 25 e 31 anni di carcere. I non cristiani che chiedono l’istruzione religiosa – dicono – sono tanti. Purtroppo non ci sono libri, segni sacri, non è possibile dare loro un’adeguata formazione cristiana. Chiedo come mai ci sono queste richieste di conversione, quando la Chiesa è così povera di preti e di materiale formativo: Vangeli, immagini, libri di preghiere. Il vescovo risponde: "Noi non predichiamo, ma la vita dei cristiani annunzia il Vangelo e una società alternativa a quella presente. Tutti sanno chi sono i cristiani: ci hanno visti quando siamo stati perseguitati, processati e condannati ingiustamente: non abbiamo mai maledetto nessuno, anche in carcere e nei campi di lavoro forzato la testimonianza dei cristiani ha convertito molti al Vangelo. E ora che siamo tornati alle nostre case, non cerchiamo vendette, non ci lamentiamo per quanto abbiamo patito, aiutiamo quelli che sono bisognosi del nostro aiuto. Credo che da qui vengano le richieste di istruzione religiosa e le conversioni".
Nell’ottobre 2000 la mia terza visita in Cina. Nel mio soggiorno a Canton incontro 26 giovani suore, in pantaloni neri, camicetta bianca, senza velo, capelli tagliati corti, con un piccolo crocifisso sul petto. Le piccole comunità di suore vivono in appartamenti fra la gente, esercitando ciascuna una professione, un lavoro, interessandosi dei poveri, collaborando con le parrocchie, prendendo contatto con le donne e le famiglie. Chiedo: "È vero che in questi giorni ci sono riunioni di preti, suore e catechisti, convocate dal governo, che vuole indottrinarvi?". "Sì – rispondono –, è vero, abbiamo una riunione tutti i giorni. Ci raccontano la storia del passato, i crimini e le prepotenze dei popoli cristiani occidentali, i danni che i missionari e le suore hanno fatto al popolo cinese. Però queste lezioni finiranno in pochi giorni e tutto tornerà come prima. Se anche ci fosse qualcosa di vero in quel che dicono, la nostra fede è basata sull’amore a Cristo e sulle esperienze concrete che la fede e la preghiera aiutano a vivere meglio". Testimonianze di fede e coraggio che non ho dimenticato.

AMDG et BVM

Il ministero sac. è un’opera divina

LA GRANDEZZA DEL MINISTERO
È LA MISURA DELLE VIRTÙ CHE RICHIEDE

Il ministero è un’opera divina: «Questa è l’opera di Dio credere in colui che egli ha mandato» (Gv. 6,29). San Paolo lo chiama opera del Signore: «Opus Domini» (I Cor. 16,10) Dio, infatti è il primo autore della salvezza degli uomini; fu il primo a volerla, il primo che ne pose le condizioni e ne istituì i mezzi, il primo che vi si è adoperato in Gesù Cristo Nostro Signore: «È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo» (2 Cor. 5,19).

Dio chiamo gli uomini a suoi cooperatori nell’opera della salvezza degli uomini, tuttavia Egli è l’agente principale nell’esecuzione dell’opera divina: «Affidando a noi la parola della riconciliazione; noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro» (Ivi 19,20). Ne consegue che il sacerdote è veramente l’ambasciatore, l’incaricato d’affari, il ministro di Dio, e come dice San Paolo: l’uomo di Dio: «Homo Dei» (I Tim. 6,2).
Da questo San Paolo conclude che l’uomo di Dio è preparato, disposto, diremmo quasi equipaggiato per ogni ope ra: «L’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona (2 Tim. 3,17). Ossia l’uomo di Dio diventa così, a suo modo, l’uomo-Dio e per i poteri divini che esercita dev’essere ornato di ogni virtù. Dev’essere perfetto come il Padre celeste è perfetto (Matteo, 5,48).
Perciò abbiamo molto da fare prima di poter dire come San Paolo: «Ci ha resi ministri adatti di una nuova alleanza» (2 Cor. 3,6).
Fra tutte le virtù necessarie al sacerdote, al ministro della salvezza delle anime, al pastore, San Gregorio Magno ne richiede principalmente dieci: ne parla in modo ammirevole nella seconda parte del suo Pastorale: voglia egli perdonarci se scriviamo al suo seguito qualche cosa intorno a quelle virtù ch’egli possedeva e che noi non possediamo.


LA CASTITÀ

Dio è santo, anzi è la stessa santità; per questo egli vuole che i suoi ministri siano santi. Orbene: il carattere proprio della santità del sacerdote è la castità.
Il vescovo nell’atto di ordinare i diaconi dice loro: «Estote assumpti a carnalibus desideriis, a terrenis concupiscentiis; estote nitidi, puri, casti sicut decet ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei» (Pont. Rom). Per cui se nel diacono si deve effettuare un tale ministero di assunzione, tanto più deve divenir grande nel sacerdote. L’uomo di Dio non può essere uomo della carne, perché Dio è tutto spirito.
Il sacerdote sia che si consideri in faccia a Dio e in faccia a nostro Signore, vedrà che deve a Dio e a nostro Signore l’omaggio della più perfetta castità. Se poi si considererà in faccia ai fedeli vedrà che a tutti deve sempre castità per essere sempre per loro l’uomo di Dio, pronto a dare i sacramenti, pronto a lavorare per guarire le piaghe delle anime.
La castità del sacerdote dev’essere una castità eccellente; se no sarebbe in difetto rispetto a Dio per la quotidiana celebrazione del Sacrificio e per la comunione quotidiana; in difetto rispetto ai fedeli per i quali non sarebbe mai un medico capace, qualora diventasse un uomo colpevole.
La purezza del sacerdote esige da lui una vita seria, regolata, mortificata, assente alle dissipazioni mondane, una vita di preghiera, ritirata e di studio.
È a questo prezzo che il sacerdote sarà l’uomo di Dio e si manterrà in alto nello stato di assunzione che il vescovo gli ha augurato, ordinandolo diacono. In questo modo egli potrà ascoltare la voce di Dio nella preghiera; potrà vedere con tranquillità e dall’alto lo stato delle anime sulla terra: potrà impegnarsi a guarirle senza esporsi a contrarre egli stesso il male.
Insomma, la castità è una virtù così indispensabile al sacerdote che assolutamente non esitiamo di affermare che la potenza del sacerdote è in ragione diretta della sua castità.
Per giudicarne, si guardino da un lato i Santi e dall’altro un sacerdote caduto o che sta per cadere: i Santi sono potenti «in opere et sermone»; i sacerdoti caduti o che stanno per cadere non possono nulla: danno a sé stessi la testimonianza della loro impotenza ed hanno il solo diritto di tacere.



IL BUON ESEMPIO

«Sii esempio ai fedeli», dice San Paolo al suo discepolo Timoteo (I Tim. 4,12). «Offri te stesso come esempio in tutto», dice a Tito (Tit. 2,7).
Scrive San Giovanni Crisostomo che l’anima del sacerdote dev’essere più pura dei raggi del sole (De Sacerdotio lib. VI, cap. 2).
Scrive anche che i vizi di un sacerdote non possono restare nascosti e quando fossero poca cosa si rivelano molto presto: «Ne utiquam possunt sacerdotum vitia latere, sed etiam exigua cito conspicua sunt» (Ibid. lib. III, cap. 14).
Senza il buon esempio il sacerdote non può né agire, né parlare utilmente per le anime. Egli deve avere il diritto d’insegnare agli altri.

San Gregorio Nazianzeno non pensava altrimenti quando diceva: «Prima di purificare bisogna essere purificati e prima d’insegnare la sapienza bisogna averla acquistata. Prima di rischiarare bisogna diventare luminosi; prima di condurre gli altri a Dio bisogna esserne vicini noi stessi e prima di santificare, bisogna essere santo» (Oratio I o II).
Il sacerdote non saprà mai insegnare le virtù che non possiede e non riuscirà a far praticare il bene ch’egli non avrà praticato. L’esempio è la prima forma di predicazione e senza questa non servirà a nulla tutta l’eloquenza di questo mondo: «Bronzo che risuona o un cembalo che tintinna». 

San Girolamo suppone il caso di un sacerdote che avesse intorno a sé dei fedeli virtuosi senza essere virtuoso egli stesso, o meno di coloro che devono imparare da lui e nettamente afferma che un sacerdote così fatto è la distruzione, la rovina della Chiesa, e una rovina violenta: «Vehementer enim Ecclesiam Dei destruit -meliores esse laicos quam clericos».

È facile cogliere la ragione di questo detto. I fedeli non trovando nei loro pastori ciò di cui hanno bisogno per progredire nelle virtù e anche per preservarsi, andranno verso il declino che sarà tanto più rapido quanto il pastore sarà meno atto a sostenerli là dov’essi avrebbero potuto spiccare il volo.

L’esempio è perciò necessario e dev’essere tanto più perfetto quando si devono istruire delle anime più perfette.

LA DISCREZIONE NEL SILENZIO

Il sacerdote deve saper conservare un silenzio discreto, il rispetto che deve a Dio, a nostro Signore, al Santo Sacramento e alle anime, delle quali è pastore gl’impongono una legge indispensabile di discreto silenzio.

Una sua parola di troppo può compromettere il suo ministero e nuocere alla stessa parola di Dio quando l’annuncerà.

Il sacerdote dovrebbe parlare soltanto quando ha da Dio l’ordine di parlare: ciò appartiene agli obblighi del ministro che deve aprire la bocca soltanto secondo le intenzioni del principe che lo ha inviato. 
Se il sacerdote è uomo di preghiera non avrà difficoltà ad osservare la legge della discrezione e del silenzio: quando si ha l’onore d’intrattenerci con Dio nella preghiera, con Nostro Signore durante il Santo Sacrificio, non si ha punta inclinazione a conversare con gli uomini.
Il sacerdote chiacchierone non sarà mai considerato dalle anime come uomo di Dio e in questo le anime non sbagliano mai.

AMDG et BVM

martedì 25 ottobre 2016

Farisei luterani, da LA SCURE di ELIA


Farisei luterani



Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia (Lc 12, 1).


Ipocrita, in greco, significa attore. Qualcuno che recita una parte. C’è chi recita scrupolosamente una parte scritta, trasmessa dai testi antichi, senza aderirvi pienamente e rimanendo così estraneo al mistero. C’è pure chi improvvisa la sua parte sostenendo che si tratterebbe di quella originale (che la tradizione dei dottori avrebbe deformato), non si sa come ritrovata intatta da pretesi “riformatori”. Ma chi si oppone alla forma in nome di una ri-forma costruita su misura cade nello stesso errore: il formalismo di un pensiero che ingabbia la trascendente realtà divina. Ogni discorso su Dio – che si vada in senso integralista o in senso modernista – si dissolve così in un nominalismo astratto in cui si gioca con le parole, dimentichi della realtà effettiva.


Poco importa che l’apparenza della nuova forma si presenti volutamente informe: sotto la ricercata scompostezza di una tenuta sciatta e di discorsi sconnessi, si cela infatti la ferrea determinazione di imporre un nuovo ordine globale a cui la nuova “religione” deve fungere da anima: a chao ordo, secondo il noto motto dei franchi muratori – ma si tratta di un “ordine” satanico. Così quella che è la madre di tutte le rivoluzioni, di cui si apprestano a celebrare il quinto centenario come di un evento fausto e memorabile, giunge oggi a piena maturazione grazie ai protestanti e ai giacobini che, infiltratisi nella Chiesa Cattolica, ne hanno occupato i centri pensanti e decisionali: deformando il pensiero teologico, hanno deformato gli uomini che avrebbero occupato le sedi del potere.


Il virus del soggettivismo, dopo aver fatto irruzione sulla scena europea con il principio del libero esame delle Sacre Scritture, ha attaccato il realismo metafisico e il pensiero classico in genere, sostituendo poi la dottrina morale con la teoria degli imperativi categorici dettati dalla coscienza individuale (che, giustificata per la sola fede, si ritiene esonerata dalla legge) e la dottrina politica dello Stato cristiano con l’ideologia dei diritti dell’uomo, in nome dei quali sono stati massacrati milioni di esseri umani: la lotta per la “liberazione” dei popoli ha causato i peggiori genocidi della storia e prodotto i sistemi più oppressivi di cui si abbia memoria. Ma tutto questo era ancora poco in confronto all’odierno controllo digitale e ad una sistematica deformazione delle coscienze che non è mai stata così invasiva e capillare, fino al punto di legittimare lo sterminio dei non nati.


In questo quadro, rapidamente abbozzato, si può tentare di dare una spiegazione a ciò che appare a prima vista inspiegabile: che un buffo signore, messo dagli intrighi di pochi a capo della più potente organizzazione religiosa al mondo (perché questo è quel che rimane, se si tolgon la fede e la grazia), si accanisca a demolire tutto ciò che costituisce la sua eredità millenaria e ne garantisce la tenuta perenne, trattandola da struttura meramente umana a servizio di uno scopo estrinseco. Proprio di questo tipo, in realtà, è la strategia adottata da quei liquidatori che vengono nominati allo scopo di rovinare un’impresa per farla assorbire da una società concorrente. Qui si tratta però dell’unica vera religione, che dovrebbe perdere ogni specificità esclusiva per potersi fondere con le altre ed essere asservita al governo mondiale che si sta preparando.


Bisogna pur dare atto a tale personaggio che sta recitando la sua parte con grande abilità in rapporto al fine perseguito; ultimo, in ordine di tempo, dei principali attori della forzata sottomissione della Chiesa al mondo, nell’universale silenzio con cui attonita la terra al nunzio stava – pur non essendo egli ancora morto – avanzava incontrastato nella realizzazione del programma. Quasi nessuno, fosse pure cardinale o vescovo, osava fiatare di fronte alle quotidiane, scandalose esternazioni del tiranno, finché un manipolo sparso di sacerdoti e fedeli è riuscito a forare la cappa della censura e ad ottenere un’insperata quanto gradita pubblicità dai suoi stessi avversari. Le repellenti etichette di apocalittici ultraconservatori non fanno effetto se non sui citrulli; il lettore incuriosito si precipita a verificare di persona che c’è scritto nei siti proscritti dal regime e, se non è del tutto decerebrato, è colpito da valutazioni indipendenti che non trova certo nell’informazione controllata dai magnati. Fantastico autogol, complimenti!


Non so se si può fissare una graduatoria delle migliori amicizie del nuovo profeta: se vengano prima gli ebrei dei grandi abbracci, che a tutto spiano innalzano quei muri che ossessivamente afferma di odiare tanto, o i pentecostali che, a suon di dollari massonici, strappano milioni di fedeli alla Chiesa Cattolica e pare abbiano stregato perfino lui, o i protestanti classici che, pur rivendicando assoluta fedeltà alla sola Scrittura, ammettono poi tranquillamente divorzio, aborto, sodomia, contraccezione, eugenetica e quant’altro. Certo è in compagnia di questi ultimi che, il 15 novembre dell’anno scorso, ha dato il meglio di sé, concentrando in poche, devastanti battute – sulle quali occorre ritornare il vista del prossimo 31 ottobre – una serie sbalorditiva di colossali eresie che dimostrano nei fatti, al di là delle puntigliose controversie circa la validità dell’elezione, che cotanto personaggio non gode affatto di quell’assistenza dello Spirito Santo che per divina costituzione è legata al suo ufficio.


Tralasciamo il fatto che il Papa non è un parroco: lo sa anche un bambino, c’è una bella differenza! Sorvoliamo sull’implicita ammissione di chi, visitando un carcere, si sente peccatore tanto quanto i delinquenti che vi sono rinchiusi e pensa di non trovarcisi soltanto grazie all’amore di Colui che l’ha salvato (ma che, a quanto pare, non ha salvato loro e senza il quale, quindi, saremmo tutti in galera). Evitiamo lo scoglio della pretestuosa incapacità di rispondere – da supremo garante, quale dovrebbe essere, della verità rivelata! – ad un semplice quesito dogmatico-canonico come quello dell’intercomunione, la cui soluzione è demandata all’illegittimo “magistero” parallelo dei teologi, implicitamente riconosciuto come superiore a un Magistero che non dà più risposte certe, ma instilla nella mente dei fedeli false certezze, lasciando che, sulle scelte da fare, ognuno si dia da sé la risposta che preferisce: «Vedete voi». Veniamo dunque agli aberranti dettagli.


Lasciando intendere che cattolici e luterani possano condividere la Cena del Signore, il de quo non osa tuttavia autorizzare tale prassi perché, a suo dire, non ne avrebbe la competenza (e chi, nel caso, dovrebbe averla sulla terra, al di sopra di lui?). Il fatto è che non parliamo affatto dello stesso rito: la Messa cattolica non è la Cena protestante. Noi cattolici non ci limitiamo a ricordare e imitare la stessa cosa che ha fatto Gesù, ma partecipiamo al Sacrificio incruento con cui Egli stesso, mediante il ministro ordinato, attualizza quello cruento della Croce, in espiazione dei nostri peccati e a gloria di Dio Padre. I protestanti, non avendo il sacramento dell’Ordine sacro, mangiano un semplice pezzo di pane; noi mangiamo, sotto la specie del pane, Gesù Cristo in corpo, sangue, anima e divinità, immolato sulla Croce, risorto da morte e asceso al cielo. La presenza di Gesù nella santa Eucaristia, poi, non dipende dalle convinzioni soggettive dei fedeli, ma è un fatto oggettivo che prescinde dalla fede individuale; un protestante, di conseguenza, si illude che durante la Cena Egli sia presente nel pane (e in qual modo? Soltanto perché il fedele lo crede?). La differenza tra la Cena e la Messa non è quindi una questione di spiegazioni o interpretazioni, ma è sostanziale: quel pane è o non è, a livello metafisico, il Corpo di Cristo.


«Se abbiamo lo stesso Battesimo dobbiamo camminare insieme». Ma il Battesimo suppone la fede, e i protestanti non hanno la nostra stessa fede; è un fatto innegabile che ha una portata decisiva: camminiamo su strade diverse. Basti pensare a quello che è pur ritenuto un punto in comune: la dottrina della giustificazione per grazia; il fatto è che non abbiamo la medesima nozione né della giustificazione né della grazia. La giustificazione forense dei protestanti è un’idea formale che non cambia nulla nel peccatore, ma gli appiccica addosso una giustizia nominale che lo lascia com’è sul piano ontologico; la vera giustificazione è invece un reale rinnovamento dell’anima che la rende di nuovo capace di comunicare alla vita divina e la santifica nell’essere, traducendosi poi nell’agire. La grazia non è quindi una mera copertura dello stato peccaminoso che lo nasconderebbe agli occhi di Dio, ma una comunicazione della Sua stessa santità, che trasforma interiormente l’uomo che non vi frapponga ostacoli. La fede che salva non è autoconvincimento volontaristico, ma virtù teologale infusa dallo Spirito Santo in chi, acconsentendo alle Sue ispirazioni, aderisce alla parola di verità predicata dalla Chiesa. Di conseguenza, non c’è equivalenza tra chiedere perdono a Dio come fa un protestante (e ormai pure tanti cattolici ignoranti) e ricevere l’assoluzione dal sacerdote, la quale è invece indispensabile per riacquistare lo stato di grazia perso con un peccato mortale.


La diverse dottrine («parola difficile da capire»: per quale ragione? Perché non gli piace?) cattolica e protestante risultano così due lingue interscambiabili per dire chi è Gesù e che cosa ha fatto per noi, mentre le scelte morali sarebbero alla fine «un problema a cui ognuno deve rispondere». L’unica questione che conta davvero rimane il servizio dei poveri, che oscura tutto il resto della vita cristiana – compresa la Messa e il catechismo – rendendolo perfettamente irrilevante. In questa demoniaca superbia di fare il bene senza la guida della verità e l’ausilio della grazia si manifesta proprio quella «fantasia di diventare come Dio» che l’improvvisato oratore, spostando come al solito l’attenzione altrove, ravvisa invece nella volontà di erigere muri per affermare il proprio potere escludendo gli altri. Esegeticamente ineccepibile! Il racconto biblico parla piuttosto di una torre con cui l’uomo voleva toccare il cielo e farsi un nome (cf. Gen 11, 4).


Come può riconoscere chiunque abbia l’uso di ragione, un comportamento buono suppone una retta conoscenza; convinzioni errate si traducono inevitabilmente in azioni cattive. Proprio per questo nella Chiesa esiste il Magistero, mediante il quale Cristo continua a guidare e istruire il Suo popolo. Ora, come si possono considerare legittime opinioni in totale opposizione al Magistero cattolico? Due dottrine contraddittorie non possono essere entrambe vere: devono essere necessariamente vera l’una e l’altra falsa. Lo scomodo principio di non-contraddizione (uno dei fondamenti della logica, che pur ci è noto da quasi due millenni e mezzo) è allora olimpicamente cassato con quello – inedito – della diversità riconciliata, peraltro non ulteriormente spiegato. Con ripetuti calci alla ragione e alla fede, il leader mondiale che non sa rispondere alle domande più banali si è fatto effettivamente un nome mettendosi al posto di Dio e abolendo la Sua legge.


La nuova, informe forma che si vuol dare al cristianesimo corrisponde perfettamente ai criteri di quel protestantesimo liberale (accolto in casa cattolica come modernismo in tutte le sue salse) che è la somma di tutte le aberrazioni rivoluzionarie degli ultimi otto secoli (includendo quelle di catari, valdesi, spirituali, gioachimiti, hussiti e compagnia come prodromi della rivolta luterana). Non è questa la sede per una ricerca approfondita di una loro matrice comune; molti elementi fanno però propendere per quei farisei propriamente detti che oggi finanziano quelle sètte fondamentaliste che si son date il nome di free churches. Poco importa che siano dottrinalmente agli antipodi: la verità non conta nulla, è proprio la confusione che deve regnare incontrastata, in un unico, grande, ipocrita abbraccio che narcotizzi le folle, estenuate dalla crisi economica e angosciate dalla minaccia terroristica, con un’illusione di amore e di pace personificata da un’immagine mistificatoria del Santo di Assisi. Conclusione: guardatevi da questi pessimi attori.


Novena per il 31 ottobre
(e per ogni volta che serve)

Non c’è differenza per il Cielo
tra il salvare per mezzo di molti e il salvare per mezzo di pochi,
perché la vittoria in guerra non dipende dalla moltitudine delle forze,
ma è dal Cielo che viene l’aiuto (1 Mac 3, 18-19).
Tu che, riparando ogni cosa con i tuoi meriti,
sei divenuta Madre e Signora di tutto,
Tu che, per il singolare concorso prestato alla nostra redenzione,
sei vera Regina del mondo,
Tu che, intimamente associata all’opera dell’umana salvezza,
frutto del Tuo olocausto d’amore fuso all’immolazione espiatoria del Cristo,
ci doni con Lui e da Lui la vita divina,
accogli nel Tuo Cuore immacolato la supplica dei figli in balìa della tempesta
e trasmettila ben più perfetta e potente al Sacro Cuore del Figlio Tuo.
Tu conosci i disegni degli empi penetrati nel Santuario di Dio
per trasformarlo, se mai possibile, in tempio del diavolo.
Tu ci hai messi in guardia dalle insidie in cui saremmo caduti
se non avessimo ascoltato i Tuoi ripetuti richiami.
Oggi veniamo a prostrarci ai Tuoi piedi
implorando perdono per tanta inerzia e tiepidezza,
ma confidando al contempo nella paziente bontà del Tuo Cuore di Madre,
per il quale non è mai troppo tardi.
Impedisci d’ora in poi ogni sacrilego incontro
tra chi dovrebbe rappresentare Tuo Figlio
e quelli che in vaste regioni del mondo ne hanno sedotto i fedeli,
separando dal Suo mistico Corpo tante membra, redente dal Suo Sangue prezioso,
con dottrine perverse che falsificano la Sua Parola di verità.
Disperdi con il Tuo scettro regale
tutti i demòni che nella notte di una vigilia santa
saranno stoltamente evocati da chi rifiuta la luce divina,
non più trattenuti da chi, pur avendo missione di istruire e difendere,
preferisce tacere e nascondersi, abbandonando le pecore ai lupi.
Schiaccia sotto il Tuo calcagno la superbia di Satana e dei suoi cultori,
che si tratti di eretici, traditori o ignari gaudenti.
Manda i Tuoi santi Angeli a nostra difesa e protezione,
suscita ardenti e coraggiosi araldi del Vangelo,
rianima i cuori dei Tuoi figli devoti:
che quel giorno non sia ricordato
se non per la Consacrazione del mondo al Tuo Cuore immacolato,
in attesa che Gli sia apertamente consacrata la nazione
che hai scelto in vista del Tuo annunciato trionfo,
Maria!

(da recitare al termine del santo Rosario)

SANTI CRISANTO E DARIA


Santa Daria Martire
Roma, † 283 ca.
I due santi patroni della città di Reggio Emilia vissero e morirono martiri nel III secolo, probabilmente nel 283. Crisanto figlio di un certo Polemio, di origine alessandrina, venne a Roma per studiare filosofia al tempo dell'imperatore Numeriano (283-284), qui ebbe l'occasione di conoscere il presbitero Carpoforo e si fece battezzare. Il padre Polemio cercò in tutti i modi di farlo tornare al culto degli dei, si servì anche di alcune donne e specialmente della bella vestale Daria. Ma Crisanto riuscì a convertire Daria e di comune accordo, simulando il matrimonio, poterono essere lasciati liberi di predicare, convertendo molti altri romani al Cristianesimo. La cosa non passò inosservata, scoperti furono infine accusati al prefetto Celerino, il quale li affidò al tribuno Claudio, che però si convertì insieme alla moglie Ilaria, i due figli Giasone e Mauro, alcuni parenti ed amici e i settanta soldati della guarnigione, che aveva in custodia gli arrestati. Scoperti, vennero tutti condannati a morte dallo stesso imperatore Numeriano. Crisanto e Daria furono condotti sulla Via Salaria, gettati in una fossa e sepolti vivi. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Trasóne sulla via Salaria nuova, santi Crisanto e Daria, martiri, lodati dal papa san Damaso. 

SANTI CRISANTO E DARIA 

I due santi patroni della città di Reggio Emilia vissero e morirono nel III secolo, l’anno del martirio si suppone fosse il 283; sono ricordati singolarmente o in coppia in svariati giorni dell’anno secondo i vari Martirologi e Sinassari, mentre il famoso Calendario Marmoreo di Napoli e per ultimo il Martirologio Romano, li ricordano il 25 ottobre.
I due martiri sono raffigurati in varie opere d’arte, reliquiari, pannelli, affreschi, mosaici, per lo più di origine italiana, situati in alcune città d’Italia, di Germania, Austria e Francia; questo testimonia la diffusione del loro antichissimo culto in tutta la Chiesa.
La loro vicenda, narrata in modo epico e fantasioso dalla ‘passio’, risente senz’altro della lontananza del tempo e della necessità di ricostruire la ‘Vita’ con pochissime notizie certe.

Questa ‘passio’ di cui si hanno versioni in latino e in greco, era già esistente nel secolo VI poiché era nota a s. Gregorio di Tours (538-594), vescovo francese e grande storico dell’epoca.
Crisanto figlio di un certo Polemio, di origine alessandrina, venne a Roma per studiare filosofia al tempo dell’imperatore Numeriano (283-284), qui ebbe l’occasione di conoscere il presbitero Carpoforo, quindi si istruì nella religione cristiana e poi battezzare.

Il padre Polemio cercò in tutti i modi di farlo tornare al culto degli dei, si servì anche di alcune donne e specialmente della vestale Daria, dotta e bella donna.

Ma Crisanto riuscì a convertire Daria e di comune accordo, simulando il matrimonio, poterono essere lasciati liberi di predicare, convertendo molti altri romani al Cristianesimo.

Ma la cosa non passò inosservata, scoperti furono infine accusati al prefetto Celerino, il quale li affidò al tribuno Claudio, che in seguito ad alcuni prodigi operati da Crisanto, si convertì insieme alla moglie Ilaria, i due figli Giasone e Mauro, alcuni parenti ed amici e gli stessi settanta soldati della guarnigione, che aveva in custodia gli arrestati.

A questo punto intervenne direttamente l’imperatore Numeriano che condannò Claudio ad essere gettato in mare con una grossa pietra al collo, mentre i due figli e i settanta soldati vennero decapitati e poi sepolti sulla Via Salaria; dopo qualche giorno anche Ilaria mentre pregava sulla loro tomba morì.

Anche Crisanto e Daria dopo essere stati sottoposti ad estenuanti interrogatori, furono condotti sulla Via Salaria, gettati in una fossa e sepolti vivi sotto una gran quantità di terra e sassi 

Dagli ‘Itinerari’ del secolo VII, si sa che i due martiri erano sepolti in una chiesetta del cimitero di Trasone sulla medesima Via Salaria nuova. Una notizia certa riferisce che per la festa dei santi martiri, affluivano molti fedeli ai loro sepolcri e che il papa Pelagio II nel 590, dette alcune reliquie ad un diacono della Gallia.

Ma la storia delle reliquie è intessuta di notizie contraddittorie e leggendarie, la tradizione vuole infatti che furono operate tre traslazioni, una da papa Paolo I (757-767) che dalla Via Salaria le avrebbe portate nella chiesa di S. Silvestro a Roma; la seconda da papa Pasquale I (817-824) che invece le avrebbe trasferite dalla Via Salaria alla Chiesa di Santa Prassede e l’ultima da papa Stefano V (885-891), che le avrebbe portate al Laterano.

Da questa ultima chiesa poi nell’884 sarebbero state portate nel monastero di Münstereiffel in Germania, ancora nel 947 le reliquie sarebbero state trasferite a Reggio Emilia, di cui s. Crisanto e s. Daria sono i patroni, ad opera del vescovo Adelardo, il quale le avrebbe avute da Berengario che a sua volta le aveva ricevute nel 915 da papa Giovanni X, come si vede un bel ginepraio.
Altre città rivendicano il possesso di reliquie come Oria (Brindisi), Salisburgo, Vienna, Napoli.


Il duomo di Reggio Emilia possiede i due busti reliquiari in argento dei martiri, opera di Bartolomeo Spani.

Autore: Antonio Borrelli

La unidad en la mentira