di Pietro Cantoni
Il “corpo” è oggi un tema d’importanza difficilmente sottovalutabile. Non è un caso che si diffondano contemporaneamente concezioni che riducono il corpo a elemento intercambiabile dell’essere dell’uomo, come nel caso della reincarnazione, e a semplice “teatro” del suo agire, senza che ciò comporti una responsabilità essenziale, come in certe dottrine teologico-morali. Ma il corpo può anche venire semplicemente considerato campo di sperimentazione illimitata, come nel caso dell’ingegneria genetica che vuole sottrarsi a qualunque controllo etico.
Ora, anche la fede cristiana ha un “corpo”, perché è fede in Dio che si è fatto “carne”, cioè uomo completo con —anche— un corpo. Secondo la fede cristiana cioè, Dio è entrato nella storia degli uomini, facendosi uomo fra gli uomini. Questo significa necessariamente che è apparso in un momento preciso della storia, legato a determinate coordinate spazio-temporali e “misurabile” attraverso testimonianze e documenti come tutti gli eventi importanti di questa stessa storia. L’evento di Dio fatto uomo entra nell’insieme degli eventi che costituiscono propriamente la “storia”, quindi può entrare nella “storiografia”, cioè nel racconto che gli uomini possono fare di questi eventi significativi.
Il “corpo” della fede cristiana sarà dunque —prima di tutto— lo spessore storico verificabile del suo fondamento, cioè della persona di Gesù di Nazareth e degli eventi terreni di cui è stato protagonista, primi fra tutti la sua morte e la sua risurrezione.
Secondo un’analogia profonda ma essenziale, corpo della fede sono anche gli eventi costitutivi della fede di ogni singolo cristiano: battesimo, eucaristia, Chiesa… Vi è un legame fra gli eventi della storia delle origini, gli eventi che fondano la storia del popolo di Dio che è la Chiesa e gli eventi che fondano l’esistenza del singolo cristiano.
Contro questa visione delle cose si erge una concezione della fede completamente sganciata dai fatti, siano essi eventi storici o eventi misterici, cioè sacramenti. Si tratta di una concezione che ha i suoi inizi con la Riforma protestante e una delle sue espressioni più conseguenti nella teologia dell’esegeta luterano tedesco Rudolf Bultmann, nato nell’ultimo quarto del secolo XIX e scomparso nel 1976.
E proprio Rudolf Bultmann è un “protagonista” dell’opera di Vittorio Messori Patì sotto Ponzio Pilato? Un’indagine sulla passione e morte di Gesù. Infatti, il teologo ed esegeta luterano viene citato spesso come fondatore, con altri, del metodo della Formgeschichte, la “storia delle forme”, e come ideatore del programma teologico della “demitizzazione”. Non che Vittorio Messori voglia addentrarsi in difficili problematiche attinenti alla storia della teologia contemporanea, ma vuole certamente mettere a fuoco le ragioni di un disagio avvertito da molti relativamente ai metodi dell’esegesi storico-critica, soprattutto applicata ai Vangeli, e in un’ottica apologetica.
Ecco la parola chiave: “apologetica”. Perché è certo che Vittorio Messori vuol fare —scandalosamente!— della buona apologetica. Si tratta di una parola ormai carica di un’eco emotiva sfavorevole. La teologia cattolica, negli ultimi decenni, ha cercato di sbarazzarsene ricorrendo al termine più generico —ma anche più ambiguo— di “teologia fondamentale”, termine ambiguo perché può riguardare due oggetti assai differenti: i princìpi intrinseci della fede e le ragioni del credere. Infatti, è certamente compito indiscusso della teologia fondamentale occuparsi dei princìpi della fede, cioè di che cosa significa “fede”, di quali sono le sue “fonti” —Scrittura, Tradizione e Magistero— e del metodo di quella scienza della fede che è la teologia. La teologia fondamentale dovrebbe occuparsi però anche di qualcosa d’altro: delle ragioni di credibilità, che costituiscono il presupposto o l’anima razionale della fede, presupposto o anima la cui mancanza ridurrebbe la fede a sentimento o istinto. L’ambiguità del termine ha favorito l’ambiguità dei metodi e ha fornito copertura all’imbarazzo di fronte a una fede che pretende di avere anche delle ragioni. La scomparsa del termine “apologetica” ha significato in moltissimi casi la scomparsa della cosa stessa.
Vittorio Messori nasce a Sassuolo, in provincia di Modena, nel 1941; studia a Torino, dove si laurea in scienze politiche, quindi —giornalista professionista— lavora ai quotidiani del gruppo de La Stampa; passa poi a Milano come collaboratore fisso del mensile Jesus e del quotidiano Avvenire, acquisendo grande notorietà soprattutto grazie alla seguitissima rubrica Vivaio, pubblicata appunto su Avvenire. Dalla fine degli anni Ottanta vive a Desenzano del Garda, in provincia di Brescia, dedicandosi soprattutto alla pubblicazione di volumi. È autore di opere di apologetica biblica e storica, agiografo nonché abile e acuto intervistatore di significativi protagonisti della vita contemporanea, ecclesiastici e laici. Nella prima categoria di scritti si situano Ipotesi su Gesù (1a ed., Società Editrice Internazionale, Torino 1976) e Scommessa sulla morte (1a ed., Società Editrice Internazionale, Torino 1982) nonché Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1992) e La sfida della fede. Fuori e dentro la Chiesa: la cronaca in una prospettiva cristiana (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo [Milano] 1993); nella seconda Un italiano serio. Il beato Francesco Faà di Bruno (Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1990; cfr. la recensione di Enzo Peserico, in Cristianità, anno XIX, n. 193-194, maggio-giugno 1991) e Opus Dei. Un’indagine (Mondadori, Milano 1994; cfr. la recensione e l’integrazione di Massimo Introvigne, L’Opus Dei e il movimento anti-sette, in Cristianità, anno XXII, n. 229, maggio 1994); nella terza Rapporto sulla fede. A colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger (1a ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1985; cfr. recensione di Giovanni Cantoni, in Cristianità, anno XIII, n. 122-123, giugno-luglio 1985), Inchiesta sul cristianesimo (1a ed. Società Editrice Internazionale, Torino 1987) e dello straordinario — in più sensi — Varcare la soglia della speranza (Mondadori, Milano 1994), in cui è interlocutore apprezzato di Papa Giovanni Paolo II.
Dunque, l’interesse per l’apologetica caratterizza l’opera di Vittorio Messori da lungo tempo e Patì sotto Ponzio Pilato? Un’indagine sulla passione e morte di Gesù si ricollega esplicitamente a Ipotesi su Gesù, di cui vuol essere l’inizio di una rielaborazione.
Con la consueta abilità letteraria, sui toni di un’appassionante inchiesta, l’autore ripercorre i principali episodi del racconto evangelico della passione, nel tentativo costante di illuminare il rapporto che le pagine evangeliche intrattengono con la storia. E il taglio, l’impostazione impressa all’opera deve sempre essere presente al lettore che non ne voglia fraintendere il significato. Il Vangelo, così come tutta la parola di Dio, assomma in sé una tale gamma e “quantità” di significati che sarebbe vano pretendere di esaurirli. Vittorio Messori ha ben chiaro che i Vangeli non sono “libri di storia”, nel senso corrente del termine, cioè non si esauriscono nel raccontare una storia; ma il loro messaggio è proprio quello di un Dio che entra nella storia, per cui il loro valore storico non è estraneo al loro significato religioso. Questo è il punto centrale.
Se un’inchiesta svolta nel 1993 ha posto i volumi di Vittorio Messori in testa alle letture religiose degli italiani, la ragione sta certamente nel fatto che essi rispondono con vigore e con piacevolezza a una domanda autentica, quella delle ragioni della fede e, quindi, della fondatezza della storia di Gesù.
L’autore non segue un ordine sistematico, ma si addentra nella materia con un metodo simile a quello utilizzato dai geologi nell’esame della composizione di un terreno, cioè mediante “carotaggi”, approfondimenti puntuali che permettono al racconto di non diluirsi troppo e di garantire piacevolezza di lettura senza scadere nella superficialità. In altri termini, Vittorio Messori costruisce un ottimo libro di divulgazione, ma di una divulgazione che non scade in volgarizzazione: anche il non specialista si accorge agevolmente che dietro il tono giornalistico sta uno studio condotto con serietà, in cui l’autore sa destreggiarsi nei meandri della sterminata bibliografia sulla materia, sa scegliere il meglio della produzione scientifica e non perde mai il contatto con gli specialisti.
Dopo alcune considerazioni introduttive, in cui chiarisce l’intento della ricerca, che non è affatto quello di difendere una posizione di stampo fondamentalista — Ragionando sui vangeli (pp. 3-9) —, Vittorio Messori conduce una critica pungente di certa critica biblica — Ipotesi su (certa) critica biblica (pp. 10-21) — rifiutando, in sostanza, la falsa alternativa “metodo storico-critico oppure fondamentalismo”: “Per le Scritture giudeo-cristiane, il credente sa che l’ispirazione è divina ma che la redazione è affidata agli uomini, i quali vi hanno lasciato le loro tracce che tocca allo specialista (e anche in questo senso il suo lavoro è prezioso) identificare, pur nell’attento rispetto del mistero.
“Seppure ben lontano, dunque, da ogni ingenuo letteralismo “fondamentalista” o “coranico”, non ho però potuto impedirmi di andare a vedere che possa succedere quando — scevri da ogni pregiudizio, anche “scientifico” o presunto tale — si provi a ragionare davvero su quei versetti greci, passandoli al vaglio di tutto ciò che sappiamo” (p. 8).
L’indagine si snoda poi in altri trentacinque capitoli, come un romanzo giallo, dal sinistro episodio dell’impiccagione di Giuda, nel campo detto Akeldamà, attraverso le vicende del processo di Gesù, della profezia del Tempio, del rinnegamento di Pietro, della crocifissione, per tornare alle ricerche esegetiche, scandagliate però qui nei loro aspetti innovatori rispetto alla corrente maestra del metodo storico-critico. Così un capitolo — La scuola di rabbì Gesù (pp. 285-293) — è dedicato alla proposta della cosiddetta scuola svedese — rappresentata da H. Riesenfeld e da B. Gerhardsson —, che sottolinea l’importanza della memoria e dei metodi di memorizzazione nell’insegnamento rabbinico, che hanno certamente caratterizzato sia l’insegnamento di Gesù sia la sua trasmissione. Questo non significa che la trasmissione si sia realizzata in modo “magnetofonico”, perché si sa che una trasmissione fedele non è necessariamente una trasmissione “letterale”; anzi, spesso si fa esperienza del contrario. Tuttavia, si viene certamente aiutati a comprendere come la fedeltà alla parola del maestro fosse una preoccupazione assolutamente centrale in quel contesto culturale. Se nel contesto del Nuovo Testamento si può parlare di “teologie” — teologia di Marco, di Luca, di Matteo, di Giovanni, di Paolo —, però si deve fare attenzione a non intendere il termine “teologia” — e quello collegato di “teologo” — nel senso che ha attualmente. Si commetterebbe lo stesso errore di intendere i Vangeli alla stregua di “biografie”, sempre nel senso moderno, di Gesù. Il noto esegeta Claus Westermann fa una osservazione assolutamente pertinente a proposito delle “teologie” attribuite ai diversi autori e ai diversi — ipotetici — documenti nell’ambito dell’Antico Testamento: “Essi sono, senza eccezione, in primo luogo dei trasmettitori: formulano quello che i loro padri hanno detto. La formulazione di quanto hanno ricevuto può essere loro propria in modo anche rilevante, ma non sono mai soltanto persone che danno, bensì sempre insieme persone che ricevono” (Biblischer Kommentar Altes Testament. I/1 Genesis [Commento biblico del Vecchio Testamento. I/1 Genesi], 3ª ed., Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1983, p. 775).
Finalmente, due capitoli sono dedicati alle ipotesi di Jean Carmignac e di altri studiosi sull’originaria composizione ebraica dei Vangeli —Una storia tutta ebraica: anche nella lingua? (pp. 294-302) — e sull’identificazione e la datazione del frammento ritrovato nelle grotte di Qumràn e classificato con il nome 7Q5, Qumràn, grotta 7: venti lettere per un mistero (pp. 353-368).
Com’era per altro prevedibile, alla ricerca di Vittorio Messori non sono mancate le critiche provenienti dal mondo degli studiosi di professione. Per esempio Vittorio Fusco, ordinario di Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, a Napoli, ne ha fatto un’analisi serrata e impietosa, accusando Vittorio Messori di “concordismo” (cfr. Note di lettura sull’ultimo libro di V. Messori. Le trombe del concordismo, in il regno-attualità, anno XXXVIII, n. 703, 15-4-1993, pp. 249-253). Alcune affermazioni di Vittorio Fusco sono state vivacemente contestate dai due eminenti papirologi José O’Callaghan e Carsten Peter Thiede (cfr. Lucio Brunelli, Un indizio di storia, in 30 Giorni nella Chiesa e nel mondo, anno XII, n. 7/8, luglio-agosto 1994, pp. 72-75). La papirologia è una scienza fortemente “positiva” rispetto all’interpretazione letteraria, per cui troviamo qui proprio la conferma di un’osservazione di Vittorio Messori, secondo cui in una “certa” esegesi si assiste a una prevaricazione della teoria sui fatti, del pensiero sull’essere… Se i fatti mi danno ragione bene, altrimenti “tanto peggio per i fatti”! Si tratta, peraltro, di una tendenza non nuova, perché la critica cattolica la rimproverava da tempo all’esegesi razionalista. Dunque Vittorio Fusco accusa Vittorio Messori di praticare il concordismo, cioè quel metodo esegetico preoccupato solo di assicurare a qualunque costo l’aderenza del testo biblico alla “storia”, senza curarsi del fatto che l’attenzione principale degli agiografi non è rivolta alla storiografia come si è abituati a concepirla attualmente.
In realtà, mi pare che questa critica non tenga conto di almeno due elementi.
1. In primo luogo, del “genere letterario” in cui l’opera è stata volutamente realizzata. Pretendere che, in un testo di divulgazione, ci si soffermi a valutare le teorie più nuove e più “contestatrici” esponendo anche, con la stessa cura, le critiche che esse hanno ricevuto, è eccessivo. È sufficiente avvertire il lettore — cosa che Vittorio Messori fa puntualmente — che si tratta di ipotesi. Questo avviene sia per la teoria della scuola svedese sull’importanza della trasmissione mnemonica nel mondo ebraico dell’epoca, sia per l’identificazione del frammento 7Q5 con un versetto del vangelo di Marco, come pure circa l’ipotesi avanzata da Jean Carmignac sulla lingua dei Vangeli. Vittorio Messori ne dà notizia, senza nascondere le sue simpatie, ma senza neppure maggiorare il grado di probabilità scientifica che simili proposte hanno nell’attuale dibattito scientifico. Certamente non mancano spunti polemici sul modo con cui il mondo scientifico ha accolto teorie che rischiano di mettere in discussione certe impostazioni accolte dalla maggior parte dei cultori della materia. Ma Vittorio Messori non è affatto il solo a osservare questa mancanza di obiettività nel valutare tutto quanto mette in discussione i presupposti del metodo della Formgeschichte. Si ha da più parti la netta impressione che questi presupposti siano trasformati surrettiziamente in dogmi. Un teologo di fama come Louis Bouyer non esita a usare toni ben più forti di quelli che si permette Vittorio Messori: “Bisogna […] sottolineare che la critica e l’esegesi bibliche restano ancora troppo spesso paralizzate sotto il peso di teorie più o meno a priori, sviluppatesi in genere nella euforia ingenua di un certo secolo XIX, che si considerava, quanto ad atteggiamento intellettuale, preludio alla età d’oro, e che è stato piuttosto l’inizio di una generale disintegrazione.
“Tali sono: la tesi di Graf e Wellhausen sui “documenti” del Pentateuco (chiamati rispettivamente Javista, Elohista, Deuteronomista, Sacerdotale) — la concezione, sviluppata particolarmente da Bernard Duhm, di quello che è stato definito il “profetismo biblico”, profondamente antisacerdotale e individualista — la certezza della priorità del vangelo di Marco e della sua storicità più “pura” — la ipotesi dei “logia”, ossia di una raccolta scritta delle parole di Gesù che sarebbe esistita prima dei nostri vangeli — il carattere tardivo ed ellenico degli scritti giovannei, specialmente del quarto vangelo — l’eterogeneità più o meno radicale delle lettere attribuite a san Paolo e dette “della prigionia”, nei confronti del gruppo Romani-Galati-Corinzi. A questo va aggiunto il quadro storico prospettato da Bultmann (su cui si basa il suo progetto di demitizzazione), che schematizza in quattro fasi corrispondenti a quattro generazioni successive, lo sviluppo dei testi neotestamentari: ciò che può essere contemporaneo all’ambiente giudaico palestinese in cui Gesù è vissuto e ha predicato, ciò che può esserlo di una prima missione nello stesso ambiente dopo la scomparsa di Gesù, ciò che trova il suo posto nella prima missione cristiana tra i giudei ellenizzati e ciò che risale alla fondazione della Chiesa in un ambiente di convertiti dall’ellenismo.
“Bisogna constatare che nel protestantesimo, anche il più “liberale”, non vi è nessuno di questi presupposti che non sia diventato oggetto di un dubbio più o meno sviluppato e generalizzato […] mentre nella maggioranza degli ambienti cattolici che si definiscono biblici questi sono dogmi intangibili e basta metterli in dubbio per sentir gridare: “Non ci toccate la nostra scienza!”” (Gnosis. La conoscenza di Dio nella Scrittura, trad. it., Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, pp. 168-169).
Di fatto, Vittorio Messori mette a fuoco un dato di grande rilievo, e cioè che quella che oggi si presenta come la esegesi storico-critica è in realtà soltanto un metodo di esegesi; e un metodo per cui è giunto — in verità ormai da tempo — il momento di presentare le sue credenziali davanti al tribunale della fede e della ragione, cioè della teologia e della filosofia, che hanno il compito di verificare i suoi presupposti metodologici saggiandone la consistenza e l’adeguatezza rispetto all’oggetto che pretende di indagare. Il numero di quanti richiedono un riesame metodologico dell’esegesi storico-critica cresce e in esso si pongono, per esempio, Gerhard Maier (Das Ende der historisch-kritischen Methode [La fine del metodo storico-critico], 2ª ed., Theologischer Verlag Rolf Brockhaus, Wuppertal 1975), Paul Toinet (Pour une théologie de l’exégèse, con prefazione di Ignace de la Potterie, Fac-éditions, Parigi 1983), René Laurentin (Comment réconcilier l’exégèse et la foi, O.E.I.L., Parigi 1984), nonché alcuni autori — per esempio lo stesso Ignace de la Potterie e Joseph Ratzinger —, i cui contributi sono raccolti nell’opera collettiva L’esegesi cristiana oggi (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1991). E una serrata e documentata critica al metodo della Formgeschichte ha svolto nel 1994 Hans-Joachim Schulz (Die apostolische Herkunft der Evangelien [L’origine apostolica dei Vangeli], con una prefazione di Rudolf Schnackenburg, Herder, Friburgo-Basilea-Vienna 1994).
2. In secondo luogo, vi è un problema di linguaggio, di comunicazione, in cui il giornalista Vittorio Messori è indubbiamente il competente rispetto all’esegeta. Qui si rovesciano le posizioni rispetto all’”esperto” nell’esegesi. Infatti, l’esperto corre spesso il rischio — chiuso com’è nella torre d’avorio della sua università o del suo istituto di ricerca, abituato al dialogo ristretto all’interno della cerchia, o “casta”, degli specialisti — di perdere il contatto con il linguaggio della gente e con le sue reali domande. Da questo punto di vista dovrebbe porsi in un atteggiamento più umile e recettivo nei confronti di chi invece intrattiene un dialogo vivace con il cosiddetto “uomo della strada”, dialogo suffragato dalle tirature lusinghiere dei suoi libri.
L’uomo della strada si pone l’”ingenua” domanda: “Ma è successo veramente”? Per visioni del mondo altre rispetto al cristianesimo si tratta di una domanda oziosa: infatti, poco importa che Krishna sia veramente esistito, che Buddha abbia fatto tutto quanto gli viene attribuito, che Karl Marx abbia veramente assunto questa o quella posizione; conta piuttosto la via che hanno tracciato. Ma il discorso è radicalmente diverso per Colui che ha osato affermare “Io sono la via”.
L’opera di Vittorio Messori aiuta a ritrovare questa “via” nella storia, perché possa diventare storia anche della nostra vita.
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