lunedì 1 febbraio 2016

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II PER LA I GIORNATA DELLA VITA CONSACRATA


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
PER LA I GIORNATA DELLA VITA CONSACRATA

Venerati Fratelli nell'Episcopato,
Carissime persone consacrate!
1. La celebrazione della Giornata della Vita consacrata, che avrà luogo per la prima volta il 2 febbraio prossimo, vuole aiutare l'intera Chiesa a valorizzare sempre più la testimonianza delle persone che hanno scelto di seguire Cristo da vicino mediante la pratica dei consigli evangelici e, in pari tempo, vuole essere per le persone consacrate occasione propizia per rinnovare i propositi e ravvivare i sentimenti che devono ispirare la loro donazione al Signore.
La missione della vita consacrata nel presente e nel futuro della Chiesa, alle soglie ormai del terzo millennio, non riguarda solo coloro che hanno ricevuto questo speciale carisma, ma tutta la comunità cristiana. Nell'Esortazione apostolica post-sinodale Vita consecrata, pubblicata lo scorso anno, scrivevo: "In realtà, la vita consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione, giacché «esprime l'intima natura della vocazione cristiana» e la tensione di tutta la Chiesa-Sposa verso l'unione con l'unico Sposo" (Giovanni Paolo II, Vita Consecrata, n. 3). Alle persone consacrate, poi, vorrei ripetere l'invito a guardare al futuro con fiducia, contando sulla fedeltà di Dio e la potenza della sua grazia, capace di operare sempre nuove meraviglie: "Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi" (Ibid., 110).
I motivi della Giornata della Vita consacrata
2. Lo scopo di tale giornata è pertanto triplice: in primo luogo, essa risponde all'intimo bisogno di lodare più solennemente il Signore e ringraziarlo per il grande dono della vita consacrata, che arricchisce ed allieta la Comunità cristiana con la molteplicità dei suoi carismi e con i frutti di edificazione di tante esistenze totalmente donate alla causa del Regno. Non dobbiamo mai dimenticare che la vita consacrata, prima di essere impegno dell'uomo, è dono che viene dall'Alto, iniziativa del Padre, "che attrae a sé una sua creatura con uno speciale amore ed in vista di una speciale missione" (Ibid., 17). Questo sguardo di predilezione tocca profondamente il cuore del chiamato, che è spinto dallo Spirito Santo a porsi sulle orme di Cristo, in una forma di particolare sequela, mediante l'assunzione dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza. Dono stupendo!
"Che sarebbe del mondo se non vi fossero i religiosi?", si domandava giustamente santa Teresa (Libro de la vida, c. 32,11). Ecco una domanda che ci spinge a rendere incessantemente grazie al Signore, il quale con questo singolare dono dello Spirito continua ad animare e sostenere la Chiesa nel suo impegnativo cammino nel mondo.
3. In secondo luogo, questa Giornata ha lo scopo di promuovere la conoscenza e la stima per la vita consacrata da parte dell'intero popolo di Dio.
Come ha sottolineato il Concilio (cfr Lumen gentium, 44) ed io stesso ho avuto modo di ribadire nella citata Esortazione apostolica, la vita consacrata "più fedelmente imita e continuamente rappresenta nella Chiesa la forma di vita che Gesù, supremo consacrato e missionario del Padre per il suo Regno, ha abbracciato ed ha proposto ai discepoli che lo seguivano" (n. 22). Essa è, dunque, speciale e vivente memoria del suo essere di Figlio che fa del Padre il suo unico Amore - ecco la sua verginità -, che in Lui trova la sua esclusiva ricchezza - ecco la sua povertà - ed ha nella volontà del Padre il "cibo" di cui si nutre (cfr Gv 4, 34) - ecco la sua obbedienza.
Questa forma di vita, abbracciata da Cristo e resa presente particolarmente dalle persone consacrate, è di grande importanza per la Chiesa, chiamata in ogni suo membro a vivere la stessa tensione verso il Tutto di Dio, seguendo Cristo nella luce e nella potenza dello Spirito Santo.
La vita di speciale consacrazione, nelle sue molteplici espressioni, è così al servizio della consacrazione battesimale di tutti i fedeli. Nel contemplare il dono della vita consacrata, la Chiesa contempla la sua intima vocazione di appartenere solo al suo Signore, desiderosa d'essere ai suoi occhi "senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa ed immacolata" (Ef 5, 27).
Ben si comprende, dunque, l'opportunità di una apposita Giornata che faccia sì che la dottrina sulla vita consacrata sia più largamente e più profondamente meditata ed assimilata da tutti i membri del popolo di Dio.
4. Il terzo motivo riguarda direttamente le persone consacrate, invitate a celebrare congiuntamente e solennemente le meraviglie che il Signore ha operato in loro, per scoprire con più lucido sguardo di fede i raggi della divina bellezza diffusi dallo Spirito nel loro genere di vita e per prendere più viva consapevolezza della loro insostituibile missione nella Chiesa e nel mondo.
Immerse in un mondo spesso agitato e distratto, prese talvolta da compiti assillanti, le persone consacrate saranno aiutate anche dalla celebrazione di tale annuale Giornata a ritornare alle sorgenti della loro vocazione, a fare un bilancio della propria vita, a confermare l'impegno della propria consacrazione. Potranno così testimoniare con gioia agli uomini ed alle donne del nostro tempo, nelle diverse situazioni, che il Signore è l'Amore capace di colmare il cuore della persona umana.
C'è davvero una grande urgenza che la vita consacrata si mostri sempre più "piena di gioia e di Spirito Santo", si spinga con slancio sulle vie della missione, si accrediti in forza della testimonianza vissuta, giacché "l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni" (Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n.41).
Nella festa della Presentazione del Signore al Tempio
5. La Giornata della Vita consacrata sarà celebrata nella festa in cui si fa memoria della presentazione che Maria e Giuseppe fecero di Gesù al tempio "per offrirlo al Signore" (Lc 2, 22).
In questa scena evangelica si rivela il mistero di Gesù, il consacrato del Padre, venuto nel mondo per compierne fedelmente la volontà (cfr Eb 10, 5-7). Simeone lo addita come "luce per illuminare le genti" (Lc 2, 32) e preannunzia con parola profetica l'offerta suprema di Gesù al Padre e la sua vittoria finale (cfr Lc 2, 32-35).
La Presentazione di Gesù al Tempio costituisce così un'eloquente icona della totale donazione della propria vita per quanti sono stati chiamati a riprodurre nella Chiesa e nel mondo, mediante i consigli evangelici, "i tratti caratteristici di Gesù vergine, povero ed obbediente" (Vita consecrata,n.1).
Alla presentazione di Cristo si associa Maria.
La Vergine Madre, che porta al Tempio il Figlio perché sia offerto al Padre, esprime bene la figura della Chiesa che continua ad offrire i suoi figli e le sue figlie al Padre celeste, associandoli all'unica oblazione di Cristo, causa e modello di ogni consacrazione nella Chiesa.
Da alcuni decenni, nella Chiesa di Roma ed in altre diocesi, la festività del 2 febbraio riunisce quasi spontaneamente attorno al Papa e ai Pastori diocesani numerosi membri di Istituti di Vita Consacrata e di Società di Vita Apostolica, per manifestare coralmente, in comunione con l'intero popolo di Dio, il dono e l'impegno della loro chiamata, la varietà dei carismi della vita consacrata e la loro peculiare presenza all'interno della comunità dei credenti.
Desidero che questa esperienza si estenda a tutta la Chiesa, in modo che la celebrazione della Giornata della Vita consacrata raduni le persone consacrate insieme con gli altri fedeli per cantare con la Vergine Maria le meraviglie che il Signore compie in tanti suoi figli e figlie e per manifestare a tutti che quella di "popolo a lui consacrato" (Dt 28, 9) è la condizione di quanti sono redenti da Cristo.
I frutti attesi per la missione di tutta la Chiesa
6. Carissimi Fratelli e Sorelle, mentre affido alla protezione materna di Maria l'istituzione della presente Giornata, auspico di cuore che essa porti frutti abbondanti per la santità e la missione della Chiesa. Aiuti, in particolare, a far crescere nella comunità cristiana la stima per le vocazioni di speciale consacrazione, a rendere in essa sempre più intensa la preghiera per ottenerle dal Signore, facendo maturare nei giovani e nelle famiglie una generosa disponibilità a riceverne il dono. Ne trarrà giovamento la vita ecclesiale nel suo insieme e vi attingerà forza la nuova evangelizzazione.
Confido che questa "Giornata" di preghiera e di riflessione aiuti le Chiese particolari a valorizzare sempre di più il dono della vita consacrata ed a misurarsi col suo messaggio, per trovare il giusto e fecondo equilibrio tra azione e contemplazione, tra preghiera e carità, tra impegno nella storia e tensione escatologica.
La Vergine Maria, che ebbe l'altissimo privilegio di presentare al Padre Gesù Cristo, suo Figlio Unigenito, come oblazione pura e santa, ci ottenga di essere costantemente aperti e accoglienti nei confronti delle grandi opere che Egli non cessa di compiere per il bene della Chiesa e dell'intera l'umanità.
Con tali sentimenti ed augurando alle persone consacrate perseveranza e gioia nella loro vocazione, imparto a tutti l'Apostolica Benedizione.
Dal Vaticano, 6 gennaio 1997

© Copyright 1997 - Libreria Editrice Vaticana
AVE MARIA!

SAN PAOLO AI ROMANI cap VI


LETTERA AI ROMANI
Capo VI.

Secondo frutto della giustificazione:
liberazione dalla schiavitù del peccato e unione con Cristo
[1]Che diremo dunque? Rimarremo nel peccato, affinché abbondi la grazia? 2Non sia mai. Noi che siam morti al peccato, come potremo seguitare a vivere in esso? 3Non sapete forse che, quanti siamo battezzati in Gesù Cristo, nella morte di lui siamo stati battezzati? 4Noi dunque pel battesimo siamo stati sepolti con lui nella (sua) morte, affinché, come Cristo è risuscitato da morte per la gloria del Padre, così anche noi viviamo d’una vita novella. 5Se infatti siamo stati innestati su lui per somiglianza di morte, lo saremo anche per somiglianza di resurrezione.

Morte e risurrezione a nuova vita
6Questo ben lo sappiamo: che il nostro uomo vecchio è stato con lui crocifisso, affinché il corpo del peccato sia distrutto e noi non serviamo più al peccato, 7essendo il morto affrancato dal peccato. 8Or se noi siam morti con Cristo, crediamo di vivere ancora con lui, 9sapendo che Cristo, risuscitato da morte, non muore più, sopra di lui non regna più la morte 10perché se egli è morto per il peccato, è morto una sola volta; ma se vive, vive per Iddio.

Non più obbedienza al peccato
[11]Così voi pure consideratevi come morti al peccato, ma vivi per Iddio in Gesù Cristo Signor nostro. 12Il peccato non regni dunque nel vostro corpo mortale, da farvi obbedir alle sue concupiscenze: 13non date le vostre membra come strumenti d’iniquità al peccato, ma offritevi a Dio come viventi dopo essere stati morti, offritegli le vostre membra come strumento di giustizia.
14Il peccato adunque non vi dominerà, perché non siete sotto la legge, ma sotto la grazia.

Chi diventa servo della giustizia deve vivere santamente
15Che dunque? Peccheremo, perché non siamo sotto la legge ma sotto la grazia? Non sia mai. 16Non sapete che a chiunque vi diate a obbedire come servi, siete servi di colui al quale obbedite, sia del peccato che mena alla morte, sia dell’obbedienza che mena alla giustizia? 17Ma, grazie a Dio, voi che foste servi del peccato, avete poi obbedito di cuore nella regola di dottrina che vi è stata insegnata. 18Liberati così dal peccato siete divenuti servi della giustizia. 19Parlo a mo’ degli uomini, a motivo della debolezza della vostra carne: come dunque deste le vostre membra al servizio dell’immondezza e dell’iniquità per l’impurità, così date ora le vostre membra al servizio della giustizia per la santificazione. 20Quando eravate servi del peccato eravate liberi dalla giustizia; 21ma qual frutto aveste allora dalle cose di cui ora vi vergognate? Certamente la fine di esse è la morte. 22Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per fine la vita eterna, 23essendo paga del peccato la morte, e grazia di Dio la vita eterna in Gesù Cristo nostro Signore.


VIENI SIGNORE GESU' 
NOI TI ATTENDIAMO. AMEN.

Fui svegliato dal cinguettio

“ERAVAMO EBREI” DI ALBERTO MIELI:
 TESTIMONIANZA SCHIETTA E SERENA 
di GIUSEPPE RUSCONI
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Dopo... ha preso la parola l’autore, numero 180060 di Auschwitz-Birkenau.. Che, con voce pacata e commossa, ha ricordato alcuni momenti della sua vita e alcuni insegnamenti da trarre dalla tragedia vissuta. 
Quattro in particolare. Non portate mai con voi odio né rancore né vendetta, da cui conseguono sempre “lutto e morte”. Non date mai dispiacere ai vostri genitori, perché sono coloro che si sono sacrificati per mettervi al mondo e mantenervi. Non date mai ascolto ai compagni che vi chiedono di fare cose inaccettabili. Apprezzate sempre, e difendetelo, il dono della libertà, per voi e per gli altri.

Per concludere, qualche passo significativo del testo.

Prologo: Fui svegliato dal cinguettio di un uccello e attraverso il vetro della finestra della baracca vidi un passero appollaiato sul filo spinato del campo. Aprii la finestra e gli dissi sottovoce: “Che cosa fai qui in questo lugubre posto? Qui non c’è che malvagità, cattiveria e morte. Perché non voli libero in cielo tu che puoi farlo? Io non posso. Ma ti prego, se incontrerai una nuvola nera, non attraversarla, potresti svegliare i bambini che dormono, loro si tanno recando dal crematorio al cospetto del Signore. Ti prego”. Di colpo il passero volò via.

Alberto deve lasciare la scuola: Un giorno, non lo dimenticherò mai, fui chiamato dal preside dell’istituto. Piangendo mi disse che non potevo più frequentare il corso. Mi ricordo che mi fece tenerezza mentre pronunciava quelle parole. Un uomo così grande che piangeva come un bambino. Un bambino, io, che lo osservava in silenzio. Tra le lacrime mi disse che dal giorno successivo non avrei più potuto frequentare l’istituto. Non gli chiesi spiegazioni, fu lui a leggermi la circolare secondo la quale i bambini ebrei non potevano più accedere alle classi. (…) Io rimasi in silenzio ad ascoltare. Ma lui aveva ben chiara la partita. Conosceva la gravità della cosa. E i suoi occhi parlavano da soli, non li ho mai dimenticati, ancora oggi quando ci penso…

L’aria è cambiata: Anche l’aria era cambiata, le persone non sorridevano più e le strade erano vuote. La vita mutò completamente. Quelle leggi razziste furono di fatto l’inizio delle discriminazioni che trasformarono gli ebrei da cittadini italiani a perseguitati. Iniziai per la prima volta a sentire i bambini della mia età che per insultarsi tra loro si davano dell’ebreo…

Il pianto di papà: Papà era un uomo dignitoso e per bene. Commise solo l’errore di mentire alla mamma. A causa delle leggi razziste fu mandato via dal lavoro ma, per imbarazzo e un ingiustificato disonore, non ci disse nulla. Lo tenne nascosto per mesi. Così usciva ogni mattino da casa, con fare indifferente, vestendosi di tutto punto, fingendo di andare a lavorare. Ma, piano piano, i soldi in famiglia diminuivano. (…) Papà mentì così bene che, per tanto tempo, a noi tutto sembrò normale. Fino a quando mia madre non scoprì la verità. Lo ricordo bene quel giorno. Mamma cercava per casa la sua catenina d’oro. (…) Mise sottosopra casa, aprì tutti i cassetti e i pensili. Della collanina non vi era traccia. Solo allora papà, dopo aver osservato la mamma cercare per tutta la casa invano, si sedette sulla sedia di legno del salone e, poggiati i gomiti sul tavolo quadrato, si mise le mani in testa e iniziò a singhiozzare. Quella fu la prima e unica volta che vidi mio padre piangere.

L’arrivo ad Auschwitz: Lì, su quei binari, bastarono due minuti per capire che non saremmo più tornati a casa. Picchiarono gli anziani che non riuscivano a scendere dal vagone, presero a calci le mamme con in braccio i bambini, bastonarono i disabili. Chi era riuscito a portare con sé oggetti personali 8borse o valigie) fu costretto a lasciarle sul vagone. Ricordo bene quel momento, quelle immagini sono stampate nella mia testa come l’inizio dell’inferno, ma ancora non riuscivo a capire il perché di tutto questo. Poi, a un certo punto, in quelle condizioni la smetti anche di farti domande e ti preoccupi solamente di sopravvivere, accetti tutto come una regola e questo avviene quando ti hanno tolto tutto, dignità compresa.

Lo sketch dei Collalti: La famiglia Collalti era composta da un padre molto anziano, che durante le selezioni non fu ucciso solo perché era un valente meccanico e quindi utile nei campi, e suo figlio Luigi di ventiquattro anni. Erano romani e facevano parte della Resistenza, fino a quando non vennero catturati dagli uomini della Gestapo per essere reclusi nei campi di sterminio. Lo sketch dei Collalti altro non era che l’obbligo da parte del figlio di picchiare il padre a sangue sotto gli occhi divertiti delle SS. Luigi cercava in tutti i modi di attenuare i colpi e, più leggero lo colpiva, più era lui stesso a prendere bastonate dalle guardie. Lo massacrarono di botte mentre gli gridavano che questa non era la maniera di picchiare. Non dimenticherò mai le grida del padre che in romanesco urlava al figlio: ‘Menami forte Lui’, sennò ‘sti zozzi ci ammazzano!”
Dalla postfazione di Riccardo Di Segni: La storia di Alberto Mieli me la vedo davanti tutti i giorni, non solo quando lo incontro in tanti eventi comunitari, ma soprattutto quando incontro i suoi discendenti nella quotidianità delle riunioni di preghiera, una sfida e una vittoria vivente nei confronti di chi avrebbe voluto annientare lui e la sua gente, nel corpo e nello spirito. Per questo al titolo di questo libro, "Eravamo ebrei", aggiungerei la frase "e lo siamo ancora e di più". 


IL REDIVIVO: The revenant



The revenant

È un film strano, anzi straniante The revenant, arrivato nelle sale cinematografiche lo scorso fine settimana. Si fatica a capire come la macchina hollywoodiana abbia voluto puntare per un ritorno commerciale – vista l’imponente promozione – su un’opera lugubre, a tratti opprimente, dove i temi della lotta per la sopravvivenza e della vendetta sono trattati con faticosa lentezza – l’opposto dell’avvincente libro di Michael Punke, a cui il film si ispira in modo molto esile – sullo sfondo di un maciullamento di carni, neve rosso sangue, fango ghiacciato e desolazione umana. 

Film senza luce, con una buona fotografia e buoni effetti speciali – ma che stupiscono ormai pochi – con un ricco soundtrack di gemiti belluini e grugniti. Sono questioni che lasciamo però ai critici cinematografici. La vicenda è ambientata nei primi decenni dell’800, quando, dopo che l’antica e immensa Louisiana fu venduta dai francesi agli Stati Uniti nel 1803, si aprì una fase di spedizioni nel Nord-Ovest americano, fra le migliaia di chilometri quadrati che si aprivano tra St. Louis e le Montagne Rocciose, seguendo il corso del fiume Missouri. Fu un’epoca di avventure nell’ignoto, di pionieri in cerca di fama e commercianti senza scrupoli. Fu anche e soprattutto l’epopea dei trapper, cacciatori estremi, galvanizzati da una richiesta di pellicce da parte di americani ed europei che d’un tratto trasformò gli inermi castori in pepite d’oro ambulanti. 

Il regista Alejandro González Iñárritu ha voluto portare sul grande schermo l’aspetto atroce di quel mondo, fatto di avida competizione, del confronto impari con una natura capace di portare al collasso psichico (Meriwether Lewis, grande esploratore di quegli anni, dopo un’impresa con cui avrebbe potuto campare di rendita, per denaro e onori, finì depresso e alcolizzato e si suicidò a 35 anni) e soprattutto degli infiniti scontri con tribù indiane di cui oggi è facile dimenticarsi la ferocia: Arikara, Piedi Neri, Mandan, Sioux, Teste Piatte… la vera spina nel fianco dei cercatori di fortuna. 

Ma, appunto, quello fu solo un aspetto. Ce ne fu un altro che il film tralascia completamente, anche se dà un piccolo appiglio per arrivarci. È nella scena in cui il protagonista Hugh Glass (Leonardo Di Caprio) vede in sogno il figlio – avuto da un’indiana Pawnee e che gli è stato ucciso dal compagno traditore Fitzgerald – mentre si erge muto fra le rovine di una chiesa cattolica. Insolito rimando. Perché una chiesa non sembrerebbe c’entrare nulla con trapper, pellerossa né con il personaggio storico di Hugh Glass, realmente esistito. È questo l’altro grande aspetto dimenticato di quella storia: il ruolo che una serie di missionari eroici, soprattutto cattolici e in specie gesuiti, ebbero pressappoco negli stessi anni e lungo gli stessi fiumi e sentieri battuti dai protagonisti di The revenant. Sfoderando un coraggio e una fortezza di spirito non inferiore alla loro, anzi. 

Con una differenza: si mossero non in cerca di guadagni materiali, ma per la salvezza delle anime, e riuscirono a penetrare e conquistare il mondo indigeno come nessun altro prima. Secondo alcuni storici fu solo la velocità e la brutalità dell’espansionismo statunitense che impedì il nascere di esperienze come le reducciones dell’America del Sud. 

I gesuiti Jean de Brébeuf (1593-1649), Isaac Jogues (1607-1646) e altri sei compagni, uccisi in diverse località di quello che oggi è lo Stato di New York, erano arrivati dalla Francia come pionieri dello Spirito in un mondo distante come Marte e compirono un’efficace opera di evangelizzazione fra gli indiani Uroni: li istruirono, li allontanarono da costumi disumani, li battezzarono e iniziarono una paziente inculturazione del Vangelo. Passarono per privazioni e prove che, se non fosse per le dettagliate relazioni che inviarono regolarmente ai superiori in Europa, sembrerebbero inverosimili. 

Padre Jogues, catturato da una tribù nemica degli Uroni, i Mohawk, dopo un anno di prigionia e torture ritornò in patria sfregiato e con le dita di una mano amputate. Poco dopo volle tornare fra i suoi indiani. Padre De Brébeuf, catturato dagli Irochesi, anche loro nemici giurati degli Uroni, subì un supplizio lento: venne ustionato con acqua bollente e carboni ardenti, gli furono spezzate una a una le articolazioni, quindi tagliati uno dopo l’altro naso, lingua, orecchie, gli furono cavati gli occhi. 

Non essendo riusciti a strappargli urla di dolore, né a impedirgli fino all’ultimo di bisbigliare «Gesù, abbi pietà di loro», i suoi carnefici dopo averlo ridotto a un tronco senza vita gli mangiarono il cuore e ne bevvero il sangue: segno di ammirazione per il suo coraggio e un modo per impossessarsene. E qualcosa del genere effettivamente accadde. 
Fu proprio un gruppo di Irochesi che finì a Ovest, fra le Montagne Rocciose, a tramandare l’ammirato ricordo di Brébeuf e compagni. Così, 150 anni dopo, venuti a conoscenza della presenza di gesuiti nell’avamposto di St. Louis, quegli indiani compirono quattro spericolate spedizioni, di migliaia di chilometri, per chiedere con insistenza che uno dei grandi «veste nera» andasse ad abitare fra loro. 

All’appello rispose Pierre-Jean De Smet (18011873), gesuita belga, sorriso paterno e tempra d’acciaio, che divenne in breve, tra infiniti viaggi a piedi o in canoa su e giù per il Missouri, e altri fiumi come il Platte e lo Yellowstone, uno dei maggiori conoscitori di quelle terre. Imparò a dormire in mezzo alla neve, a cavarsela in condizioni proibitive, scalò montagne, si addentrò da solo, munito di breviario e del suo amato clarinetto, un po’ come il gesuita del film Mission, in mezzo ad accampamenti dove altri sarebbero stati presi immediatamente a colpi di tomahawk. Ma per gli indiani era l’uomo bianco che parlava «senza lingua biforcuta», che li difendeva dai soprusi dei cacciatori, dei trafficanti di whisky, vera e propria droga di allora. Il successo che riscosse lo rese il diplomatico di punta del governo federale – non certo simpatetico a quei tempi verso i papisti spesso francofoni – nel trattare con i pellerossa. E così fu assoldato e portato in palmo di mano da generali dell’esercito come William Harney e William Sherman. Convertì con il suo esempio e anche con la sua prestanza. Uno degli indiani che battezzò cercò di ucciderlo in un’imboscata: De Smet riuscì a disarcionarlo da cavallo, a sopraffarlo nel combattimento corpo a corpo e a strappargli l’ascia di guerra: la prova della sua abilità e la pietà che mostrò verso il vinto conquistarono quest’ultimo al Dio forte e misericordioso dei cattolici. 

De Smet lasciò una traccia profonda, su cui poi altri si inserirono altri confratelli. Nel 1862, a Mankota, furono impiccati 38 Sioux, catturati in seguito a una sollevazione nel Minnesota che aveva causato centinaia di morti fra gli americani. Al momento della sentenza, il colonnello in capo alla prigione disse ai condannati che potevano scegliere un accompagnamento spirituale alla morte: un santone della loro tribù, i due pastori protestanti presenti o un sacerdote cattolico, il gesuita francese Augustin Ravoux (1815-1906). I missionari protestanti conoscevano la lingua indigena perfettamente, erano in missione da 25 anni fra i Sioux, mentre padre Ravoux da 18 aveva lasciato l’apostolato fra di loro per gli scarsi risultati e pochi sacerdoti cattolici avevano stabilito altri contatti. 

Per la sorpresa di tutti, 33 tra i condannati scelsero di seguire il «veste nera». Ravoux rimase con loro quattro giorni, spiegando i fondamenti della fede. Impararono a recitare il Credo, il Padre Nostro, l’Ave Maria, l’atto di contrizione. Di fronte alla loro serietà e pietà «le lacrime mi bagnavano il viso», scrisse il gesuita nel suo diario. I nuovi battezzati spesero l’ultima notte serenamente, mentre i due indiani animisti si agitarono nervosamente fino all’alba. La mattina seguente, i 33 si avviarono al patibolo «senza mormorii di resistenza… animati da una grande speranza per il futuro». Un anno dopo, trecento famiglie Sioux chiesero di essere visitate da Ravoux e duecento indiani si fecero battezzare.

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Fu fatta anche di questo la straordinaria spinta missionaria che animò la Chiesa cattolica fino a poco oltre la metà del Novecento. Dopo di che avvenne quel ripiegamento, anzi, quel crollo lucidamente denunciato da padre Piero Gheddo – lui stesso grande missionario – in una sua memorabile diagnosi di qualche anno fa.
Una diagnosi diametralmente opposta a quella tratteggiata da FP nell'omelia di apertura dell'anno giubilare, l'8 dicembre scorso, cinquantesimo anniversario di quel concilio Vaticano II che – a detta del pf – avrebbe invece finalmente spinto la Chiesa "ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il cammino missionario".
"Secche"? "Rinchiusa"? Ma non era quella degli anni, dei decenni, dei secoli precedenti il Vaticano II una vera Chiesa missionaria "in uscita", che oggi giustamente si vorrebbe "revenant", rediviva?