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lunedì 1 febbraio 2016

IL REDIVIVO: The revenant



The revenant

È un film strano, anzi straniante The revenant, arrivato nelle sale cinematografiche lo scorso fine settimana. Si fatica a capire come la macchina hollywoodiana abbia voluto puntare per un ritorno commerciale – vista l’imponente promozione – su un’opera lugubre, a tratti opprimente, dove i temi della lotta per la sopravvivenza e della vendetta sono trattati con faticosa lentezza – l’opposto dell’avvincente libro di Michael Punke, a cui il film si ispira in modo molto esile – sullo sfondo di un maciullamento di carni, neve rosso sangue, fango ghiacciato e desolazione umana. 

Film senza luce, con una buona fotografia e buoni effetti speciali – ma che stupiscono ormai pochi – con un ricco soundtrack di gemiti belluini e grugniti. Sono questioni che lasciamo però ai critici cinematografici. La vicenda è ambientata nei primi decenni dell’800, quando, dopo che l’antica e immensa Louisiana fu venduta dai francesi agli Stati Uniti nel 1803, si aprì una fase di spedizioni nel Nord-Ovest americano, fra le migliaia di chilometri quadrati che si aprivano tra St. Louis e le Montagne Rocciose, seguendo il corso del fiume Missouri. Fu un’epoca di avventure nell’ignoto, di pionieri in cerca di fama e commercianti senza scrupoli. Fu anche e soprattutto l’epopea dei trapper, cacciatori estremi, galvanizzati da una richiesta di pellicce da parte di americani ed europei che d’un tratto trasformò gli inermi castori in pepite d’oro ambulanti. 

Il regista Alejandro González Iñárritu ha voluto portare sul grande schermo l’aspetto atroce di quel mondo, fatto di avida competizione, del confronto impari con una natura capace di portare al collasso psichico (Meriwether Lewis, grande esploratore di quegli anni, dopo un’impresa con cui avrebbe potuto campare di rendita, per denaro e onori, finì depresso e alcolizzato e si suicidò a 35 anni) e soprattutto degli infiniti scontri con tribù indiane di cui oggi è facile dimenticarsi la ferocia: Arikara, Piedi Neri, Mandan, Sioux, Teste Piatte… la vera spina nel fianco dei cercatori di fortuna. 

Ma, appunto, quello fu solo un aspetto. Ce ne fu un altro che il film tralascia completamente, anche se dà un piccolo appiglio per arrivarci. È nella scena in cui il protagonista Hugh Glass (Leonardo Di Caprio) vede in sogno il figlio – avuto da un’indiana Pawnee e che gli è stato ucciso dal compagno traditore Fitzgerald – mentre si erge muto fra le rovine di una chiesa cattolica. Insolito rimando. Perché una chiesa non sembrerebbe c’entrare nulla con trapper, pellerossa né con il personaggio storico di Hugh Glass, realmente esistito. È questo l’altro grande aspetto dimenticato di quella storia: il ruolo che una serie di missionari eroici, soprattutto cattolici e in specie gesuiti, ebbero pressappoco negli stessi anni e lungo gli stessi fiumi e sentieri battuti dai protagonisti di The revenant. Sfoderando un coraggio e una fortezza di spirito non inferiore alla loro, anzi. 

Con una differenza: si mossero non in cerca di guadagni materiali, ma per la salvezza delle anime, e riuscirono a penetrare e conquistare il mondo indigeno come nessun altro prima. Secondo alcuni storici fu solo la velocità e la brutalità dell’espansionismo statunitense che impedì il nascere di esperienze come le reducciones dell’America del Sud. 

I gesuiti Jean de Brébeuf (1593-1649), Isaac Jogues (1607-1646) e altri sei compagni, uccisi in diverse località di quello che oggi è lo Stato di New York, erano arrivati dalla Francia come pionieri dello Spirito in un mondo distante come Marte e compirono un’efficace opera di evangelizzazione fra gli indiani Uroni: li istruirono, li allontanarono da costumi disumani, li battezzarono e iniziarono una paziente inculturazione del Vangelo. Passarono per privazioni e prove che, se non fosse per le dettagliate relazioni che inviarono regolarmente ai superiori in Europa, sembrerebbero inverosimili. 

Padre Jogues, catturato da una tribù nemica degli Uroni, i Mohawk, dopo un anno di prigionia e torture ritornò in patria sfregiato e con le dita di una mano amputate. Poco dopo volle tornare fra i suoi indiani. Padre De Brébeuf, catturato dagli Irochesi, anche loro nemici giurati degli Uroni, subì un supplizio lento: venne ustionato con acqua bollente e carboni ardenti, gli furono spezzate una a una le articolazioni, quindi tagliati uno dopo l’altro naso, lingua, orecchie, gli furono cavati gli occhi. 

Non essendo riusciti a strappargli urla di dolore, né a impedirgli fino all’ultimo di bisbigliare «Gesù, abbi pietà di loro», i suoi carnefici dopo averlo ridotto a un tronco senza vita gli mangiarono il cuore e ne bevvero il sangue: segno di ammirazione per il suo coraggio e un modo per impossessarsene. E qualcosa del genere effettivamente accadde. 
Fu proprio un gruppo di Irochesi che finì a Ovest, fra le Montagne Rocciose, a tramandare l’ammirato ricordo di Brébeuf e compagni. Così, 150 anni dopo, venuti a conoscenza della presenza di gesuiti nell’avamposto di St. Louis, quegli indiani compirono quattro spericolate spedizioni, di migliaia di chilometri, per chiedere con insistenza che uno dei grandi «veste nera» andasse ad abitare fra loro. 

All’appello rispose Pierre-Jean De Smet (18011873), gesuita belga, sorriso paterno e tempra d’acciaio, che divenne in breve, tra infiniti viaggi a piedi o in canoa su e giù per il Missouri, e altri fiumi come il Platte e lo Yellowstone, uno dei maggiori conoscitori di quelle terre. Imparò a dormire in mezzo alla neve, a cavarsela in condizioni proibitive, scalò montagne, si addentrò da solo, munito di breviario e del suo amato clarinetto, un po’ come il gesuita del film Mission, in mezzo ad accampamenti dove altri sarebbero stati presi immediatamente a colpi di tomahawk. Ma per gli indiani era l’uomo bianco che parlava «senza lingua biforcuta», che li difendeva dai soprusi dei cacciatori, dei trafficanti di whisky, vera e propria droga di allora. Il successo che riscosse lo rese il diplomatico di punta del governo federale – non certo simpatetico a quei tempi verso i papisti spesso francofoni – nel trattare con i pellerossa. E così fu assoldato e portato in palmo di mano da generali dell’esercito come William Harney e William Sherman. Convertì con il suo esempio e anche con la sua prestanza. Uno degli indiani che battezzò cercò di ucciderlo in un’imboscata: De Smet riuscì a disarcionarlo da cavallo, a sopraffarlo nel combattimento corpo a corpo e a strappargli l’ascia di guerra: la prova della sua abilità e la pietà che mostrò verso il vinto conquistarono quest’ultimo al Dio forte e misericordioso dei cattolici. 

De Smet lasciò una traccia profonda, su cui poi altri si inserirono altri confratelli. Nel 1862, a Mankota, furono impiccati 38 Sioux, catturati in seguito a una sollevazione nel Minnesota che aveva causato centinaia di morti fra gli americani. Al momento della sentenza, il colonnello in capo alla prigione disse ai condannati che potevano scegliere un accompagnamento spirituale alla morte: un santone della loro tribù, i due pastori protestanti presenti o un sacerdote cattolico, il gesuita francese Augustin Ravoux (1815-1906). I missionari protestanti conoscevano la lingua indigena perfettamente, erano in missione da 25 anni fra i Sioux, mentre padre Ravoux da 18 aveva lasciato l’apostolato fra di loro per gli scarsi risultati e pochi sacerdoti cattolici avevano stabilito altri contatti. 

Per la sorpresa di tutti, 33 tra i condannati scelsero di seguire il «veste nera». Ravoux rimase con loro quattro giorni, spiegando i fondamenti della fede. Impararono a recitare il Credo, il Padre Nostro, l’Ave Maria, l’atto di contrizione. Di fronte alla loro serietà e pietà «le lacrime mi bagnavano il viso», scrisse il gesuita nel suo diario. I nuovi battezzati spesero l’ultima notte serenamente, mentre i due indiani animisti si agitarono nervosamente fino all’alba. La mattina seguente, i 33 si avviarono al patibolo «senza mormorii di resistenza… animati da una grande speranza per il futuro». Un anno dopo, trecento famiglie Sioux chiesero di essere visitate da Ravoux e duecento indiani si fecero battezzare.

*


Fu fatta anche di questo la straordinaria spinta missionaria che animò la Chiesa cattolica fino a poco oltre la metà del Novecento. Dopo di che avvenne quel ripiegamento, anzi, quel crollo lucidamente denunciato da padre Piero Gheddo – lui stesso grande missionario – in una sua memorabile diagnosi di qualche anno fa.
Una diagnosi diametralmente opposta a quella tratteggiata da FP nell'omelia di apertura dell'anno giubilare, l'8 dicembre scorso, cinquantesimo anniversario di quel concilio Vaticano II che – a detta del pf – avrebbe invece finalmente spinto la Chiesa "ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il cammino missionario".
"Secche"? "Rinchiusa"? Ma non era quella degli anni, dei decenni, dei secoli precedenti il Vaticano II una vera Chiesa missionaria "in uscita", che oggi giustamente si vorrebbe "revenant", rediviva?