sabato 5 dicembre 2015

Omnipotente

CATECISMO ROMANO 
XVII. Por qué el Símbolo nos propone a Dios como Omnipotente


41. Enseñe también el Párroco que recta y sabiamente se dispuso que, omitidos otros nombres atribuidos a Dios, se nos propusiera en el Símbolo para creer este solo nombre de Omnipotente

Pues conociendo que Dios es omnipotente, es también necesario que confesemos su infinita sabiduría, y que todo está sujeto a su imperio. 

Y convencidos de que lo puede todo, legítimamente se deduce que tengamos por muy ciertas todas las demás perfecciones, las cuales si no las tuviese, de ninguna manera podríamos entender cómo sería Omnipotente. 

Además de esto, ninguna cosa es tan propia para confirmar nuestra fe y esperanza, como tener bien asentado en nuestra mente, que nada hay imposible a Dios. Y a la verdad, después que el entendimiento humano reconoce la omnipotencia de Dios, fácilmente cree sin género de duda lo demás que se ha de creer, por más grande y admirable que sea, aunque exceda al orden y modo de las cosas; antes bien cuánto mayores son las cosas que enseñan las divinas Escrituras, tanto de más buena gana juzga que han de ser creídas. 

Del mismo modo, si es necesario esperar algún bien, nunca se desalienta el alma por la grandeza de lo que pide, antes se esfuerza y conforta pensando muchas veces que nada hay imposible para un Dios Omnipotente. 

Stat Veritas (www.statveritas.com.ar 

DEO GRATIAS ET MARIAE         

mercoledì 2 dicembre 2015

EGO SUM VIA VERITAS ET VITA



Esempi storici di  resurrezioni miracolose operate da Santi










"EGO SUM VIA VERITAS ET VITA"

"Vedo un ramo di mandorlo"

Il mandorlo di Geremia e il fascino di van Gogh

Autore: Riva, Sr. Maria Gloria  Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it  E-mail: Avvenire del 03/04/2014
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2015

Il mandorlo, il vigilante, colui che vede prima. Uno dei simboli che ci affascinano perché vorremmo caratterizzassero il nostro modo di vivere: essere vigilanti. Tutta la quaresima ci ha preparati a questo. La Pasqua ci trovi in fiore, pronti a rispondere. Grazie per tutti quelli che, rispondendo al nostro appello, ci hanno regalato un ramo di mandorlo.
La primavera giunge con i suoi tepori e non è raro trovare sulle nostre strade [sulla fine di gennaio] meravigliosi mandorli in fiore, spesso solitari in mezzo ad alberi spogli. Una visione simile l’ebbe un tempo il profeta Geremia.

In uno dei momenti più critici dell’attività del profeta, quando ormai la speranza di ritrovare fede e sicurezza a Gerusalemme sembrava perduta a causa del re di Babilonia che premeva alle porte della città, Dio chiama Geremia a vedere in modo nuovo le cose che gli stanno attorno. Alla domanda divina:«Cosa vedi Geremia?» il profeta rispose:«Vedo un ramo di mandorlo». (Ger 1, 11)
Mandorlo in ebraico si dice shaqued, che significa il vigilante. Così Dio, risponde giocando sull’ambivalenza della parola: «Hai detto bene: io, infatti, vigilo (shoqued) sulla mia Parola per realizzarla». Dio chiede a Geremia di non fidarsi delle apparenze e di arrendersi a Babilonia per avere salva la vita. Una scelta controcorrente che il popolo non sarà in grado di fare. Il mandorlo compare nella Scrittura come simbolo di novità e di vita a dispetto di un panorama invernale, segnato dalla morte.

Alessandro Bonvicino, artista bresciano considerato uno dei grandi esponenti del rinascimento e chiamato Il Moretto per il nome del nonno, dipinse Geremia mollemente appoggiato a un albero di mandorlo. Benché la visione del ramo di mandorlo imponga al profeta di guardare verso il cielo, egli abbassa gli occhi a terra e guarda il cartiglio che tiene in mano. Sopra di esso si legge il passo: «Ero come un agnello mansueto portato al macello, non sapevo che essi tramavano contro di me» (Ger 11,19). Qui Geremia allude a se stesso ma in realtà annuncia Cristo. È quest’Agnello la Parola sulla quale Dio vigila. 
Il Moretto unisce i due passi del profeta per farci comprendere che, come Geremia, anche noi siamo chiamati a scorgere dentro le trame dei nemici la strada della salvezza, anzi la Presenza del Salvatore. 
Il mandorlo compare anche nella vita di Giacobbe, il quale si addormentò sopra un guanciale di pietra in prossimità di una città chiamata Luz, che significa mandorla. Qui vide la famosa scala di Giacobbe, cioè le porte della città di Dio. Pertanto si crede che le porte della città di Luz, intesa come città della luce, si nascondano presso le radici di un mandorlo. Le trova solo chi è in grado di guardare la vita e la realtà andando oltre le apparenze. Anche noi, dunque, pur dentro il panorama talora inquietante della storia siamo chiamati a trovare, contro ogni apparenza, il passaggio della speranza.

Il mandorlo affascinò profondamente anche Vincent van Gogh. La nascita del nipote, figlio del fratello Theo, cui fu dato il suo stesso nome, fu per lui motivo di rinascita. Per il bimbo, van Gogh, dipinse un bellissimo mandorlo su campo azzurro. L’artista racconta al fratello quanto la fioritura di quest’albero incantasse il suo animo fino a fargli dimenticare le sofferenze psichiche delle quali soffriva. Furono queste che gli impedirono, alla fine del suo ultimo inverno, di dipingere più e più tele sul mandorlo.

Tuttavia del mandorlo ci rimangono diverse versioni nelle quali si vede la passione di Vincent per la pittura giapponese. Forse, il non aver potuto dipingere, in quell’assolato luglio del 1890, la rasserenante bellezza del mandorlo, lo lasciò scivolare nel baratro che lo portò al suicidio. Tutto questo è monito anche per noi: le avversità devono essere occasione per irrobustirci nella speranza e darci la forza di credere anche oggi nell’intervento di Dio, il quale sempre, vigila sulla sua Parola per realizzarla.
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martedì 1 dicembre 2015

MESSA IN LATINO

PERCHÉ DICIAMO LA MESSA IN LATINO ( prima parte)


di don Francesco Ricossa




“Domenica 7 marzo, Paolo VI ha celebrato la Messa vespertina nella chiesa di Ognissanti, in italiano” .In quel giorno, prima domenica di Quaresima del1965, per la prima volta, la Messa non era più celebrata in latino, ma in lingua volgare.
Commenta Mons. Bugnini, principale artefice della riforma liturgica: “Quel 7 marzo divenne una data storica della riforma liturgica ed una sua pietra miliare. Era un p-rimo frutto tangibile del Concilio ancora in pieno svolgimento, l'inizio di un processo di accostamento della liturgia alle assemblee partecipanti, del suo cambiamento di aspetto, dopo secoli di intangibile uniformità” .
Fu solo, quattro anni dopo, il 30 novembre 1969, prima domenica d'Avvento, che fu introdotto un nuovo rito (Novus Ordo Missæ), “impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della santa Messa” per i Cardinali Ottaviani e Bacci, “ammirazione delle altre chiese e comunità cristiane”, per Mons. Bugnini...

Molti pensano ingenuamente che il nuovo rito, quello di Paolo VI, sia semplicemente la traduzione in lingua volgare di quello precedente.
Si tratta in realtà di due testi quasi totalmente diversi: la Messa codificata da S. Pio V  è il risultato dell'evoluzione e del continuo arricchimento del rito romano, dai tempi delle catacombe fino ad oggi; il rito di Paolo VI è stato invece creato a tavolino dai liturgisti del “Consilium ad exequendam constitutionem de Sacra Liturgia” in collaborazione con i rappresentanti delle “chiese” protestanti , nello spirito ecumenista del Vaticano II.

Alcuni movimenti di salvaguardia del latino e del canto gregoriano, pur perfettamente consci della diversità esistente tra rito tradizionale tradotto e rito moderno (modernista), si accontentarono di difendere l'uso della lingua latina nella liturgia, chiedendo ed ottenendo (raramente) delle Messe in latino, magari col nuovo rito.

Di fronte a questa attitudine, i veri fedeli della tradizione reagirono violentemente. Fu il povero Don Bellucco, ad esempio, che, pur essendo eccellente latinista, fece notare come si potesse bestemmiare anche in latino... Della “Messa” di Paolo VI in latino non sappiamo cosa farcene.
Per sottolineare vieppiù questo rifiuto e questa giusta reazione, alcuni utilizzano frasi paradossali, del genere: “preferisco la Messa di S. Pio V in bantù, che la nuova Messa in latino”. L'espressione fa il suo effetto, ma è un po' infelice; se poi si giunge a dire che non ha nessuna importanza il fatto che la Messa (e gli altri riti liturgici) siano celebrati in latino o in volgare, si va (inconsapevolmente?) contro la legge e l'insegnamento della Chiesa. Ha dichiarato, infatti, Pio XII: “Sarebbe tuttavia superfluo il ricordare ancora una volta che la Chiesa ha serie ragioni per conservare fermamente nel rito latino l'obbligo per il sacerdote celebrante di usare la lingua latina, come pure di esigere, quando il canto gregoriano accompagna il Santo Sacrificio, che questo si eseguisca nella lingua della Chiesa” .

Vediamo pertanto assieme quali sono le serie ragioni di cui parla Pio XII.


I. Necessità di una lingua sacra

Non esiste religione che non distingua ciò che è sacro da ciò che è profano. Ciò che è sacro è, per l'appunto, consacrato a Dio, riservato a Lui, e sottratto, di conseguenza, all'uso profano. Nel culto divino, specialmente, vi sono luoghi sacri (le chiese), riti sacri, oggetti sacri, paramenti sacri. La lingua non fa eccezione. Già “in seno al paganesimo, gli antichi romani avevano capito l'immobilità della preghiera pubblica. Quintiliano ci informa che i versetti cantati dai sacerdoti sàlii risalivano ad una così alta antichità che li si capiva con difficoltà, e tuttavia la maestà della religione non aveva permesso che fossero cambiati. Abbiamo visto che gli ebrei, prima del cristianesimo, nelle loro assemblee religiose, leggevano la legge e le preghiere del culto in lingua ebraica, benché questa lingua non fosse più capita dal popolo. Non è forse rifiutare l'evidenza - conclude Dom Guéranger, abate di Solesmes - non riconoscere, in tutti questi fatti l'espressione di una legge di natura in accordo col genio della religione?”.

Le religioni pagane, come la Religione rivelata dell'antico testamento, si sono comportate come farà in seguito la Chiesa Cattolica: hanno utilizzato nella liturgia una lingua sacra, ritirata dall'uso profano, immutabile. La storia delle chiese orientali (generalmente scismatiche) che hanno seguito piuttosto l'uso della lingua volgare nella liturgia, non smentisce la nostra affermazione ma, piuttosto, la conferma involontariamente.

Difatti, pur non adottando, come la Chiesa di rito latino, il principio della lingua sacra, le Chiese orientali hanno subìto il medesimo, universale fenomeno della sacralizzazione della lingua liturgica. La lingua copta, l'armena, l'etiopica, la slavonica “appena hanno sentito il contatto dei misteri dell'altare, sono diventate immobili ed imperiture” (9) per cui, anche le Chiese orientali “celebrano, al pari di noi, il servizio divino in una lingua che non è più capita dal popolo” (9). Al contatto dell'altare, queste lingue si sono “sacralizzate”.

Appare pertanto evidente che sopprimere l'uso di una lingua sacra dalla liturgia equivale a profanarla, andando in questo modo contro la natura e l'indole stessa della religione.


II. La provvidenza ha preparato per la Chiesa tre lingue sacre

Ma non tutte le lingue sono egualmente sacre.
Sempre Dom Guéranger, autorità indiscussa in campo liturgico, constata, al seguito dei Padri della Chiesa e dei mistici medioevali, l'esistenza di “lingue sacre e separate dalle altre da una scelta divina, per servire da intermediario tra il Cielo e la terra”.
Se è indubitabile il fatto che la Chiesa abbraccia ed accoglie tutti i popoli, è altrettanto certo che la Provvidenza ha voluto prima rivelarsi al solo popolo ebraico, per poi fissare la sede del vicario di Cristo nella città di Roma. Il cristianesimo, per libera scelta di Dio, è erede della tradizione ebraica, greca e latina.

Così, pure, scriveva già nel IV secolo sant'Ilario di Poitiers “è principalmente in queste tre lingue (ebraica, greca e latina) che il mistero della volontà di Dio è manifestato; ed il ministero di Pilato fu di scrivere anticipatamente in queste tre lingue che il Signore Gesù Cristo è il Re dei Giudei”. Ebraico (siriaco), greco e latino sono le tre lingue dell'iscrizione della Croce; sono altresì le tre lingue della Sacra Scrittura; “sono state le sole di cui ci si sia serviti all'altare” nei primi quattro secoli  “il che dona loro una dignità liturgica particolarissima e conferma meravigliosamente il principio delle lingue sacre e non volgari nella liturgia”

Che sia il latino pertanto una “lingua sacra” è cosa così indubitabile che persino Paolo VI, il giorno stesso in cui lo eliminava dalla liturgia, lo ha esplicitamente riconosciuto (17 marzo 1965). Sapeva quindi, eliminando il Sacro, di fare un'opera di profanazione.

III. Il latino unisce alla Chiesa di Roma.

“La lingua propria della Chiesa Romana è la latina” (S. Pio X, Tra le sollicitudini, 22/11/1903)
“Gesù Cristo scelse per sé e consacrò la sola città romana. È qui che volle restasse in perpetuo la sede del suo Vicario” (Leone XIII) . Non a caso, quindi, ma per “mirabile disposizione di Cristo” (Papa Gelasio) , san Pietro scelse Roma come sede episcopale del Principe degli Apostoli. La Chiesa è dunque Romana.

La provvidenza che ha scelto Roma, ha scelto anche per la Chiesa la sua lingua, la lingua latina. “Il Signore - disse il cardinal Ottaviani - ha dato un mezzo provvidenziale per mantenere la tradizione e la verità Cattolica; le ha fornito un linguaggio che è tutto speciale, la lingua latina. Il destino di Roma (...) era anche preparato con un elemento che sembrerebbe accidentale ma che è importantissimo: una lingua, la lingua latina...” .

L'uso della lingua latina unisce quindi le diocesi che ne fanno uso, nel mondo intero, alla Chiesa Romana ed alla sede dell'Apostolo Pietro.
Certo l'uso della lingua latina non è obbligatorio per tutta la Chiesa Universale, ma solo per quella occidentale: le Chiese orientali cattoliche manifestano altrimenti che col latino il loro legame con Roma.

Tuttavia, vi è un fatto indiscutibile che emerge dalla storia dello scisma orientale. Le nazioni slave ove era stata adottata la lingua slava nella liturgia, seguirono quasi completamente lo scisma. Al contrario, le nazioni slave che conservarono la lingua latina, restarono unite a Roma (Cecoslovacchia, Croazia, Slovenia e, soprattutto, la Polonia). Per questo Dom Guéranger elogia l'azione di papa san Gregorio VII al proposito: « Il duca di Boemia, Vratislao, gli aveva chiesto di poter estendere ai suoi popoli, anch'essi di razza slava, la dispensa che Giovanni VII aveva accordato per la Moravia. Gregorio rifiutò con fermezza e, senza accusare il suo predecessore, né ritornare su di un fatto compiuto, proclamò i princìpi della Chiesa sulle lingue liturgiche: “Quanto a ciò che avete chiesto - scrisse a questo prìncipe in una lettera del- l'anno 1080 - desiderando il nostro consenso per fare celebrare nel vostro paese l'ufficio divino in lingua slava, sappiate che non possiamo accedere in alcun modo alla vostra do- manda. (...) 

Non è una scusa dire che alcuni uomini religiosi (S. Cirillo e S. Metodio) hanno subìto con condiscendenza i desideri di un popolo semplice, o non hanno giudicato a proposito portarvi rimedio; la Chiesa primitiva stessa ha dissimulato molte cose che i santi Padri hanno corretto dopo averle sottomesse ad un serio esame. Per cui, con l'autorità del Beato Pietro, vi proibiamo di mettere in pratica quanto ci domandano i vostri con imprudenza e, per l'onore di Dio onnipotente vi ingiungiamo di opporvi con tutte le vostre forze, a questa vana temerità”. 

In poche parole, san Gregorio VII enunciava con piena energia il pensiero della Chiesa, che è sempre stato quello di non esporre il mistero senza veli agli occhi del volgo; scusava la concessione fatta prima di lui e proclamava quel principio, così frequentemente applicato, che le necessità che si sono presentate agli inizi della Chiesa non possono prudentemente di- ventare una legge per i secoli seguenti...

La fede cristiana regnava in Boemia; vi si era stabilita e mantenuta con la liturgia latina; introdurre in questa Chiesa l'uso della lingua volgare equivaleva a farla indietreggiare alle condizioni dell'infanzia.
Spingendo le frontiere della lingua latina fino alla Boemia, san Gregorio VII la faceva avanzare fino alla Polonia, la quale, restando latina, veniva consacrata come baluardo cattolico dell'Europa verso l'Asia » (16).
La pseudo-riforma protestante confermerà, come vedremo, il medesimo principio: l'abbandono della comunione con Roma coinciderà con la sostituzione, nel culto protestante, del latino con la lingua nazionale.


IV. Una lingua universale per la Chiesa Universale

All'argomento fondato sul fatto che la Chiesa è romana, è strettamente collegato quello fondato sull'universalità della Chiesa. Scrive Romano Amerio: “In primo luogo adunque la Chiesa è universale, e l'universalità sua non è puramente geografica né consiste, come si dice nel nuovo canone, nell'essere diffusa su tutta la terra. È un'universalità derivante dalla vocazione, tutti gli uomini essendo vocati, e del suo nesso col Cristo che stringe e aduna in sé tutto il genere umano. (...) Essa (...) non può accettare l'idioma di una gente particolare, sfavorendo le altre” (17).
“La Chiesa - scrisse Pio XI - abbracciando nel suo seno tutte le nazioni (...) esige per la sua stessa natura una lingua universale...” (Ep. Ap. Officiorum Omnium, 1 agosto 1922. AAS. 14, 1922, 452).
Per questo la lingua latina può essere veramente chiamata “cattolica” (che vuol dire uni- versale) secondo l'espressione dello stesso Pio XI nel documento citato (AAS. 14, 1922, 452).
Al contrario, lo scisma orientale e la pseudo-riforma protestante, rompendo l'unità cattolica, hanno creato “chiese” autocefale e nazionali. E come la Chiesa Cattolica esige “per sua natura” una lingua universale, così le “chiese” nazionali, per propria natura, adottano la lingua nazionale, come si constata presso gli “ortodossi”, i protestanti ed i settari del Vaticano II.

V. Una lingua “una” per una Chiesa “una”

La Chiesa è una: “Et unam, Sanctam, Catholicam, et apostolicam Ecclesiam”. La sua unità è strettamente collegata alla sua universalità (“cattolica”), ed il centro di questa unità è la sede di Pietro, Vescovo di Roma. La lingua latina, universale e romana, è pertanto vincolo di unità. Lo attesta Pio XII: “L'uso della lingua latina, come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità” (Enciclica Mediator Dei, 20/XI/ 1947). Al contrario, l'adozione della lingua nazionale nella liturgia è spesso fonte di scontro e di divisione tra i popoli; è l'elemento disgregatore non solo a livello religioso ma anche a livello civile. Basti pensare a quei paesi divisi da conflitti etnici, nei quali i fedeli cattolici un tempo tutti uniti intorno all'altare, assistono al culto in chiese diverse, secondo la lingua che è utilizzata.

Un caso recentissimo è quello di Trieste, ove alcuni hanno protestato contro l'introduzione dello slavo a fianco dell'italiano nel culto presieduto da Giovanni Paolo II durante la visita a questa città. L'altare univa, il tavolo (liturgico) divide. Se così è nella società civile, il fenomeno è più grave in quella religiosa.
Non solo la pseudo-riforma protestante ha fatto nascere delle “chiese nazionali” divise tra loro nel dogma e nella disciplinacome nella lingua liturgica: anche la pseudo- riforma del Vaticano II ha intaccato la mirabile unità dogmatica, disciplinare e liturgica propria alla vera Chiesa Cattolica.

Ogni paese stretto intorno alla propria conferenza episcopale (spesso riottosa nei confronti del “centro”), celebra ormai la liturgia in una lingua estranea a quella degli altri paesi e a quella di Roma stessa.
In molti di questi paesi, in Africa, in America latina, in Asia, “l'inculturazione” voluta dal Vaticano II ha immesso nel culto elementi pagani che la predicazione del Vangelo aveva fatto scomparire. Ovunque, anche a livello liturgico, si assiste al medesimo fenomeno di disgregazione dell'unità che caratterizza sempre lo scisma e l'eresia. L'abolizione del latino è certo stata “una pietra miliare” (Bugnini) verso questo processo di disgregazione dell'unità. 

La confusione delle lingue decretata da Dio per punire l'orgoglio degli uomini nel costruire la torre di Babele, era come sanata dall'uso del latino, la “lingua cattolica”, nella Chiesa di Cristo. Oggi, l'orgoglio della “chiesa conciliare” che ha proclamato “il culto dell'uomo” (Paolo VI) è stato castigato nuovamente (anche) con la confusione delle lingue, confusione che, parafrasando Pio XII, potremmo chiamare “mirabile segno di disunità”.