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sabato 30 ottobre 2021

LA MESSA VA VISSUTA ... PIU' CHE CAPITA

 UNA FINESTRA DEL PARADISO

L’Antico Rito della Messa è incomprensibile? Ti diciamo come rispondere a chi afferma questo

di Corrado Gnerre

Quando si parla dell’Antico Rito della Messa l’attenzione va senz’altro alla questione della lingua, cioè del latino. Tant’è che questo Rito è da tutti ricordato come “Messa in latino”.

Prima di tutto va detto che questa questione della lingua è secondaria e non primaria. La differenza tra Antico e Nuovo Rito non sta essenzialmente nella lingua ma in ben altro. Visto però che dobbiamo trattare questa questione, è bene che la capiamo nella maniera più corretta.

Diciamo subito che ci sono sei motivi che giustificano e legittimano l’uso della lingua latina nella celebrazione della Messa.

L’universalità

Il primo motivo è l’universalità. La Chiesa Cattolica è universale. I cattolici devono professare la stessa fede, devono riconoscersi nella stessa disciplina e devono anche riconoscersi in una stessa morale. Dunque, è più logico che all’unità della fede corrisponda l’unita della preghiera liturgica. Pio XII nella sua Mediator Dei scrive: “L’uso della lingua latina è un chiaro e nobile segno di unità (nda: fra i cattolici di tutto il mondo, siano essi italiani o tedeschi, bianchi o neri) e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina”.

Giovanni XXIII con la Veterum Sapientia del 22 febbraio 1962 chiedeva non solo di conservare l’uso del latino, ma di incrementarne e restaurarne l’utilizzo. Il documento riconosce che la Chiesa ha necessità di una sua lingua propria, non nazionale ma universale, sacra e non ordinaria, dal significato univoco e non mutevole nel tempo, per trasmettere la medesima dottrina: unica, per il suo governo, e sacra, per il suo rito. La Chiesa, ontologicamente immutabile, non può affidare alla variazione linguistica la trasmissione delle sue Verità.

Nessun’altra lingua al mondo possiede del latino le caratteristiche di universalità ed è così aliena dai nazionalismi. La massoneria internazionale, che ha sempre avuto come scopo la creazione di una società cosmopolita che parli un’unica lingua, creò di fatto l’esperanto e non ha mai pensato di utilizzare per questo fine il latino, in odio alla Chiesa.

Ricorda la Genesi che la divisione delle lingue è conseguenza del peccato degli uomini. Gli Apostoli necessariamente evangelizzarono in tutte le lingue, ma il giorno di Pentecoste lo Spirito riportò tutti alla comprensione unitaria delle lingue. Logico quindi che la Chiesa di Dio si serva di un’unica lingua per tutti.

Per meglio rappresentare il Mistero

Il secondo motivo è per meglio rappresentare il Mistero. Per significare lo straordinario occorre una lingua straordinaria. Un modo è come si parla agli amici, altro è come si parla ai superiori. Ciascun registro linguistico è legato ad una situazione precisa.

Dal momento che la Messa è il mistero della ri-attualizzazione del Sacrificio di Cristo sul Calvario, presenziando alla Messa si è oltre le categorie del tempo e dello spazio. Si respira l’infinito, si è dinanzi al Mistero, si ascolta l’inaudito, si osserva l’inimmaginabile. Ora –parliamoci chiaramente- tutto questo può essere significato da una lingua che è immediatamente comprensibile? Ecco che è molto più naturale che nella Messa si usi una lingua non ordinaria, perché ciò che avviene nella Messa non è affatto ordinario.

Per salvaguardare l’unicità del Tempo

Il terzo motivo è per salvaguardare l’unicità del Tempo. Proprio perché la lingua latina è una lingua “morta”, essa meglio si adatta ad esprimere verità dogmatiche che sono verità che non mutano.

Per salvaguardare l’unicità dello Spazio

Il quarto motivo è per salvaguardare l’unicità dello Spazio. Con l’uso del latino in tutti i posti della terra la liturgia è perfettamente uguale e quindi l’incomprensibilità delle parole diventa comprensibilità del Rito. Questo è un punto su cui ci si riflette poco. A quella che può sembrare un’incomprensibilità delle parole, si sostituisce una comprensibilità del Rito, il quale può essere in tutti i posti della terra facilmente riconosciuto.

Che paradosso! La Chiesa ha rinunciato alla sua lingua proprio quando l’avanzante mondializzazione e globalizzazione avrebbero richiesto un gesto in senso contrario. Si pensi all’attuale uso della lingua inglese, la cui conoscenza è diventata di fatto decisiva per poter competere nel campo del lavoro.

Per prefigurare la vita del Paradiso

Il quinto motivo è per prefigurare il Paradiso. C’è chi ha giustamente e suggestivamente detto che la Messa è una finestra del Paradiso”. Ora chiediamoci: in Paradiso le anime come comunicano? Risposta: nella luce e nell’amore di Dio, non certo attraverso le lingue locali. Non si tratta di una comunicazione verbale nel senso comune del termine, ma di una comunicazione universale in Dio. Ebbene, la liturgia è anche prefigurazione di ciò che ancora non è, ma sarà. E se è anche questo, essa (la liturgia) deve pur far capire che in Paradiso si parlerà un’unica “lingua”: quella dell’amore effetto della visione beatifica di Dio.

Per confermare la Tradizione

Il sesto motivo è per confermare la Tradizione. Il latino è la lingua dell’inizio della Chiesa. Come l’Eucaristia non può realizzarsi se non con il pane e il vino, cioè con ciò che Gesù utilizzò nell’Ultima Cena, così ha un significato ben preciso che la lingua della liturgia cattolica sia la lingua dell’inizio e del centro della Chiesa.

La lingua latina, ricorda Giovanni XXIII sempre nella Veterum Sapientiae, fu scelta dalla Provvidenza come lingua della Chiesa, portata ovunque dalle antiche vie consolari. L’unità linguistica resta un modello e un ideale. Nella predicazione è necessario utilizzare la lingua vernacola, il rito e la liturgia richiedono invece un’unica lingua sacra.

La Messa non va capita… va vissuta!

La liturgia non è uno spettacolo teatrale, nel quale si debba ascoltare e comprendere ogni singola parola. La liturgia serve a far penetrare, mediante il suo apparato di segni visibili, nelle realtà divine che in essa si celebrano. Per questo il sacerdote si spoglia dei suoi abiti quotidiani e si riveste dei paramenti sacri, per questo la celebrazione segue un rito codificato, per questo i cristiani si riuniscono in un luogo apposito e diverso da tutti gli altri, che è la chiesa.

La Messa non va capita, va vissuta. O meglio: va capita relativamente a ciò che avviene in essa, ma l’approccio non deve essere di tipo intellettuale, bensì cordiale, nel senso letterale del termine da cor-cordis che vuol dire “cuore”. Partecipare alla Messa è adesione al Mistero.

Il senso dell’actuosa partecipatio (partecipazione attiva), non è tanto nel capire e nel rispondere, ma nel condividere e nell’offrire. Giustamente si dice che il modello del vero fedele che partecipa alla Messa è l’Immacolata. Ella sotto la Croce non parlava: condivideva ed offriva.

E poi, diciamocela tutta: un tempo la gente non capiva le parole della Messa, però sapeva bene cosa fosse la Messa; oggi tutti capiscono le parole della Messa (sempre che non siano distratti… e molte volte la banalizzazione distrae più facilmente), ma pochi sanno cos’è la Messa. Basterebbe chiedere a tanti ragazzi non “lontani”, praticanti e di oratorio, per accertarsi quanti pochi oggi sappiano cosa sia davvero la Messa.

Certamente la parte istruttiva della Messa (letture, omelia, ecc…) deve essere capita e lì va bene la lingua nazionale, ma per il canone no. Paradossalmente per capire il canone, e cioè la grandezza e l’inimmaginabilità di ciò che accadde sul Calvario, occorre proprio una lingua che sia fuori del tempo e dello spazio, che meglio esprima il senso del mistero.

L’allora cardinale Ratzinger, futuro Benedetto XVI, scrisse nel suo Il Sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nella svolta del terzo millennio“Nella nostra riforma liturgica c’è la tendenza, a parer mio sbagliata, di adattare completamente la liturgia al mondo moderno. Essa dovrebbe quindi diventare ancora più breve e da essa dovrebbe essere allontanato tutto ciò che si ritiene incomprensibile; alla fin fine essa dovrebbe essere tradotta in una lingua ancora più semplice, più ‘piatta’. In questo modo, però, l’essenza della liturgia e la stessa celebrazione liturgica vengono completamente fraintese. Perché in essa non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall’eternità.”

E poi: se davvero la “Messa in latino” fosse così selettiva, verrebbe da chiedersi: come mai essa ha prodotto nei secoli frutti di santità non solo tra i colti, ma anche e soprattutto tra i semplici?

Dio è Verità, Bontà e Bellezza

Il Cammino dei Tre Sentieri


AMDG et DVM

giovedì 22 dicembre 2016

La Francia potenza missionaria

Francia: Cattolici ringiovaniti. In rito antico.


mons-lefebvre_
Autore:
Aiuto, torna Gesù!”, titolava  giorni fa Libération, il quotidiano della gauche (editore Rotschild, naturalmente), sentinella sempre attenta ai  possibili  disturbi dello status quo. Nessun pericolo in realtà: in Francia i cattolici sono, come sempre, il 5 per cento della popolazione,  una minoranza assoluta. La novità è che hanno abbandonato i socialisti e la sinistra, di cui erano i satelliti obbedienti, ed hanno determinato la vittoria alle primarie di François Fillon. Il candidato di centro destra, filorusso, ha dichiarato che “la famiglia deve essere al centro delle politiche pubbliche”; Hollande ha deliberatamente e sistematicamente smantellato le notevoli (ed efficaci) misure di sostegno alla natalità e alla famiglia: ridotta di un terzo  la durata del  congedo maternità,  sostanziale cancellazione di una maggiorazione di pensione per  le donne che hanno allevato tre figli o più, rincaro delle mense scolastiche per famiglie numerose, tagli al sostegno all’affitto per tali famiglie, abbassamento del  tetto per  il quoziente familiare…”Risultato: 19 mila nascite in meno nel 2015”,  denuncia Ludovine de la Rochère.

Insegnante,  di famiglia  nobile, Ludovine è la presidente della “Manif pour Tous”,  l’organizzazione che è riuscita a  portare in piazza fino a 300 mila persone  in varie manifestazioni    contro la legge sui “diritti civili” LGBT,  e adozioni gay, opponendosi alla Legge Taubira (la progressista ministra della giustizia, la loro Cirinnà):  una opposizione più forte e organizzata contro tali “leggi” rispetto al resto d’Europa, a  cui hanno partecipato  non-cattolici  e laici: dai dirigenti musulmani ad intellettuali d‘alto bordo, come Jean D’Ormesson , Jean-Francois Mattéi, l’umorista Frigide Barjot…e si sa quanto  contino in  Francia gli intellettuali e quanto la gauche ci tenga ad averli dalla sua.

Il punto è che la protesta, lungi dall’appellarsi a temi moralistico-confessionali, ha lanciato l’allarme  sulla disgregazione della società che producono le ultime “conquiste” del progressismo  della dissoluzione:  un tema politico e  nazionale,  anzi di sopravvivenza nazionale,  sentito da qualunque francese un po’ colto, specie di fronte alla realtà della minoranza islamica demograficamente esplosiva, sempre più radicalmente identitaria,  e ostile alla République e ai suoi “valori” massonico-giacobini. “Bisogna imperativamente cessare di lasciar passare l’una dopo l’altra le tappe della destrutturazione della società francese col pretesto che non ci si può fare niente”,  ha detto al Figaro Ludovine: “E’ urgente, il parlamento europeo, per esempio, si appresta a votare uno statuto giuridico autonomo per i robot!”   Lancia un allarme che suscita un’eco molto più vasta del 5%.

Ciò ha dato inizio ad una disputa intellettuale (poteva mancare?) di qualche interesse. Jacques Julliard, un intellettuale socialista non anti-clericale,   ha accusato “l’intelligentsia bobo” (borghese-bohemien, i ricchi che in gioventù sono stati sessantottardi, progressisti nei costumi e conservatori dei loro interessi:  tipico figuro, Bernard Henry Lévy) di aver allontanato i cattolici dalla sinistra con il loro “ritorno all’anticlericalismo diciannovesimo secolo”.
Bernard Cazeneuve, primo ministro socialista, ha asserito che le radici cristiane “rendono la Francia un po’ nauseata”.  Vincent Peillon, già ministro dell’Istruzione, ha dichiarato “il cattolicesimo incompatibile con  la laicità, ben più che l’Islam” (un vero genio).

Julliard, da socialista, riconosce che  queste creature di Hollande, col partito socialista, hanno  alienato il  “cattolicesimo culturalmente vivace  che sopravvive alla  scomparsa delle pratiche  tradizionali”, e che Emmanuel Todd  ha chiamato “cattolicesimo-zombie”. Perché zombie, se è vivace? Perché “per mancanza di dirigenti” un “elettorato cattolico importante”  ha seguito il PS  come uno zombi, raccontando a se stesso “la storia santa di una minoranza avanzata e incompresa, penetrata di spirito evangelico, che riesce a far numero e imporsi,  in una Chiesa da molto tempo ripiegata su se stessa e chiusa al mondo moderno”.  Insomma il modernismo: “i cattolici sociali che, a forza di essere sociali, han finito per tralasciare di esser cattolici”.  Una perdita reciproca, anzitutto per il PS “non per ragioni puramente elettorali, ma perché, in questo paese intellettualmente esausto, accade che le credenze antiche facciano sbocciare   le idee nuove”.

Un’ammissione quasi inaudita. Vecchie credenze che generano idee nuove.  Che  adesso, esauriti i cattolici sociali (“ormai allo stato di tracce” a sinistra) vanno, diciamo, a vivificare la “destra”.
Già. Sono pochi, ma senza complessi d’inferiorità  Né timori di fronte alla derisione giacobina. Lo storico Gerard Leclerc, saggista cattolico, non esita a rivalutare anche la Chiesa “passatista” di Pio IX. “La Chiesa del secolo decimonono”, scrive  in risposta al progressista  Julliard  che l’aveva criticata, “non è stata l’istituzione  ottusa che si vuol raccontare.  E’ stata  all’origine di uno slancio missionario che ha assicurato alla Chiesa d’oggi la sua dimensione mondiale”.

La Francia potenza missionaria. Da Dehon a Lefèvre.

Già. Piaccia o no ai modernisti (che la Chiesa l’hanno afflosciata), la Chiesa “reazionaria” quella del Sillabo e della condannna  al modernismo, ebbe uno slancio missionario che i catto-progressisti nemmeno si sognano. E questo è vero soprattutto il Francia: dai Padri Bianchi del cardinal Lavigerie al monaco (ed esploratore del Sahara) padre Foucauld  (detto Fratel Carlo di Gesù), dal grande Leone Dehon  fondatore dei dehoniani,  dai martiri domenicani del Tonkino al  padre Vénard decapitato ad Hanoi   e venerato da Teresa di Lisieux,  sono stati migliaia i  francesi che hanno cristianizzato Africa, Oceania, Madagascar, il Sud Est Asiatico, versando con entusiasmo il loro sangue –e  esplorando, imparando le lingue, traducendo i testi dei paesi e delle culture per le quali hanno dato la vita: un fenomeno francamente impressionante, a studiarlo. E la fede che li infiammava era quella “reazionaria” e  pretesamente “chiusa al mondo moderno”,  durata fino a Pio XII.  E insegnavano la dottrina di quella Chiesa, di Pio IX e san Pio X, esplicitamente antagonista della “Modernità”  liberale,   una missionaria severa e perfino militaresca.

Monsignor Marcel Lefevre, quello che ha rotto   a causa del Vaticano II, è l’esponente tipico ed ultimo di questo slancio missionario: direttore del seminario di Libreville, poi vescovo di Dakar e vicario apostolico del Senegal, ha formato generazioni di preti tali, che fra il ’33 e il 47   hanno triplicato il numero dei cattolici nel Ghana,  ha cristianizzato centinaia di  migliaia di africani.  Lo scisma antimodernista non poteva nascere che  da quella cultura francese, e da un simile personaggio, missionario –  e  patriota.

Da lì anche il “cattolicesimo d’affermazione” che oggi, secondo Leclerc, rinasce e   si oppone alla devastazione dei costumi perché è una devastazione della nazione. Marion Le Pen, la  figlia di Marine,  professa il suo cattolicesimo nei talk show senza complessi; rivendica  l’origine della sua fede da “san Luigi [re di Francia] e la cavalleria”, e ovviamente da Giovanna d’Arco, e non viene schernita da chi l’ascolta; perché, dopotutto, quella è la  storia di Francia, monarchia  cattolica per  1200 anni, in qualche modo il più antico stato nazionale  in Europa: e stato nazional-cristiano.
Ma “il cattolicesimo d’affermazione che oggi rinasce non è un ripiegamento sul passato”, avverte Leclerc.

“La generazione 68, tutta occupata dal proprio godimento egoistico  senza ‘ostacoli’ morali, ha imposto per quarant’anni una egemonia del pensiero unico esistenzialista, dell’uomo-dio”, scrive al Figaro un militante: “i suoi figli si ribellano … Tra l’essere spirituali o il non-essere,  il  secolo XXI  sta per scegliere la vita: sarà!”,  ha scritto un militante al Figaro.  Certo molto enfatico e ottimista.
Perché certo, i praticanti sono a malapena il 5%. E per trovare una Messa la domenica, devono mettersi in auto e andare in parrocchie lontane, perché nelle prime cinque che incontrano la chiesa è chiusa per mancanza di preti.  Però il piccolo gruppo è il solo in Europa, per quanto ne so, a produrre  la mappa che mostro qui: https://www.google.com/maps/d/viewer?hl=fr&mid=17uFqmlu34b50_lR0i75L3gizEa4&ll=49.16482725304388%2C1.9464216394308096&z=6


Chi va a Messa, va a quella antica

La mappa indica le località dove si tengono Messe in latino secondo il rito antico. I punti rossi indicano le Messe  genericamente “lefevriane”, potenzialmente scismatiche;  ma i punti verdi, assai più numerosi, mostrano le località dove si celebrano le Messe del tutto ortodosse, secondo il Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI.  Evidentemente, la  mappa risponde ad una esigenza  pratica.  Il parigino in viaggio ha bisogno di sapere se c’è una messa in latino a Besançon o ad Amiens, e in quale chiesa.

Detto altrimenti: i cattolici in Francia sono pochi; ma quei pochi che vanno ancora a Messa, cercano la Messa in latino e secondo l’antico rito pre-conciliare.
La singolarità è ancora più evidente se si guarda la mappa interattiva che i cattolici francesi hanno messo a punto per l’Europa intera:  la “densità” delle Messe antiche in Francia rispetto alla loro rarità in Italia, Spagna, Portogallo. 

L’Inghilterra ha molte più messe vetus ordo dell’Italia; anche lì con l’eccezione della  “cattolica” Scozia. Si noti anche la densità nella Germania Occidentale –  in vivo contrasto con il “progressismo  permissivo”dei  cardinali Kasper  e Marx,  suggeritori a Bergoglio della manica larga  per quanto riguarda le Comunioni ai risposati, i LGBT, gli immigrati musulmani.

La ricerca dell’antica liturgia è tipica di neoconvertiti. Lo conferma padre Rougé, parroco a  Parigi della chiesa  Saint-Ferdinand-des-Ternes, a Le Monde: “La nuova generazione [di praticanti]  è libera di credere o no. Dunque, quando lo fa, esplode…”.  E vuole  il latino, il celebrante volto al Tabernacolo, la Comunione in bocca inginocchiati alla balaustra, non le chitarrine e canzonette.  E’ superfluo dire come  questo fenomeno dal basso sia in controtendenza assoluta con la gerarchia clericale, a cominciare dal Vaticano: legati alle  ‘novità’ progressiste di sessant’anni fa, col consueto ritardo culturale, si perdono questa novità culturalmente  interessante.
Non vedono i segni dei tempi.

Fonte: http://www.maurizioblondet.it
Gesù Eucaristico... Dio degli Eserciti
Ti amo e Ti adoro
AMDG et BVM

martedì 19 gennaio 2016

I futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché ad utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia» (Sacramentum Caritatis, n. 62).

L'ATTEGGIAMENTO... SCISMATICO DEI SACERDOTI CHE CONDANNANO LA MESSA IN LATINO E GLI INSEGNAMENTI DEL PAPA

Benedetto XVI ribadì che "i seminaristi siano preparati a celebrare la santa Messa in latino e inoltre i semplici fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia" (da Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Papa). 

Il latino è senza dubbio la lingua più longeva della liturgia romana: la si utilizza infatti da più di sedici secoli, ossia da quando si perfezionò a Roma, sotto Papa Damaso († 384) il passaggio ad essa dal greco. I libri liturgici ufficiali del Rito Romano vengono pertanto a tutt'oggi pubblicati in latino (editio typica). 

Il Codice di Diritto Canonico, al can. 928, stabilisce: «La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua latina o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati». Questo canone traduce in modo sintetico, e tenendo presente l'attuale situazione, l'insegnamento della Costituzione liturgica ...... del Concilio Vaticano II.
Al celebre n. 36, la Sacrosanctum Concilium stabilisce come principio: «L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini» (§ 1).
In questo senso, il Codice afferma innanzitutto: «La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua latina».
Nei successivi commi, la Sacrosanctum Concilium ammette la possibilità di utilizzare anche le lingue nazionali: «Dato però che, sia nella Messa che nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti» (§ 2)
«In base a queste norme, spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all'art. 22-2 (consultati anche, se è il caso, i vescovi delle regioni limitrofe della stessa lingua) decidere circa l'ammissione e l'estensione della lingua nazionale. Tali decisioni devono essere approvate ossia confermate dalla Sede Apostolica» (§ 3).
«La traduzione del testo latino in lingua nazionale da usarsi nella liturgia deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale di cui sopra» (§ 4).
In base a questi successivi commi, il Codice aggiunge: «... o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati».
Come si vede, anche nelle attuali disposizioni normative, la lingua latina resta ancora al primo posto, come quella che la Chiesa preferisce in linea di principio, pur riconoscendo che la lingua nazionale può risultare utile per i fedeli. Nell'attuale situazione concreta, la celebrazione in latino è diventata piuttosto rara. Motivo in più perché nella liturgia pontificia (ma non solo in essa) il latino sia custodito come preziosa eredità della tradizione liturgica d'Occidente. 
Non a caso, il servo di Dio Giovanni Paolo II ha ricordato che:
«La Chiesa romana ha particolari obblighi verso il latino, la splendida lingua dell'antica Roma e deve manifestarli ogniqualvolta se ne presenti l'occasione» (Dominicae cenae, n. 10).
In continuità con il Magistero del suo Predecessore, Benedetto XVI, oltre ad auspicare un maggior utilizzo della lingua tradizionale nella celebrazione liturgica, in particolare in occasione di celebrazioni che avvengono durante incontri internazionali, ha scritto:
«Più in generale, chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché ad utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia» (Sacramentum Caritatis, n. 62).
Da non perdere il video con la conferenza del prof. Roberto De Mattei al Convegno dei Francescani dell'Immacolata "Il Vaticano II, un Concilio pastorale":
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=OgyhzlZLz0A


Titolo originale: "IL CONCILIO VATICANO II STABILIVA CHE LA LINGUA LATINA FOSSE CONSERVATA NELLA LITURGIA PER CUI ANCHE OGGI RESTA QUELLA CHE LA CHIESA PREFERISCE"



Integrazione a cura di Carlo Di Pietro



AVE MARIA!
AVE COR PURISSIMUM!

martedì 1 dicembre 2015

MESSA IN LATINO

PERCHÉ DICIAMO LA MESSA IN LATINO ( prima parte)


di don Francesco Ricossa




“Domenica 7 marzo, Paolo VI ha celebrato la Messa vespertina nella chiesa di Ognissanti, in italiano” .In quel giorno, prima domenica di Quaresima del1965, per la prima volta, la Messa non era più celebrata in latino, ma in lingua volgare.
Commenta Mons. Bugnini, principale artefice della riforma liturgica: “Quel 7 marzo divenne una data storica della riforma liturgica ed una sua pietra miliare. Era un p-rimo frutto tangibile del Concilio ancora in pieno svolgimento, l'inizio di un processo di accostamento della liturgia alle assemblee partecipanti, del suo cambiamento di aspetto, dopo secoli di intangibile uniformità” .
Fu solo, quattro anni dopo, il 30 novembre 1969, prima domenica d'Avvento, che fu introdotto un nuovo rito (Novus Ordo Missæ), “impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della santa Messa” per i Cardinali Ottaviani e Bacci, “ammirazione delle altre chiese e comunità cristiane”, per Mons. Bugnini...

Molti pensano ingenuamente che il nuovo rito, quello di Paolo VI, sia semplicemente la traduzione in lingua volgare di quello precedente.
Si tratta in realtà di due testi quasi totalmente diversi: la Messa codificata da S. Pio V  è il risultato dell'evoluzione e del continuo arricchimento del rito romano, dai tempi delle catacombe fino ad oggi; il rito di Paolo VI è stato invece creato a tavolino dai liturgisti del “Consilium ad exequendam constitutionem de Sacra Liturgia” in collaborazione con i rappresentanti delle “chiese” protestanti , nello spirito ecumenista del Vaticano II.

Alcuni movimenti di salvaguardia del latino e del canto gregoriano, pur perfettamente consci della diversità esistente tra rito tradizionale tradotto e rito moderno (modernista), si accontentarono di difendere l'uso della lingua latina nella liturgia, chiedendo ed ottenendo (raramente) delle Messe in latino, magari col nuovo rito.

Di fronte a questa attitudine, i veri fedeli della tradizione reagirono violentemente. Fu il povero Don Bellucco, ad esempio, che, pur essendo eccellente latinista, fece notare come si potesse bestemmiare anche in latino... Della “Messa” di Paolo VI in latino non sappiamo cosa farcene.
Per sottolineare vieppiù questo rifiuto e questa giusta reazione, alcuni utilizzano frasi paradossali, del genere: “preferisco la Messa di S. Pio V in bantù, che la nuova Messa in latino”. L'espressione fa il suo effetto, ma è un po' infelice; se poi si giunge a dire che non ha nessuna importanza il fatto che la Messa (e gli altri riti liturgici) siano celebrati in latino o in volgare, si va (inconsapevolmente?) contro la legge e l'insegnamento della Chiesa. Ha dichiarato, infatti, Pio XII: “Sarebbe tuttavia superfluo il ricordare ancora una volta che la Chiesa ha serie ragioni per conservare fermamente nel rito latino l'obbligo per il sacerdote celebrante di usare la lingua latina, come pure di esigere, quando il canto gregoriano accompagna il Santo Sacrificio, che questo si eseguisca nella lingua della Chiesa” .

Vediamo pertanto assieme quali sono le serie ragioni di cui parla Pio XII.


I. Necessità di una lingua sacra

Non esiste religione che non distingua ciò che è sacro da ciò che è profano. Ciò che è sacro è, per l'appunto, consacrato a Dio, riservato a Lui, e sottratto, di conseguenza, all'uso profano. Nel culto divino, specialmente, vi sono luoghi sacri (le chiese), riti sacri, oggetti sacri, paramenti sacri. La lingua non fa eccezione. Già “in seno al paganesimo, gli antichi romani avevano capito l'immobilità della preghiera pubblica. Quintiliano ci informa che i versetti cantati dai sacerdoti sàlii risalivano ad una così alta antichità che li si capiva con difficoltà, e tuttavia la maestà della religione non aveva permesso che fossero cambiati. Abbiamo visto che gli ebrei, prima del cristianesimo, nelle loro assemblee religiose, leggevano la legge e le preghiere del culto in lingua ebraica, benché questa lingua non fosse più capita dal popolo. Non è forse rifiutare l'evidenza - conclude Dom Guéranger, abate di Solesmes - non riconoscere, in tutti questi fatti l'espressione di una legge di natura in accordo col genio della religione?”.

Le religioni pagane, come la Religione rivelata dell'antico testamento, si sono comportate come farà in seguito la Chiesa Cattolica: hanno utilizzato nella liturgia una lingua sacra, ritirata dall'uso profano, immutabile. La storia delle chiese orientali (generalmente scismatiche) che hanno seguito piuttosto l'uso della lingua volgare nella liturgia, non smentisce la nostra affermazione ma, piuttosto, la conferma involontariamente.

Difatti, pur non adottando, come la Chiesa di rito latino, il principio della lingua sacra, le Chiese orientali hanno subìto il medesimo, universale fenomeno della sacralizzazione della lingua liturgica. La lingua copta, l'armena, l'etiopica, la slavonica “appena hanno sentito il contatto dei misteri dell'altare, sono diventate immobili ed imperiture” (9) per cui, anche le Chiese orientali “celebrano, al pari di noi, il servizio divino in una lingua che non è più capita dal popolo” (9). Al contatto dell'altare, queste lingue si sono “sacralizzate”.

Appare pertanto evidente che sopprimere l'uso di una lingua sacra dalla liturgia equivale a profanarla, andando in questo modo contro la natura e l'indole stessa della religione.


II. La provvidenza ha preparato per la Chiesa tre lingue sacre

Ma non tutte le lingue sono egualmente sacre.
Sempre Dom Guéranger, autorità indiscussa in campo liturgico, constata, al seguito dei Padri della Chiesa e dei mistici medioevali, l'esistenza di “lingue sacre e separate dalle altre da una scelta divina, per servire da intermediario tra il Cielo e la terra”.
Se è indubitabile il fatto che la Chiesa abbraccia ed accoglie tutti i popoli, è altrettanto certo che la Provvidenza ha voluto prima rivelarsi al solo popolo ebraico, per poi fissare la sede del vicario di Cristo nella città di Roma. Il cristianesimo, per libera scelta di Dio, è erede della tradizione ebraica, greca e latina.

Così, pure, scriveva già nel IV secolo sant'Ilario di Poitiers “è principalmente in queste tre lingue (ebraica, greca e latina) che il mistero della volontà di Dio è manifestato; ed il ministero di Pilato fu di scrivere anticipatamente in queste tre lingue che il Signore Gesù Cristo è il Re dei Giudei”. Ebraico (siriaco), greco e latino sono le tre lingue dell'iscrizione della Croce; sono altresì le tre lingue della Sacra Scrittura; “sono state le sole di cui ci si sia serviti all'altare” nei primi quattro secoli  “il che dona loro una dignità liturgica particolarissima e conferma meravigliosamente il principio delle lingue sacre e non volgari nella liturgia”

Che sia il latino pertanto una “lingua sacra” è cosa così indubitabile che persino Paolo VI, il giorno stesso in cui lo eliminava dalla liturgia, lo ha esplicitamente riconosciuto (17 marzo 1965). Sapeva quindi, eliminando il Sacro, di fare un'opera di profanazione.

III. Il latino unisce alla Chiesa di Roma.

“La lingua propria della Chiesa Romana è la latina” (S. Pio X, Tra le sollicitudini, 22/11/1903)
“Gesù Cristo scelse per sé e consacrò la sola città romana. È qui che volle restasse in perpetuo la sede del suo Vicario” (Leone XIII) . Non a caso, quindi, ma per “mirabile disposizione di Cristo” (Papa Gelasio) , san Pietro scelse Roma come sede episcopale del Principe degli Apostoli. La Chiesa è dunque Romana.

La provvidenza che ha scelto Roma, ha scelto anche per la Chiesa la sua lingua, la lingua latina. “Il Signore - disse il cardinal Ottaviani - ha dato un mezzo provvidenziale per mantenere la tradizione e la verità Cattolica; le ha fornito un linguaggio che è tutto speciale, la lingua latina. Il destino di Roma (...) era anche preparato con un elemento che sembrerebbe accidentale ma che è importantissimo: una lingua, la lingua latina...” .

L'uso della lingua latina unisce quindi le diocesi che ne fanno uso, nel mondo intero, alla Chiesa Romana ed alla sede dell'Apostolo Pietro.
Certo l'uso della lingua latina non è obbligatorio per tutta la Chiesa Universale, ma solo per quella occidentale: le Chiese orientali cattoliche manifestano altrimenti che col latino il loro legame con Roma.

Tuttavia, vi è un fatto indiscutibile che emerge dalla storia dello scisma orientale. Le nazioni slave ove era stata adottata la lingua slava nella liturgia, seguirono quasi completamente lo scisma. Al contrario, le nazioni slave che conservarono la lingua latina, restarono unite a Roma (Cecoslovacchia, Croazia, Slovenia e, soprattutto, la Polonia). Per questo Dom Guéranger elogia l'azione di papa san Gregorio VII al proposito: « Il duca di Boemia, Vratislao, gli aveva chiesto di poter estendere ai suoi popoli, anch'essi di razza slava, la dispensa che Giovanni VII aveva accordato per la Moravia. Gregorio rifiutò con fermezza e, senza accusare il suo predecessore, né ritornare su di un fatto compiuto, proclamò i princìpi della Chiesa sulle lingue liturgiche: “Quanto a ciò che avete chiesto - scrisse a questo prìncipe in una lettera del- l'anno 1080 - desiderando il nostro consenso per fare celebrare nel vostro paese l'ufficio divino in lingua slava, sappiate che non possiamo accedere in alcun modo alla vostra do- manda. (...) 

Non è una scusa dire che alcuni uomini religiosi (S. Cirillo e S. Metodio) hanno subìto con condiscendenza i desideri di un popolo semplice, o non hanno giudicato a proposito portarvi rimedio; la Chiesa primitiva stessa ha dissimulato molte cose che i santi Padri hanno corretto dopo averle sottomesse ad un serio esame. Per cui, con l'autorità del Beato Pietro, vi proibiamo di mettere in pratica quanto ci domandano i vostri con imprudenza e, per l'onore di Dio onnipotente vi ingiungiamo di opporvi con tutte le vostre forze, a questa vana temerità”. 

In poche parole, san Gregorio VII enunciava con piena energia il pensiero della Chiesa, che è sempre stato quello di non esporre il mistero senza veli agli occhi del volgo; scusava la concessione fatta prima di lui e proclamava quel principio, così frequentemente applicato, che le necessità che si sono presentate agli inizi della Chiesa non possono prudentemente di- ventare una legge per i secoli seguenti...

La fede cristiana regnava in Boemia; vi si era stabilita e mantenuta con la liturgia latina; introdurre in questa Chiesa l'uso della lingua volgare equivaleva a farla indietreggiare alle condizioni dell'infanzia.
Spingendo le frontiere della lingua latina fino alla Boemia, san Gregorio VII la faceva avanzare fino alla Polonia, la quale, restando latina, veniva consacrata come baluardo cattolico dell'Europa verso l'Asia » (16).
La pseudo-riforma protestante confermerà, come vedremo, il medesimo principio: l'abbandono della comunione con Roma coinciderà con la sostituzione, nel culto protestante, del latino con la lingua nazionale.


IV. Una lingua universale per la Chiesa Universale

All'argomento fondato sul fatto che la Chiesa è romana, è strettamente collegato quello fondato sull'universalità della Chiesa. Scrive Romano Amerio: “In primo luogo adunque la Chiesa è universale, e l'universalità sua non è puramente geografica né consiste, come si dice nel nuovo canone, nell'essere diffusa su tutta la terra. È un'universalità derivante dalla vocazione, tutti gli uomini essendo vocati, e del suo nesso col Cristo che stringe e aduna in sé tutto il genere umano. (...) Essa (...) non può accettare l'idioma di una gente particolare, sfavorendo le altre” (17).
“La Chiesa - scrisse Pio XI - abbracciando nel suo seno tutte le nazioni (...) esige per la sua stessa natura una lingua universale...” (Ep. Ap. Officiorum Omnium, 1 agosto 1922. AAS. 14, 1922, 452).
Per questo la lingua latina può essere veramente chiamata “cattolica” (che vuol dire uni- versale) secondo l'espressione dello stesso Pio XI nel documento citato (AAS. 14, 1922, 452).
Al contrario, lo scisma orientale e la pseudo-riforma protestante, rompendo l'unità cattolica, hanno creato “chiese” autocefale e nazionali. E come la Chiesa Cattolica esige “per sua natura” una lingua universale, così le “chiese” nazionali, per propria natura, adottano la lingua nazionale, come si constata presso gli “ortodossi”, i protestanti ed i settari del Vaticano II.

V. Una lingua “una” per una Chiesa “una”

La Chiesa è una: “Et unam, Sanctam, Catholicam, et apostolicam Ecclesiam”. La sua unità è strettamente collegata alla sua universalità (“cattolica”), ed il centro di questa unità è la sede di Pietro, Vescovo di Roma. La lingua latina, universale e romana, è pertanto vincolo di unità. Lo attesta Pio XII: “L'uso della lingua latina, come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità” (Enciclica Mediator Dei, 20/XI/ 1947). Al contrario, l'adozione della lingua nazionale nella liturgia è spesso fonte di scontro e di divisione tra i popoli; è l'elemento disgregatore non solo a livello religioso ma anche a livello civile. Basti pensare a quei paesi divisi da conflitti etnici, nei quali i fedeli cattolici un tempo tutti uniti intorno all'altare, assistono al culto in chiese diverse, secondo la lingua che è utilizzata.

Un caso recentissimo è quello di Trieste, ove alcuni hanno protestato contro l'introduzione dello slavo a fianco dell'italiano nel culto presieduto da Giovanni Paolo II durante la visita a questa città. L'altare univa, il tavolo (liturgico) divide. Se così è nella società civile, il fenomeno è più grave in quella religiosa.
Non solo la pseudo-riforma protestante ha fatto nascere delle “chiese nazionali” divise tra loro nel dogma e nella disciplinacome nella lingua liturgica: anche la pseudo- riforma del Vaticano II ha intaccato la mirabile unità dogmatica, disciplinare e liturgica propria alla vera Chiesa Cattolica.

Ogni paese stretto intorno alla propria conferenza episcopale (spesso riottosa nei confronti del “centro”), celebra ormai la liturgia in una lingua estranea a quella degli altri paesi e a quella di Roma stessa.
In molti di questi paesi, in Africa, in America latina, in Asia, “l'inculturazione” voluta dal Vaticano II ha immesso nel culto elementi pagani che la predicazione del Vangelo aveva fatto scomparire. Ovunque, anche a livello liturgico, si assiste al medesimo fenomeno di disgregazione dell'unità che caratterizza sempre lo scisma e l'eresia. L'abolizione del latino è certo stata “una pietra miliare” (Bugnini) verso questo processo di disgregazione dell'unità. 

La confusione delle lingue decretata da Dio per punire l'orgoglio degli uomini nel costruire la torre di Babele, era come sanata dall'uso del latino, la “lingua cattolica”, nella Chiesa di Cristo. Oggi, l'orgoglio della “chiesa conciliare” che ha proclamato “il culto dell'uomo” (Paolo VI) è stato castigato nuovamente (anche) con la confusione delle lingue, confusione che, parafrasando Pio XII, potremmo chiamare “mirabile segno di disunità”.

domenica 1 febbraio 2015

«Messa in latino: nella fantasia, e nella realtà»


«Messa in latino: nella fantasia, e nella realtà»
Maurizio Blondet, su Effedieffe 23 luglio 2008
La realtà supera sempre la fantasia, nel nuovo mondo clericale. E' in Francia sopratutto...
Codex Sinaiticus - IV Secolo
Mary Higgins Clark, nata a New York (nel 1927) da famiglia irlandese, è la fortunata autrice di 24 romanzi-thriller, tutti divenuti best-seller; uno dei suoi libri («Where are the children?»), è alla settantacinquesima edizione.

Il suo ultimo romanzo, uscito quest’anno, «Where are you now?» (Dove sei adesso?), contiene un passo significativo: «... Da quando Papa Benedetto XVI aveva dichiarato che ogni parroco poteva celebrare la Messa in latino, padre Devon aveva annunciato che da ora in poi la Messa domenicale delle 11 sarebbe state celebrata in questa lingua tradizionale della Chiesa, che lui parlava correntemente. La reazione dei parrocchiani lo stupì. La chiesa si riempiva da scoppiare a quell’ora, non solo di anziani ma di adolescenti e giovani adulti che rispondevano con ardore Deo gratias anzichè “Sia ringraziato il Signore”, e recitavano il Pater Noster anzichè il Padre Nostro» (1).

Questo avviene nel mondo della fantasia, o se preferite, della fiction. Nella realtà, ecco cosa si legge nell’editoriale postato sul sito della diocesi francese di Arras, a firma dell’abate Emile Hennart: «... Nel campo religioso, si potrà sottolineare l’apertura del dialogo con l’Islam intrapresa da Papa Benedetto XVI o l’avvicinamento alla Cina. Si potrà per contro spiacersi per i favori accordati ad una liturgia ereditata dal Medio Evo, che sembra ignorare la pratica dei primi secoli della Chiesa, quella dei Padri in special modo».

Che dire? Come sempre, la realtà supera la fantasia. Di molte lunghezze. La diocesi di Arras crede che la Messa in latino venga dal Medio Evo, mentre se mai viene dalla Controriforma (parliamo del 1600, non del 1200); e conferma che la volontà dei «progressisti» nella liturgia è in realtà una sete (archeologica?) di arcaismo: fa riferimento a più o meno fantasiose «pratiche dei primi secoli», specificamente «dei Padri della Chiesa». Quasi che il banale «scambiatevi un segno di pace» (a cui seguono grandi strette di mano) fosse una pratica dei primi cristiani.

Forse, a forza di arcaicismi, i progressisti vogliono arrivare ad una congetturale o fantomatica messa in ebraico; lo suggerisce l’enorme spazio dato alla Torah, a «Israele» e ai Salmi nella liturgia post-conciliare.

Ma chi volesse appurare di prima mano come la pensassero i Padri della Chiesa, e cosa praticavano i cristiani «dei primi secoli», potrà adesso vedere su internet il Codex Sinaiticus. Lo ha messo in linea la biblioteca universitaria di Lipsia, con l’intento di unire ed offrire alla lettura degli specialisti e dei colti l’intero Codex, che è disperso in mezzo mondo: 43 pagine sono appunto a Lipsia, 67 alla British Library, altre sono a San Pietroburgo e a Santa Caterina del Sinai. Per ora, sono in linea oltre 100 pagine; entro il 2009, l’intera opera dovrebbe essere consultabile.

Sui media che si sono dati la pena di dare la notizia, questa è chiamata «la più antica Bibbia del mondo». In realtà è una delle due più antiche, insieme al Codex Vaticanum, che è integralmente conservato in Vaticano. Si tratta di due codici della metà del quarto secolo. Forse due delle 50 copie della Bibbia che Eusebio di Cesarea mandò all’imperatore Costantino da poco passato alla fede in Cristo.

Eusebio, vescovo palestinese, nacque nel 264 e morì verso il 340; Costantino abbracciò pubblicamente il cristianesimo nel 313 (Editto di Milano). Dovrebbe essere dunque una «arcaicità» soddisfacente per i progressisti ansiosi di recuperare le pratiche della prima Chiesa, supposta giudaizzante.

Ebbene: anzitutto, si può constatare che il codex è scritto in greco (caratteri unciali) e non in ebraico; com’è ovvio, dato che già un paio di secoli prima di Cristo gli stessi ebrei di Alessandria - la più grande comunità, più numerosa di quella palestinese - leggevano la Bibbia in greco, non comprendendo più l’ebraico. Solo un paio di secoli «dopo» Cristo, in odio alla Chiesa, abbandonarono la loro Bibbia greca dei Settanta (era il testo che avevano in comune con i cristiani, ed identificava troppo bene il Messia) per ricostruirsi una Torah fatta incollando vari testi ebraico-aramaici (i testi masoretici).

Fatto ancor più significativo: il Codex Sinaiticus contiene tutto il Nuovo Testamento, ma solo un estratto dell’Antico Testamento. Ognuno ne tragga le conclusioni che vuole: ma a quanto sembra, Eusebio di Cesarea, palestinese, pare essere stato tutt’altro che giudaizzante. Non sembra che i primi cristiani fossero avidi di trarre ispirazione dal Deuteronomio o dai Numeri e dal Levitico, ma solo dai passi che nell’Antico Testamento annunciavano il Cristo. Vale la pena di ricordare che la Chiesa pre-conciliare scoraggiava la lettura privata dell’Antico Testamento ai fedeli non preparati.

In ogni caso, il testo del Sinai, come quello Vaticano, dimostrano che il canone delle Scritture era già perfettamente stabilito prima del 340 dopo Cristo. Nel Codex Sinaiticus, i libri dei Vangeli sono esattamente nell’ordine che conosciamo oggi.
Naturalmente, queste osservazioni non intaccheranno la fede giudaica dei progressisti. Né le loro liturgie fanta-archeologiche. In cui peraltro sono possibili inserzioni di tutt’altro genere: un lettore di un sito cattolico francese (2) segnala che nella sua chiesa, il giorno della festività dei Santi Pietro e Paolo, il giovane sacerdote ha celebrato ostentando, sui paramenti, un adesivo con il simbolo del Gay Pride (un’altra celebrazione che era in corso a Parigi di quel giorno).

In Francia, il laicismo al potere ha vietato «l’esibizione ostentatoria dei segni di appartenenza religiosa», una norma contro il velo delle musulmane (ma anche della kippà); ora, è chiaro che invece in chiesa si può ostentare l’adesione ad una perversione, promossa ad «identità sessuale».

Si potrebbe chiedere a quale testo masoretico il prete francese si sia ispirato per questa sua celebrazione liturgica della propria omosessualità; sarebbe gradita la citazione originale in ebraico (o aramaico, se del caso) che autorizza la finocchieria. Ci pare infatti che questa «pratica» fosse punita da Mosè con pene atroci. Ma possiamo sbagliare. La realtà supera sempre la fantasia, nel nuovo mondo clericale.


1) Padre Devon è uno dei personaggi del romanzo; è zio del protagonista, il 21 enne Charles che, dieci anni fa, ha lasciato il suo appartamento di Manhattan e gli studi alla Columbia University, ed è sparito nel nulla. Salvo che ogni anno, alla festa della mamma, chiama sua madre al telefono, la dice che sta bene, e riattacca. Nemmeno la morte di suo padre nella strage dell’11 settembre lo fa tornare a casa. Sua sorella Carolyn, 26 anni, si mette alla sua ricerca. Troverà le tracce di suo fratello ma anche quelle di un serial killer che uccide giovani donne... Insomma un thriller alla Mary Higgins Clark. Porterà a milioni di lettori la nostalgia per la Messa di sempre.
2) «Le blog d’Yves Daoudal», http://yvesdaoudal.hautetfort.com/ luglio 2008.