martedì 23 settembre 2014

Guglielmo Massaja Memorie storiche... 10. INVASIONE ABISSINA. CONSACRAZIONE EPISCOPALE DI MONS. DE JACOBIS.

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10.
INVASIONE ABISSINA.
CONSACRAZIONE EPISCOPALE DI MONS. DE JACOBIS.

questioni di degiace Ubiè col governo di MassawahEravamo entrati in Decembre, l’epoca appunto in cui dai paesi alti possono discendere le truppe abissinesi, ai paesi bassi del littorale, (1a) benche ciò non sia una cosa ordinaria, ma solo in caso di conflitto per gravi motivi. Ismaele effendi, quel governatore stesso che aveva distrutta la mia casa, era una persona intrapprendente, ed aveva fatto un passo che offese i diritti dell’Abissinia sulla costa: aveva fatto due fortezze, una in Arkeko, ed un’altra ad Umkullo, e vi teneva stazione di soldati egiziani, contro i diritti dei Naïb, i quali in tutti i tempi sono sempre stati considerati come dipendenza abissinese, ed i Turki non sortivano dall’isola colla forza; ciò aveva irritato il Naïb, e questi gridò presso il principe Ubie.
Questo fatto aveva sollevato molte dicerie, ed essendo arrivato il mese di Decembre, epoca unica che la forza Abissina può discendere in tutto l’anno, gli abitatori della costa temevano. Per questa ragione noi abbiamo accelerato[p. 132] [23.12.1848;
3.3.1849]
l’operazione delle Ordinazioni per disperdere subito tutti questi ordinandi e rimandarli tosto ai loro paesi prima dei torbidi politici, tanto più poi che a misura che le notizie dei movimenti militari d’Abissinia prendevano consistenza gli stessi abissinesi non erano più sicuri nei paesi del littorale.
/78/ guerra tra l’Abissinia e Massawah. fuga delle popolazioni all’isolaPer questa ragione, appena finite le ordinazioni, e partiti che furono gli ordinandi, invece di passare le feste del Natale in terra ferma abbiamo deciso di ritirarci nell’isola di Massawa, e colà abbiamo fatto trasportare tutti gli effetti di casa e di Chiesa, a fronte che l’Agente Consolare Degoutin ci consigliasse a non temere. Crescevano intanto ogni giorno le notizie di ostilità e di guerra trà l’Abissinia e Massawah. Tutto il villagio di Umkullo si era ritirato, il solo V. Console Degoutin restava là, si può dire anche prudentemente, sia per non accelerare lo spaurachio publico con danno del commercio, sia anche perche egli, come amico dell’Abissinia, pensava che non sarebbe stato toccato, e nel caso avrebbe potuto fare le parti di conciliatore.
Discesa delle truppe abissinesi alla costa.
massacri
[3-4.1.1849]
Appena passata la festa del Natale latino (1b) l’Abissinia infatti incomminciò a moversi e discendere; l’istesso Degoutin [p. 133] aveva messo in salvo la sua famiglia e qualche cosa più preziosa, ritenendo sempre ancora in Umkullu molti capitali sulla speranza che gli abissinesi avrebbero rispettato la bandiera francese. Le trupe di Ubiè erano accampate già in Ajlat (1c) luogo di sorgenti minerali abbastanza calde, e dove passavano facevano man bassa. Allora il Governatore di Massawah trovandosi alle strette convocò tutti gli europei a consiglio.
Si trovavano in Massawah allora, oltre di me, di Monsignor Dejacobis, ancora due viaggiatori Francesi M.r Vissier, e M.r Arnou di ritorno da una missione in Arabia Felice sulle rovine di Sahaba, i quali avendo trovato colà delle iscrizioni etiopiche, erano ritornati in Massawah per andare ad Aksum, e confrontare certi caratteri trovati in Sababa con quelli di Aksum; vi erano ancora alcuni Greci, ma non furono chiamati. Vedete, disse il governatore, il mio predecessore ha fatto queste fortezze in terra ferma senza consultare il governo, ed ha compromesso la pace tra Massawah e l’Abissinia (2a); Massawah vive dell’Abissinia, come /79/questa vive di Massawah. Per questo, come suppongo, sono discese le truppe abissinesi, truppe non disciplinate, le quali faranno del gran mali in questi contorni; se si sparge molto sangue dagli Abissinesi [p. 134] in questi contorni, la maggior parte della popolazione qui radunata cercherà di vendicarsi contro i cristiani che vi sono qui, ed io non ho soldati abbastanza per custodire le fortezze fuori, e l’ordine qui nell’interno. Massawah gremita di gente
[5.1.1849].
minacie di fame
[Per di] Più, come vedete, l’isola è piena di gente, e se gli Abissinesi verranno e si impadroniranno di Umkullu e di Arkeko non avremo più aqua bastante, perché le cisterne del governo non bastano per molti giorni, come non ci basterà il pane per tutta questa gente. Cosa sarebbe meglio fare quì? Io sono d’avviso di mandare oggi una deputazione al campo, per la quale prego i due Monsignori Massaja e Dejacobis con proposte di pace. Se acettano bene, se non acettano, prima di tutta penso a salvare gli europei: vi darò delle barche ed anderete tutti a Dalak fino all’ultima decisione di questo affare.
Deputazione al campo abissinese appoggiata da noi.
spedizione di abba Emnatu
[4.1.1849].
Dejacobis si risolve di esser consacrato vescovo.
Io con Monsignore Dejacobis abbiamo deciso di spedire al campo abissino Abba Emnatu con un’altro sacerdote indigeno muniti di istruzioni e di lettere, e partirono quasi subito. Fratanto si presero tutte le misure per la fuga a Dalak in caso di rifiuto. Avendo fatto qualche rimprovero a Monsignore Dejacobis per la sua ostinazione nel rifiuto della consacrazione, ho veduto che si dimostrò commosso e spiacente di essersi così regolato; [gli dissi:] allora siamo ancora a tempo e se vuole lo faremo prima di partire per [p. 135] Dalak, oppure lo faremo in Dalak. Allora Egli mi rispose, che se tutti i Cristiani suoi non sarebbero partiti [tutti] con noi per Dalak, egli contava di morire coi suoi cristiani in Massawah, epperciò, che avrebbe amato meglio che si fosse fatto [il rito della consacrazione episcopale] in Massawah prima di partire.
Epifania latina
[6.1.1849].
Sentendo così, non ho voluto rifiutarmi al consenso dato. Una parte del Pontificale con altri oggetti sacri erano già sulla barca in mare, ed ho mandato subito [chi di dovere] per fa[r]gli ritornare. Si trattava niente meno di fare la funzione di notte la mattina del sei Gennajo giorno /80/ dell’Epifania, consacrazione di Dejacobis di notte
[iniziata la sera di domenica
7.1.1849]
e farla in modo che terminasse al più tardi verso le otto, perché era il caso della partenza.
La risposta della delegazione spedita non era ancor venuta, ma già dal publico si conosceva, ed i mussulmani nell’isola erano furiosi contro i Cristiani; epperciò per fare la funzione avevamo bisogno di una quantità di soldati per custodirci; la casa aveva una sortita dalla parte del mare, dove restavano gli europei sopra la barca armati, e mi dicevano di restare tranquillo da quella parte. La gran porta dalla parte della città era molto forte, ma vi abbisognava sempre almeno una decina di soldati; ho mandato perciò [richiesta] al Governatore il quale gli promise.
cerimonia della consacrazione[p. 136] Abbiamo lavorato sino quasi [a] mezza notte per preparare la cappella nella sala di conversazione sopra il mare, e nell’istruire i due Preti indigeni assistenti, i quali nemanco erano capaci di servire la Messa latina: appena ci restarono due ore per un poco di riposo, perché prima delle tre quelli che erano di guardia dovevano chiamarci.
Alle tre circa [ci siamo] alzati, [e] abbiamo dato tutti gli ordini necessari; Fr. Pasquale, l’unico che avevamo, il quale poteva ancora aiutarci in certe cose, era l’unica persona sicura per guardare la casa, armato con due pistole, poteva appena fare qualche comparsa per poter dire d’aver sentita la S. Messa il giorno dell’Epifania, e prepararsi alla S. Communione girando di quà e di là. L’altare maggiore pel Consecrante era fatto con tre casse vuote una sopra l’altra; l’altarino del consecrando con due casse, poste una sopra l’altra alla distanza di un mettro; due altre casse coperte di rosso servivano di sedia ai due Pontefici. Quattro piccoli candelieri da tavola si trovavano sull’altare maggiore, e due sull’altarino; la cappella era una stanza larga tre metri, e lunga quattro. Dopo le tre si incomminciò la funzione, nella quale il consacrando teneva abitualmente nelle mani il Pontificale per tenersi al corrente della rubrica, e me lo consegnava quando io doveva leggere, dimodoché faceva anche un poco da ceremoniere, per mancanza di altra persona che conoscesse il latino, e per assicurarsi di nulla obliare. Avevamo tre mitre, ma un solo pastorale, epperciò sul fine [del rito] per fare il giro e benedire, e per l’intronizzazione [il consacrato] prese il mio ed io me ne stava diritto senza pastorale. [p. 137] Come Monsignore Dejacobis non aveva ne croce ne annello, io gli ho dato una mia seconda croce molto semplice, ed un annello di argento con pietra falsa, due oggetti che il sant’uomo conservò sempre sino alla sua morte; l’annello poi dopo la sua morte passò a Monsignor Spacapietra, il quale lo teneva come una reliquia, e morendo lo consegnò al suo Segretario affinché lo /81/ mandasse al Generale della Congregazione dei Lazzaristi. fine della funzioneLa funzione è stata così semplice e povera, che incomminciando la Messa io diceva l’introibo ed il salmo da solo senza [in]serviente, e lo stesso fece il consecrando, al suo altarino.
Con tutta questa povertà debbo dire che la funzione fù commoventissima: nel famoso prefazio della funzione io non poteva trattenere le lacrime, ed il consecrato più dime ancora. I due europei, i quali avevano trovato il modo di montare qualche volta sino alla fenestra per vedere, furono veduti anche [a] piangere, benché persone non molto spirituali. Il consecrato poi ha troppo corrisposto all’Ordine ricevuto, come ognun sa, per poter ancora aggiungere ilvisum est Spiritui Sancto, anche in quel miserabile tugurio, ed in quella eccezionale circostanza.
disfatta la cappella, entrammo in barca.Appena finita la funzione si distrusse subito la cappella, si legarono gli effetti, e legati dalla finestra si consegnavano alla barca, dove siamo discesi tutti, compresa [la gente del]la casa di Monsignore Dejacobis.
nostra fuga a Dalac
[8.1.1849]
[p. 138] Monsignore Dejacobis però non volle venire, e restò in Massawah, ma il Governatore per assicurare [l’incolumità del]la sua persona gli assegnò una barca per salvarsi in mare coi suoi cristiani al menomo movimento pericoloso. Prima però di separarci abbiamo preso il caffè sulla barca insieme. Così finì quella famosa giornata per noi, ma non per il paese.
strage a Umkulu,
casa, e bandiera francese abruciata.
il console in pericolo
[6.1.1849]
Gli abissinesi di quella stessa giornata vennero in Umkullu, dove fecero man bassa, abbruciando tutto il villaggio, compreso anche la casa di Degoutin agente consolare francese, e la stessa bandiera consolare che egli aveva innalzato per salvarsi: fù un vero miracolo che si sia salvato egli. L’armata abissina una volta lanciata sopra un povero paese non conosce più legge, ne disciplina; cerca prima di tutto di rubare, e poi ammazza chiunque si oppone alla sua ingordigia, e dopo che ha rubato, tutto abbrucia e nulla lascia. Il povero Degoutin che ancora non conosceva l’uso dell’armata abissina, quando ha veduto arrivare l’armata si è ritirato in casa e chiuse la porta. Come la sua casa era la più bella di Umkullu, e l’unica fatta in muro, coi fucili ha potuto lottare ed ammazzare anche qualcheduno, ma poi non poteva reggere; fortunatamente qualcheduno dei capi avendo saputo che era il console stesso capitulò, lo fece passare in mezzo all’armata e lo mandò a Massawah coi suoi due servi, ma la casa con tutto quello che vi era [p. 139] restò preda. Come io era venuto qualche giorno prima da Umkullo, calcolando quello che vi era, il poveretto ha dovuto perdere almeno 15. mille franchi. La casa principale in massoneria fù salvata, ma la scuderia, la vet - /82 / tura, cavalli, muli, e molte mercanzie che aveva tutto fù vittima, parte del fuoco, e parte del pigliaggio. (1d)
gli abissinesi in Arkeko.
sentono il canone e fuggono
[7.1.1849]
Dopo che hanno messo a ferro e fuoco Umkullu, l’armata passò ad Arkeko, ma la fortezza d’Arkeko era più solidamente costruita; aveva una guernigione di soldati armati di buoni fucili e due cannoni, che il Governatore di Massawah aveva mandato nella notte precedente. I soldati avendo veduto gli abissinesi [a] venire spararono loro contro il cannone, e fortunatamente la balla dove passò tutto distrusse: gli Abissini non ancora accostumati al cannone si spaventarono e fuggirono. Così terminò la campagna, e se ne andarono: di nuovo verso le aque calde di Ajlat; ma dopo essere rimasti tre giorni nei contorni di Massawah. L’armata abissina non aveva uomini di calcolo alla testa, del resto avrebbe potuto distruggere [p. 140] anche Massawa, ma allora gli Abissinesi temevano troppo il cannone, cosa che non temono più tanto oggi, perché si accostumarono. (1e)
ritorno delle truppe abissine
[10.1.1849].
nostro ritorno da Dalac
[12.1.1849].
Così l’armata abissina dopo tre giorni di dimora nei contorni di Massawah se ne partì, e noi grazie a Dio siamo ritornati sani e salvi da Dalak. I mussulmani di Massawah fecero una sollevazione il giorno stesso della nostra partenza contro i cristiani, ma questi non trovandosi più [nella città] dovettero calmarsi. Partiti che furono gli abissinesi, e che i mussulmani poterono sortire trovarono vittime senza fine ovunque, e trovarono molti che non erano ancor morti, ma emasculati, i quali poi guarirono, perché fra i turchi gli eunuchi essendo preziosi, non per spirito di carità, bensì di interesse trovarono chi loro prodigò le dovute cure.
/83/ risentimenti della Francia.La distruzione della casa del Console, e sopratutto della bandiera sollevò momentaneamente una questione diplomatica in Francia, sia contro l’Egitto, sia contro l’Abissinia, ma l’Egitto si difese con dire che Degoutin non ha voluto fuggire da Umkullu abbandonato dalle truppe. L’Abissinia poi non calcola le questioni diplomatiche, ma come i ragazzi teme solo la forza, e la Francia che in quel momento non voleva fare la guerra, seppelì la questione; compensò un tantino il povero daneggiato Agente consolare, ma nella sostanza lo fece risponsabile della bandiera esposta ai nemici, e fu ancora [p. 141] più tardi levato dal suo impiego di Vice Console.
fine della discesa degli abissiniLa discesa delle truppe abissinesi non ha avuto altro scopo fuori di quello di protestare contro il governo turco, il quale per la prima volta aveva esercitato atti di possesso in terra ferma, perché da un secolo prima la Turchia ha mai avuto altra pretenzione che la sola isola di Massawa, stata accordata dall’Abissinia pacificamente per la sicurezza dei mercanti arabi sulla costa.
l’abolizione della schiavitù una menzognaLa diplomazia europea se in verità fosse stata dominava da un vero principio di civilizzazione cristiana relativamente all’abolizione della schiavitù, doveva anzi tutto riconoscere questa proprietà dell’Abissinia sulla costa per levarla dalle mani dei mussulmani, naturalmente interessati in favore del commercio dei schiavi; ecco una grande operazione che tendeva a chiudere le porte alla sortita dei schiavi.
In secondo luogo doveva pensare all’educazione dell’Abissinia cristiana, punto diplomatico che ha fatto dire e scrivere tante belle cose, ma in realtà sempre abbandonato; eppure punto fondamentale, quando veramente e sinceramente la nostra europa avesse fatto [come] una base diplomatica la purgazione del mondo dalla schiavitù, ma sgraziatamente la redenzione del mondo dalla schiavitù non era che un punto secondario da servire unicamente per coprire certe operazioni meno rette nella diplomazia.
unico rimedio contro il commerciio degli schiavi era qello di educare l’Abissinia, e mantenere intatti i suoi diritti sopra il litorale.[p. 142] La massima in Europa non era che una simulazione ed un’ipocrisia, motivo per cui i bastimenti di ronda, mentre facevano oggi [facevano] un sequestro di una barca, domani passavano vicini ad un gran mercato di schiavi senza nulla dire, ed i rappresentanti dei rispettivi governi stazionati nei luoghi stessi del commercio se ne stavano tranquilli; [come] l’Europa civilizzatrice contro la schiavitù, lo stesso ha imparato [a] fare l’Abissinia, dove io in 35. anni sono stato testimonio di leggi fatte contro il commercio dei schiavi, oggi le promulgavano per darla ad intendere all’Europa e domani a nome del governo stesso si /84/ percepiva la dogana dei schiavi in tutti i mercati, ed il governo stesso vendeva i schiavi fatti nei rasia [nelle razzie] dandoli in pagamento ai mercanti.
Intanto il litorale dell’Africa orientale che mai ha appartenute, ne all’Egitto, ne alla Porta ottomana, essa ne è oggi [e] divenuta padrona sino a Gardafui; l’Abissinia quindi che si voleva civilizzata e rispettata nella sua autonomia come Paese cristiano è stata abbandonata a se, e cammina [a] gran passi alla sua totale rovina per mancanza di principio vitale, e di organizzazione sociale. Il principio vitale che consisteva nella religione cristiana si è affatto estinto sotto la pressione dell’eresia; l’organizzazione sociale senza religione, si è cangiata in un dispotismo brutale che si cangia come il vento, fatto per mangiare e distruggere le popolazioni; disgrazia che minacia la nostra stessa europa sotto un’altro nome di progresso, e di libertà, fatta per mangiare e distruggere le nazioni più grandi che hanno educato il mondo.
[p. 143] Ritornando ora alla nostra storia, dopo tre giorni di dimora in Dalak, ci venne l’annunzio che ogni pericolo era scomparso, col ritorno degli abissinesi (1f); la barca stessa che ci aveva portata la notizia era incaricata dal governatore di riportarci tutti a Massawah, motivo per cui siamo subito partiti, l’indomani mattina. nostre conversazioni e congratulazioni dopo il ritorno da Dalac.La sera verso le due già eravamo in Massawah aspettati dal Governatore stesso, e specialmente da tutti i nostri: dopo un sì grave pericolo trovarci tutti salvi ed una buona salute, lascio considerare [quale fosse] la consolazione reciproca: noi avevamo poco da raccontare, ma i rimasti, che confusione di storie...! che prorito di parlare...! per parte nostra che voglia d’interrogare e di sentire, come è andato questo? come è andato quel certo affare...!! sopratutto Degoutin, per il quale siamo partito tanto in pena, che bisogno di sfogarsi coi suoi racconti...! la sua famiglia poi che l’avevamo lasciata nella desolazione pel timore di perdere il marito, il Padre, che bisogno di versare a noi la consolazione di averlo riveduto...!
Appena poi ci siamo trovati soli con Monsignor Vescovo di Nilopoli, qual bisogno anche noi di parlare della nostra gran funzione fatta così economicamente, e direi quasi poeticamente; quanto Dejacobis era restio dal ricevere la consacrazione [p. 144] altrettanto poi era penetrato della grandezza del nuovo stato a cui Iddio l’aveva sollevato; allora /85/ m’accorsi da dove partivano le difficoltà che mi faceva, metteva fuori certe idee sul carattere episcopale, e sui doveri del Vescovo, alle quali io [non] vi aveva mai pensato: oh quanto lo Spirito Santo abbundò con lui mentre mancavano tante altre cose in quella funzione tutta semplice ed apostolica...! non potei a meno di esclamare frà me stesso; allora dissi, questa storia raccontata tal quale forse fara ridere qualcuno, ma riderà forse perché l’ha compresa, oppure perché non l’avrà abbastanza compresa? nessuna fra le tante che si dicono chiese separate dalla Cattolica è maestosa come questa quando siede con tutta la maestà di Regina, ma nessuna è più sublime di essa, perché sa abbassarsi sino alle catacombe quando è il caso, San Pietro in Roma e la cappella provisoria di Massawah, sono la storia parlante di questa grande verità.
2° viaggio:
mar.-6.5.1849
cfr. p.70-75]
Nell’ultimo viaggio per Aden andando [io] aveva incomminciato a provare un dolore alla base della colonna vertebrale; questo dolore in Aden non m’impediva di occuparmi, ma a fronte di alcuni rimedii usati colà mai mi ha lasciato; ancora ritornando, in viaggio principalmente sempre mi disturbava, sopra tutto verso sera, ricordandomi del mio Padre che ne fù quasi sempre affetto, questo mi era un pensiero [preoccupante]; nel mio viaggio ultimo a Dalak questo stesso dolore pareva voler cangiare sede e portarsi al ginocchio;[p. 145] in modo particolare verso sera io mi trovava molto tormentato con un poco di movimento febbrile; in Massawah non vi era medico, ma un semplice flebotomo arabo; l’ho fatto chiamare, e mi feci applicare una quantità di ventose all’osso sacro, ed un’altra quantità sopra il ginocchio, e ne fui molto sollevato, ma pure non mi lasciava; ho mandato un’abissino in Tigre a cercarmi una gran quantità di sanguisughe, insegnandogli la maniera di conservarle e di prenderle; per impegnarlo gli ho promesso di dargli uno scudo ogni cento; dopo quasi due settimane ritornò portandone una grande quantità. Ne ho applicato due giorni di seguito 50. al giorno nella regione dell’osso sacro, e poi due altri giorni al ginocchio, e con questo il mio dolore sparì e [non] l’ho mai più veduto per grazia di Dio. In Europa i medici fanno molto uso delle mignatte ma in troppo piccola quantità, [invece applicate] per simili malattie in gran quantità sono come uno specifico; io sono arrivato ad ordinarne anche 400. in otto giorni. La mignatta all’ano poco basta[:] 15. o 20. bastano, massime coi fomenti, ma nelle altre località l’uomo può sostenerne anche centinaia, massime certi individui dominati da pletora.

(1a) Le pioggie della zona torrida nel nostro emisfero sogliono avere luogo nei mesi del nostro estate, e potrebbe anche dirsi fra i due equinozii, perché sono regolati dai passi che fa il sole percorrendo il zodiaco, più o meno intense secondo i diversi paesi, e la diversa altezza latitudinale. Però anche in eguale longitudine i paesi alti nelle pioggie precedono i paesi bassi. I paesi più vicini al tropico sogliono partecipare, nelle stagioni, delle due zone. Massawah, benché [situata] nella zona torrida, pure, sin nelle variazioni del termometro, sia in riguardo ai venti ed alle pioggie si [man]tiene ancora col nostro inverno. La sue pioggie perciò, benché poche, sono dominanti dalla metà di novembre sino alla metà di Febbrajo cir[c]a. In questo fratempo i litorali di Massawah sono verdi di erba, ed i suoi fiumi hanno aqua dovunque. Le armate abissine hanno gran bisogno di questo, sia per i bestiami indispensabili per il trasporto, sia ancora per la cavalcatura; quindi anche per gli uomini che non possono sopportare la sete. Ecco la ragione, per cui le truppe abissine non possono discendere al litorale fuori dei tre mesi del nostro inverno.[Torna al testo ]
(1b) Il Natale latino occorre 12. giorni prima del Natale abissino, celebrato questo secondo il calcolo Juliano, nello stesso giorno in cui presso di noi occorre l’Epifania. Era quella l’epoca delle gran pioggia in Massawa, in cui la terra anche più arida ed arenosa, non manca di qualche verdura per i pascoli. Come questa verdura è molto superficiale, qualche settimana prima non esiste, e qualche settimana dopo sarebbe già arsa dal sole. Per questa sola ragione la discesa delle truppe abissine alla costa non può aver luogo che nella quinde[ci]na dei nostro Natale, perché l’abissino non può camminare senza bestie da soma.[Torna al testo ]
(1c) Le terme di Ajlat si trovano circa tre leghe francesi al Nord di Massawah. In Ajlat si trova tutto l’anno aqua in sufficiente quantità per l’armata abissina, e si trova anche un poco di pascolo, ma non sufficiente. L’armata abissina non avrebbe potuto [spostarsi] più al Sud, perché la montagna Taranta è troppo difficile [da scalare] per un’armata. Più verso il Nord l’alto piano si abbassa, e le strade sono più praticabili per discendere dall’alto piano dell’Amassen.[Torna al testo ]
(2a) Da queste parole del governatore di Massawah si vede chiaro che la terra ferma sino al mare /79/ è stata sempre considerata come proprietà abissina. Nel 1846. quando io sono arrivato a Massawah, ho trovato che l’opinione publica confermava una tale proprietà. [1840]Negli ultimi anni del Re Luigi Filippo solamente pare che in diplomazia le potenze abbiano riconosciuto il dominio della Porta Ottomana in tutto il litorale dell’Africa orientale da Massawah sino a Gardafui. Quindi le compre fatte da certi europei, anche privati, fatte prima di detta epoca devono considerarsi come valide, come frà le altre fu [l’acquisto del]la Baja di Hett fatta da due viaggiatori francesi, [che] ottenne[ro] una lettera di approvazione dal ministero di Francia. Pochi anni dopo data proprietà essendo passata nella mani del Signor Degoutin, già Vice Console di Massawah, [lug. 1845]egli la vendette al governo egiziano. La Sublime Porta fece tanti impegni per possedere la costa orientale dell’Africa per assicurarsi la chiave della tratta dei neri, contro le vigilanze europee.[Torna al testo ]
(1d) Il povero Degoutin aveva una specie di diritto di essere compensata dal suo governo per i danni ricevuti nella catastrofe. Ma i viaggiatori per lo più sono quelli che guastano gli affari con false relazioni, e per lo più guidati sempre da passioni personali. Il povero Degoutin mandato a Massawah come primo agente consolare, e con piccolissima paga, era autorizzato a fare il commercio per vivere. Fece anzi del gran bene in Massawah; fu egli che rilevò il commercio europeo colà, e si può dire che fu l’unico console acclamato da tutti: Eppure ebbe in paga la destituzione senza speranza d’impiego. La discesa della truppa abissina fù la sua rovina.[Torna al testo ]
(1e) Molto si disse, e molto si scrisse sopra il bisogno di educare l’Abissinia Cristiana, affinché divenisse un piccolo regno, per contenete il progresso dell’islamismo, già padrone di tutti quei contorni. Lo scopo era la civilizzazione dell’Africa, e l’abolizione della tratta. La nazione abissinese educata in regno, sotto la protezione di qualche potenza europea, sarebbe stato un punto troppo importante a questo scopo. Ma le potenze europee [non] furono mai diplomaticamente unite a questo scopo; ogni potenza guardò sempre l’Abissinia con viste particolari ed egoistiche. Ciascheduna potenza moltiplicando missioni politiche, per lo più sterili, e moltiplicando regali di armi, la fecero più forte, più superba, ma non più civile. Il solo principio religioso meglio protetto, poteva contribuire all’educazione di quel paese. Ma è passato il tempo in cui le nostre potenze potevano fare cose mirabili coll’elemento cattolico, unico capace. La povera Abissinia cristiana lottera ancora qualche tempo per la sua indipendenza; ma pericola molto di cadere nelle mani del radicalismo musulmano.[Torna al testo ]
(1f) La truppa [degli] abissinesi non usa di portarsi grandi provviste, perché la più parte formata di povera gente, la quale mancando di mezzi non può portare grandi provviste; nei paesi alti vive di razzia, ma nei paesi bassi non essendovi seminati non trova da vivere; i pochi bestiami che ci sono, le popolazioni nomadi che non hanno case in simili circostanze le portano altrove; epperciò morirebbero di fame.[Torna al testo ]

La carità non invidia, poichè non sa invidiare a' mondani quelle terrene grandezze ch'ella non desidera, ma disprezza



Caritas non aemulatur.


L'anima che ama Gesù Cristo
non invidia i grandi del mondo,
ma solamente coloro che più amano Gesù Cristo.

1. Spiega S. Gregorio quest'altro contrassegno della carità, e dice che la carità non invidia, poichè non sa invidiare a' mondani quelle terrene grandezze ch'ella non desidera, ma disprezza: Non aemulatur, quia per hoc quod in praesenti mundo nihil appetit, invidere terrenis successibus nescit (Mor. l. 10. c. 8). 
Quindi bisogna distinguere due sorta di emulazioni, una malvagia e l'altra santa. La malvagia è quella che invidia e si rattrista per li beni mondani che gli altri possedono in questa terra. L'emulazione santa è quella che non già invidia, ma piùttosto compatisce i grandi di questo mondo che vivono tra gli onori e piaceri terreni. Ella non cerca nè desidera altro che Dio, ed altro non pretende in questa vita che di amarlo quanto può; e perciò santamente invidia chi l'ama più di lei, mentr'ella nell'amarlo vorrebbe superare anche i serafini.

2. Questo è quell'unico fine che hanno in terra le anime sante, fine che innamora e ferisce di amore talmente il cuore di Dio che gli fa dire: Vulnerasti cor meum, soror mea sponsa, vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum (Cant. IV, 9). Quell'uno degli occhi significa l'unico fine che ha l'anima sposa in tutti i suoi esercizi e pensieri, di piacere a Dio. 

Gli uomini del mondo nelle loro azioni guardano le cose con più occhi, cioè con diversi fini disordinati, di piacere agli uomini, di farsi onore, di acquistar ricchezze e, se non di altro, di contentare se stessi; ma i santi non hanno che un occhio, per guardare in tutto ciò che fanno il solo gusto di Dio; e dicono con Davide: Quid... mihi est in caelo? et a te quid volui super terram?... Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum (Ps. LXXII, 25 et 26): che altro io voglio, mio Dio, in questo e nell'altro mondo, se non voi solo? Voi solo siete la mia ricchezza, voi l'unico signore del mio cuore. Si godano pure, dicea san Paolino, i ricchi i loro tesori di terra, si godano i re i loro regni, voi, Gesù mio, siete il mio tesoro e 'l regno mio: Habeant sibi divitias suas divites, regna sua reges, Christus mihi gloria et regnum est.


3. Quindi avvertiamo che non basta fare opere buone, ma bisogna farle bene.

lunedì 22 settembre 2014

Il terzo segreto di Fatima





Un simpatico archeologo!


Dello stesso autore, abbiamo pubblicato [qui].

Un archeologo noto a me soltanto ha scoperto dentro una giara d'argilla, in una grotta non lontano da Qumran, il rotolo con il testo originale di Esodo 20,2-17. (In realtà, mi corregge l'amico esperto, mancando lo scritto di parti rilevanti potrebbe trattarsi anche di Deuteronomio 5,6-21). Pubblico l'eccezionale ritrovamento in esclusiva, con le varianti e le aggiunte della nuova versione tra parentesi quadre. Sembra, infatti, che le molteplici perizie a conforto dell'autenticità stiano per provocare l'immediata ristampa della Bibbia, con la correzione dell'obsoleto e scorretto passo finora tramandato, e l'indizione di un Concilio Vaticano III, non dogmatico né pastorale ma biblistico, per il rinnovamento di tutta l'esegesi biblica e una nuova Primavera della Chiesa.

"Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile. [Però potrei sbagliarmi o ricordarmi male. Potrebbe essere stato qualcun altro. Sulla montagna sacra dei dubbi, certezze non ci sono. Interroga la storia e la scienza]."

"Non avrai altri dèi di fronte a me. [Qualcuno puoi, non troppi. Tutte le religioni sono uguali, conta soltanto la pace, il volersi bene e la moderazione. L'importante è non esagerare. Non mettermi proprio in fondo alla lista. A metà non mi dispiace]."

"Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio. [Ma quando ci vuole ci vuole. Anche una bestemmia può servire. In fondo, è sempre un'invocazione]."

"Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. [Sei giustificato per dedicarti al commercio, pascolare al mare o in montagna il tuo gregge, dedicarti ad attività ludiche e sportive]."

"Onora tuo padre e tua madre [se proprio non ti inaspriscono e ti fanno perdere la pazienza]."

"Non uccidere. [Comunque, tranquillo, io perdono]."

"Non commettere adulterio [né atti impuri Ma chi sono io per giudicare? Sappi che otterrai misericordia anche senza pentirti e cambiare vita].

"Non rubare. [Però ruba pure se ti trovi nella condizione di profugo in terra straniera. Tanti fratelli ti daranno una mano]."

"Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo [a meno che non ti serva per qualche scopo, per guadagnare o per fare carriera]."

"Non desiderare la moglie del tuo prossimo [se è brutta e stagionata. Ma se è giovane e carina... che dirti, figlio mio? Ugualmente, desidera l'uomo della tua amica se è bello e ricco]."

"Non desiderare alcuna della cose che appartengono al tuo prossimo [a meno che non ti piacciano o ti servano]".

PER CHI ANCORA FA IL SORDO AL LATINO NELLA LITURGIA

IL LATINO NELLA LITURGIA: SPUNTI DI RIFLESSIONE





IL LATINO NELLA LITURGIA: SPUNTI DI RIFLESSIONE

di Daniele Di Sorco 

Gli argomenti a favore dell'uso del latino (o comunque di una lingua non corrente) nella liturgia possono essere ridotti a tre:

1) L'universalità. La Chiesa cattolica è universale, non solo perché si trova effettivamente diffusa su tutta la terra, ma perché la rivelazione divina da essa custodita è identica per ogni uomo. Tutti i cattolici degni di questo nome professano una stessa fede, credono nelle stesse verità, obbediscono agli stessi pastori. È del tutto logico, quindi, che all'unità della fede faccia riscontro l'unità della preghiera, per lo meno di quella preghiera ufficiale che i cattolici svolgono in forma comunitaria e pubblica, cioè della liturgia (Messa, Ufficio divino o Breviario, Sacramenti). Per la maggior parte delle persone, infatti, la liturgia è scuola di fede, è il momento in cui si apprendono e si mettono in pratica le nozioni relative alle principali verità di religione: di qui l'antico proverbio legem credendi lex statuat supplicandi (la norma della fede sia determinata dalla norma della preghiera). Per esempio, adorando con atti esteriori (genuflessioni, preghiere, ecc.) la santa Eucaristia nella Messa, si comprende più in profondità e si manifesta in forma pubblica la fede interiore nella Presenza reale di nostro Signore nel Sacramento dell'altare. La liturgia, in poche parole, è segno visibile del vincolo di unità che lega tutti i membri della Chiesa. Ora, tale vincolo può forze prescindere dalla lingua e accontentarsi soltanto del contenuto dei testi e dell'apparato delle cerimonie? La risposta è negativa. Ben lungi dal costituire un semplice mezzo con cui esprimere dei concetti (come un abito che si può cambiare a proprio piacimento, mentre il corpo resta lo stesso), la lingua costituisce, per il parlante, una vera e propria forma mentis. Per dimostrarlo, basta l'esperienza: quando andiamo all'estero, anche se conosciamo la lingua del posto, ci sentiamo spaesati, a disagio, come se avessimo a che fare a qualcosa che non ci appartiene; mentre se, nello stesso contesto, incontriamo qualcuno che parla italiano, la sensazione è quella di trovarsi subito a casa. Ecco il vantaggio di avere una lingua comune per i riti: quello di realizzare l'unità nella facoltà propria degli esseri razionali e che caratterizza in modo diretto e intuitivo la loro psicologia: l'espressione linguistica. Quando il latino era la lingua comune della liturgia, il cattolico che entrava in chiesa si sentiva automaticamente a casa propria, all'estero così come nel proprio paese di origine. Questa unità di linguaggio e, diciamolo pure, di sensazione, di impressione, non era che un riflesso di un'altra unità, ben più profonda, quella della fede. Non stupisce, allora, che tutti i tentativi di eresia abbiano avuto, tra le loro pretese, quello della liturgia in lingua nazionale: si voleva fare della fede qualcosa di soggettivo, di personale, di locale; e anche l'espressione esteriore e pubblica della fede doveva andare nella medesima direzione



2) L'univocità. Si sente spesso dire che il latino è una lingua morta. Non è vero. Il latino è una lingua viva e vegeta, poiché c'è chi la parla (nella liturgia, nell'insegnamento di certi seminari) e chi la scrive (si pensi soltanto ai documenti ufficiali della Chiesa). Non è tuttavia una lingua di uso corrente, cioè una lingua che si usa per la conversazione quotidiana. Ma, a ben vedere, per la liturgia questo costituisce un indubbio vantaggio. La fede, infatti, è espressione di verità sempre uguali, che non mutano col passare del tempo e con l'evolversi della storia, poiché esse promanano da Dio, nel quale, come dice S. Giacomo nella sua epistola (1, 17), non c'è ombra né traccia di divenire. Ora, non c'è bisogno di essere un esperto di linguistica per rendersi conto di come il linguaggio corrente sia sottoposto a numerose e continue variazioni di significato. Basti pensare alla parola "salute", che nell'italiano di un tempo significava genericamente "salvezza (del corpo, quindi, ma soprattutto dell'anima = lat. salus), mentre oggi indica solamente la sanità fisica. Inoltre le parole del linguaggio corrente assumono per ciascuno una sfumatura particolare, sulla base del vissuto personale, dell'associazione spontanea di idee, della eccessiva familiarità dei concetti. Si capisce, dunque, che la lingua di uso corrente, per la sua eccessiva variabilità oggettiva e soggettiva, non è la più adatta per esprimere i contenuti della liturgia, che sono contenuti eterni, immutabili, come eterno e immutabile è l'oggetto cui si rivolgono, cioè Dio. Il latino, essendo uscito dall'uso quotidiano da più di un millennio, offre invece i requisiti richiesti, poiché il suo lessico, le sue formule, le sue modalità espressive sii sono cristallizzati in forme ben precise, dal significato univoco, che non possono essere in alcun modo travisate o alterate dalla percezione soggettiva.


3) La sacralità. Parliamo, naturalmente, non di una sacralità intrinseca (nessuna lingua di per sé è più sacra di altre), ma di una sacralità acquisita. Da secoli il latino, sottratto all'uso comune e impiegato principalmente in ambito ecclesiastico, viene percepito come lingua inscindibilmente legata al sacro, allo stesso modo in cui l'organo, pur essendo talvolta adoperato in altri contesti, viene automaticamente associato alla chiesa. Se la Chiesa ha conservato il latino (e, in oriente, il greco antico e il paleoslavo, tutte lingue fuori dall'uso), non è per ottuso immobilismo (lo dimostra il fatto che già nel IX secolo, quando il latino cominciava a non essere più compreso dalle masse, si ordinò ai sacerdoti di tenere l'omelia in volgare), ma per marcare, anche sul piano linguistico, la distinzione essenziale che separa il profano dal sacro. Anche a tale riguardo, è bene richiamare alla mente alcune nozioni di psicologia linguistica, che, per quanto elementari e scontate, sembrano essere trascurate da molti. L'uso di un tipo di linguaggio piuttosto che un altro è determinato dal contesto in cui ci si trova e dall'oggetto di cui si parla: altro è il modo con cui mi rivolgo a un parente o a un amico, altro è il modo con cui parlo a un superiore, altro ancora è il modo con cui interloquisco con un personaggio famoso. E, a parità di interlocutore, il mio modo di esprimermi sarà diverso a seconda che parli di una partita di calcio o della struttura interna dell'atomo. Ciascun registro linguistico è legato ad una situazione ben precisa. Sarebbe del tutto strano e fuori luogo parlare col proprio datore di lavoro impiegando lo stesso lessico e le stesse espressioni che si userebbero con un familiare. Non stupisce, dunque, che anche la liturgia, nella quale l'interlocutore è Dio stesso e l'oggetto sono le realtà soprannaturali, abbia un linguaggio proprio, radicalmente diverso da quello impiegato nella vita quotidiana e nelle attività profane. L'uso del latino serve per far comprendere meglio, anche sul piano dell'espressione verbale (che è uno dei piani più importanti della psicologia umana), che nell'azione liturgica siamo di fronte a qualcosa che, trascendendo la realtà immanente, non può essere espressa nello stesso linguaggio di quest'ultima. Del resto, anche ai tempi di Gesù, in Palestina la lingua corrente era l'aramaico, ma nelle sinagoghe il culto avveniva quasi interamente in ebraico antico, ad eccezione soltanto delle parti destinate all'istruzione del popolo.


Si potrebbe obiettare che l'uso del latino preclude la comprensione dei testi liturgici alla maggior parte del popolo e quindi ostacola uno dei fini del culto pubblico, che è l'edificazione dei fedeli. Tale rilievo ha il sapore delle contestazioni superficiali, che al primo impatto sembrano ovvie e scontate, ma che rivelano tutta la loro inconsistenza una volta che si esamini più approfonditamente la questione.

In primo luogo, la liturgia non è uno spettacolo teatrale, nel quale si debba ascoltare e comprendere ogni singola parola. La liturgia serve a farci penetratre, mediante il suo apparato di segni visibili, nelle realtà divine che in essa si celebrano. Per questo il sacerdote si spoglia dei suoi abiti quotidiani e si riveste dei sacri paramenti, per questo la celebrazione segue un rito codificato, per questo i cristiani si riuniscono in un luogo apposito e diverso da tutti gli altri, la chiesa. Si comprende facilmente, allora, come la partecipazione alla liturgia debba avvenire in primo luogo a livello interiore, con la comprensione profonda e personale del mistero che si celebra, con l'elevazione della mente a Dio, autore di tali misteri. Un rito che favorisce il senso esteriore del sacro, ne agevola la percezione interiore. Viceversa, un rito che, a causa dell'impiego di elementi troppo legati alla realtà quotidiana, non marca adeguatamente la differenza tra sacro e profano, non riesce a far penetrare adegutamente il fedele nella dimensione del mistero. Il risultato è una liturgia che ha per oggetto, non più Dio, ma la comunità stessa, che finisce per celebrare valori (o, talvolta, disvalori) esclusivamente umani, rispetto ai quali Dio o si trova in disparte (come i crocifissi nelle chiese moderne) o è del tutto escluso. In altre parole, celebrare la liturgia attingendo le sue principali caratteristiche dalla realtà profana (lingua corrente, canzonette, improvvisazioni, mortificazione del simbolismo) significa scadere nell'autoreferenzialità, e invogliare le persone ad abbandonare la pratica religiosa: infatti, se in chiesa trovo le stesse cose (o, meglio, un surrogato delle stesse cose) che mi offre il mondo, perché dovrei andarci?


Non è vero, poi, che la comprensione della liturgia tradizionale sia appannaggio di chi conosce la lingua latina. L'esperienza dimostra che il popolo aveva un'idea molto più chiara del valore della Messa e del significato dei riti quando essi venivano celebrati in una lingua ai più sconosciuta, che non oggi, quando tutto avviene in italiano e con un rito semplificato. Perché? Perché la liturgia è per lo più costituita da uno schema fisso, che si ripete sempre uguale in tutte le celebrazioni e che pertanto basta imparare una volta per tutte. Le parti variabili sono poche: nella Messa ve ne sono nove (antifona all'introito, orazione, epistola, versetti interlezionari, vangelo, antifona all'offertorio, secreta, antifona alla comunione, dopocomunione), di cui quattro sono canti, mentre soltanto due (epistola e vangelo, a cui si possono aggiungere, volendo, le tre orazioni) riguardano direttamente l'istruzione del popolo. Queste possono essere lette da chiunque su un messalino che riporta la traduzione del testo liturgico. E, in ogni caso, si è diffusa da molto tempo la consuetudine di leggere in volgare le letture scritturistiche. Riassumento: le parti fisse (ordinario della Messa) sono sempre uguali, ed è sufficiente memorizzarle una volta per tutte, non quanto alla singola parola, s'intende, ma quanto al significato; le parti mobili (proprio della Messa) possono essere consultate sul messalino bilingue, grazie al quale, peraltro, il fedele può usare i testi liturgici a casa propria, per sua meditazione personale. La difficoltà di imparare almeno i rudimenti della lingua liturgica non è poi così grande come sembra, specialmente se si pensa che anche i testi italiani, per essere adeguatamente compresi, hanno comunque bisogno di una spiegazione (l'uso del volgare non basta per rendere i concetti teologici contenuti nella Messa automaticamente intellegibili) e che, in passato, perfino le persone di bassa cultura conoscevano a memoria le principali parti della liturgia, magari storpiando qualche desinenza latina ma avendo ben chiaro il significato.



Si tenga conto, infine, che l'uso di una lingua diversa da quella corrente stimola la concentrazione dei fedeli. Sembra un paradosso, ma è così. Un rito interamente celebrato in volgare non richiede alcuno sforzo di comprensione. Si può benissimo andare a Messa (tutti, credo, abbiamo fatto almeno una volta questa esperienza), ascoltare tutto, rispondere a tutto, ma avere la mente altrove. Molto, certo, dipende dalla disposizione personale, ma una responsabilità non piccola va attribuita alla facilità di un rito in cui la lingua è quella di tutti giorni, le cerimonie semplificate, l'atmosfera da riunione profana. L'ostacolo linguistico(che poi, come abbiamo visto al paragrafo precedente, è un ostacolo soltanto relativo) costituisce per il fedele un incentivo a compiere quello sforzo mentale che gli consente di entrare nella dimensione propria della liturgia, che è una dimensione radicalmente diversa da quella quotidiana. 


In conclusione, possiamo affermare sulla base di solidi argomenti che i vantaggi derivanti dall'uso indiscriminato del volgare sono assai minori rispetto a quelli che si ottengono dall'uso del latino, e, in ogni caso, sono anch'essi subordinati alla spiegazione del significato dei riti e delle preghiere (catechesi liturgica). Per cui, a conti fatti, non c'è ragione per allontanarsi dalla pratica che non solo la Chiesa cattolica, ma anche le principali tra le false religioni hanno sempre e costantemente osservato.

Alle considerazioni di tipo teorico, se ne può aggiungere una, decisiva, di indole pratica. L'antico rito, grazie all'eminente sacralità che gli deriva dall'uso di una lingua diversa da quella corrente, ha prodotto, nel corso dei secoli, abbondantissimi frutti di spiritualità e santità, non solo nel clero e in coloro che conoscevano il latino, ma anche nel popolo illetterato e analfabeta, che non comprendeva le singole parole del rito, ma coglieva il senso ultimo della liturgia, il suo significato profondo. Oggi (ma potremmo fare un parallelo con la crisi religiosa conseguita all'introduzione del volgare e alla semplificazione dei riti nei paesi protestanti) assistiamo al fenomeno inverso: il rito in volgare e semplificato è materialmente intellegibile e i fedeli possono parteciparvi esteriormente con la massima comodità; ma ciò ha indotto la maggior parte dei cristiani (anche del clero, purtroppo) a ritenere che non fosse necessario andare oltre, che cioè lo spirito della liturgia consistesse nella comprensibilità stessa; il rito, quindi, ha valore non nella misura in cui avvicina a Dio, ma nella misura in cui esprime i bisogni e le aspettative della comunità: ecco il cerchio autoreferenziale, da cui Dio è praticamente escluso, e a creare il quale ha contribuito in misura non piccola una liturgia abbassata talmente a livello dell'uomo da essere divenuta interamente umana.


Con quale disposizione, dunque, bisogna riaccostarsi all'antica liturgia, se non la si è mai conosciuta o se non la si frequenta più da molti anni? Prima di tutto, senza la pretesa di restarne immediatamente affascinati. È vero che molti fedeli rimangono subito attratti dalla sacralità che promana dal rito antico, ma è anche vero che, per molti, la forza dell'abitudine, unita ad un'errata concezione della liturgia, che identifica il suo valore con la partecipazione e la comprensibilità esteriore), rende difficile l'immediata fruizione di un rito che si basa su presupposti nettamente diversi. Occorre, quindi, dare tempo al tempo: assistere al rito con mente sgombra da preconcetti, senza la smania di capire tutto subito, lasciandosi penetrare dalla sacralità del rito, riscoprendo il valore della preghiera personale (lasciata in disparte dalla moderna liturgia), apprezzando la funzione di una lingua che inizialmente si crede un ostacolo ma che poi si rivela chiave di accesso ad una dimensione ulteriore, quella del sacro e del divino, che molti probabilmente non hanno mai conosciuto nella preghiera liturgica.