lunedì 16 giugno 2014

San Francesco Antonio Fasani


Carissimo Amico/Amica,

Il 25 marzo 1858, verso le quattro del mattino, Bernadette Soubirous lascia la «segreta», la catapecchia in cui abita la sua famiglia, per recarsi alla grotta di Massabielle, dove, dall'11 febbraio, le appare una misteriosa Signora. L'adolescente di quattordici anni attraversa Lourdes addormentata, accompagnata da alcune persone cui sua zia ha rivelato il segreto. Ha appena recitato una posta del rosario davanti alla grotta, quando la Signora le si manifesta. Sorridente, le fa segno di avvicinarsi. Bernadette si trova allora vicinissima alla Visitatrice cui trasmette, nel suo dialetto regionale, la richiesta pressante del suo Curato: «Signora, vuol avere la bontà di dirmi chi è?» L'Apparizione sorride e non risponde. Per due volte, la ragazza ripete la domanda. La terza volta, la Signora, che tiene le mani aperte, le congiunge all'altezza del cuore e dice: «Que soy era Immaculada Councepciou... (cioè: Sono l'Immacolata Concezione). Desidero che qui sorga una cappella...» Poi, sempre sorridendo, si dilegua.

Sulla via del ritorno, Bernadette non smette di ripetere, per paura di dimenticarle, quelle parole incomprensibili per lei: «Que soy era Immaculada Councepciou». Corre dal Signor Curato e gli dichiara, senza nemmeno salutarlo: «Que soy era Immaculada Councepciou. – Cosa dici mai, piccola presuntuosa? – È la Signora che mi ha detto queste parole... – La tua Signora non può avere questo nome! Ti sbagli! Sai cosa vuol dire l'Immacolata Concezione? – Non lo so; per questo ho ripetuto le parole continuamente, fin qui, per non dimenticarle».

Come potrebbe sapere cosa significa «l'Immacolata Concezione», lei che non ha ancora imparato a leggere e che si è appena iscritta al Catechismo? Ma il sacerdote lo sa benissimo: meno di quattro anni prima, papa Pio IX ha proclamato la Santa Vergine immacolata nella Concezione. Nella Bolla Ineffabilis, dell'8 dicembre 1854, ha detto: «Noi determiniamo che la dottrina che considera che la Beata Vergine Maria è stata, fin dal primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, preservata intatta da ogni macchia del peccato originale, è una dottrina rivelata da Dio, e pertanto essa deve essere fermamente e costantemente creduta da tutti i fedeli». Più di diciotto secoli dopo Gesù Cristo, attraverso tale atto solenne, il Papa ha definito un nuovo dogma. Certi si chiedono: come è possibile? La Chiesa ha un simile potere? La Rivelazione non è finita con Gesù Cristo?

Effettivamente, nella Lettera agli Ebrei, si legge: Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio (Eb. 1, 1-2). San Giovanni della Croce commenta questo passo nei seguenti termini: «Dal momento in cui ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva Parola, Dio non ha da dirci altre parole. Ci ha detto tutto in una sola volta con questa sola Parola... infatti quello che un giorno diceva parzialmente ai profeti, l'ha detto tutto in suo Figlio, dandoci questo tutto che è suo Figlio». Il Concilio Vaticano II ricorda anch'esso: «L'economia cristiana, in quanto è Alleanza Nuova e definitiva, non passerà mai e non c'è da aspettarsi alcuna nuova Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa di nostro Signore Gesù Cristo» (Dei Verbum, n. 4).

Progredire nell'intelligenza della fede

«Tuttavia, insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, anche se la Rivelazione è compiuta, non è però completamente esplicitata; toccherà alla fede cristiana coglierne gradualmente tutta la portata nel corso dei secoli» (CCC, n. 66). La Rivelazione è stata affidata da Dio alla Chiesa, perchè essa la trasmetta e la interpreti. «L'ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo... Il Magistero della Chiesa si avvale in pienezza dell'autorità che gli viene da Cristo quando definisce qualche dogma, cioè quando, in una forma che obbliga il popolo cristiano ad un'irrevocabile adesione di fede, propone verità contenute nella Rivelazione divina... Così, grazie all'assistenza dello Spirito Santo, l'intelligenza tanto delle realtà quanto delle parole del deposito della fede può progredire nella vita della Chiesa» (CCC, nn. 85-88-94); cosa che si è realizzata in particolare con la definizione del dogma dell'Immacolata Concezione.

Questo dogma si basa, nella Sacra Scrittura, sul saluto dell'Angelo Gabriele alla Vergine Maria: Ti saluto, o piena di grazia (Luca 1, 27); tale pienezza di grazia è veramente completa solo se si estende, nel tempo, al primo istante della vita della Santa Vergine, quello della sua concezione. Tuttavia, questo passo del Vangelo, pur fornendo una preziosa indicazione, non basta, da solo, a dimostrare la verità dell'Immacolata Concezione della Santissima Vergine; perchè la luce che contiene sia afferrata pienamente, bisogna ricorrere alla testimonianza della Tradizione. Infatti, la Chiesa «non trae la certezza su tutti i punti della Rivelazione dalla sola Sacra Scrittura. Per questo la Scrittura e la Tradizione devono esser ricevute e venerate con pari sentimento di pietà e di rispetto» (Concilio Vaticano II, Dei Verbum, n. 9).

La credenza nell'immacolata concezione di Maria risale ai primi secoli della storia della Chiesa. I Padri della Chiesa che ne hanno parlato sono unanimi nel riconoscere che la Madre di Gesù Cristo è la sposa tutta bella e senza macchia di cui è questione nel Cantico dei Cantici (4, 7). Sant'Efrem († 373) scrive che la Madre di Dio è «piena di grazia..., tutta pura, tutta immacolata, tutta senza peccato..., assolutamente estranea a qualsiasi lordura ed a qualsiasi macchia del peccato» (Oratio ad Deiparam). La festa liturgica della Concezione di Maria (8 dicembre) esiste almeno dal settimo secolo nella Chiesa greca. Grandi teologi, nel Medioevo, hanno, è vero, formulato obiezioni contro la credenza nell'Immacolata Concezione, che sembrava loro costituire una minaccia per l'universalità della Redenzione di Cristo. Il beato Giovanni Duns Scoto (1266-1308), e, come lui, i teologi della scuola francescana, hanno risposto che Maria è rimasta immune da ogni macchia del peccato originale, in previsione dei meriti futuri di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano; la Santa Vergine è stata dunque effettivamente riscattata dal Sangue di Gesù Cristo, ma in un modo affatto sublime, quello della preservazione dal peccato.

San Massimiliano Maria Kolbe, morto quale martire della carità ad Auschwitz nel 1941, figura fra i Francescani che hanno parlato meglio dell'Immacolata Concezione. San Francesco Antonio Fasani, canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986, è meno noto: molto tempo prima della proclamazione del dogma, questo frate  ha avuto il merito di far conoscere ed amare l'Immacolata.

Il «peccatore dell'Immacolata»

Antonio Giovanni Fasani è nato il 6 agosto 1681 a Lucera (Foggia), nelle Puglie (sud-est dell'Italia). I suoi genitori sono di umile condizione; il padre si guadagna la vita quale bracciante agricolo. Nella famiglia Fasani, povera di beni materiali, si è ricchi di fede. Tutte le sere, si recita il rosario davanti ad un'immagine di Maria Immacolata. Antonio trova presso la madre le radici della sua profonda devozione alla Santa Vergine. Fin dal 1695, a quattordici anni, il ragazzo è accolto dai Frati Minori Conventuali. L'anno seguente, pronuncia i voti con il nome di Fra Francesco Antonio, nel convento di Monte Sant'Angelo. Il giovane monaco ha un temperamento vivace e ardente, temperato da un'umile riserva. Si è fatto Monaco per diventare perfetto.

Dal 1696 al 1709, Fra Francesco Antonio continua gli studi di teologia, che conclude ad Assisi, conseguendo il grado di Maestro, il che fa che venga chiamato «Padre Maestro». Il suo affetto e la sua venerazione per l'Immacolata non cessano di crescere e, nella sua umiltà, egli definisce spesso se stesso come «il peccatore dell'Immacolata», vale a dire un povero peccatore riscattato dall'intercessione di Maria Immacolata.

Per la Quaresima del 1707, Padre Fasani viene mandato improvvisamente a predicare a Palazzo, non lontano da Assisi. La sua giovane età, la sicurezza del suo sapere teologico, il calore della sua voce, l'ascetismo del viso da cui traspare una vita interiore profonda, come pure la convinzione che lo anima, provocano nel popolo entusiasmo ed edificazione. Un testimone riferisce: «Predicava con un fervore sensibile, in modo che imprimeva nell'anima degli ascoltatori le verità che annunciava... Parlava della Santa Madre di Dio con un tal trasporto di devozione, una tale tenerezza ed un'espressione del volto talmente affettuosa, che sembrava aver avuto un colloquio faccia a faccia con Lei».

Il male più grave

Tornato a Lucera, dove rimarrà per tutta la vita, predica ivi e in tutta la regione delle Puglie. La sua predicazione, basata sulla Parola di Dio, non lascia nessun posto alla fioritura retorica, tanto in onore all'epoca. Padre Fasani manifesta un orrore e un disappunto indicibile quando vede Dio offeso o quando gli si riferiscono azioni peccaminose. Quest'orrore del peccato, condiviso da tutti i Santi, non è per nulla esagerato. Sant'Ignazio di Loyola, negli Esercizi Spirituali, tante volte raccomandati dalla Chiesa, invita colui che partecipa ad un ritiro spirituale a chiedere alla Santa Vergine la grazia di conoscere intimamente i propri peccati e di concepirne orrore (n. 63). 
Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna: «Agli occhi della fede, nessun male è più grave del peccato, e niente ha conseguenze peggiori per gli stessi peccatori, per la Chiesa e per il mondo intero» (n. 1488). Infatti, per il peccatore, la conseguenza del peccato mortale (cioè del peccato commesso in materia grave, con piena coscienza e pieno consenso) significa la perdita della grazia santificante; e, se muore in tale stato, la privazione della vita eterna. San Paolo avverte di ciò i Corinti:  “O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: nè immorali, nè idolatri, nè adulteri, nè effeminati, nè sodomiti, nè ladri, nè avari, nè ubriaconi, nè maldicenti, nè rapaci erediteranno il regno di Dio” (1 Cor. 6, 9-10).

Ed a colui che si avvale della bontà di Dio per rimanere nel peccato e rassicurarsi sulla sua sorte eterna, san Paolo risponde: “O ti prendi gioco della ricchezza della bontà di Dio, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell'ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all'ingiustizia (Rom. 2, 4-8).

Dal pulpito, san Francesco Antonio si infiamma contro i vizi e gli scandali pubblici. Allora, fioccano contro di lui reazioni di sdegno e ingiurie: lo si taccia di isterico e di rozzo; ma, in fin dei conti, si va comunque a confessarsi da lui. Ogni giorno, rimane per parecchie ore nel confessionale, accogliendo persone di tutte le specie con la massima pazienza e con il volto gioioso. Le sue parole tendono ad ispirare il pentimento e la volontà di correggersi. Questo ministero finisce coll'assorbire la maggior parte del suo tempo. Grande è la sua gioia quando riesce a portare alla conversione gente dai costumi dissoluti o scandalosi, peccatori inveterati.

Maria, rifugio dei peccatori

Nella sua lotta contro il peccato, il santo ricorre a Maria Immacolata. Sottolinea che se la Madre di Dio è immacolata, è per essere il rifugio dei peccatori. La sua purezza cancella le nostre macchie e ci rende puri; il suo splendore allontana le nostre tenebre. Dopo il peccato di Adamo e Eva, Dio dice al serpente (cioè al demonio): Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno (Gen. 3, 15 [Vulgata]). I Padri della Chiesa hanno visto questa profezia compiersi nella Vergine Immacolata, nuova Eva, che ha assecondato in modo unico il divino Figlio, nuovo Adamo, nella sua lotta contro il male.

Ai peccatori che vogliono convertirsi, Padre Fasani ripete instancabilmente che Maria, nemica del peccato, è in pari tempo la Madre della misericordia e la «porta del Cielo» perchè ci invita a pregare, a frequentare i sacramenti della penitenza e dell'Eucaristia, ad ascoltare il suo divino Figlio ed a seguirLo. San Massimiliano Maria Kolbe, due secoli più tardi, giungerà fino a dire che l'Immacolata è la personificazione della misericordia divina: non aggiunge nulla alla misericordia di Dio, che passa attraverso il Sacro Cuore di Gesù; ma, conformemente alla volontà di suo Padre, Gesù vuole che la misericordia sia dispensata dalle mani di Maria.

Nell'Immacolata Concezione, san Francesco Antonio vede in primo luogo la realtà positiva, la sublimità della grazia che innalza fin dal primo istante la persona di Maria, perfettamente santificata in vista della sua missione di Madre di Dio. Mette in luce, come in contrasto con la grandezza del dono divino, l'umiltà della Vergine in quanto creatura; la sublimità le viene esclusivamente da Dio: non è una conquista della natura umana. Padre Fasani sottolinea anche che dopo quell'inizio straordinario, la vita di Nostra Signora è stata segnata da una crescita spirituale costante, in una libera corrispondenza con le grazie di Dio.

In occasione delle prediche, il santo distribuisce ampiamente, soprattutto ai bambini, immaginette della Vergine Immacolata, sul retro delle quali è iscritta una pia raccomandazione, una breve preghiera o un pensiero elevato. I frutti spirituali di tale pratica semplicissima sono numerosi. La Santa Vergine si degna di compiere guarigioni miracolose, che si producono quando i malati toccano dette immagini.


Modello dell'anima d'orazione

Le predicazioni mariali di Padre Francesco Antonio si concludono sempre con una lezione pratica: i cristiani possono e devono imitare Maria, perfettissimo modello di fedeltà al Vangelo, per giungere in sua compagnia all'intimità d'amore con Gesù e appartenerGli interamente.
Gli piace contemplare nella Madre di Dio il modello dell'anima d'orazione. La vita della Vergine Immacolata è stata un colloquio permanente con Dio. Chi più di Essa, dopo il suo divino Figlio, può insegnarci a pregare? Il santo fa notare ai suoi monaci: «Si studia Dio, si predica Dio, si discute di Dio, ma lo spirito rimane arido, senza devozione: molto sapere, e nessuna orazione».

Ma che cos'è l'orazione? A questa domanda, il Catechismo della Chiesa Cattolica risponde citando santa Teresa d'Avila: «L'orazione mentale, a mio parere, non è che un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si intrattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati». L'orazione cerca l'Amore dell'anima mia (Cantico dei Cantici 1, 7), Gesù, e, in Lui, il Padre. È anche ascolto della Parola di Dio. Lungi dall'esser passivo, questo ascolto s'identifica con l'obbedienza della fede, incondizionata accoglienza del servo e adesione piena d'amore del figlio (ved. CCC, nn. 2709-2716).

La scelta del tempo e della durata dell'orazione dipende da una volontà determinata, rivelatrice dei segreti del cuore. Non si fa orazione quando si ha tempo: si prende il tempo di essere per il Signore, con la ferma decisione di non riprenderglielo lungo il cammino, qualsiasi siano le prove e l'aridità dell'incontro. L'orazione può farsi «contemplazione», cioè sguardo di fede fissato su Gesù. «Io lo guardo ed Egli mi guarda», diceva al suo santo curato il contadino d'Ars in preghiera davanti al Tabernacolo. La luce dello sguardo di Gesù illumina gli occhi del nostro cuore che purifica; ci insegna a vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini. La contemplazione porta il suo sguardo anche sui misteri della vita di Cristo. In questo modo conduce alla conoscenza intima del Signore, per amarLo e seguirLo di più (cfr. sant'Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 104).

Difensore dei poveri

Padre Francesco Antonio pratica la virtù della povertà dormendo su un pagliericcio nella sua angusta cella, accontentandosi di poco e portando vestiti usati. La vista degli indigenti lo affligge, e nelle sue prediche insiste sulla carità nei riguardi dei poveri. Per essi, mendica denaro e vestiti. Un giorno, un mendicante seminudo gli chiede qualche vestito per coprirsi. Padre Francesco si spoglia dei suoi vestiti principali e torna in convento coperto del solo saio.

Gestisce saggiamente la «banca di credito» che ha sede nel convento ed il cui scopo è quello di proteggere i poveri contro le speculazioni degli usurai. Grazie a detto ente, può organizzare una mensa aperta quotidianamente ai bisognosi. Tutti i giorni si vede accostarcisi un'umile donna del popolo, Isabella Occhiaperti, la madre stessa di Padre Fasani. Nel paese rovinato dalle guerre, in cui i latifondisti gravano i contadini di tasse enormi, il Francescano ricorda ai ricchi il dovere di condividere i beni di questo mondo e di dare un giusto salario ai loro operai.
Oggi come ieri, la pratica della giustizia sociale è un grave obbligo per i cristiani, specialmente i più abbienti. «San Giovanni Crisostomo lo ricordava con forza ai suoi contemporanei: «Non condividere con i poveri i propri beni, è defraudarli e toglier loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo, sono dei poveri».

Bisogna adempiere innanzitutto gli obblighi di giustizia, perchè non venga offerto come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia. «Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili, non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro. Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia» (San Gregorio Magno)» (CCC, n. 2446). Tale dovere di giustizia è particolarmente grave all'epoca presente, segnata dallo «scandalo delle società opulente attuali, in cui i ricchi diventano sempre più ricchi, perchè la ricchezza produce la ricchezza, ed i poveri diventano sempre più poveri, perché la povertà tende a creare altre povertà. Questo scandalo non esiste solamente all'interno delle varie nazioni; ha dimensioni che superano ampiamente le frontiere... In realtà, è lo spirito di solidarietà che deve crescere nel mondo, per vincere l'egoismo delle persone e delle nazioni» (Giovanni Paolo II, 4 novembre 2000).

L'umiltà che fa i miracoli

Indotto a difendere la virtù di una ragazza quindicenne, senza mezzi, su cui un gentiluomo ha messo gli occhi, san Francesco Antonio la porta in un orfanatrofio, dove essa sarà educata gratuitamente. Cosa che gli procura le minacce e l'odio del gentiluomo che lo denuncia a Roma, dove deve recarsi per discolparsi. Introdotto alla presenza del Papa, non dice nulla per difendersi; ma, mentre bacia umilmente i piedi del Pontefice, questi, che soffre di gotta, si ritrova, a tale contatto, istantaneamente liberato dal suo male; è così convinto dell'innocenza del Francescano. La sua obbedienza produce anch'essa prodigi meravigliosi. Un giorno in cui predica dal pulpito, il suo vescovo, entrando nella chiesa, gli chiede, davanti a tutti, di tacere; tace immediatamente. Qualche giorno dopo, il segretario del vescovo viene a prenderlo: il Prelato, colpito da un violento malessere, reclama Padre Francesco Antonio al suo capezzale. «Inutile, risponde il santo; ha già ricevuto la guarigione da Maria Immacolata».

Il 29 novembre 1742, all'inizio di una novena preparatoria alla festa dell'Immacolata Concezione, Padre Francesco Antonio Fasani muore di spossatezza. Il 16 aprile 1986, canonizzandolo, Giovanni Paolo II sottolineava: «Predicatore instancabile, san Fasani non attenuò mai le esigenze del Messaggio evangelico nel desiderio di compiacere agli uomini». Possa egli, dall'alto del Cielo, aiutarci a ricorrere instancabilmente a Colei che, per sempre immune da ogni macchia, può liberarci da tutto il male che è in noi.
«O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a Te».

Dom Antoine Marie osb

AMDG et BVM

domenica 15 giugno 2014

Suor Maria della Trinità.




Carissimo Amico/Amica,
Santa Teresa di Lisieux, sul suo letto di morte, sente una novizia manifestare la sua tristezza di vederla tanto soffrire: «Ma no! La vita non è triste, risponde. Se voi mi diceste: «L'esilio è triste», vi comprenderei. Si fa un errore nel dare il nome di «vita» a ciò che deve finire. È solo alle cose del Cielo, a quello che non deve mai finire, che si deve dare questo vero nome e, intesa così, la vita non è triste ma lieta, molto lieta!» Questa novizia si chiamava Suor Maria della Trinità.

Nata a Saint-Pierre-sur-Dives in Normandia il 12 agosto 1874, Marie-Louise Castel viene battezzata l'indomani. I suoi genitori, i suoi fratelli e le sue sorelle la circondano di un grande affetto. È la tredicesima di una famiglia di cui otto figli sono già morti in tenera età. La famiglia vedrà fiorire quattro vocazioni religiose. Suo padre, maestro statale, non ha accettato le leggi del 1882 sulla laicizzazione delle scuole, e mantiene per i suoi allievi la pia consuetudine della preghiera del mattino. Questo atteggiamento coraggioso spiace all'Amministrazione. Il signor Castel, costretto a rassegnare le dimissioni, si stabilisce a Parigi. La famiglia ama pregare la Santissima Vergine guardando l'immagine della Madonna del Perpetuo Soccorso. I genitori di Maria Luisa professano anche una grande devozione per il Santo Volto di Nostro Signore. Maria Luisa sente molto presto la chiamata alla vita consacrata. All'età di 12 anni, scopre una preghiera «Per chiedere la luce sulla propria vocazione»; la recita per nove giorni di seguito. Alla fine della novena, pregando davanti al Santo Volto, riceve un'ispirazione che traduce così: «Come devono essere felici le Carmelitane! Sarò Carmelitana!»


Il buon Dio mi chiama e io vengo!


Il desiderio del Carmelo si rafforza nella sua anima, senza nulla togliere alla sua natura molto spontanea. All'insaputa dei genitori, gira per i negozi, le attrazioni, le fiere. Al «tiro al fantoccio», si diverte, «per devozione», a prendere come bersaglio le sagome di preti o di religiose! Non volendo aspettare il momento di entrare in Carmelo per consacrarsi a Dio, fa voto di verginità prima di compiere i 16 anni. Pochi giorni dopo questo voto, apprende dal suo confessore che la Priora del Carmelo della Riparazione e del Volto Santo (avenue de Messine, a Parigi) l'accetta per un ritiro di otto giorni. Quando quest'ultima le chiede di esprimere per iscritto i motivi che l'attirano verso il Carmelo, Maria Luisa traccia queste poche righe: «Voi mi chiedete, mia Reverenda Madre, le ragioni che mi fanno desiderare il Carmelo. A dire il vero, non so che una cosa: il Buon Dio mi chiama e io vengo. Egli ha sofferto fino a morire per amore per me; anch'io voglio soffrire per amore per Lui». La Priora le risponde: «L'inizio della vostra lettera mi ha dato la certezza della vostra vocazione». Qualche mese dopo, il 30 aprile 1891, la ragazza entra nel Carmelo e riceve il nome di Suor Agnese di Gesù. Sfortunatamente, la sua salute si deteriora e l'8 luglio 1893, deve ritornare «nel mondo».
Il 22 luglio seguente, Maria Luisa viene a cercare conforto al Carmelo di Lisieux. Viene ricevuta in parlatorio dalla nuova Priora, Madre Agnese di Gesù, sorella di santa Teresa del Bambino Gesù. Di ritorno a Parigi, Maria Luisa apprende che non può ritornare al Carmelo dell'avenue de Messine prima di aver compiuto 21 anni. La Priora, vedendo il suo dolore, le consiglia di chiedere la sua ammissione al Carmelo di Lisieux: «L'aria natale vi sarà più favorevole di quella di Parigi». Maria Luisa entra quindi al Carmelo di Lisieux il 16 giugno 1894, non senza aver fatto un ultimo giro in giostra alla fiera! Conserverà per tutta la vita l'impronta della sua gioventù parigina un po' monella. Il suo viso rotondo rimane talmente infantile che Suor Teresa la chiamerà «la sua bambolina», un soprannome che esprime bene l'affetto che Teresa nutre per lei; quest'ultima, allora giovane Professa di 20 anni, è in effetti incaricata di iniziarla alla vita del Carmelo. Maria Luisa riceve il nome di Suor Maria Agnese del Volto Santo. Essendo la più giovane novizia di Teresa, beneficia dei suoi numerosi consigli e diventa rapidamente sua fervente discepola. Tuttavia, dà molto lavoro a Teresa, che la tratta senza tanti riguardi e non lascia correre nessun suo capriccio. L'insuccesso della giovane Suora in un altro Carmelo e i suoi modi da piccola Parigina non le attirano le simpatie delle Suore anziane. Lungi dal tenere gli occhi bassi, come lo chiede il regolamento del Carmelo, ama curiosare un po' dappertutto. Teresa le fa notare che il suo sguardo assomiglia troppo a quello di un «coniglio selvatico». Tuttavia, la presenza nel noviziato di questo «monello parigino» ne ringiovanisce l'atmosfera.

Grazie ai suoi progressi giudicati sufficienti, la postulante può rivestire nuovamente l'abito del Carmelo, il 18 dicembre 1894. Suor Maria Agnese è ancora lontana dalla perfezione. Le osservazioni non le mancano! Un giorno, scoraggiata, se ne va a confidare a Teresa: «Non ho la vocazione!» Teresa si contenta di riderne, e Suor Maria Agnese ride anche lei di cuore. Per aiutarla a correggersi dall'abitudine di piangere per un nonnulla, Suor Teresa utilizza un metodo originale: «Prendendo sul suo tavolo un guscio di cozza, racconterà la giovane Suora in seguito, mi teneva le mani per impedirmi di asciugarmi gli occhi. Poi si mise a raccogliere le mie lacrime in questa conchiglia: i miei pianti si trasformarono ben presto in un riso gioioso». E Teresa aggiunge: «Ormai, vi permetto di piangere quanto vorrete, purché sia nella conchiglia!» Teresa le insegna così l'arte di essere felice e di sorridere in ogni circostanza: «Il viso è il riflesso dell'anima, dice, deve sempre essere calmo, come quello di un bambino sempre contento, anche quando siete sola, perché siete costantemente sotto gli occhi di Dio e degli angeli « Gesù ama i cuori gioiosi, Egli ama un'anima sempre sorridente».


L'unico fine: far piacere a Lui


La professione di Suor Maria Agnese dovrebbe aver luogo verso la fine dell'anno 1895. Tuttavia, Madre Maria di Gonzaga, Maestra titolare del noviziato, ritiene che non sia sufficientemente preparata, e la cerimonia viene rimandata al 30 aprile 1896. Teresa propone allora alla novizia di pronunciare senza attendere «l'Atto di offerta all'Amore Misericordioso», cosa che lei fa con fervore il 1° dicembre 1895: «Fui, dirà, talmente inondata di grazie che tutta la giornata provai in maniera sensibile la presenza di Gesù-Ostia nel mio cuore». Questo «Atto di Offerta», composto da Teresa, vorrebbe compensare il Buon Dio del rifiuto che le creature oppongono al suo Amore e incoraggiare a lavorare con l'unico scopo di far piacere a Lui. Eccone il passo essenziale: «Per vivere in un atto di perfetto Amore, mi offro vittima d'olocausto al Vostro Amore Misericordioso, supplicandovi di consumarmi senza sosta, lasciando traboccare nella mia anima i flutti di tenerezza infinita racchiusi in Voi, e che io possa così divenire Martire del Vostro Amore, mio Dio! Questo martirio, dopo avermi preparata a comparire dinanzi a Voi, mi faccia infine morire, e la mia anima si slanci senza indugio nell'eterno abbraccio del Vostro Amore Misericordioso« Voglio, mio Amato, ad ogni battito del mio cuore, rinnovarvi questa offerta un numero infinito di volte, fino a che, svanite le ombre, possa dirvi di nuovo il mio Amore in un Faccia a Faccia eterno!» Consolare Gesù e nello stesso tempo salvare le anime, questa è la grande motivazione che infiamma il cuore di Teresa; lo insegna alle sue discepole. Il giorno della sua propria professione (cioè dell'emissione dei suoi voti religiosi), l'8 settembre 1890, aveva scritto una preghiera molto intima in cui rivela il suo pensiero profondo: « Gesù, fa' che io salvi molte anime, che oggi non ve ne sia una sola dannata e che tutte le anime del purgatorio siano salvate«» Già il 14 luglio 1889, scriveva a sua sorella Celina, ancora nel mondo: «Celina, durante i brevi istanti che ci restano, non perdiamo il nostro tempo« salviamo le anime« le anime si perdono come fiocchi di neve e Gesù piange«»


«Voi siete amata dal Buon Dio»


Due mesi prima della professione di Suor Maria Agnese, le sue superiore decidono che si chiamerà d'ora innanzi Suor Maria della Trinità e del Volto Santo, per evitare qualsiasi confusione tra il suo nome e quello di Madre Agnese, allora Priora. Il 30 aprile 1896, pronuncia finalmente i suoi voti. «Quella giornata, scrive, fu più del Cielo che della terra« Suor Teresa del Bambino Gesù sembrava felice quanto me». Suor Teresa le dirà: «Ah! trascorrete la vostra vita nella riconoscenza, perché siete particolarmente amata dal Buon Dio».
Nel corso dell'anno 1897, lo stato di Suor Teresa, affetta da tubercolosi, peggiora; si teme il contagio, e la Priora decide che Suor Maria della Trinità non avvicinerà più la malata. Teresa scrive qualche breve messaggio alla sua novizia per aiutarla ad accettare questa decisione: «Comprendo molto bene il vostro dolore di non potermi più parlare, ma siate sicura che soffro anch'io della mia impotenza e che mai ho così ben sentito che occupate un posto immenso nel mio cuore» Il 30 settembre, Suor Maria della Trinità sarà testimone, con la sua comunità, degli ultimi istanti di santa Teresa e del suo bello e lungo sguardo estatico nel momento in cui «entra nella Vita». Dopo la canonizzazione di Suor Teresa nel 1925, Suor Maria della Trinità scriverà: «Credo proprio che sia la prima volta che si canonizza una Santa che non ha fatto nulla di straordinario: né estasi, né rivelazioni, né mortificazioni che spaventano le piccole anime come le nostre. Tutta la sua vita si riassume in un'unica parola: ha amato il Buon Dio in tutte le piccole azioni ordinarie della vita comune, compiendole con una grande fedeltà. Aveva sempre una grande serenità d'anima nella sofferenza come nella gioia, perché prendeva ogni cosa come proveniente da Dio».

La vita del monastero continua, con gli uffici nel coro, le due ore quotidiane di orazione e le attività domestiche. Tuttavia, Teresa ha lasciato una profonda impronta sulla piccola comunità, e in particolare in Suor Maria della Trinità che trova nel ricordo della Santa uno stimolo per la sua vita spirituale. D'altronde, avrà sempre l'impressione che Suor Teresa del Bambino Gesù l'accompagni lungo il suo pellegrinaggio sulla terra. Questa presenza la incoraggia di fronte alla voluminosa corrispondenza che affluisce al Carmelo a partire dalla pubblicazione della Storia di un'anima, l'autobiografia di Teresa. Suor Maria della Trinità si trova in effetti ad essere molto occupata da questa corrispondenza, che, da venticinque lettere al giorno nel 1909, raggiungerà il migliaio al momento della canonizzazione di Santa Teresina nel 1925.

Il 10 marzo 1926, scrive a Madre Agnese: «Ho voglia di amare il Buon Dio come l'ha amato la nostra Teresina, di essere come lei la gioia del suo Cuore!» Molto abile, Maria della Trinità lavora nel laboratorio di rilegatura e alla cottura delle ostie. Cambiare attività costituisce il suo modo di rilassarsi. Scrive molto: una concordanza dei quattro Vangeli, estratti dell'Antico Testamento, diversi episodi di vite di Santi. La sua allegria contagiosa non si altera. Ama sottolineare l'indulgenza e la bontà di Madre Agnese, la sua Priora: «Vi trovo così misericordiosa, le scrive, che mi sembra che il Buon Dio non possa esserlo di più!» Per fare orazione, le basta abitualmente ricordarsi le parole e gli esempi di colei che aveva avuto la grazia di avvicinare: «I miei ricordi su Teresa, scrive, mi bastano per le mie preghiere e so che Dio non chiede altra cosa da me che camminare nella «Piccola Via» dove lei ha guidato i miei primi passi. Tutta la mia opera consiste nel non allontanarmene, perché« occorre un'attenzione costante per dimorarvi. Ma, quando vi ci si trova, che pace!»


«Dal momento che li si riconosce»


Nella sua «Piccola Via», destinata alle anime che hanno il desiderio di servire il Signore e di fare la volontà divina, Teresa propone questo insegnamento essenziale: non lamentarsi delle proprie debolezze, ma piuttosto precipitarsi nelle braccia di Gesù per lasciarsi purificare dalla sua infinita misericordia. Suor Maria della Trinità ha raccolto la lezione; si apre al riguardo, il 2 novembre 1914 con Madre Agnese: «Non sento che la mia miseria e la mia impotenza, non vedo che tenebre, e, nonostante tutto, resto in una pace ineffabile. Gesù dorme, Maria anche; non cerco di svegliarli e, come Teresa, attendo in pace la riva dei cieli». E a un'altra suora: «Ah! se voi viveste con me, come sareste incoraggiata a constatare che siamo assolutamente uguali con tutti i nostri piccoli difetti. Dico «piccoli» perché, dal momento che li si riconosce e che si ha il desiderio di correggersene, non sono profondi e non danno dispiacere a Gesù, perché ci servono piuttosto come gradino per arrivare a Lui attraverso la sofferenza e l'umiliazione. Un Santo è colui che si rialza sempre. Non so più chi ha detto questa parola, ma rialzarsi sempre suppone che si cada sempre!»

Nel febbraio 1923, Suor Maria della Trinità contrae una polmonite. Poco dopo, le appare sulla testa una macchia: è un doloroso «lupus» che le invade progressivamente tutto il viso e le conferisce una fisionomia da lebbrosa. Lungi dal rattristarsene, è felice di riprodurre sul suo viso il Santo Volto di Gesù nella sua Passione, che ha contemplato meditando il profeta Isaia: « molti si stupirono di lui - tanto era sfigurato per essere d'uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell'uomo« Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti.


«Il mio corpo, sei tu!»


Fin da quando era molto giovane, Maria della Trinità ha preso l'abitudine di contemplare il Volto sfigurato del Signore. Un giorno, si è detta contemplando il Santo Volto: «La santa Immagine è la testa del Cristo, ma dov'è il suo corpo?» E il Signore sembra risponderle: «Il mio corpo, sei tu!» «Sì, scrive il 3 aprile 1910, siamo noi le membra di questo Capo adorabile, e come stupirci allora di essere nella sofferenza, nel disprezzo e nell'umiliazione?» È pronta quindi a portare questa croce con amore per Colui che ama al di sopra di tutto. Comprende sempre meglio che le sue ferite, unite a quelle del Salvatore, sono sorgenti di grazie per le anime. 
A questo proposito, dice a Madre Agnese, il 24 aprile 1934: «Questa parola del profeta: «Il Signore non ferisce che per guarire» mi fa molto bene, quando penso al mio lupus; sì, tutte le nostre ferite fisiche o morali, unite a quelle di Gesù, servono a guarire le anime, e quale grazia essere così associate alla sua Redenzione». Tuttavia, le medicazioni diventano lunghe e penose: occorrono due ore ogni mattina per rifarle. «Il mio «lupo», dice, mi divora la testa giorno e notte. Quanti atti di abbandono e di amore continui mi fa fare!» Un giorno, si rimprovera di non assomigliare abbastanza a Teresa nel suo amore per la sofferenza. La prega di ottenerle questo amore. L'indomani, 6 agosto 1940, nella Messa della Trasfigurazione, giorno in cui si era presa l'abitudine al Carmelo di festeggiare il Santo Volto, comprende che questo desiderio la fa uscire dalla «Piccola Via» e che è meglio accettare di essere sempre «povera e senza forza»: «Si può forse chiedere a un bambino piccolo di amare la sofferenza? Piange, è infelice, mentre soffre« Il Buon Dio è contento di sentirci dire con Gesù: «Padre, allontana da me questo calice», perché sa che, comunque, ci abbandoniamo alla sua volontà!» Per soffrire «come si deve», basta soffrire in un atteggiamento di «piccolezza», come Gesù nel Getsèmani. Ed è questo che dà la pace dell'anima. Questa pace trova la sua sorgente nella certezza che il Signore dona la sua forza giorno per giorno. 

La malata ne ha fatto un giorno l'esperienza molto concreta: «Sabato, dopo la seduta del dottore, il Buon Dio mi ha fatto sentire profondamente che è Lui che mi sosteneva, mentre subivo l'ignipuntura. Pensavo con tenerezza che era la sua mano divina che guidava quella del medico e che Egli misurava l'intensità del dolore in base alla forza che mi dava per sopportarlo«»

Sempre più curva, Suor Maria della Trinità non si separa ormai più dal suo bastone. Nonostante questi sintomi prematuri di vecchiaia, i suoi discorsi mantengono sempre un tono giocoso, anche quando sono molto profondi, come questo biglietto del 6 giugno 1939: «Mio Dio, se dovessi esservi un po' meno gradita senza il mio lupus, preferisco molto conservarlo per esservi completamente gradita». Il 21 luglio 1941, scrive al padre Marie-Bernard della Grande Trappa: «Il Buon Dio mi fa la grazia di non temere il futuro: mi abbandono a Lui come un bambino al migliore dei padri che fa tutto per il meglio. La mia grande consolazione è guardare il Volto doloroso di Gesù e constatare qualche tratto di somiglianza con esso. Suor Teresa del Bambino Gesù amava spesso ricordarmi queste parole di Isaia: Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi« era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima, ecc. Mi stupivo allora della sua insistenza nel ritornare sempre sullo stesso argomento. Adesso, credo veramente che il Buon Dio la ispirasse a dirmi queste cose che mi avrebbero fatto tanto bene in seguito». Un Religioso carmelitano, che l'ha incontrata nel 1940, traccia di lei questo ritratto pittoresco: «Aveva allora più di 65 anni, ma li portava valorosamente nonostante il lupus di cui soffriva su metà del viso. Mi diede un'impressione di santità e di semplicità che non ho dimenticato. Mi parlò di santa Teresa con una venerazione affettuosa e rispettosa di cui sono ancora commosso».
Come può, segue le attività della comunità, assicurando il suo turno di lettura in refettorio e recandosi all'ufficio corale appoggiata sul suo inseparabile bastone. Quando non può seguire l'ufficio delle Vigilie, ricupera il giorno dopo arrivando per prima all'orazione. Ormai, la sua salute declina inesorabilmente. Riceve gli ultimi sacramenti il 15 gennaio 1944, dicendo: «Mite e umile Gesù». Nella notte tra il 15 e il 16 gennaio, si sentono le sue ultime parole: «In Cielo, seguirò ovunque Teresina». Dopo una breve agonia, spira il 16 gennaio, festa di Nostra Signora delle Vittorie, alle undici del mattino.


Cooperatori privilegiati


Suor Maria della Trinità è per tutti una guida sul cammino dell'infanzia spirituale. Ci aiuta a cogliere il valore delle sofferenze unite umilmente a quelle del Salvatore, secondo l'insegnamento che il papa Giovanni Paolo II dava qualche settimana prima della sua morte, mentre portava egli stesso il peso della sofferenza e dell'età: 
«Cari malati, se alle sofferenze di Cristo morente sulla croce per salvarci unite le vostre pene, potete essere suoi privilegiati cooperatori nella salvezza delle anime. È questo il vostro compito nella Chiesa, la quale è sempre ben consapevole del ruolo e del valore della malattia illuminata dalla fede. Non è pertanto mai inutile la vostra sofferenza, cari ammalati! Anzi, essa è preziosa, perché è condivisione misteriosa ma reale della stessa missione salvifica del Figlio di Dio... Per questo il Papa conta tanto sul valore delle vostre preghiere e delle vostre sofferenze: offritele per la Chiesa e per il mondo» (Messaggio ai malati, 11 febbraio 2005)

E due giorni dopo, Giovanni Paolo II aggiungeva: «Non si entra nella vita eterna senza portare la nostra croce in unione con Cristo. Non si giunge alla felicità e alla pace senza affrontare con coraggio il combattimento interiore. È un combattimento che si vince con le armi della penitenza: la preghiera, il digiuno e le opere di misericordia«» (Angelus della I Domenica di Quaresima, 13 febbraio 2005).

Chiediamo a Suor Maria della Trinità di ottenerci la sua docilità nei confronti della Volontà divina nelle piccole cose di ogni giorno, per consolare il Cuore di Gesù e conquistargli numerose anime.



AMDG et BVM

Martirologio romano

Martirologio romano


15 Giugno

Presso il fiume Sele, nella Lucania, il natale dei santi Martiri VitoModesto e Crescenzia, i quali, sotto l'Imperatore Diocleziano, là condotti dalla Sicilia, dopo aver superato per divina virtù la caldaia di piombo bollente, le fiere ed il rogo, compirono il corso del loro glorioso combattimento.
A Dorostoro, nella Misia inferiore, sant'Esichio soldato, il quale, preso insieme al beato Giulio, dopo di lui, sotto il Preside Massimo, fu coronato col martirio.
A Zefirio, nella Cilicia, san Dula Martire, il quale, sotto il Preside Massimo, per il nome di Cristo, battuto colle verghe, posto sulla graticola, arso con olio bollente, e afflitto con altri tormenti, ricevette vincitore la palma del martirio.
A Cordova, nella Spagna, santa Benilde Martire.
A Sibapoli, nella Mesopotamia, le sante Vergini e Martiri Libe e Leonide sorelle, ed Eutropia, fanciulla di dodici anni, le quali per mezzo di diversi tormenti giunsero alla corona del martirio.
Presso Valenciennes, in Francia, la deposizione di san Landelino Abate.
Ad Auvergne, in Francia, sant'Abramo Confessore, illustre per santità e per miracoli.
A Pibrac, nella diocesi di Tolosa, santa Germana Cousin Vergine. Addetta alla custodia del gregge, visse umile e povera, e passò allo Sposo dopo aver tollerato molti stenti con somma pazienza. Dopo la morte risplendette per moltissimi miracoli, e dal Sommo Pontefice Pio nono fu ascritta nel numero delle sante Vergini.

sabato 14 giugno 2014

L'orazione in Cassiano

II - Le parole dell'abate Isacco sulla natura della preghiera

«Tutta la finalità del monaco e la perfezione del suo cuore tendono alla continua e ininterrotta perseveranza della preghiera e, in più, per quanto è concesso alla fragilità dell'uomo, all'immobile tranquillità della mente e ad una perseverante purezza, per effetto della quale noi andiamo in cerca instancabilmente ed esercitiamo continuamente non soltanto la fatica del corpo, ma anche la contrizione dello spirito. Esiste fra l'una e l'altra certo quale reciproco e inseparabile legame. E di fatto, come l'ordinamento di tutte le virtù tende alla perfezione della preghiera, così pure, se tutte queste esigenze non saranno fra loro congiunte e aggregate dal complemento della preghiera, non potranno certo perdurare ferme e stabili. Infatti, come senza tali requisiti non sarà possibile acquistare e assicurare una perenne e costante tranquillità di quella preghiera, di cui stiamo parlando, così pure quelle virtù che predispongono alla preghiera non potranno essere assicurate senza l'assiduità dell'orazione. E allora noi non potremo, con un discorso improvvisato, né trattare convenientemente dell'effetto della preghiera né introdurci nel suo fine principale, che si raggiunge con la costruzione di tutte le virtù, se prima, in vista del suo raggiungimento, non richiameremo ed esamineremo ordinatamente quegli elementi che occorre eliminare oppure disporre, e, in più, secondo il contesto del brano evangelico a, non saranno discussi e diligentemente aggregati i coefficienti che contribuiscono alla costruzione di quella spirituale e altissima torre. E tuttavia tali elementi né gioveranno, anche se preparati, né potranno essere sovrapposti l'uno all'altro per raggiungere opportunamente la sommità della perfezione, se prima, una volta effettuata la ripulitura dei vizi e rimossi i grossi e morti ruderi delle passioni, non verranno gettati sopra la terra viva e solida del nostro cuore, come si usa dire, anzi, sulla pietra evangelica, i fondamenti della semplicità e dell'umiltà; è con tali criteri di costruzione che si dovrà edificare la torre delle virtù spirituali al punto da venire immobilmente assicurati fino ad essere elevati con la fiducia d'una propria fermezza ai sommi fastigi dei cieli. Colui che si appoggerà su tali fondamenti, anche se cadranno scrosci di pioggia rovinosa, anche se irromperanno violenti rovesci di persecuzione alla maniera di colpi d'ariete, anche se si scatenerà la terribile tempesta degli spiriti nemici, non solo non lo colpirà alcuna rovina, ma quell'urto non riuscirà in alcun modo a smuoverlo dalla sua fermezza.


III - In che modo si raggiunge una preghiera pura e semplice

Ne segue allora che, affinché la preghiera possa riuscire coltivata con quel fervore e quella purezza, con la quale deve essere condotta, debbono essere osservate in tutti i modi le norme seguenti. Anzitutto dev'essere bandita nel modo più completo la sollecitudine provocata dalle tendenze carnali, in secondo luogo non si deve ammettere alcuna preoccupazione di qualche affare o di qualche altro stimolo, ma neppure, e del tutto, il loro ricordo. Nel modo stesso vanno eliminate le detrazioni, i vani colloqui o quelli prolungati, come pure le scurrilità. In modo completo dev'essere rimosso l'insorgere dell'ira e della tristezza, così come dev'essere estirpato il dannoso fomite della concupiscenza carnale e della brama del danaro. E allora, una volta distrutti ed eliminati tutti questi e simili vizi, i quali possono apparire perfino agli occhi degli uomini, e assicurata, come già abbiamo detto, una tale epurazione purificatrice, la quale si ottiene attraverso una purezza fatta di semplicità e di innocenza, occorrerà gettare anzitutto i fondamenti inconcussi d'una profonda umiltà, i quali, ovviamente, siano in grado di sostenere quella torre che si eleva fino al cielo; in secondo luogo occorre aggiungere la costruzione spirituale delle virtù e impedire all'animo ogni distrazione e divagazione lubrica, in modo che a poco a poco l'animo stesso cominci ad elevarsi alla contemplazione di Dio e alla visione delle realtà spirituali. Tutto quello infatti che l'animo nostro ha concepito prima dell'ora dell'orazione, necessariamente ritornerà a farsi presente attraverso la suggestione della memoria, allorché noi ci metteremo a pregare. Perché, quali noi ci ripromettiamo di essere trovati durante la nostra orazione, tali dobbiamo disporci ad essere prima del tempo destinato alla preghiera.Nell'applicarci all'orazione la mente si ritrova nello stato in cui s'era precedentemente atteggiata: quindi, nel disporsi a pregare, ecco affacciarsi ai nostri occhi l'immagine del nostro abituale comportamento e perfino il ricordo delle parole e le impressioni dei nostri sentimenti, ed eccoci allora inclini, secondo le nostre disposizioni, alla irascibilità o alla tristezza, a risentire in noi i motivi della passata concupiscenza o della grottesca risibilità nel parlare, di cui c'è perfino vergogna a parlare, come pure il facile ricorso a precedenti discorsi. E allora, prima di metterci a pregare, procuriamo di escludere con sollecitudine, dall'intimità del nostro cuore, quanto non vorremmo vi entrasse, appunto per poter adempiere quello che ci è stato suggerito dall'Apostolo: "Pregate senza interruzione", e ancora: "(Voglio che gli uomini preghino) ovunque si trovino, alzando al cielo mani pure, senza ira e senza contese". Noi non saremo in grado di aderire a questi suggerimenti, se la nostra anima, purificata da ogni contagio dei vizi e dedita unicamente alle virtù come a dei beni ad essa connaturali, non si nutrirà della continua contemplazione di Dio onnipotente.


IV- Mobilità dellanima, che vien paragonata ad una piuma

La natura dell’anima si può paragonare opportunamente ad una lanugine o ad una piuma leggera. Se l’umidità che sopraggiunge dall’esterno non corrompe e non penetra la piuma, essa, per la leggerezza della sua natura, con l’aiuto di un minimo soffio di vento, si leva verso le altezze del cielo. Ma se è appesantita e penetrata da qualche liquido, non solo non sarà più rapita dalla sua naturale leggerezza ai voli per l’aria, ma sarà precipitata, dal peso del liquido assorbito, verso la bassezza della terra.
La stessa cosa avviene per l’anima nostra. Se i vizi e le preoccupazioni mondane non l’appesantiscono, se l’umore della libidine non la corrompe, essa, sollevata dal privilegio naturale della purezza, si innalzerà verso le altezze, al più leggero soffio della meditazione spirituale, e, lasciando le cose basse della terra, volerà a quelle invisibili del cielo. Perciò noi siamo assai opportunamente ammoniti dal Signore nel Vangelo con questo comando: « Badate a voi stessi, perché i vostri cuori non si aggravino per crapula, o per ubriachezza, o per le preoccupazioni della vita ». Se dunque vogliamo che le nostre preghiere penetrino i cieli e li travalichino dobbiamo liberare l’anima nostra da ogni vizio terreno, mondarla dalle sozzure delle passioni, ridurla alla sua naturale imponderabilità. Allora la sua preghiera, non più gravata dal peso dei vizi, salirà fino a Dio.

Un modello

...un modello per i sacerdoti: padre Smith, il protagonista di un romanzo di Bruce Marshall. Marshall è uno di quegli scrittori cattolici del Novecento che, molto spesso, hanno messo al centro della loro opera narrativa un sacerdote. Un po’ come padre Brown per Chesterton o don Camillo per Guareschi. Non ho mai compreso davvero il perché di questa scelta, ma è un fatto che gli scrittori contemporanei abbiano riflettuto sulla figura sacerdotale, mettendo in luce non solo la bellezza di questo ministero, ma anche l’umanità dei preti. Un’umanità sovrannaturale.

Padre Smith, dicevamo, è un sacerdote cattolico che si trova, nell’anno del Signore 1908, a dirigere una delle più sgangherate comunità della Scozia. Dice Messa al mercato della frutta, affittato dai cattolici la domenica «perché si potesse offrire il santo sacrificio della messa e Cristo potesse venire ancora, traversando il mattino, nel sacramento bianco e rapido del suo amore». Pensateci bene: un mercato comunale, i cui muri erano «spesso coperti di scritte oscene», non è forse peggio di tante chiese contemporanee? Forse è perfino peggio della chiesa di Foligno progettata da Fuksas. E il canto? Spesso rimaniamo inorriditi dai cori delle parrocchie e abbiamo ragione. Ma anche il coro di padre Smith, proprio come spesso accadeva nelle parrocchie preconciliari, non era un granché: «al solito, fra il canto e la pronunzia non si sapeva quale fosse peggio, ma il padre Smith era sicuro che Dio le avrebbe accolte con orecchio benevolo, perché ciascuna di quelle note stonate voleva essere una lode, cosa che non sempre si poteva dire dei trilli delle soprano stipendiate di Milano, di Siviglia e di Vienna».

Padre Smith ha un sogno: costruire una chiesa come Dio comanda. Una chiesa vera, con l’organo, gli altari laterali, una sagrestia dove raccogliere degnamente i paramenti da usare per il Santo Sacrificio. Lo desidera, ma sa che questo non è l’essenziale. Sa che Cristo è presente anche lì, al mercato ortofrutticolo. Anche tra i muri coperti di scritte oscene: «è difficile, forse, per noi, qui in questo mercato scalcinato e rugginoso, in questa povera Scozia separata, renderci conto che, nella fede e nella dottrina, siamo uniti con le grandi accolte di fedeli di tutte le cattedrali d’Europa. Né il vescovo di Chartres, né il cardinale di Burgos o quello di Varsavia e neanche, mie cari fratelli, il Sommo Pontefice in persona, consacrano il pane e il vino, trasformandoli nel Corpo e nel Sangue di Cristo, più sicuramente di me, vostro indegno parroco».

Ma la fede non muore sotto le bombe.

Come molto spesso accade nei romanzi di Marshall, la guerra entra violenta nella narrazione e, così, padre Smith è costretto a partire per il fronte. Anche in questa occasione, il sacerdote scozzese confessa e dice messa come può, usando una cassa da imballaggio sulla quale posa una pietra consacrata portatile, due candele e un crocifisso. Nulla di più. Ciò che conta è l’essenziale: il Protagonista inchiodato alla Croce.Dice messa e spera che da quella inutile strage possa un giorno germogliare il bene. Alza a Dio una delle più belle preghiere che abbia mai letto: «O mio Dio, fa’ che da questa guerra esca qualcosa di buono; rendi gli uomini coraggiosi nel tuo servizio come lo sono nel servizio della patria; rendi le donne più modeste ma non meno belle; modella la loro verginità su quella della tua Santa Madre e poni i loro piedi nelle orme di lei; calma i giovani onde possano contemplarti; benedici e moltiplica i sacerdoti e i poeti; sradica dai nostri cuori la vanagloria e l’amore del proprio comodo e del piacere; confondi la ricchezza e distruggi la politica; e manda giù la tua grazia a fiumi».

Terminata la prima guerra mondiale, le cose procedono esattamente come prima. La fede però non era aumentata in Scozia. Anzi: gli uomini sembravano allontanarsi sempre di più dal buon Dio. Nel frattempo, in Italia era andato al potere Mussolini, in Russia l’ideologia comunista cominciava a produrre effetti nefasti e, in Germania, Hitler si stava preparando alla guerra.

Scoppia così il secondo conflitto mondiale e, proprio «due giorni prima della data fissata per la consacrazione della chiesa del SS. Nome», quella chiesa tanto desiderata da padre Smith, si sentono fischiare le sirene nel cuore della notte. Padre Smith entra in chiesa, prega e accende le due candele per la messa piana. Durante la celebrazione della messa, una bomba incendiaria sfonda il tetto della chiesa e padre Smith si precipita ad indossare una stola per portar via il Santissimo dall’altar maggiore. Non teme di esser bruciato vivo, padre Smith. Si carica del dolce peso del Santissimo e si dirige verso la cappella delle suore. Qui, il sacerdote sviene. La purificazione era passata attraverso le fiamme vive delle bombe e padre Smith si avvia verso il Calvario, dove, però, nulla è un peso. Anche l’estrema unzione gli pare bella, «poiché in fondo era questo, la morte: un render chiare le cose, un folgorare di luce di dietro gli apparecchi da bombardamento e le reclames di sciroppo di fichi».

La chiesa desiderata era stata rasa al suolo. Le ultime parole di padre Smith sono rivolte al cappellano polacco: «si ricordi d’avvertire che domenica la messa sarà nel mercato della frutta». Si sarebbe ricominciato da lì: dai muri imbrattati di scritte oscene e dal coro sgangherato. Niente era cambiato: la Fede avrebbe continuato a vivere. Non sotto preziose navate, ma nei cuori dei credenti. In fondo, padre Smith non aveva fatto altro che fissare gli occhi sull’Essenziale. Ed è fissando l’Essenziale che dobbiamo ricominciare anche noi.