mercoledì 5 marzo 2014

Il cavallo rosso

Fuori dall’orizzonte della fede, è difficile comprendere la sua arte e più ancora è difficile afferrare la bellezza concreta della sua pagina.
di Alessandro GnocchiMario Palmaro
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corti-eugenio-jpeg-crop_displaySi andava a Besana Brianza da Eugenio Corti perché lui sapeva raccontare proprio come sapeva scrivere. Le storie della ritirata di Russia e le cronache da un mondo cattolico smarrito dietro alle sirene del mondo, i quadri luminosi della cristianità medievale e le oscurità abissali del comunismo prima e dopo Stalin, prima e dopo la caduta del muro di Berlino. Era impossibile stancarsi al cospetto di un uomo capace di attraversare il secolo che ha negato Dio armato della sola fede cattolica. Perché era proprio questo che, ogni volta, ti si fermava tra le mani. Lo stesso regalo avvolto nelle pagine di gioielli come “Il Cavallo Rosso”, “Gli ultimi soldati del re”, “I più non ritornano”, “Processo e morte di Stalin”, “Il fumo nel tempio” e gli altri tasselli della sua bibliografia. Corti dava un volto alla bellezza e alla precisione della fede cattolica, alla sua efficacia nella vita di tutti i giorni, dentro uno studio di una casa padronale della Brianza e nella radura ghiacciata e bestiale della campagna di Russia.

“Ho salvato la fede perché senza la fede non si vive” diceva per spiegare come fosse uscito indenne dall’inferno della seconda guerra mondiale. La fede è quanto di più concreto vi sia in tutta la sua opera. Tanto che, seduti nel salotto di casa sua, veniva fatto di guardarsi attorno per capire dove questo reduce dalle battaglie con il secolo ateo avesse posato quella corazza così solida

Fuori dall’orizzonte della fede, è difficile comprendere la sua arte e più ancora è difficile afferrare la bellezza concreta della sua pagina. “Don Romano” scrive negli “Ultimi soldati del re” “cappellano del reggimento, venne da noi a celebrare la Messa. (…) Sull’altare pochi lini rigidi, e due candele con le fiammelle in permanenza orizzontali per lo spirar dell’aria. In noi che assistevamo, il pacifico senso, come sempre, dell’incommensurabile grandezza di ciò che si compiva in quel campo di stoppie, tra la terra e il cielo, e la semplicità del luogo, e di quei quattro lini, e del povero calice. (…)  Si trattava però dell’ultima Messa del nostro cappellano, che in giornata sarebbe stato straziato a morte. Non poteva saperlo, e nessuno si rendeva conto di quanto fosse simile a Cristo che nelle sue mani si sacrificava sull’altare: era simile all’inconscio Agnello, mansueto e parato d’oro, che sta per essere sacrificato”.

Questo delicato miracolo letterario non è realismo, non è verismo, non è neorealismo, non è strutturalismo, non è frutto di nessuna scuola. E’ la rara capacità di dare la stessa quantità di attenzione alle cose del visibile e alle cose dell’invisibile, è fede che diventa scrittura, racconto e, in certi momenti, migra nella poesia. E’ capacità di discernere in quel gran repertorio di destini che è la vita, di narrare le esistenze e portarle a buon fine, all’epilogo designato da Colui che le ha concepite sin dall’inizio. E’ sottomissione: quanto di più lontano dall’urlo ribelle della cosiddetta arte moderna, da quell’eresia dell’informe che ha devastato i canoni del vero, del bello e del buono allo scopo di indurre l’uomo a sbeffeggiare Dio e a sostituirsi a Lui.

Quanta nostalgia della Brianza paolotta di Corti ai tempi del cattolicesimo per soli adulti. Quanto rimpianto per una terra e un’epoca in cui ogni vecchia con il Rosario in mano avrebbe potuto raccontare il suo “Cavallo Rosso”, senza inventare nulla, solo guardando nella propria vita attraverso i misteri da sgranare.
Per anni e anni, questo scrittore è stato un vecchio splendido, con quel pizzo bianco un po’ da ufficiale d’altri tempi e un po’ da gentiluomo di campagna quale era davvero. Riceveva con generosa ospitalità nella sua casa, una villa ricavata da quella che un tempo era stata una filanda, una lunga teoria di porte e finestre affacciate su un grande parco. Il “dottor Corti”, come lo chiamavano tutti, conosceva con sorprendente precisione il canto e il piumaggio degli uccelli che vi facevano il nido, come Flannery O’Connor con i suoi pavoni o Cristina Campo con i suoi merli e i suoi usignoli. Una passione che diventava poesia in alcune memorabili pagine del “Cavallo Rosso”.

Quando arrivavi a Besana, il dottor Corti ti faceva accomodare nel grande salotto illuminato dai riflessi verdi del parco. Spesso faceva da sottofondo la presenza discreta ed elegante della moglie, Vanda dei Conti di Marsciano, mentre la piccola cagnetta Colibrì si infilava tutta contenta fra le gambe degli ospiti. Nella libreria campeggiavano una poderosa edizione della “Commedia” di Dante, Cesare, Plutarco e gli altri classici, i sedici volumi della “Geschichte der Pâpste seit dem Ausgang des Mittelalters”, la Storia dei Papi dalla fine dell’etá medioevale di  von Pastor. Questo intellettuale sconosciuto al mondo dell’intelligenza era uno studioso serio e infaticabile, amava e quindi conosceva nell’intimo la letteratura russa, si era studiato sui testi il pensiero marxista-leninista, aveva approfondito Jacques Maritain prima rimanendone affascinato e poi prendendone le distanze in ossequio a un tomismo che non poteva essere piegato alle paturnie mondane dell’autore di “Umanesimo Integrale”. “Maritain e Dossetti” diceva “sono pensatori che in perfetta buona fede hanno condotto il mondo cattolico alla paralisi attuale”. Figlio della Brianza solida e bianca, Corti ha incarnato la versione letteraria del pensiero filosofico di Augusto Del Noce con una poetica gli valse la stima incondizionata di un grande filosofo come padre Cornelio Fabro.

Irriducibilmente controrivoluzionario, vedeva in Lutero e nel 1789 la radice malata in cui si innestano Feuerbach, Marx, Hegel, Nietzsche. Lì nascono le malepiante delle utopie novecentesche, nazismo e comunismo. Ripeteva spesso, con accenti accorati, questa teologia della storia, una filastrocca breve, lineare che riassumeva anni di studi lunghi e faticosi. In questa prospettiva, aveva elaborato la teoria della “sostituzione di cultura”: “Nel mondo occidentale del dopoguerra nelle liberal-democrazie si è realizzata un’imponente sostituzione della visione del mondo illuminista a quella della cultura cristiana”.

 Non poteva immaginare nulla di più doloroso un paolotto come lui, cattolico dalla fede semplice, abituato ad affidarsi totalmente alla Provvidenza e alla Madonna, ispirato da un sacro rispetto per il clero, naturaliter immerso nella dottrina di sempre che ignora ogni elucubrazione teologica: un buon cristiano, uomo buono. “Purtroppo il mondo dei paolotti è finito” diceva “e la causa è che una generazione è come saltata, incapace di trasmettere con la testimonianza e le parole la fede in Gesù Salvatore”. Il paolotto è un cattolico che guarda il mondo in controluce e sa che, là dietro, c’è un ordine da rispettare e a cui rispondere perché l’ha voluto il Padre Eterno.

Per questo il paolotto Corti, quando negli anni Settanta l’Italia fu squassata dalla rivoluzione sessuale, dal Sessantotto, dal terrorismo, si rimise a combattere gettandosi in una delle battaglie più scomode e aspre. Girava l’Italia del nord per tenere conferenze a sostegno del referendum contro la legge divorzista Fortuna-Baslini varata nel 1974, scontrandosi apertamente con quella parte del mondo cattolico che voleva tenersi la legge o, comunque, non voleva il referendum. Lui stava dalla parte di Gabrio Lombardi, di Augusto Del Noce, di Emanuele Samek Lodovici, i quali puntarono tutto sulla tesi giusnaturalistica secondo cui il matrimonio, civile o religioso, è intrinsecamente indissolubile. A opporsi a questa dottrina, classica e non clericale, c’erano figure ingombranti come il rettore della Università Cattolica Giuseppe Lazzati, del quale lo scrittore di Besana aveva grande stima personale, giudicandolo un autentico cristiano. Lo sfrangiamento clamoroso del mondo cattolico e la conseguente sconfitta in quel referendum lo amareggiarono. Di fronte alla prospettiva di impegnarsi allo stesso modo per il referendum del 1981 sull’aborto, decise di restarsene a casa: “Avevo posto una sola condizione per battermi: tappezzare l’Italia di manifesti che mostrassero le foto raccapriccianti di che cosa succede a un feto abortito. Per convincere la gente che l’aborto è sbagliato, bisogna mostrare alla gente che cos’è l’aborto. Mi risposero che questo era impossibile, e che sarebbero stati usati messaggi positivi e foto di bambini sorridenti. Capii in quel momento che la battaglia era persa in partenza e mi ritirai in buon ordine. E così fu”.

In obbedienza al sacro ordine che regge il mondo, il paolotto Corti è stato per decenni un imprenditore impegnato a dare lavoro alla sua gente, artefice di un capitalismo sociale nel quale il bene degli operai si promuove per ossequio al Vangelo piuttosto che ai sindacati. Attraversò il fascismo senza diventare antifascista, osservò il ventennio con molto distacco. “Il recupero del mito della romanità” diceva “fu una sceneggiata piuttosto ridicola, ma il fascismo fu provvidenziale nella Guerra di Spagna e nel concordato del 1929. Mussolini fu una figura poco profonda, ma fu uomo della Provvidenza perché evitò all’Italia di cadere preda del comunismo”. Un merito non da poco per uno che, come dettava la sua razza spirituale, fu un anticomunista non viscerale, ma razionale, conscio che nulla di quella ideologia poteva essere conciliato il cattolicesimo.

Quando si sistemava sulla sua poltrona preferita, occhieggiava con quello sguardo manzoniano che interrogava senza inquisire e rispondeva senza pontificare. Quegli occhi avevano visto una delle guerre più spaventose della storia dell’umanità, quel corpo era passato attraverso una massacrante ritirata nella steppa russa che in poche settimane aveva spazzato via una fetta della gioventù italiana. Era partito volontario nell’Armir perché voleva vedere con i suoi occhi l’esperimento comunista. Questa esperienza si era trasformata nel primo romanzo, “I più non ritornano”, diario della ritirata di Russia, scritto a soli 22 anni. Dopo l’8 settembre del 1943, il giovanissimo autore aveva fatto seppellire il manoscritto in una tela impermeabile per timore cadesse in mani sbagliate. Poi aveva raggiunto l’esercito del Re in Puglia e  aveva risalito la penisola combattendo fino al 1945. Recuperato il manoscritto, lo aveva pubblicato nel 1947 con Garzanti, rivelandosi subito come una promessa della narrativa, della quale si accorsero Benedetto Croce e Mario Apollonio.

Il luogo magico della creatività di Corti era lo studio al primo piano, luminoso, ordinato, carico di libri, di documenti e di una quantità immensa di messaggi di lettori entusiasti, il riconoscimento più prezioso. E’ in questo studio che per lunghi pomeriggi Paola Scaglione, la sua biografa, ha raccolto le confidenze di una vita: a lei e ad Andrea Sciffo si deve il merito di aver sottratto al silenzio della critica l’opera di un autentico romanziere.

“Il Cavallo Rosso”, il capolavoro, fu pubblicato dalle Edizioni Ares di Milano nel 1983. Oggi è arrivato a 29 edizioni ed è stato tradotto in Francia, Stati Uniti, Romania, Giappone. In Francia i critici e il pubblico ne hanno decretato un successo clamoroso: il direttore di “Le Figaro Litteraire”, Etienne de Montety, lo ha definito il romanzo più importante degli ultimi 25 anni. Michael O’Brian scrive che i suoi tre maestri di scrittura sono Tolkien, Dostoevskij e Corti.

Quel romanzo cambiò la vita a tanti giovani, fece tanto bene, ma non poteva piacere all’intellighenzia di sinistra, perché Corti parlava dei milioni di morti fatti dai nazisti e pure di quelli fatti dai comunisti. Però il punto vero era un altro, più profondo: questo romanzo mette alla berlina la lettura ideologica dei fatti e dice in modo convincente che, alla fine, il problema non sono il fascismo, il nazismo, il comunismo o la resistenza. Il problema è l’uomo. “Il Cavallo Rosso” racconta la vita, la morte, la fede, il dolore, la famiglia, l’amore, l’odio, la vendetta, una civiltà travolta dal benessere, lungo una fetta di storia esemplare che va dal 1942 agli anni Settanta. E’ un romanzo pulito senza l’ingombrante chiodo fisso del sesso che domina gran parte della letteratura del Novecento, eppure dentro c’è tutta la realtà, compresa quella dell’amore e della passione. Solo che qui succede ciò che ormai nemmeno i cattolici innamorati del mondo credono possibile: l’uomo si imbatte nelle tentazioni, ma può resistere. “La povertà” spiegava Corti “non è il più grave problema dell’umanità, come crede certa teologia del Novecento. Il vero problema resterà sempre il peccato e la speranza che qualche cosa o Qualcuno possa perdonarlo”.

 Questa visione medievale del cristianesimo è costata il disprezzo e la censura di una fetta importante del mondo cattolico. Nel 2000, gli fu assegnato il Premio Internazionale di Cultura Cattolica, ma la chiesa delle conferenze episcopali e dei giornali clericali, dei “progetti culturali” e delle “cattedre dei non credenti” gli ha girato accuratamente al largo. Il vescovo di Como, monsignor Maggiolini, suo grande estimatore, parlava  di “una congiura del silenzio”.

Da parte sua, lo scrittore non faceva sconti e nel 1996 pubblicò un saggio dal titolo inequivocabile: “Il fumo nel tempio”. Evocava quanto nel 1972 aveva detto Paolo VI scandalizzando il mondo: “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”. Il paolotto, di fronte allo sfacelo della Chiesa, non poteva più tacere. Per lui, la vita rimaneva quella che gli avevano insegnato i suoi genitori, una battaglia. Sapeva bene che la Chiesa è composta da tre comunità: quella dei trionfanti già in paradiso, quella dei purganti e quella dei militanti. La sua poetica, il suo lavoro di intellettuale si sono concentrati su quest’ultima, su quello che amava chiamare “il tragico mondo degli uomini”.
fonte: Il Foglio

MERCOLEDÌ DELLE CENERI


MERCOLEDÌ DELLE CENERI

L'appello del profeta.
Ieri il mondo s'agitava nei piaceri, e gli stessi cristiani si abbandonavano ai leciti divertimenti; ma questa mattina ha squillato la sacra tromba di cui parla il profeta Gioele (v. Epistola della Messa) per annunciare l'apertura solenne del digiuno quaresimale, il tempo dell'espiazione, l'imminente avvicinarsi dei grandi anniversari della nostra salvezza. Destiamoci, cristiani, e prepariamoci a combattere le battaglie del Signore.

L'armatura spirituale.
Ricordiamoci, però, che nella lotta dello spirito contro la carne, dobbiamo essere armati: ecco perché la santa Chiesa ci raccoglie nei suoi templi per iniziarci alla milizia spirituale. San Paolo ce ne ha già fatto conoscere i dettagli della difesa con queste parole: "Siate dunque saldi, cingendo il vostro fianco con la verità, vestiti della corazza della giustizia, avendo i piedi calzati in preparazione al Vangelo di pace. Prendete soprattutto lo scudo della fede, l'elmo della saldezza e la spada dello spirito, cioè la Parola di Dio" (Ef 6,14-17). Il principe degli Apostoli aggiunge: "Avendo Cristo patito nella carne, armatevi anche voi dello stesso pensiero" (1Pt. 4,1).
Ricordandoci oggi la Chiesa questi apostolici insegnamenti, ne aggiunge un altro non meno eloquente, obbligandoci a risalire al giorno della prevaricazione, che rese necessario quelle lotte che stiamo per intraprendere e le espiazioni attraverso le quali dobbiamo passare.


I nemici da combattere.
Noi siamo assaliti da due sorta di nemici: le passioni dentro il nostro cuore, il demonio fuori; entrambi disordini che derivano dalla superbia. L'uomo si rifiutò d'obbedire a Dio; ciò nonostante egli lo risparmiò, ma alla dura condizione di subire la morte: "Uomo, disse, tu sei polvere, ed in polvere ritornerai" (Gen 3,19). Ah! perché dimenticammo quell'avvertimento? A Dio bastò solo premunirci contro noi stessi; compresi del nostro niente, non avremmo mai dovuto infrangere la sua legge. Se ora vogliamo perseverare nel bene, al quale ci ha ricondotti la sua grazia, dobbiamo umiliarci, accettare la sentenza e considerare la vita come un viaggio più o meno breve che termina alla tomba. Sotto questa luce tutto diventa nuovo, ogni cosa si schiarisce. Nell'immensa sua bontà, Dio, che si compiacque riversare tutto il suo amore su di noi, esseri condannati alla morte, ci appare ancor più ammirabile. Nelle brevissime ore della nostra esistenza, l'ingratitudine e l'insolenza con cui ci scagliammo contro di lui ci sembrano sempre più degne del nostro disprezzo, e più legittima e salutare la riparazione che ora ci è possibile e che egli si degna d'accettare.

L'imposizione delle ceneri.
A questo pensava la santa Chiesa, quando fu indotta ad anticipare di quattro giorni il digiuno quaresimale e ad aprire questo sacro tempo cospargendo di cenere la fronte colpevole dei suoi figli, e ripetendo a ciascuno di loro le parole con cui il Signore li condannava alla morte.
Come segno d'umiliazione e penitenza, però, l'uso delle ceneri è molto anteriore a quella istituzione. Infatti lo troviamo praticato fin nell'Antico Testamento. Perfino Giobbe, che apparteneva alla gentilità, copriva di cenere la sua carne dilaniata dalla mano di Dio, per implorare così la sua misericordia (Gb 16,16). Più tardi il Salmista, nell'ardente contrizione del suo cuore, mescolava cenere nel pane che mangiava (Sal 101,10). Analoghi esempi abbondano nei Libri storici e nei Profeti dell'Antico Testamento. Si avvertiva anche allora il rapporto esistente fra la polvere d'una materia bruciata e l'uomo peccatore, il corpo del quale sarà disfatto in polvere sotto il fuoco della giustizia divina. Per salvare almeno l'anima, il peccatore ricorreva alla cenere, e nel riconoscere quella triste fraternità con essa si sentiva più al riparo dalla collera di colui che resiste ai superbi e perdona agli umili.

I pubblici penitenti.
L'uso liturgico delle Ceneri al Mercoledì di Quinquagesima non sembra che in origine sia stato imposto a tutti i fedeli, ma solo ai colpevoli di certi peccati soggetti alla pubblica penitenza della Chiesa. In questo giorno, prima della Messa, essi si presentavano in Chiesa dove stava raccolto tutto il popolo, i sacerdoti ricevevano la confessione dei loro peccati, quindi li vestivano di cilizi e spargevano sulle loro teste la cenere. Dopo questa cerimonia, il clero ed il popolo si prostravano a terra, mentre ad alta voce venivano recitati i sette salmi penitenziali. Successivamente aveva luogo la processione, durante la quale i penitenti camminavano a piedi scalzi. Di ritorno, erano solennemente cacciati fuori dalla Chiesa dal Vescovo, che diceva loro: "Vi scacciamo fuori dal recinto della Chiesa a causa dei vostri peccati e delitti, come fu scacciato fuori dal Paradiso il primo uomo Adamo a causa della sua trasgressione". Poi il clero cantava diversi Responsori tratti dal Genesi, dov'erano ricordate le parole del Signore che condannava l'uomo ai sudori ed al lavoro sulla terra, ormai maledetta a causa sua. Quindi venivano chiuse le porte della Chiesa, affinché i penitenti non ne passassero più le soglie fino al Giovedì Santo, giorno nel quale ricevevano solennemente l'assoluzione.

Estensione del rito liturgico.
Dopo il XII secolo, la penitenza pubblica cominciò a cadere in disuso; ma l'uso d'imporre in questo giorno le ceneri a tutti i fedeli divenne sempre più generale e prese posto fra le cerimonie essenziali della Liturgia Romana. È difficile dire esattamente in quale epoca si produsse tale evoluzione. Sappiamo solo che nel Concilio di Benevento (1091) Urbano II ne fece un obbligo a tutti i fedeli. L'attuale cerimonia è descritta negli Ordines del XII secolo; le antifone, i responsori e le preghiere della benedizione delle Ceneri erano già in uso fra l'VIII e il X secolo.
Una volta i cristiani si avvicinavano a piedi nudi a ricevere l'ammonimento sul niente dell'uomo, e, ancora nel XII secolo, lo stesso Papa, per recarsi da S. Anastasia a S. Sabina, dov'è la Stazione, faceva tutto il percorso senza calzatura, come pure i Cardinali che l'accompagnavano. Poi la Chiesa mitigò questo rigore esteriore; ma continuò a dare valore ai sentimenti interni che deve produrre in noi un rito così espressivo.
Come abbiamo or ora detto, la Stazione odierna è a Roma, in S. Sabina, sul colle Aventino, aprendosi così sotto gli auspici di questa santa Martire la penitenza quaresimale.
La sacra funzione incomincia con la benedizione delle ceneri, ottenute dalle Palme benedette l'anno prima nella Domenica che precede la Pasqua. La nuova benedizione ch'esse ricevono in questa circostanza ha lo scopo di renderle più degne del mistero di contrizione e di umiltà che stanno a significare.

MESSA
EPISTOLA (Gl 2,12-19). - Queste cose dice il Signore: Convertitevi a me con tutto il vostro cuore nel digiuno, nelle lacrime, nei sospiri. Lacerate i vostri cuori e non le vostre vesti; tornate al Signore, Dio vostro, che è benigno e misericordioso, paziente e ricco di clemenza, e ci pensa molto avanti di castigare. Chi sa che non cambi e perdoni, e non lasci dietro a sé la benedizione pel sacrificio e la libazione al Signore Dio vostro? Sonate la tromba in Sion, pubblicate il digiuno, convocate l'adunanza, radunate il popolo, purificate la riunione, convocate gli anziani; fate venire i fanciulli e i lattanti, lo sposo novello lasci il suo letto e la novella sposa il suo talamo. Tra il vestibolo e l'altare i sacerdoti, ministri del Signore, piangano, e dicano: Perdona, Signore, perdona al tuo popolo, non abbandonare la tua eredità all'obbrobrio, non la render serva delle nazioni; che non si dica fra i popoli: Dov'è il loro Dio? Il Signore ha mostrato zelo per la sua terra ed ha perdonato al suo popolo. Il Signore ha risposto e ha detto al suo popolo: Ecco che io vi manderò il frumento, il vino e l'olio, e ne avrete in abbondanza. e non vi farò più essere l'obbrobrio delle genti: dice il Signore onnipotente.

Efficacia del digiuno.
Questo magnifico passo del Profeta ci rivela l'importanza che il Signore dà all'espiazione fatta col digiuno. Quando l'uomo contrito dei propri peccati affligge la sua carne. Dio si commuove, come lo dimostra l'esempio di Ninive. Il Signore perdonò a una città infedele, perché i suoi abitanti imploravano pietà con l'abito della penitenza. Che non farà allora in favore del suo popolo, se questo saprà unire all'immolazione del corpo il sacrificio del cuore ?
Affrontiamo dunque coraggiosamente la via della penitenza; e se l'affievolimento della fede e del timor di Dio sembra far cadere intorno a noi pratiche antiche quanto il cristianesimo, guardiamoci dal non esagerare in un rilassamento così pregiudizievole al complesso dei costumi cristiani. Riflettiamo soprattutto ai nostri obblighi personali verso la giustizia divina, la quale ci rimetterà i peccati e le pene meritate, in misura che ci mostreremo premurosi d'offrirle la soddisfazione cui ha diritto.

VANGELO (Mt 6,16-21). - In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: Quando digiunate, non prendete un'aria melanconica, come gl'ipocriti, che sfigurano la loro faccia per mostrare alla gente che digiunano. In verità vi dico che han già ricevuto la loro mercede. Ma tu, quando digiuni, profumati il capo e la faccia, affinché non alla gente apparisca che tu digiuni, ma al tuo Padre, che è nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. Non vogliate accumulare tesori sulla terra, dove la ruggine e la tignola consumano e i ladri scassinano e rubano; ma fatevi dei tesori nel cielo, dove né ruggine né tignole consumano, dove i ladri né scassinano né rubano. Perché dove è il tuo tesoro, quivi è anche il tuo cuore.

La gioia della Quaresima.
Nostro Signore non vuole che i cristiani accolgano il digiuno espiatorio, con un'aria triste e lugubre. Anzi, persuasi ch'è tanto pericoloso differire i conti con la giustizia, si devono consolare e mostrarsi allegri all'avvicinarsi di quel tempo sì salutare perché sanno in anticipo che, se saranno fedeli alle prescrizioni della Chiesa, il peso del loro fardello si alleggerirà.
Queste soddisfazioni, oggi tanto mitigate dall'indulgenza della Chiesa, se offerte a Dio con quelle del Redentore e fecondate da quella comunione di opere propiziatorie che unisce in un sol fascio le opere sante di tutti i membri della Chiesa militante, purificheranno le loro anime e le faranno degne di partecipare alle purissime gioie della Pasqua. Perciò, non dobbiamo essere tristi perché digiuniamo, ma perché abbiamo col peccato reso necessario il digiuno.
Il Signore, poi, ci dà un altro consiglio, che la Chiesa ci ricorderà spesso nel corso dei quaranta giorni: quello d'aggiungere l'elemosina alle privazioni del corpo. Vuole che tesorizziamo, ma per il cielo. Abbiamo bisogno d'intercessori: li dobbiamo cercare tra i poveri. Ogni giorno di Quaresima, eccetto le Domeniche, prima di congedare l'assemblea dei fedeli, il Sacerdote recita per loro una preghiera particolare, sempre preceduta dall'esortazione del diacono: "Umiliate le vostre teste dinanzi a Dio". La preghiera è una formula di benedizione, implorante il pegno della protezione celeste sui fedeli che ritornano alle ordinarie occupazioni (Callewaert, Sacris erudiri, p. 694).

PREGHIAMO
Riguarda placato, o Signore, il popolo prostrato dinanzi a te e, dopo averlo ristorato col dono divino, confortalo sempre con celesti aiuti.

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 463-467

Domenica 9 marzo 2014, I Domenica di Quaresima - Anno A


"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta

Domenica 9 marzo 2014, I Domenica di Quaresima - Anno A

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 4, 1-11.
Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo.
E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. 
Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, dì che questi sassi diventino pane». 
Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». 
Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede».
Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo».
Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse:
«Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai».
Ma Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto».
Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano.
Traduzione liturgica della Bibbia 



Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di 
Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 46 pagina 287.

Vedo la solitudine petrosa già vista alla mia sinistra nella visione del battesimo di Gesù al Giordano. Però devo essere molto addentrata in essa perché non vedo affatto il bel fiume lento e azzurro, né la vena di verde che lo costeggia alle sue due rive, come alimentata da quell’arteria d’acqua. Qui, solo solitudine, pietroni, terra talmente arsa da essere ridotta a polvere giallastra, che ogni tanto il vento solleva con piccoli vortici, che paion fiato di bocca febbrile tanto sono asciutti e caldi. E tormentosi per la polvere che penetra con essi nelle narici e nelle fauci. Moto rari, qualche piccolo cespuglio spinoso, non si sa come resistente in quella desolazione. Sembrano ciuffetti di superstiti capelli sulla testa di un calvo. Sopra, un cielo spietatamente azzurro; sotto, il suolo arido; intorno, massi e silenzio. Ecco quanto vedo come natura.
Addossato ad un enorme pietrone, che per la sua forma sembra una ‘C’ che fa un embrione di grotta e seduto su un sasso trascinato in quell’incavo, sta Gesù. Si ripara così dal sole cocente. E l’interno ammonitore mi avverte che quel sasso, su cui ora siede, è anche il suo inginocchiatoio e il suo guanciale quando prende le brevi ore di riposo, avvolto nel suo mantello, al lume delle stelle e all’aria fredda della notte. Infatti là presso è la sacca che gli ho visto prendere prima di partire da Nazareth. Tutto il suo avere. E dal come si piega floscia, comprendo che è vuota del poco cibo che vi aveva messo Maria. 
Gesù è magro e pallido. Sta seduto con i gomiti appoggiati ai ginocchi e gli avambracci sporti in avanti, con le mani unite ed intrecciate nelle dita. Medita. Ogni tanto soleva lo sguardo e lo gira attorno e guarda il sole alto, quasi a perpendicolo, nel cielo azzurro. Ogni tanto, e specie dopo aver girato lo sguardo attorno e averlo alzato verso la luce solare, chiude gli occhi e si appoggia al masso che gli fa da riparo, come preso da vertigine. 
Vedo apparire il brutto ceffo di Satana. Non che si presenti nella forma con cui noi ce lo raffiguriamo, con corna, coda, ecc.ecc. Pare un beduino avvolto nel suo vestito e nel suo mantellone che pare un domino da maschera. Sul capo il turbante, le cui falde bianche scendono a far riparo sulle spalle e lungo i lati del viso. Di modo che di questo appare un breve triangolo molto bruno, dalle labbra sottili e sinuose, degli occhi nerissimi e incavati, pieni di bagliori magnetici. Due pupille che ti leggono in fondo al cuore, ma nella quali non leggi nulla, o una sola parola: mistero. L’opposto dell’occhio di Gesù, tanto magnetico fascinatore anch’esso, che ti legge in cuore, ma nel quale leggi anche che nel suo cuore è amore e bontà per te. L’occhio di Gesù è una carezza all’anima. Questo è come un doppio pugnale che ti perfora e brucia. 
Si avvicina a Gesù: “Sei solo?” 
Gesù lo guarda e non risponde. 
“Come sei capitato qui? Ti sei sperduto?” 
Gesù lo guarda da capo e tace. 
“Se avessi dell’acqua nella borraccia te la darei. Ma ne sono senza anch’io. M’è morto il cavallo e mi dirigo a piedi al guado. Là berrò e troverò chi mi dà un pane. So la via. vieni con me. Ti guiderò.” 
Gesù non alza più neppure gli occhi. 
“Non rispondi? Sai che se resti qui, muori? Già si leva il vento. Sarà bufera. Vieni”. 
Gesù stringe le mani in muta preghiera. 
“Ah! sei proprio Tu, dunque? E’ tanto che ti cerco! Ed ora è tanto che ti osservo. Dal momento che sei stato battezzato. Chiami l’Eterno? E’ lontano. Ora sei sulla terra e in mezzo agli uomini. E negli uomini regno io. Pure mi fai pietà e ti voglio soccorrere, perché sei buono e sei venuto a sacrificarti per nulla. Gli uomini ti odieranno per la tua bontà. Non capiscono che oro e cibo, e senso. Sacrificio, dolore, ubbidienza, sono parole morte per loro più di questa polvere. Solo il serpe può nascondersi qui attendendo di mordere e lo sciacallo di sbranare. Vieni via. Non merita soffrire per loro. Li conosco più di Te.” 
Satana si è seduto di fronte a Gesù e lo fruga col suo sguardo tremendo, e sorride con la sua bocca di serpe. Gesù tace sempre e prega mentalmente. 
“Tu diffidi di me. Fai male. Io sono la sapienza della terra. Ti poso essere maestro per insegnarti a trionfare. Vedi: l’importante è trionfare. Poi, quando ci si è imposti e si è affascinato il mondo, allora lo si conduce dove si vuole noi. Ma prima bisogna essere come piace a loro. Come loro. Sedurli facendo loro credere che li ammiriamo e li seguiamo nel loro pensiero. 


Sei giovane e bello. Comincia dalla donna. E’ sempre da essa che si deve incominciare. Io ho sbagliato inducendo la donna alla disubbidienza. Dovevo consigliarla per altro modo. Ne avrei fatto uno strumento migliore e avrei vinto Dio. Ho avuto fretta. Ma Tu! Io t’insegno perché c’è stato un giorno che ho guardato a Te con giubilo angelico e un resto di quell’amore è rimasto, ma Tu ascoltami, ed usa della mia esperienza. Fatti una compagna. Dove non riuscirai Tu, essa riuscirà. Sei il nuovo Adamo, devi avere la tua Eva. 
E poi, come puoi comprendere e guarire le malattie del senso se non sai cosa sono? Non sai che è lì il nocciolo da cui nasce la pianta della cupidità e della prepotenza? Perché l’uomo vuole regnare? Perché vuole essere ricco, potente? Per possedere la donna. Questa è come l’allodola. Ha bisogno del luccichio per essere attirata. L’oro e la potenza sono le due facce dello specchio che attirano le donne e le cause del male nel mondo. Guarda: dietro a mille delitti dai volti diversi, ce ne sono novecento almeno che hanno radice nella fame del possesso della donna o nella volontà di una donna, arsa da un desiderio che l’uomo non soddisfa ancora o non soddisfa più. Vai dalla donna se vuoi sapere cosa è la vita. E solo dopo saprai curare e guarire i morbi dell’umanità. 
E’ bella, sai, la donna! Non c’è nulla di più bello nel mondo. L’uomo ha il pensiero e la forza. Ma la donna! Il suo pensiero è un profumo, il suo contatto è carezza di fiori, la sua grazia è come vino che scende, la sua debolezza come matassa di seta o ricciolo di bambino nelle mani di un uomo, la sua carezza è forza che si rovescia sulla nostra e la accende. Si annulla il dolore, la fatica, il cruccio, quando si posa presso una donna, ed essa è fra le nostre braccia come un fascio di fiori. 
Ma che stolto che sono! Tu hai fame e ti parlo della donna. La tua vigoria è esausta. Per questo, questa fragranza della terra, questo fiore del creato, questo frutto che dà e suscita amore, ti pare senza valore. Ma guarda queste pietre. Come sono tonde e levigate, dorate sotto al sole che scende. Non sembrano pani? Tu, Figlio di Dio, non hai che dire: “Voglio”, perché esse divengano pane fragrante come quello che ora le massaie levano dal forno per la cena dei loro familiari. E queste acacie così aride, se Tu vuoi, non possono empirsi di dolci pomi, di datteri di miele? Satollati, o Figlio di Dio. Tu sei il Padrone della terra. Essa si inchina per mettere ai tuoi piedi se stessa e sfamare la tua fame. 
Lo vedi che impallidisci e vacilli solo a sentir nominare il pane? Povero Gesù! Sei tanto debole da non potere più neppure comandare al miracolo? Vuoi che lo faccia io per Te? Non ti sono a paro. Ma qualcosa posso. Starò privo per un anno della mia forza, la radunerò tutta, ma ti voglio servire perché Tu sei buono ed io sempre mi ricordo che sei il mio Dio, anche se ora ho demeritato di chiamarti tale. Aiutami con le tue preghiere perché io possa...” 
“Taci. ‘Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che viene da Dio’.” 



Il demonio ha un sussulto di rabbia. Digrigna i denti e stringe i pugni. Ma si contiene e volge il digrigno in sorriso. 
“Comprendo. Tu sei sopra le necessità della terra e hai ribrezzo a servirti di me. L’ho meritato. Ma vieni , allora, e vedi cosa è nella casa di Dio. Vedi come anche i sacerdoti non ricusano di venire a transazioni fra lo spirito e la carne. Perché infine sono uomini e non angeli. Compi un miracolo spirituale. Io ti porto sul pinnacolo del Tempio e Tu trasfigurati in bellezza lassù, e poi chiama le coorti di angeli e di' che facciano delle loro ali intrecciate pedana al tuo piede e ti calino così nel cortile principale. Che ti vedano e si ricordino che Dio è. Ogni tanto è necessario manifestarsi, perché l’uomo ha una memoria tanto labile, specie in ciò che è spirituale. Sai come gli angeli saranno beati di far riparo al tuo piede e scala a Te che scendi!” 
“ ‘Non tentare il Signore Iddio tuo’ è detto”. 

“Comprendi che anche la tua apparizione non muterebbe le cose e il Tempio continuerebbe ad essere mercato e corruzione. La tua divina sapienza lo sa che i cuori dei ministri del Tempio sono un nido di vipere, che si sbranano e sbranano pur di predominare. Non sono domati che dalla potenza umana. 
E allora vieni. Adorami, Io ti darò la terra. Alessandro, Ciro, Cesare, tutti i più grandi dominatori passati o viventi, saranno simili a capi di meschine carovane rispetto a Te che avrai tutti i regni della terra sotto il tuo scettro. E coi regni tutte le ricchezze, tutte le bellezze della terra, e donne, e cavalli, e armati e templi. Potrai alzare dovunque il tuo Segno, quando sarai Re dei re e Signore del mondo. Allora sarai ubbidito e venerato dal popolo e dal sacerdozio. Tutte le caste ti onoreranno e ti serviranno, perché sarai il Potente, l’Unico, il Signore. 
Adorami un attimo solo! Levami questa sete che ho di essere adorato! E’ quella che mi ha perduto. Ma è rimasta in me e mi brucia. Le vampe dell’inferno sono fresca aria del mattino rispetto a questo ardore che mi brucia l’interno. E’ il mio inferno questa sete. Un attimo, un attimo solo, o Cristo. tu che sei buono! Un attimo di gioia all’eterno Tormentato! Fammi sentire cosa voglia dire essere dio e mi avrai devoto, ubbidiente come servo per tutta la vita, per tutte le tue imprese. Un attimo! Un solo attimo, e non ti tormenterò più!”. 
E Satana si butta in ginocchio supplicando. 
Gesù si è alzato, invece. Divenuto più magro in questi giorni di digiuno, sembra ancora più alto. Il suo volto è terribile di severità e potenza. I suoi occhi sono due zaffiri che bruciano. La sua voce è un tuono che si ripercuote contro l’incavo del masso e si sparge sulla sassaia e la piana desolata quando dice: “Va' via, Satana! E’ scritto ‘Adorerai il Signore Dio tuo e servirai Lui solo’!”. 
Satana con un urlo di strazio dannato e di odio indescrivibile scatta in piedi, tremendo a vedersi nella sua furente, fumante persona. E poi scompare con un nuovo urlo di maledizione. 
Gesù si siede stanco, appoggiando indietro il capo contro il masso. Pare esausto. Suda. Ma esseri angelici vengono ad alitare con le loro ali nell’afa dello speco, purificandola e rinfrescandola. Gesù apre gli occhi e sorride. Io non lo vedo mangiare. Direi che Egli si nutre dell’aroma del Paradiso e ne esce rinvigorito. 
Il sole scompare a ponente. Egli prende la vuota bisaccia e, accompagnato dagli angeli che fanno una mite luce, sospesi sul suo capo mentre la notte cala rapidissima, si avvia verso est, meglio verso nord-est. Ha ripreso la sua espressione abituale, il passo sicuro. Solo resta, a ricordo del lungo digiuno, un aspetto più ascetico nel volto magro e pallido e negli occhi rapiti in una gioia non di questa terra. 


Dice Gesù: 
“Ieri eri senza la tua forza, che è la mia volontà, ed eri perciò un essere semivivo. Ho fatto riposare le tue membra e ti ho fatto fare l’unico digiuno che ti pesi: quello della mia parola. Povera Maria! Hai fatto il Mercoledì delle Ceneri. In tutto sentivi il sapor della cenere, poiché eri senza il tuo Maestro. Non mi facevo sentire. Ma c’ero. 
Questa mattina, poiché l’ansia è reciproca, ti ho mormorato nel tuo dormiveglia: “Agnus Dei qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem” e te l’ho fatto ripetere molte volte e tante te le ho ripetute. Hai creduto che parlassi su questo. No. Prima c’era il punto che ti ho mostrato e che ti commenterò. Poi questa sera ti illustrerò quest’altro. 
Satana, lo hai visto, si presenta sempre con veste benevola. Con aspetto comune. Se le anime sono attente, e soprattutto in spirituale contatto con Dio, avvertono quell’avviso che le rende guardinghe e pronte a combattere le insidie demoniache. Ma e le anime sono disattente al divino, separate da una carnalità che soverchia e assorda, non aiutate dalla preghiera che congiunge a Dio e riversa la sua forza come da canale nel cuore dell’uomo, allora difficilmente esse si avvedono del tranello nascosto sotto l’apparenza innocua e vi cadono. Liberarsene è, poi, molto difficile. 
Le due vie più comuni prese da Satana per giungere alle anime sono il senso e la gola. Comincia sempre dalla materia. Smantellata e asservita questa, dà l’attacco alla parte superiore. Prima il morale: il pensiero con le sue superbie e cupidigie; poi lo spirito, levandogli non solo l’amore -quello non esiste già più quando l’uomo ha sostituito l’amore divino con altri amori umani- ma anche il timore di Dio. E’ allora che l’uomo si abbandona in anima e corpo a Satana, pur di arrivare a godere ciò che vuole, godere sempre di più. 
Come Io mi sia comportato, lo hai visto. Silenzio e orazione. Silenzio. Perché se Satana fa la sua opera di seduttore e ci viene intorno, lo si deve subire senza stolte impazienze e vili paure. Ma reagire con la sostenutezza alla sua presenza, e con la preghiera alla sua seduzione. 
E’ inutile discutere con Satana. Vincerebbe lui, perché è forte nella sua dialettica. Non c’è che Dio che lo vinca. E allora ricorrere a Dio, che parli per noi, attraverso a noi. Mostrare a Satana quel Nome e quel Segno, non tanto scritti su una carta o incisi su un legno, quanto scritti e incisi nel cuore. Il mio Nome, il mio Segno. Ribattere a Satana unicamente quando insinua che egli è come Dio, usando la parola di Dio. Egli non la sopporta. 
Poi, dopo la lotta, viene la vittoria, e gli angeli servono e difendono il vincitore dall’odio di Satana. Lo ristorano con le rugiade celesti, con la Grazia che riversano a piene mani nel cuore del figlio fedele, con la benedizione che accarezza lo spirito. 
Occorre avere volontà di vincere Satana e fede in Dio e nel suo aiuto. Fede nella potenza della preghiera e nella bontà del Signore. Allora Satana non può fare del male. 
Va’ in pace. Questa sera ti letificherò col resto”.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/ 

Contemplare et mirare eius celsitudinem: 
Dic felicem genitricem, dic beatam virginem. 



Chi, sulla terra, maggiore del papa? - Che significano le Pantofole rosse e la Tiara o Triregno



 


Quis major papa in terris? Quae celsior auctoritas? Quae sublimior dignitas? Quae potestas altior quam Jesu  Christi  Vicariatus?” (Pio II – Commentarii vol. I pag. 1028 – Ed. Adelphi 2008). 


Chi, sulla terra, maggiore del papa? Quale più eccelsa autorità? Quale più sublime dignità? Quale potere più alto di quello del Vicario di Cristo?



Ciò che DIO ha unito


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Il padre George H. Joyce, nel suo studio storico-dottrinale sul Matrimonio cristiano (1948) ha dimostrato che durante i primi cinque secoli dell’era cristiana non si può incontrare nessun decreto di un Concilio, né alcuna dichiarazione di un Padre della Chiesa che sostenga la possibilità di scioglimento del vincolo matrimoniale. 


<>Quando, nel secondo secolo, Giustino, Atenagora, Teofilo di Antiochia, accennano alla proibizione evangelica del divorzio, non danno alcuna indicazione di eccezione. Clemente di Alesandria e Tertulliano sono ancora più espliciti. E Origene, pur cercando qualche giustificazione per la prassi adottata da alcuni vescovi, precisa che essa contraddice la Scrittura e la Tradizione della Chiesa (Comment. In Matt., XIV, c. 23, in Patrologia Greca, vol. 13, col. 1245). Due tra i primi concili della Chiesa, quello di Elvira (306) e quello di Arles (314), lo ribadiscono chiaramente. In tutte le parti del mondo la Chiesa riteneva lo scioglimento del vincolo come impossibile e il divorzio con diritto a seconde nozze era del tutto sconosciuto. Quello, tra i Padri, che trattò la questione dell’indissolubilità più ampiamente fu sant’Agostino, in molte sue opere, dal De diversis Quaestionibus (390) al De Coniugijs adulterinis (419). Egli confuta chi si lamentava della severità della Chiesa in materia matrimoniale ed è sempre incrollabilmente fermo sull’indissolubilità del matrimonio, dimostrando che esso, una volta contratto non si può più rompere per qualunque ragione o circostanza. E’ a lui che si deve la celebre distinzione tra i tre beni del matrimonio: proles, fides e sacramentum.



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<>Altrettanto falsa è la tesi di una duplice posizione, latina e orientale, di fronte al divorzio, nei primi secoli della Chiesa. Fu solo dopo Giustiniano che la Chiesa di Oriente iniziò a cedere al cesaropapismo, adeguandosi alle leggi bizantine che tolleravano il divorzio, mentre la Chiesa di Roma affermava la verità e l’indipendenza della sua dottrina di fronte al potere civile. Per quanto riguarda san Basilio invitiamo il cardinale Kasper a leggere le sue lettere e a trovare in esse un passo che autorizzi esplicitamente il secondo matrimonio. Il suo pensiero è riassunto da quanto scrive nell’Ethica: “Non è lecito ad un uomo rimandare la sua moglie e sposarne un’altra. Né è permesso ad un uomo sposare una donna che sia stata divorziata da suo marito” (Ethica, Regula 73, c. 2, in Patrologia Greca, vol. 31, col. 852). Lo stesso si dica dell’altro autore citato dal cardinale, san Gregorio Nazianzeno, che con chiarezza scrive: “il divorzio è assolutamente contrario alle nostre leggi, sebbene le leggi dei Romani giudichino diversamente” (Epistola 144, in Patrologia Greca, vol. 37, col. 248).



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<>La “pratica penitenziale canonica” che il cardinale Kasper propone come via di uscita dal “dilemma”, aveva nei primi secoli un significato esattamente opposto a quello che egli sembra volergli attribuire. Essa non veniva compiuta per espiare il primo matrimonio, ma per riparare il peccato del secondo, ed esigeva ovviamente il pentimento di questo peccato. L’undicesimo concilio di Cartagine (407), ad esempio, emanò un canone così concepito: “Decretiamo che, secondo la disciplina evangelica ed apostolica, la legge non permette né ad un uomo divorziato dalla moglie, né a una donna ripudiata dal marito, di passare ad altre nozze; ma che tali persone devono rimanere sole, oppure si riconcilino a vicenda, e che se violano questa legge, essi debbono fare penitenza” (Hefele-Leclercq, Histoire des Conciles, vol. II (I), p. 158).



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<>La posizione del cardinale si fa qui paradossale. Invece di pentirsi della situazione di peccato in cui si trova, il cristiano risposato si dovrebbe pentire del primo matrimonio, o quanto meno del suo fallimento, di cui magari egli è totalmente incolpevole. Inoltre, una volta ammessa la legittimità delle convivenze postmatrimoniali, non si vede perché non dovrebbero essere consentite le convivenze prematrimoniali, se stabili e sincere. Cadono gli “assoluti morali”, che l’enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis splendor aveva con tanta forza ribadito. Ma il cardinale Kasper prosegue tranquillo nel suo ragionamento.
<> “Se un divorziato risposato -1. Si pente del suo fallimento nel primo matrimonio, 2. Se ha chiarito gli obblighi del primo matrimonio, se è definitivamente escluso che torni indietro, 3. Se non può abbandonare senza altre colpe gli impegni assunti con il nuovo matrimonio civile, 4. Se però si sforza di vivere al meglio delle sue possibilità il secondo matrimonio a partire dalla fede e di educare i propri figli nella fede, 5. Se ha desiderio dei sacramenti quale fonte di forza nella sua situazione, dobbiamo o possiamo negargli, dopo un tempo di nuovo orientamento (metanoia), il sacramento della penitenza e poi della comunione?”.



<> A queste domande ha già risposto il cardinale Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (La forza della grazia, “L’Osservatore Romano”, 23 ottobre 2013) richiamando la Familiaris consortio, che al n. 84 fornisce delle precise indicazioni di carattere pastorale coerenti con l’insegnamento dogmatico della Chiesa sul matrimonio: “Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza. La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia”.



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<> La posizione della Chiesa è inequivocabile. La comunione ai divorziati risposati viene negata perché il matrimonio è indissolubile e nessuna delle ragioni addotte dal cardinale Kasper permette la celebrazione di un nuovo matrimonio o la benedizione di un’unione pseudo-matrimoniale. La Chiesa non lo permise ad Enrico VIII, perdendo il Regno di Inghilterra, e non lo permetterà mai perché, come ha ricordato Pio XII ai parroci di Roma il 16 marzo 1946: “Il matrimonio fra battezzati validamente contratto e consumato non può essere sciolto da nessuna potestà sulla terra, nemmeno dalla Suprema Autorità ecclesiastica”. 



<> Ovvero nemmeno dal Papa e tantomeno del cardinale Kasper.