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mercoledì 5 marzo 2014

Il cavallo rosso

Fuori dall’orizzonte della fede, è difficile comprendere la sua arte e più ancora è difficile afferrare la bellezza concreta della sua pagina.
di Alessandro GnocchiMario Palmaro
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corti-eugenio-jpeg-crop_displaySi andava a Besana Brianza da Eugenio Corti perché lui sapeva raccontare proprio come sapeva scrivere. Le storie della ritirata di Russia e le cronache da un mondo cattolico smarrito dietro alle sirene del mondo, i quadri luminosi della cristianità medievale e le oscurità abissali del comunismo prima e dopo Stalin, prima e dopo la caduta del muro di Berlino. Era impossibile stancarsi al cospetto di un uomo capace di attraversare il secolo che ha negato Dio armato della sola fede cattolica. Perché era proprio questo che, ogni volta, ti si fermava tra le mani. Lo stesso regalo avvolto nelle pagine di gioielli come “Il Cavallo Rosso”, “Gli ultimi soldati del re”, “I più non ritornano”, “Processo e morte di Stalin”, “Il fumo nel tempio” e gli altri tasselli della sua bibliografia. Corti dava un volto alla bellezza e alla precisione della fede cattolica, alla sua efficacia nella vita di tutti i giorni, dentro uno studio di una casa padronale della Brianza e nella radura ghiacciata e bestiale della campagna di Russia.

“Ho salvato la fede perché senza la fede non si vive” diceva per spiegare come fosse uscito indenne dall’inferno della seconda guerra mondiale. La fede è quanto di più concreto vi sia in tutta la sua opera. Tanto che, seduti nel salotto di casa sua, veniva fatto di guardarsi attorno per capire dove questo reduce dalle battaglie con il secolo ateo avesse posato quella corazza così solida

Fuori dall’orizzonte della fede, è difficile comprendere la sua arte e più ancora è difficile afferrare la bellezza concreta della sua pagina. “Don Romano” scrive negli “Ultimi soldati del re” “cappellano del reggimento, venne da noi a celebrare la Messa. (…) Sull’altare pochi lini rigidi, e due candele con le fiammelle in permanenza orizzontali per lo spirar dell’aria. In noi che assistevamo, il pacifico senso, come sempre, dell’incommensurabile grandezza di ciò che si compiva in quel campo di stoppie, tra la terra e il cielo, e la semplicità del luogo, e di quei quattro lini, e del povero calice. (…)  Si trattava però dell’ultima Messa del nostro cappellano, che in giornata sarebbe stato straziato a morte. Non poteva saperlo, e nessuno si rendeva conto di quanto fosse simile a Cristo che nelle sue mani si sacrificava sull’altare: era simile all’inconscio Agnello, mansueto e parato d’oro, che sta per essere sacrificato”.

Questo delicato miracolo letterario non è realismo, non è verismo, non è neorealismo, non è strutturalismo, non è frutto di nessuna scuola. E’ la rara capacità di dare la stessa quantità di attenzione alle cose del visibile e alle cose dell’invisibile, è fede che diventa scrittura, racconto e, in certi momenti, migra nella poesia. E’ capacità di discernere in quel gran repertorio di destini che è la vita, di narrare le esistenze e portarle a buon fine, all’epilogo designato da Colui che le ha concepite sin dall’inizio. E’ sottomissione: quanto di più lontano dall’urlo ribelle della cosiddetta arte moderna, da quell’eresia dell’informe che ha devastato i canoni del vero, del bello e del buono allo scopo di indurre l’uomo a sbeffeggiare Dio e a sostituirsi a Lui.

Quanta nostalgia della Brianza paolotta di Corti ai tempi del cattolicesimo per soli adulti. Quanto rimpianto per una terra e un’epoca in cui ogni vecchia con il Rosario in mano avrebbe potuto raccontare il suo “Cavallo Rosso”, senza inventare nulla, solo guardando nella propria vita attraverso i misteri da sgranare.
Per anni e anni, questo scrittore è stato un vecchio splendido, con quel pizzo bianco un po’ da ufficiale d’altri tempi e un po’ da gentiluomo di campagna quale era davvero. Riceveva con generosa ospitalità nella sua casa, una villa ricavata da quella che un tempo era stata una filanda, una lunga teoria di porte e finestre affacciate su un grande parco. Il “dottor Corti”, come lo chiamavano tutti, conosceva con sorprendente precisione il canto e il piumaggio degli uccelli che vi facevano il nido, come Flannery O’Connor con i suoi pavoni o Cristina Campo con i suoi merli e i suoi usignoli. Una passione che diventava poesia in alcune memorabili pagine del “Cavallo Rosso”.

Quando arrivavi a Besana, il dottor Corti ti faceva accomodare nel grande salotto illuminato dai riflessi verdi del parco. Spesso faceva da sottofondo la presenza discreta ed elegante della moglie, Vanda dei Conti di Marsciano, mentre la piccola cagnetta Colibrì si infilava tutta contenta fra le gambe degli ospiti. Nella libreria campeggiavano una poderosa edizione della “Commedia” di Dante, Cesare, Plutarco e gli altri classici, i sedici volumi della “Geschichte der Pâpste seit dem Ausgang des Mittelalters”, la Storia dei Papi dalla fine dell’etá medioevale di  von Pastor. Questo intellettuale sconosciuto al mondo dell’intelligenza era uno studioso serio e infaticabile, amava e quindi conosceva nell’intimo la letteratura russa, si era studiato sui testi il pensiero marxista-leninista, aveva approfondito Jacques Maritain prima rimanendone affascinato e poi prendendone le distanze in ossequio a un tomismo che non poteva essere piegato alle paturnie mondane dell’autore di “Umanesimo Integrale”. “Maritain e Dossetti” diceva “sono pensatori che in perfetta buona fede hanno condotto il mondo cattolico alla paralisi attuale”. Figlio della Brianza solida e bianca, Corti ha incarnato la versione letteraria del pensiero filosofico di Augusto Del Noce con una poetica gli valse la stima incondizionata di un grande filosofo come padre Cornelio Fabro.

Irriducibilmente controrivoluzionario, vedeva in Lutero e nel 1789 la radice malata in cui si innestano Feuerbach, Marx, Hegel, Nietzsche. Lì nascono le malepiante delle utopie novecentesche, nazismo e comunismo. Ripeteva spesso, con accenti accorati, questa teologia della storia, una filastrocca breve, lineare che riassumeva anni di studi lunghi e faticosi. In questa prospettiva, aveva elaborato la teoria della “sostituzione di cultura”: “Nel mondo occidentale del dopoguerra nelle liberal-democrazie si è realizzata un’imponente sostituzione della visione del mondo illuminista a quella della cultura cristiana”.

 Non poteva immaginare nulla di più doloroso un paolotto come lui, cattolico dalla fede semplice, abituato ad affidarsi totalmente alla Provvidenza e alla Madonna, ispirato da un sacro rispetto per il clero, naturaliter immerso nella dottrina di sempre che ignora ogni elucubrazione teologica: un buon cristiano, uomo buono. “Purtroppo il mondo dei paolotti è finito” diceva “e la causa è che una generazione è come saltata, incapace di trasmettere con la testimonianza e le parole la fede in Gesù Salvatore”. Il paolotto è un cattolico che guarda il mondo in controluce e sa che, là dietro, c’è un ordine da rispettare e a cui rispondere perché l’ha voluto il Padre Eterno.

Per questo il paolotto Corti, quando negli anni Settanta l’Italia fu squassata dalla rivoluzione sessuale, dal Sessantotto, dal terrorismo, si rimise a combattere gettandosi in una delle battaglie più scomode e aspre. Girava l’Italia del nord per tenere conferenze a sostegno del referendum contro la legge divorzista Fortuna-Baslini varata nel 1974, scontrandosi apertamente con quella parte del mondo cattolico che voleva tenersi la legge o, comunque, non voleva il referendum. Lui stava dalla parte di Gabrio Lombardi, di Augusto Del Noce, di Emanuele Samek Lodovici, i quali puntarono tutto sulla tesi giusnaturalistica secondo cui il matrimonio, civile o religioso, è intrinsecamente indissolubile. A opporsi a questa dottrina, classica e non clericale, c’erano figure ingombranti come il rettore della Università Cattolica Giuseppe Lazzati, del quale lo scrittore di Besana aveva grande stima personale, giudicandolo un autentico cristiano. Lo sfrangiamento clamoroso del mondo cattolico e la conseguente sconfitta in quel referendum lo amareggiarono. Di fronte alla prospettiva di impegnarsi allo stesso modo per il referendum del 1981 sull’aborto, decise di restarsene a casa: “Avevo posto una sola condizione per battermi: tappezzare l’Italia di manifesti che mostrassero le foto raccapriccianti di che cosa succede a un feto abortito. Per convincere la gente che l’aborto è sbagliato, bisogna mostrare alla gente che cos’è l’aborto. Mi risposero che questo era impossibile, e che sarebbero stati usati messaggi positivi e foto di bambini sorridenti. Capii in quel momento che la battaglia era persa in partenza e mi ritirai in buon ordine. E così fu”.

In obbedienza al sacro ordine che regge il mondo, il paolotto Corti è stato per decenni un imprenditore impegnato a dare lavoro alla sua gente, artefice di un capitalismo sociale nel quale il bene degli operai si promuove per ossequio al Vangelo piuttosto che ai sindacati. Attraversò il fascismo senza diventare antifascista, osservò il ventennio con molto distacco. “Il recupero del mito della romanità” diceva “fu una sceneggiata piuttosto ridicola, ma il fascismo fu provvidenziale nella Guerra di Spagna e nel concordato del 1929. Mussolini fu una figura poco profonda, ma fu uomo della Provvidenza perché evitò all’Italia di cadere preda del comunismo”. Un merito non da poco per uno che, come dettava la sua razza spirituale, fu un anticomunista non viscerale, ma razionale, conscio che nulla di quella ideologia poteva essere conciliato il cattolicesimo.

Quando si sistemava sulla sua poltrona preferita, occhieggiava con quello sguardo manzoniano che interrogava senza inquisire e rispondeva senza pontificare. Quegli occhi avevano visto una delle guerre più spaventose della storia dell’umanità, quel corpo era passato attraverso una massacrante ritirata nella steppa russa che in poche settimane aveva spazzato via una fetta della gioventù italiana. Era partito volontario nell’Armir perché voleva vedere con i suoi occhi l’esperimento comunista. Questa esperienza si era trasformata nel primo romanzo, “I più non ritornano”, diario della ritirata di Russia, scritto a soli 22 anni. Dopo l’8 settembre del 1943, il giovanissimo autore aveva fatto seppellire il manoscritto in una tela impermeabile per timore cadesse in mani sbagliate. Poi aveva raggiunto l’esercito del Re in Puglia e  aveva risalito la penisola combattendo fino al 1945. Recuperato il manoscritto, lo aveva pubblicato nel 1947 con Garzanti, rivelandosi subito come una promessa della narrativa, della quale si accorsero Benedetto Croce e Mario Apollonio.

Il luogo magico della creatività di Corti era lo studio al primo piano, luminoso, ordinato, carico di libri, di documenti e di una quantità immensa di messaggi di lettori entusiasti, il riconoscimento più prezioso. E’ in questo studio che per lunghi pomeriggi Paola Scaglione, la sua biografa, ha raccolto le confidenze di una vita: a lei e ad Andrea Sciffo si deve il merito di aver sottratto al silenzio della critica l’opera di un autentico romanziere.

“Il Cavallo Rosso”, il capolavoro, fu pubblicato dalle Edizioni Ares di Milano nel 1983. Oggi è arrivato a 29 edizioni ed è stato tradotto in Francia, Stati Uniti, Romania, Giappone. In Francia i critici e il pubblico ne hanno decretato un successo clamoroso: il direttore di “Le Figaro Litteraire”, Etienne de Montety, lo ha definito il romanzo più importante degli ultimi 25 anni. Michael O’Brian scrive che i suoi tre maestri di scrittura sono Tolkien, Dostoevskij e Corti.

Quel romanzo cambiò la vita a tanti giovani, fece tanto bene, ma non poteva piacere all’intellighenzia di sinistra, perché Corti parlava dei milioni di morti fatti dai nazisti e pure di quelli fatti dai comunisti. Però il punto vero era un altro, più profondo: questo romanzo mette alla berlina la lettura ideologica dei fatti e dice in modo convincente che, alla fine, il problema non sono il fascismo, il nazismo, il comunismo o la resistenza. Il problema è l’uomo. “Il Cavallo Rosso” racconta la vita, la morte, la fede, il dolore, la famiglia, l’amore, l’odio, la vendetta, una civiltà travolta dal benessere, lungo una fetta di storia esemplare che va dal 1942 agli anni Settanta. E’ un romanzo pulito senza l’ingombrante chiodo fisso del sesso che domina gran parte della letteratura del Novecento, eppure dentro c’è tutta la realtà, compresa quella dell’amore e della passione. Solo che qui succede ciò che ormai nemmeno i cattolici innamorati del mondo credono possibile: l’uomo si imbatte nelle tentazioni, ma può resistere. “La povertà” spiegava Corti “non è il più grave problema dell’umanità, come crede certa teologia del Novecento. Il vero problema resterà sempre il peccato e la speranza che qualche cosa o Qualcuno possa perdonarlo”.

 Questa visione medievale del cristianesimo è costata il disprezzo e la censura di una fetta importante del mondo cattolico. Nel 2000, gli fu assegnato il Premio Internazionale di Cultura Cattolica, ma la chiesa delle conferenze episcopali e dei giornali clericali, dei “progetti culturali” e delle “cattedre dei non credenti” gli ha girato accuratamente al largo. Il vescovo di Como, monsignor Maggiolini, suo grande estimatore, parlava  di “una congiura del silenzio”.

Da parte sua, lo scrittore non faceva sconti e nel 1996 pubblicò un saggio dal titolo inequivocabile: “Il fumo nel tempio”. Evocava quanto nel 1972 aveva detto Paolo VI scandalizzando il mondo: “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”. Il paolotto, di fronte allo sfacelo della Chiesa, non poteva più tacere. Per lui, la vita rimaneva quella che gli avevano insegnato i suoi genitori, una battaglia. Sapeva bene che la Chiesa è composta da tre comunità: quella dei trionfanti già in paradiso, quella dei purganti e quella dei militanti. La sua poetica, il suo lavoro di intellettuale si sono concentrati su quest’ultima, su quello che amava chiamare “il tragico mondo degli uomini”.
fonte: Il Foglio