mercoledì 23 ottobre 2013

L'IMPURITÀ È UN PECCATO MORTALE DI SUA NATURA.





I TESORI DI CORNELIO A LAPIDE: L' Impurità.
1. L'impurità è un peccato mortale di sua natura
2. Avvilimento dell'impudico.
3. Funesti effetti dell'impurità: 1° effetto, i tormenti; 2° danni spaventosi; 3° lo scandalo; 4° l'accecamento; 5° la schiavitù
4. I piaceri della carne sono cosa da poco, pieni di amarezza, e di molestie.
5. Quali sono le principali cause dell'impurità?
6. In quanti modi si cade nel vizio della disonestà.
7. Quanto sia difficile uscire dall'impurità
8. Castighi e dannazione dell'impudico.
9. Rimedi contro l'impurità.


1. L'IMPURITÀ È UN PECCATO MORTALE DI SUA NATURA. - L'impudico consacra il suo culto alla carne... Egli adora quello che adoravano i pagani; venera con loro il medesimo dio. Ora l'idolatria è un delitto enorme. «Il mio popolo, dice Iddio, ha cangiato la sua gloria per un idolo. Stupite, o cieli, e voi, o potenze del cielo, vestitevi a lutto» (IEREM. II, 11-12). «L'impudico cambia la gloria del Dio incorruttibile, nella sembianza dell'uomo corruttibile», dice S. Paolo (Rom. I, 23). 

Lo stesso Apostolo dice ancora: «Quelli che si deliziano nella carne, non possono piacere a Dio; se voi vivrete secondo gli appetiti della carne, morrete» (Rom. VIII, 8, 13). «Non illudetevi: né i lussuriosi, né gli idolatri, né gli adulteri possederanno il regno dei cieli» (1 Cor. VI, 9-10); «perché la carne e il sangue non possono stare con Dio, né la corruzione immedesimarsi con l'incorruttibilità» (Ib. XV, 50). «Non sapete che voi siete il tempio di Dio, che i vostri corpi sono membri di Gesù Cristo e che in voi abita lo Spirito Santo? Adoprerete adunque i membri di Gesù Cristo per farne membri di una prostituta? Ma se alcuno profana il tempio santo di Dio, il qual tempio siete voi, Dio lo sterminerà» (Ib. III, 16-17; VI, 15). «Sappiate e vi stia ben fisso in mente, che nessun fornicatore o impudico avrà parte all'eredità del regno di Cristo e di Dio» (Eph. V, 5). 

Formale è il precetto di Dio: Non fornicare (Exod XX. 14), né meno chiara è la sua sentenza che nella città di Dio non v'entrerà nulla di macchiato (Apoc. XXI, 27). «E Dio, dice S. Pietro, sa riservare i malvagi al giorno del giudizio per castigarli e quelli principalmente che accarezzano la carne vivendo secondo le voglie della carnale concupiscenza» (II, II, 9-10). Infatti è peccato così enorme l'impurità e così abominato da Dio, che, come dice S. Agostino, è il più gradito a Dio l'abbaiare dei cani, il muggire dei buoi, il grugnire dei porci, che non il canto dei suoi servi impudichi (In Levit.). 

«Non cambiate i vasi sacri in vasi d'ignominia», esclama S. Pier Damiani; ora, già l'abbiamo inteso dall'Apostolo, i cristiani sono i tempi, i vasi sacri del Dio vivente. Se un profanatore sacrilego dirocca una chiesa, abbatte un altare, spezza un vaso sacro, di quale odioso delitto non si rende colpevole! Ben più orrenda e indegna è la profanazione che fa il lussurioso della sua anima, del suo cuore, del suo corpo e infinitamente più enorme è il suo misfatto. Infatti, se è vera la sentenza di S. Tommaso, che per la lussuria l'uomo si allontana infinitamente da Dio (De Peccat.)», e se è vero che il peccato è un abbandono che fa l'uomo di Dio, ben può ciascuno calcolare l'enormità del peccato d'impudicizia; quindi S. Bernardo non si contenta di dire: Guai, ma aggiunge, molti e grandi guai all'incontinente (Serm. in Cantic.). 

E non si creda che per commettere peccato grave in questa materia, bisogni arrivare agli estremi limiti di questo abominevole vizio: sarebbe questo un deplorevole e grossolano inganno perché non solamente un'azione di tal genere è colpa mortale, ma anche un semplice pensiero, o desiderio, o sguardo fatto con consenso deliberato. 
Possono i coniugati medesimi farsi rei di gravissime colpe in questa materia, quando non abbiano per iscopo e freno il santo timor di Dio. Ricordatevi, o sposi, la parola di S. Paolo: «Si porti rispetto da tutti al matrimonio e si conservi il talamo immacolato; perché Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri» (Hebr. XIII, 4); vi atterrisca la sentenza del Signore: «Il seme degli empi non attecchirà» (Psalm. XXXVI, 28). Dio destinava alla vita ed al cielo tanti bambini; ora dove sono essi? O sciagurati che respingete nel nulla esseri destinati a benedire, lodare e godere Dio eternamente! La Scrittura ci narra che l'infelice Onan, perché impediva con un'azione detestabile che si compisse la volontà divina, fu dal Signore colpito di morte (Genesi XXXVIII, 9-10) Una tale profanazione è contraria alla legge naturale ed alla santità del matrimonio. Questo delitto è un omicidio. Vi sono dei genitori che si lagnano delle loro disgrazie, delle malattie, della morte dei loro ragazzi. Pensino se non sono forse castighi di Dio che li punisce in quello medesimo in cui hanno peccato. 


Dove si possono trovare parole che bastino a flagellare come conviene l'infame delitto dell'adulterio e tutti i mali che trascina con sé? L'adultero: 1° scioglie la fedeltà coniugale; 2° viola il matrimonio, perché la natura, e l'autore della natura, Iddio, esigono che gli sposi rispettino la loro unione (Gen. II, 24); 3° profana il sacramento; 4° fa grave ingiuria ai figli legittimi; 5° commette un'enorme ingiustizia; 6° si fa reo di un orrendo scandalo... L'adultero pecca contro Dio, di cui non vuole riconoscere l’autorità, rifiutando di adempirne il comando; pecca contro la persona che gli è unita, perché non le mantiene la data fede; pecca contro se medesimo, perché si macchia l'anima e il corpo; pecca contro i figli legittimi che danneggia; pecca contro il complice medesimo dell'adulterio, essendogli cagione od occasione di peccato... . 
«Non sapete, o adulteri, che l'amicizia di questo mondo è nemica di Dio?» (IACOB. IV, 4). Il mondo è adultero; amare il mondo è un adulterio spirituale; chi consacra l’anima sua al mondo, la ruba a Gesù Cristo sposo delle anime... 

Il Signore nell'antica legge ordinava che l'adultero fosse lapidato; per bocca del Savio dice che sarà punito su la pubblica piazza; che si darà alla fuga come puledro scavezzato, ma sarà sorpreso là dove meno si pensa; sarà disonorato nel cospetto di tutti; lascerà la sua memoria in maledizione, e la sua infamia non sarà cancellata (Eccli. XXIII, 36). I castighi che piombano su Davide e la sua famiglia, a cagione del suo adulterio, sebbene da lui con amarissima penitenza espiato, bastano a darci un'idea di quello che deve aspettarsi dalla giustizia divina l'adultero impenitente. 



2. AVVILIMENTO DELL'IMPUDICO. - Una viva immagine dell'abbrutimento e della degradazione del lussurioso ce la fornisce il figliuol prodigo del Vangelo, il quale si mise al servizio di un padrone e fu mandato a pascolare i porci (Luc. XV, 15); assai più vile di un gregge di maiali è la folla dei pensieri immondi, dei disonesti affetti, delle lubriche voglie che egli accoglie e custodisce nella sua anima. Ecco la sorprendente ma giusta metamorfosi del libertino e del suo stato! ecco il castigo inflitto alla sua licenza ed alla sua folle libertà! Colui che aveva rifiutato di essere devoto figlio di nobilissimo e generoso padre, si vede costretto a diventare schiavo di uno straniero, di un incognito, di un tiranno.

 Ecco l'impudico... respinge l'autorità di Dio, rifiuta di obbedirgli; non vuole rimanere con lui ed eccolo obbligato a servire il diavolo più che da schiavo. Il prodigo non volle abitare nel palazzo del padre, e cacciato alla campagna tra il servitorame più abbietto, abbandonato alla fame, alla sete, alla nudità. Non volle avere per compagni di tavola e di casa il padre ed il fratello, è condannato a dividere il cibo e l'alloggio coi porci. Ebbe a nausea il pane e le eccellenti vivande della casa paterna, ora si stimerebbe fortunato se potesse empirsi dei miseri avanzi di schifosi animali! (Luc. XV, 16). «Che crudele, desolante condizione è mai questa, esclama il Crisostomo, non poter nemmeno mangiare del cibo dei porci, dovendo vivere coi porci! (Serm. I)». Ecco dove va a finire il lussurioso! 
S. Paolo ci avverte che Dio abbandona gli impudichi in balìa ai desideri Immondi dei loro errori, alle ignominiose voglie della carne, affinché vituperino se medesimi nei loro corpi; finché disperando della loro salute, si abbandonano ad ogni sorta di più laida dissolutezza (Rom. I, 24-26), (Eph. IV, 19); e si avvoltolano nel brago delle più schifose dissolutezze, appunto, dice S. Pietro, come un porco che si tuffa nel fango (II PETR. II, 22), e mettono, dice S. Giuda, in mostra le loro turpitudini (IUD. 13). 


Non c'è vizio più ributtante, più vergognoso, più degradante dell'impudicizia; a ragione S. Pietro raffigura l'impudico nel porco. Perché: 1° egli ama le cose sporche...; 2° è nei suoi portamenti sordido e stomachevole...; 3° si delizia, a somiglianza dei maiali, del fango e della mota...; 4° il porco non guarda che alla terra, non si occupa che del ventre, si corica sul suolo, non è che un informe massa di carne; non diversamente è dell'impudico...; 5° il porco è senza riconoscenza anche verso il suo padrone; il lussurioso non perde egli forse ogni sentimento e discernimento?... In lui si avvera l'imprecazione di David: «Copri la faccia loro d'ignominia» (Psalm. LXXXII, 15). 
«Il dissoluto, scrive S. Eucherio, non si differenzia punto dalle pecore o dai porci, perché mette i suoi piaceri negli sfoghi carnali; fa suo dio della propria carne e volge in argomento di sua gloria quel che in lui vi è di più vergognoso (Epist.)». La stessa cosa già scriveva S. Paolo ai Filippesi: «Il cui dio è il ventre e la gloria nella propria vergogna» (III, 19). Anche Clemente Alessandrino lasciò scritto che gli «uomini lussuriosi guazzano nelle loro turpitudini come i lombrici nella melma. Sono uomini porcini, poiché i porci preferiscono la loia all'acqua chiara (Exhort. ad Gent.)». 
Si legge nella vita di S. Ignazio di Loyola, che per correggere un libertino il quale portavasi in una casa di mal affare, egli si tuffò un giorno nell'acqua, e quando vide passare di là quell'infelice, gli disse: Va’, sciagurato, ai tuoi disonesti piaceri; non vedi la rovina che ti minaccia? Io mi sono imposte dure penitenze, per allontanare dal tuo capo i fulmini divini che stanno per incenerirti. 


La voluttà è giudicata da S. Gregorio Nazianzeno l'alimento di tutti i vizi, l'amo a cui facilmente restano colti gli animali vili ed abbrutiti (In Tetract.). 
Perciò il Crisostomo afferma che se potessimo vedere 1'avvilimento, la degradazione dell'anima di un lussurioso, preferiremmo un fetido sepolcro a un tale stato (Homil. XXIX, in Matth.); il profeta Abacuc piangeva su la sorte di coloro che fanno intorno a sé mucchi di spesso fango (II, 6). E questi mucchi figurano, dice S. Gregorio (lib. VI,Moral.), i desideri, le voghe, gli sfoghi d'una laida concupiscenza; da questo fango, il Salmista pregava Dio che lo preservasse (Psalm. LXVIII, 15). 

Che cosa vi è di più corrotto e di più laido, domanda l'Ecclesiastico, del pensiero della carne? ogni pane, anche il più cattivo, riesce buono al fornicatore (XVII, 30), (XXIII, 24). E non è forse vero che all'uomo abbrutito nell'incontinenza fa gola qualsiasi creatura? Sia bella o brutta, povera o ricca, pulita o sozza, giovane o vecchia, egli non guarda pel sottile; purché lo serva ai suoi brutali sfoghi, d'altro non gl’importa; appunto come un affamato dà di morso in qualunque tozzo di pane, comunque nero, muffito o duro, gli capiti tra mano. 

S. Bernardo osserva che gli uomini carnali non hanno un cuore di uomo, perché avendolo tutto imbrattato nelle vergognose passioni, è cambiato in cuore di bestia. Ed applicando a loro quelle parole del Salmista: «Il mio cuore si è liquefatto come cera in mezzo alle mie viscere» (Psalm. XXI, 14), dice: «Il loro cuore fuso al fuoco della passione carnale, esce dal suo luogo e cade nel fango, altro più non gustando che la passione, tutto confondendo, corrompendo e degradando, cambia l'affetto naturale e legittimo dell'amicizia in un appetito bestiale e sregolato; brama ciò che è illecito, ignominioso e vergognoso perfino alla carne stessa; dimentica a tal punto la sua antica grandezza e nobiltà di figlio di Dio, che quelli ch'egli corrompe e coloro che corrompono lui, non lo credono ornai più altro se non un luogo di pubblica prostituzione, la sede naturale della lussuria. Infelici, mille volte infelici coloro che soffocando la voce della ragione e della coscienza sono discesi a tanto avvilimento, che più no e stimano e prostituiscono a Satana quell'anima che creata da Dio, apparteneva a Lui, ed essi ne hanno fatto la dimora e il trono del diavolo, la sentina di tutte le sporcizie, la fogna di tutte le più infami debolezze» (De nat. et dign. amoris, c. I). 


Con tutta ragione pertanto Eusebio sentenzia che la lussuria abbassa e degrada l'uomo al disotto delle bestie (In Chronic.); S. Pier Crisologo afferma che l’impudico «muore alla virtù cresce ai vizi oscura la sua gloria, seppellisce la sua riputazione e vedrà la sua follia crescere fino al furore (Serm.)». Ah sì! bisogna dire col profeta che l'uomo, posto in alto stato, non ha compreso il suo destino, si tenne uguale ai giumenti e divenne simile a loro (Psalm. XLVIII, 12); si corruppe e diventò abominevole (Psalm. XIII, 1), perciò Dio li ha abbandonati all'ignominia eterna (Psalm. LXXVII, 66). 

L'uomo impuro, dice S. Agostino, invece di spiritualizzare il suo corpo, abbrutisce e materializza l’anima sua (De Morib. Eccl.), e ne forma il covo prediletto del demoni i quali amano di stare nei lussuriosi più che in altri peccatori; come si vede figurato in quel fatto del Vangelo dove si narra che i demoni, scacciati dal corpo di un ossesso, chiesero in grazia a Gesù Cristo che li confinasse in un branco di maiali che stavano pascolando là vicino (MATTH. 31-32). 


Quando un anima disprezza la gloria e la grandezza a cui era chiamata, allora alla riputazione succede lo scandalo e la follia; alla gloria, l’ignominia; alla ricchezza, la miseria; la grazia cede il luogo all’odio; il rispetto, al disprezzo; il guadagno, alla perdita; l’intenzione è corrotta, basso e vile il pensiero, disonesta l’azione... Osservate l'avvilimento, la degradazione in cui cadde e giace quell'adultero, quella donna, da trivio, quella giovane spudorata. O Dio, come mettono schifo e ribrezzo non solo agli altri, ma ai loro medesimi corruttori! Il demonio medesimo, dopo di averle macchiate, le canzona, le disprezza, le calpesta. Obbrobrio della società e della famiglia esse si vedono fatte ludibrio agli scherni degli uomini e all’indignazione di Dio; sono la favola dl tutto il mondo, derise dal cielo, dalla terra, dall'inferno, in uggia e abominio a se stesse... 

Donde può mai venire, domanda S. Bernardo, quella così grande e cosi miserabile abiezione, per cui una creatura così bella e nobile, capace dell’eterna beatitudine e del godimento di Dio; un essere creato a immagine di Dio, riscattato col sangue di un Dio, adottato dallo Spirito Santo, dotato della fede, nutrito di un Dio, fatto per Iddio e per l’immortalità; donde può mai essere, dico, che una tale creatura non arrossisca di tuffarsi e di vivere nella corruzione della carne e del sensi? Ah! è questa una giusta punizione dell’avere abbandonato uno sposo quale è Gesù e di avere amato simili nefandezza; giusta punizione, il bramare i rifiuti degli animali e non averli! Giusto castigo, per questo orgoglioso che preferì custodire questi animali, anziché rimanersi nella casa del padre suo! O stupido lavoro! o sudore male speso è questo mai col quale l'uomo si consuma intorno a un cadavere in putrefazione! «O insensati mortali, deh! non amate quello che amato v'insozza, posseduto vi schiaccia e perduto vi tormenta (De Convers. Cler. c. XII)». 

Finalmente, anche i saggi pagani convengono con la Scrittura e coi padri, che l'impudicizia è cosa laidissima e degradante e vergognosa più di qualunque altra. Platone e Cicerone, per esempio, dicono che la voluttà carnale è il nutrimento dei cuori abbietti e corrotti (De Senect.). Orazio chiama i libidinosi «porci della mandra d'Epicuro». - La libidine, dice Seneca, è propria non dell'uomo, ma della bestia (Epist. XLI). Il filosofo Panezio osservava che l'amore impuro è cosa vile tanto in colui che ama, quanto in colui che è amato. Poiché questo amore impuro non fa altro che convertire in putredine il corpo e quanto si prende in cibo e bevanda. L'oggetto che l'impudico ama di disonesto amore rimane nella sua memoria come una divinità nel suo tempio, divinità alla quale egli sacrifica non un toro né un capro, ma l'anima ed il corpo. Non si rende egli adunque quanto si può dire abominevole e vile, se per un ignobile piacere di un istante, si dà in balìa di una carne corrotta, o meglio si fa schiavo del più lurido dei demoni? (Anton. in Meliss.). 


3. FUNESTI EFFETTI DELL'IMPURITÀ: 1° I tormenti. - Il primo dei funesti effetti dell'impudicizia è di accendere nel cuore e nelle ossa del libidinoso un fuoco che lo cruccia, lo cuoce, lo divora: perché come una fiamma che si apprende al solaio di una casa, scoppia ben presto in vasto incendio che consuma tutta la casa con tutto quello che si trova in essa, così l'impurità, appigliatasi ad un'anima, divampa, se tosto non è spenta, in tale incendio, che nell'uomo non vi rimane più nulla d'illeso, né mente, né cuore, né sensi, né membra. Inoltre, come il fuoco si dilata di casa in casa, finché riduce in cenere un'intera città, così la fiamma libidinosa facilmente si stende da uno o da più a molti e diventa, un focolare d'incendio. L'impurità è poi ancora un fuoco, perché vicina al fuoco dell'inferno. L'inferno alimenta questo fuoco e questo fuoco popola l’inferno. Sodoma accesa di fuoco impuro, è divorata dalle fiamme di un fuoco disceso dal cielo. 

«Il fuoco delle passioni divora la gioventù », dice il Salmista ­ (Psalm. LXXVII, 63), e «la fiamma impura si accende tra i dissoluti e finisce per incenerirli» (Psalm. CV, 19). «L'impurità, dice Giobbe, è un fuoco che non si spegne se non quando più nulla vi resta da consumare» (IOB. XXXI, 12). Su queste parole, così scrive S. Gregorio «Che cosa è la passione impura, se non un fuoco e che cosa sono i pensieri disonesti, se non paglia? Ora chi non sa che una scintilla gettata nella paglia, in poco tempo incendia un intero pagliaio, se non si spegne subito?» (In Iob.). 
«L'impurità, dice S. Ambrogio, è un fuoco crudele che non cessa mai un istante; brucia notte e giorno e la sua vampa toglie perfino il sonno» (In Psalm. I). «O lussuria, fuoco infernale esclama S. Gerolamo, la cui materia è la gola, la cui fiamma è l’orgoglio, le cui scintille sono i discorsi disonesti, il cui fumo è la follia e il termine è l'inferno! (In Epist.)». Poiché, come dice S. Agostino, «quel che diletta passa, ma quel che tormenta e strazia dura in eterno (Confess.)». 
«O impudichi, esclama Isaia ecco che voi accendete il fuoco e, cinti di fiamme, camminate al loro bagliore e in mezzo all'incendio da voi acceso» (ISAI. L, 11). 
S. Gregorio vede in quella caldaia bollente di cui parla Geremia (I, 13), il cuore del lussurioso infiammato di voglie carnali, acceso da Satana, scaldato dal consenso; escono da questa caldaia infocata, come tanti sprizzi, i desideri di abbandonarsi ad opere nefande (Moral. lib. XVIII, c. 11). 

«L'anima impura è figurata in una caldaia bollente, dice S. Tommaso: 1° a cagione del fuoco della concupiscenza; 2° a cagione delle azioni brutali; 3° per la nerezza della macchia. Essa è poi riscaldata: 1° dal furore di un cieco amore; 2° dal fuoco della collera e del litigio; 3° dal fuoco dell'inferno» (De Peccat.). Ed ecco perché Osea paragona gl'impudichi ad un forno acceso (OSE. VII, 4); e la Scrittura parlando dei vecchioni incontinenti che attentarono alla pudicizia di Susanna, dice che furono investiti dalle fiamme della concupiscenza (DAN. XIII, 8). 

Il demonio si unisce alla passione e tutti e due fanno a gara per soffiare nel cuore del dissoluto il desiderio del peccato; essi gridano del continuo ai sensi e alle creature: Portate, portate... «Di tal natura sono i piaceri sensuali, dice S. Gregorio, che mentre non si hanno, ci accendono di desiderio; appena gustati, ce ne sentiamo ristucchi e nauseati. Per contrario i piaceri spirituali, finché non si hanno, ci dispiacciono; ma appena assaggiati, stimolano l'appetito e tanto più ardentemente si desiderano, quanto più copiosamente si godono (Homil.)». Il desiderio delle cose spirituali, osserva il medesimo papa, rallegra, l'appetito delle carnali tormenta; questo è abbietto e vile, quello nobile e grande. I piaceri della carne presto saziano e la sazietà genera nausea; ma quelli dello spirito saziano senza disgusto e la sazietà sollecita il desiderio; perché quanto più si gustano, tanto più si conoscono e si amano. Perciò non può amarli chi già non li prova, perché non ne conosce le dolcezze. I diletti corporali escludono quelli spirituali e ne tolgono perfino il senso (Homil.). 

2° Danni spaventosi. - Un altro effetto, non meno deplorevole del primo, produce la libidine, col togliere ogni sorta di bene nell'anima e nel corpo della sua vittima: «Non vi può rimanere niente di salvo e intatto, dice S. Cesario, in colui che è investito dal fuoco della concupiscenza (Homil.)». «E tutti coloro, dice Salviano, che cadono e rimangono nel fango delle lubriche passioni, si seppelliscono sotto le loro medesime rovine» (Lib. ad Ecclesiast.). E infatti, non si dice forse del figliuol prodigo, figura e modello dell'impudico, che andato in paese lontano, diede fondo ad ogni sua sostanza e fu indotto sul lastrico dalla sua vita di libertinaggio? (Luc. XV 13). 

Questa è la sorte che tocca ai libertini di professione. Fanno getto di tutti i doni di natura e di grazia...: perdono la carità ed ogni sorta di virtù... Questo vizio acceca l'intelligenza, cosicché non si conosce più né Dio, né la virtù... Spegne la memoria della legge e dei benefizi di Dio... Indebolisce la volontà e la deprava a tal punto, che si preferisce il vizio alla virtù, la voluttà alla ragione, la creatura al Creatore, la carne allo spirito, il rimorso alla pace, la terra al cielo, il demonio a Dio, la morte alla vita, l'inferno al paradiso, il sommo ed eterno male al sommo ed eterno bene. Si svestono le insegne di Gesù Cristo e s'indossa la livrea di Satana... 
Il voluttuoso diventa stupido, sconsigliato, avventato, senza ragione, senza spirito, senza cuore, senz'animo... Tutte le forze dell'anima e del corpo, destinate a servire il Creatore, sono da lui sciupate dietro la creatura, la concupiscenza, i piaceri del senso. Disprezza i doni del senso. Disprezza i doni della grazia, calpesta le promesse del battesimo; la nobiltà scompare sotto il fango, e l'attitudine spirituale alle grandi cose ed alle sublimi virtù è spenta. 

Udite come parla S. Cirillo: «Per la voluttà la carne si corrompe, il vigore dell'animo è fiaccato, l'ardore dei vizi imbaldanzito; il giogo delle virtù diventa intollerabile; le passioni entrano nel cuore e lo splendore della ragione si oscura. La voluttà ha prostrato Sansone prodigio di forza, ha abbattuto Davide modello di santità, ha sedotto Salomone oracolo di sapienza. La voluttà avvelena col soffio di dragone; invita tutta dolce, penetra tutta soave, s'impadronisce da assassino e distrugge ogni cosa (Homil.)». «L'impurità, continua S. Cipriano, è rabbia venefica, incendio della coscienza, madre del1'impenitenza, rovina del1a più bella età, onta del genere umano, nemica giurata del sangue e della famiglia (Lib. de bono pudic.)». 

«L'incontinente, come già notava il Savio, non rispetta né il principio della vita, né la santità del matrimonio (Sap. XIV, 24). Né v'è da stupire; poiché, come volete che rispetti ancora qualche cosa questa gente la quale è zimbello di un vizio tale che, come dice S. Bonaventura, schianta perfino le barbe di ogni virtù (In Specul) e, secondo S. Agostino, non lascia nemmeno più pensare all'avvenire ed ai novissimi (Confess.), e per testimonianza di S. Ambrogio, fa traviare dalla retta fede? (Epl. XXXVI ad. Sabin.). 
A buon diritto S. Basilio chiama la libidine: «Amor del diavolo che trae a morte; madre del peccato, nutrice del verme che roderà in eterno (Exhortat. ad Baptis.)». S. Giovanni Damasceno la chiama: «Metropoli di tutti i mali (Lib. Paral. c. XXVIII)» ; e S. Ambrogio: «Semenzaio e origine di tutti i vizi (Epistola XXXVI ad Sabin.)». S. Remigio poi si spinse fino ad asserire che la maggior parte dei reprobi si trova all'inferno a cagione di questo vizio (De Impurit.). 

Su questo versetto dell’Esodo - «La terra li ha divorati» (XV, 12), così scrive Origene: «Se vedi una persona abbandonata ai piaceri del senso, una persona nella quale l'animo non ha più impero, ma che è dominata dalla lussuria, di pure che la terra l'ha divorata e ben presto la inghiottirà l'inferno (In psalm. Homil.)». 
La lussuria è una catena che mette l'anima in balìa del corpo, che la vincola e l'assoggetta per tal modo alla carne, che non ascolta più altri che il corpo, non vive se non di lui e per lui, e diventa, come lui, materia e fango. Questa verità conobbero e confessarono. anche i pagani. Euripide cantava che la massima delle pazzie è l'incontinenza (LAERTIUS); era detto di Antistene, che preferiva di divenire pazzo piuttostochè voluttuoso; perché può bene un medico guarire talora un pazzo, ma quando la libidine si è impossessata di un'anima, diventa un male quasi incurabile (Anton. in Meliss.). 
L'effeminatezza dei Romani fu, per testimonianza di Tito Livio, la cagione delle loro sconfitte sotto Annibale, perché ne aveva indebolito le forze e spento il cuore (Histor. Rom.). Cicerone riporta come sentenza di Archita tarentino, non esservi al mondo peste né più pericolosa né più funesta della voluttà. Da lei i tradimenti della patria, i rovesciamenti dei troni, le guerre delle nazioni; non darsi misfatto o delitto al quale la libidine non spinga. Quanti avvelenamenti! quanti infanticidi! quante risse! (De Senect.). 

I piaceri carnali hanno per conseguenza malattie, febbri, piaghe, mali di ogni sorta, perciò Claudiano dava per avviso: «Di tenere chiuso il cuore all'incantevole voce della voluttà carnale, poiché chi le dà retta, si compra la propria rovina per mezzo del dolore».
La lussuria toglie all'uomo l'ingegno, il giudizio, la forza fisica e morale; uccide la ragione, abbrutisce l'uomo. Quest'abominevole passione ubriaca i sensi, indebolisce la vista, altera i lineamenti del volto, mena a precoce vecchiaia, distrugge ogni buona disposizione, fiacca il coraggio e rende, in una parola, simili a quelle statue che hanno occhi, orecchi, piedi e mani, e intanto non vedono, non odono e non fanno nulla. Inoltre, distrugge il buon nome, fa schiava la volontà, incatena i buoni desideri, istupidisce i sensi e fa dell'uomo un animale di infima specie. Questa passione è un delirio dell'anima; una ubriachezza in cui si perdono le ricchezze, la nobiltà, la dignità, la fama, la santità, la vita, la pace, la tranquillità, la felicità, l'anima, lo spirito, il cuore, il tempo, l'eternità...

3° Lo scandalo. - Il terzo effetto dell'impurità è lo scandalo che ne deriva. «La terra è macchiata dalla lussuria, è infetta dalla prostituzione» (Psalm. CV, 37). Il voluttuoso è macchiato e macchia gli altri, egli manda un fetore di morte che uccide, secondo l'espressione di S. Paolo (II Cor. II, 16). L'impudicizia corrompe tutto dove essa penetra; è uno scandalo dovunque si mostri, sia nei conviti, sia nei festini, sia nei balli, sia nei teatri, sia nelle conversazioni, sia nelle veglie, sia nella solitudine, sia nei cattivi libri... Non vi è scandalo peggiore dello scandalo che dà l'impudico; egli scandalizza in tutto e dappertutto. Per lui non vi è nulla di santo, niente di sacro; non rispetta né l’innocenza, né l'età, né il sesso, né la debolezza, né le lagrime, né il tempo, né il luogo, nemmeno le cose e le persone sacre. 

Ecco il quadro che degli impudichi scandalosi ci ha tracciato la Sapienza. «Essi dissero, folleggiando nei loro storti pensieri: Corto e tedioso è il tempo di nostra vita e non vi è riparo per l'uomo dopo il suo fine e non vi è, che si sappia, chi sia tornato dall'inferno. Noi siamo nati dal nulla e saremo come se non fossimo stati mai, perché il fiato delle nostre narici è un fumo; la loquela è una scintilla che viene dal movimento del nostro cuore: spenta questa, il corpo nostro sarà cenere e lo spirito si dissiperà come un'aura leggera e la nostra vita passerà come la traccia di una nuvola e si scioglierà come nebbia battuta dai raggi del sole e sciolta dal calore di esso... Su via dunque, godiamo dei beni presenti e serviamoci in fretta delle creature, finché siamo giovani. Coroniamoci di rose prima che appassiscano, non vi sia prato per cui non passeggi la nostra lussuria. Non vi sia nessuno di noi che non partecipi alla nostra lubrica vita, lasciamo per ogni dove le tracce della nostra dissolutezza, ché questa è la nostra porzione e la sorte nostra... Così hanno pensato e sono caduti in errore; perché la loro malizia li ha accecati» (Sap. II, 1-10, 21). 
Rapire l'onore, l'onestà, la salute, la felicità, la vita alle vittime dei suoi sfoghi brutali è per il lussurioso un nulla, una galanteria. Ah! quanto è vera la sentenza di S. Cirillo, «che la furibonda lussuria non vede nulla perché è cieca (Homil.)». 




4° L'accecamento. - Queste parole di S. Cirillo non solo ci spiegano i tanti scandali che seminano i lussuriosi, ma ci svelano ancora il quarto effetto dell'impudicizia, che è l'accecamento, effetto già avvertito da S. Paolo: «L'uomo animalesco non capisce nulla di ciò che appartiene allo spirito di Dio; poiché questo egli tiene per follia e non lo può capire» (I Cor II, 14). 
Il voluttuoso ha occhi, ma non vede, ha mente, ma non comprende, perché e quelli e questa sono per l'impurità divenuti una massa di carne. Egli è come uccello che si lascia invischiare nella pania, o pesce che morde nell'amo. Esso gode quando, non vedendo l'amo, ingoia l'esca; ma quando il pescatore comincia a tirarlo, si sente prima straziare le viscere, poi cavare e gettare fuori dell'acqua che è l'elemento di sua vita; e così quel cibo ingannatore che formava poco prima la sua delizia, si è fatto causa della sua morte e della sua distruzione. Viva immagine della sorte che tocca al lussurioso!... 

Non c'è vizio che tanto oscuri la ragione, quanto il nefasto vizio dell'impudicizia. Essa è la madre e la nutrice della frivolezza, dell'incostanza, della precipitazione, dell'imprudenza, dell'amore di sé, dell'odio di Dio, del desiderio sregolato della vita presente, dell'orrore della morte e del giudizio... Dove trovare accecamento simile a quello di quei giovani i quali si vituperano, corrono mille avventure, affogano in un mare di pene, vanno incontro a un'infinità di disgusti, distruggono il loro avvenire, per un momento di follia?... Accecamento prima della passione, per studiare il modo di appagarla... Accecamento nel soddisfare la passione... Accecamento dopo sbramata la passione, per stordirsi e giacere nel disonore e nel delitto... 
5° La schiavitù. - Se per sentenza infallibile di Gesù Cristo, chiunque si fa reo di un peccato, si rende per ciò schiavo del peccato (IOANN. VIII, 34), ognuno può, da quanto si è detto delle conseguenze della disonestà, rilevare in quale dura e infamante schiavitù essa trae i suoi amanti. Il prodigo del Vangelo, che ridotto alla miseria dalle dissolutezze, si fa schiavo di un padrone duro e spietato il quale lo condanna ad abitare e mangiare coi porci, è una sbiadita immagine della triste schiavitù in cui cade il disonesto. 

Egli è come quel cieco giumento che gira continuamente attorno ad una macina essendo l'impudicizia la catena e la prigione dell'anima. E la sciagurata vittima della lussuria non è forse continuamente affaccendata, non corre notte e giorno, non parla, non supplica per soddisfare la sua vile e animalesca inclinazione?... Schiavo della più infame delle passioni, schiavo della creatura che egli ha sedotto o da cui fu sedotto; schiavo dei suoi capricci; schiavo di quanto in lui vi è di più vile; schiavo del demonio...; non è questa la più ignobile, la più obbrobriosa, la più degradante delle schiavitù? 

«O miserabile servitù, esclama S. Agostino, miserabile schiavitù, è quella della lussuria! Lo schiavo dell'uomo, stanco dei duri trattamenti del suo padrone, può talvolta sottrarsi con la fuga; ma dove può mai rifugiarsi, per ricuperare la sua libertà, lo schiavo dell'impudicizia? Dovunque vada, vi trascina se stesso» (Tract. XLI). 
«La carne, dice S. Bernardo, è lo strumento, o piuttosto la fune, con cui Satana arresta e lega il disonesto» (Serm. XXXIX). Il demonio se ne fa suo zimbello, ora lo spinge, ora lo ferma, lo conduce dove a lui talenta, per le spine, i sassi, i bronchi, nei burroni, nei precipizi. Lo fa cadere e ricadere, finché il vizio diventa abitudine e l'abitudine una necessità che lo tiene tra le sue morse, come schiavo tra i ceppi, secondo l'osservazione di S. Agostino: «La consuetudine cui non si resiste, si cangia in natura (Lib. Confess.)». Il lussurioso non ha più volontà propria, l'ha mancipata alla passione; e siccome senza volontà non si può fare nulla, perciò egli rimane stordito nella sua dura schiavitù i cui ceppi gli vengono ribaditi. 



4. I PIACERI DELLA CARNE SONO COSA DA POCO, PIENI DI AMAREZZA E DI MOLESTIE. - L'uomo è fatto per Iddio e nessuna creatura può appagarlo; il suo cuore è insaziabile perché è quasi immenso nei suoi desideri; solo Iddio, come bene immenso ed infinito, può appagarli. «Può bene, dice S. Bernardo, l'anima ragionevole occuparsi di mille oggetti, ma nessuno non può riempirla (Serm. in Cant.)». Se ciò è vero in quanto ad ogni sorta di beni, di piaceri, di gioie che l'uomo può ricavare dalla terra, dal mondo, dalle passioni, è più che mai evidente se si applica ai piaceri che il disonesto trae dalla carne. Che cosa resta infatti all'incontinente, dopo lo sfogo della sua passione?.. Perché cerca avido nuovi godimenti?.. O come è povera la voluttà! Non può nutrire né l'anima, né la mente, né il cuore e intanto stanca e uccide il corpo; scava un abisso spaventoso nell'interno dell'uomo. Ecco tutto il guadagno! 
Che cosa trova l'uomo nei piaceri carnali? V'incontra la viltà e la miseria..., l'inutilità..., l'insaziabilità..., la brevità... l'instabilità.... la falsità..., l'insensibilità..., l'infedeltà..., il disinganno..., l'incertezza..., un monte di croci. 
«La voluttà è tanto poca cosa, dice Seneca, che svanisce l'istante medesimo in cui si gusta; tocca già al fine, quando è appena cominciata (De vita beata, cap. VII)». Ma pensate, dice S. Agostino, che «se momentaneo è ciò che diletta, eterno sarà quello che tormenta (Homil. CCL)». 

Se per ogni peccato, come osserva S. Bernardo, il godimento passa e più non torna, ma l'affanno rimane e più non parte (Serm. in Cant.); tanto più questo si avvera nel peccato dell'incontinenza. Quindi nei piaceri carnali succede al voluttuoso il rovescio dei suoi desideri. Egli vorrebbe che il diletto rimanesse sempre e non mescolato di angoscia e questo non ha luogo. Vorrebbe che la melanconia e l'affanno non venissero mai a intorbidare il godimento, ed essi sono sempre alle porte del suo cuore per cacciarne il piacere non appena vi ha posto piede. Vorrebbe la soddisfazione della carne senza la punizione del peccato, e prova il castigo senza gustare il piacere. Infatti la suprema giustizia di Dio non si regola, né può regolarsi a norma dei colpevoli desideri del dissoluto. No, Dio non consulta, per punire giustamente, i voti e i disegni del lussurioso, che sono così ingiusti. Impudico, tu brami adunque piaceri eterni senza mistura di amarezza; ma sappi che non ti sarà mai dato di trovare ciò nelle tue passioni. Soffoca le tue passioni e allora l'avrai ucciso l'affanno; ritorna a Dio con animo ravveduto e sincero e vedrai pienamente soddisfatta la tua voglia di veri piaceri ed eterni. Questo desiderio di godere sempre dei piaceri, afferma che il tuo cuore è fatto per Iddio. Quello che nella voluttà solletica e blandisce, presto scompare; quello che è triste, amaro, vergognoso e pungente viene di galoppo e rimane. Questa è giustizia... «Osservate, dice Platone, la differenza che vi passa tra la virtù ed il vizio: all'effimera dolcezza del!a voluttà, succede una pena continua, dolori ed ansietà perpetue; alle corte e lievi pene della virtù succedono la pace e la felicità eterna» (Lib. de Republ.). 

«Me infelice! esclamava Gionata, ho appena gustato un po' di miele, ed eccomi condannato a morte » (I Reg. XIV, 43). Non cessino mai queste parole dal risonare nelle orecchie dei disonesti e se ne facciano l'applicazione. Sì, la voluttà spreme su le labbra dell'impudico una sola stilla di miele, per poi affogarlo in un mare di fiele; mentre nella purità una leggera amarezza si perde ben tosto in un oceano di dolcezza... «Un istante di voluttà, dice S. Agostino, prepara all'anima infelice un obbrobrio ed un tormento eterno (Homil. CCL)». «E stoltissimo, dice San Cirillo, colui che si uccide col piacere e tanto più grande è la sua stoltezza quanto più irreparabile è la sua rovina (Cathech.)». La dolcezza del piacere carnale è la lubricità del verme che si pasce della corruzione (IOB. XXIV, 20); e ai lussuriosi si può applicare quel detto di Osea (OSE. X. 13) Voi avete mangiato il frutto di menzogna; perché la concupiscenza promette la felicità è non dà che tormenti; è una sirena incantatrice che attira, ammalia, addormenta, per divorare. 

«La voluttà, dicono i Proverbi, distilla il miele su le labbra, ma in fondo alle viscere diventa assenzio e le strazi a come spada a doppio taglio» (Prov. V, 3-4.). Come queste parole piene di verità si adempiono esattamente nei disonesti! L'amarezza di quest'assenzio e la punta di questa spada, si sentono dai lussuriosi nelle loro malattie, nella perdita della fortuna, della sanità, del riposo, della tranquillità; nella confusione. nel disonore, nei rimorsi, nei litigi, nelle risse, nelle noie, nei dispiaceri, nel pianto, nella disperazione, nella morte, nella condanna, nella eterna riprovazione che li aspetta. 
La dissolutezza avvelena la vita, abbrevia i giorni; è un piacere pernicioso, simile al frutto di cui Dio aveva proibito ad Adamo di mangiare, sotto pena di morte (Gen. II, 17). La concupiscenza, il demonio, il mondo dicono, come Satana al primo uomo: Vana paura; invece di morirne, se gustate di questa dolcezza, sarete felici come Dio (Ib. III, 4-5). Maledetta concupiscenza! tu prometti al disonesto diletti e gioie, ma se questi ti dà retta, gliene deriva disgusto, rimorso, vergogna; sì, egli diventa simile agli dèi, ma agli dèi delle favole, dèi adulteri ed infami, dèi corrotti e bestiali, degni idoli dei lupanari. «O cielo, esclama S. Agostino, quante calamità, quanti affanni vanno insieme con i piaceri carnali! quante sollecitudini e angosce non costano in questa vita, senza contare poi l'inferno. Guardati, o lussurioso, che tu già non sii inferno a te stesso fin d'ora (In Psalm. CII)». 
«Vivo è il colore delle rose, dice S. Fulgenzio, ma il gambo loro è irto di spine; bella figura della libidine! ha anch'essa il suo rossore per l'obbrobrio che fa alla verecondia, ma non si può toccare senza essere lacerati dalla spina del peccato. E come la rosa diletta, ma in breve svanisce, così la voluttà solletica un momento, poi fugge per sempre (Lib. Mytabl. in Omer.)». Ma fuggendo vi lascia, nefasta eredità! i germi di perniciosissima malattia, come scrive S. Leone (Lib. IX, de Quadrag. c. I); o, come dice S. Pier Damiani, vi abbandona, vittime destinate alla morte eterna, in balia del demonio, il quale si ciberà di voi come di ghiottissima vivanda (Epistola). 
Nei voluttuosi si avvera quella minaccia di Dio al popolo d'Israele: «Io li ciberò di assenzio, li abbevererò di fiele; li perseguiterò con la spada finché di loro non rimanga più orma» (IEREM. IX, 15-16). Sì, per i disonesti tutto si risolve in pena, tormento ed affanno. Le acque dolci dei fiumi, sboccate in mare, prendono del salmastro; ogni diletto carnale cominciato nella dolcezza termina nell'amarezza. Non vi sia chi si lusinghi, avverte il Crisostomo, di cogliere dall'albero della concupiscenza il frutto del piacere senza sentirsi lacerare e insanguinare dal rimorso e dall'angoscia; è ciò tanto impossibile, quant'è impossibile il maneggiare rovi spinosi senza sentirsene punte le mani (Hom. XLV in Matth.). 
A buon diritto pertanto conchiude S. Cesario, che per l'impudico non vi è giorno di gioia e di festa, ma sempre roso dal rimorso e dall'affanno, si consuma di melanconia e di tristezza (Homil.). 



5. QUALI SONO LE PRINCIPALI CAUSE DELL'IMPURITA’ - «La lussuria, dice S. Bernardo, è il cocchio del delitto, della morte, del demonio, dell'inferno; poggia su quattro ruote, che sono l'indolenza, la vanità, la ghiottoneria, l'immodestia; è tirato da due focosi cavalli, che sono la prosperità e l'abbondanza; vi siedono poi a cassetta l'indifferenza e la falsa confidenza» (Serm. XXXIX in Cantic.). 
I gradi per i quali si precipita nell'impurità, sono: 1° il lauto vivere; 2° il bere troppo; 3° gli spettacoli i quali sono pericolosissimo scoglio alla castità ed al pudore, perché i più ci vanno per vagheggiare ed essere vagheggiati; 4° i canti osceni, i libri cattivi, le pitture disoneste; 5° i regali offerti ed accettati; 6° l'amore eccessivo del riposo; 7° la compagnia dei dissoluti; 8° i geniali convegni con persone di diverso sesso. 
Pensate alla caduta di Sansone, di Davide, di Salomone e riconoscendo quanto voi siate lungi dalla fortezza del primo, dalla santità del secondo, dalla sapienza del terzo, temete e tremate. Pensate se potrete tenervi saldi in mezzo ai pericoli, voi deboli canne, voi fragili vetri, mentre caddero di quelli che erano cedri robusti, saldi macigni. L'impurità è fuoco, non forniamogli alimento. 



6. IN QUANTI MODI SI CADE NEL VIZIO DELLA DISONESTÀ. - Cinque strade mettono al baratro della disonestà: i pensieri, i desideri, le parole, gli sguardi, le azioni. 

1° I pensieri; perché i pensieri disonesti allontanano da Dio (Sap. I, 3) al quale sono in abominio (Prov. XV, 26). Infatti, come dice S. Cesario d'Arles, si sprigiona da essi un tale fetore che al suo paragone la puzza della più fetida cloaca è un nulla (Hom. XI). 
Dove è il vostro pensiero, scrive S. Bernardo, vi è il vostro affetto: se esso si porta a cose brutte, lo Spirito Santo si allontana da voi e il tempio di Dio diventa il castello del demonio, perché Satana s'impadronisce di ciò che Dio abbandona. Perciò, quando si affaccia alla vostra mente un pensiero cattivo, scacciatelo subito, non acconsentitegli, non lasciatelo entrare nel vostra cuore. Respingetelo subito e vi lascerà più facilmente. Un pensiero disonesto genera il piacere; il piacere muove al consenso; il consenso porta all'azione; l'azione diventa abitudine; l'abitudine si cambia in necessità; la necessità porta con sé la morte (De inter. domo, c. XXXIX). Ecco a quale precipizio conduce un pensiero cattivo! 
I pensieri cattivi sono scintille le quali se non sono spente su l'istante, accendono il fuoco della concupiscenza che cova nella cenere della carne e suscita un vasto incendio. Quindi ogni ragione vuole che loro non si dia tregua, ma si combattano e scaccino inesorabilmente, da qualunque parte vengano, sia dalle creature, sia dalla nostra propria concupiscenza. 

2° Si cade nell'impurità con i desideri. E chiarissima la sentenza di Gesù Cristo: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso in cuor suo adulterio con essa» (MATTH. V, 28). Perciò S. Paolo inculca ai Romani, che non accarezzino la carne nei corrotti suoi desideri (Rom. XIII, 14).
3° Si va all'impurità per mezzo delle parole. «La bocca dà di quello di cui abbonda il cuore», dice Gesù Cristo (MATTH. XII, 34). Un parlare osceno è dunque segno ed effetto di un cuore impuro. Ciò nondimeno, quante persone non si fanno leciti d scorsi disonesti! È per burla, si risponde; ma badate che col peccato non si burla; la violazione della legge di Dio, lo scandalo del prossimo non sono cose da burla. 
Date ascolto all'avviso di S. Cesario: «Innanzi tutto, in qualunque luogo vi troviate, non vi escano mai di bocca parole disoneste o turpi (Homil. XII)». E di quello che sa di lussuria, non se ne faccia nemmeno parola, come conviene a cristiani (Eph. V, 3). 

4° Si cade nell'impurità con gli sguardi. Leggiamo nell'Ecclesiastico, che la persona si conosce negli occhi (Eccli. XIX, 26), e vi sono tali occhi, dice S. Pietro, che riboccano di adulterio e di malizia (II, II, 14). Quindi S. Agostino scriveva: «Nessuno dica che ha l'anima pura, se ha gli occhi impudichi: l'occhio lussurioso è il segnale di un'anima disonesta, di un cuore impuro (Epistola CIX. - In Reg. ad Servos Dei)». 
Grandissima è la forza degli occhi per ferire mortalmente l'anima e il cuore. L'oggetto veduto e tanto più se considerato, passa dalla pupilla nell'interno dell'uomo, vi stampa la sua immagine la quale vi resta impressa e come scolpita, anche dopo che l'oggetto non è più presente e questo non può avvenire senza che se ne generi o l'amore o l'odio nello spirito e nel cuore... Ah! lo sguardo è saetta infuocata che penetra nelle midolle del cuore e le consuma. Davide cadde nell'adulterio e nell'omicidio, perché non fu vigilante a contenere la vista. Gli occhi sono le guide e le scorte di Cupido ossia dell'amore impuro: è impossibile che freni la passione chi non frena gli occhi; il fuoco brucia da vicino, gli occhi bruciano da vicino e da lontano. 
«È cosa certa, dice S. Bernardo, che quando gli occhi si sono fermati con compiacenza sopra un oggetto disonesto, l'anima resta subito macchiata d'impurità, poiché lo sguardo è il precursore, la guida dell'impudicizia, come le mani e il tatto ne sono i ministri. Bisogna guardarsi dalle occhiate immodeste, come dal morso di una vipera (Homil. de legend. Lib.)». 
«La morte, dice Geremia, salì per le nostre finestre e introdottasi in casa nostra, mena strage dei ragazzi e dei giovani» (IX, 21). Le finestre della nostra casa sono gli occhi e per essi entra la disonestà nell'anima. Come non servono a nulla i bastioni e le torri se restano aperte all'entrata del nemico le porte della cittadella, così tutti i ripari, tutti i mezzi di difesa che ci fornisce la grazia a nulla valgono, se teniamo aperte le porte dei sensi a ricevere nell’anima i pensieri e i desideri della carne. Severissima pertanto ha da essere la chiusura e vigilantissima la guardia da farsi ai sensi e principalmente agli occhi, giacché per mezzo loro entra nell'anima o la vita o la morte. Chi condusse i due infami vecchioni a desideri nefandi verso la casta Susanna? i loro occhi (DAN. XIII, 8). Il consenso al peccato tiene sempre dietro allo sguardo volontario... O Dio! quanti dannati nell'inferno per occhiate impure! 

Seneca medesimo così esclama: «O quanto spaziosa e facile strada è aperta alle passioni per mezzo degli occhi e quanto meglio sarebbe che fossero strappati, anziché lasciare che vedano cose le quali corrompono il cuore! Gli occhi mostrano a questo l'adulterio, a quello l'incesto, a un terzo il potere; ed è fuori di dubbio che gli occhi sono gli strumenti attivi del vizio, i precursori dei misfatti» (Lib. de Remed, fortuit.). 
5° Si va alla lussuria per mezzo delle azioni disoneste, sia sul proprio corpo, sia su la persona altrui; e in tutte queste varie maniere d'impurità vi è peccato mortale, quando vi si trova la volontà ed il consenso deliberato. 



7. QUANTO SIA DÌFFICILE USCIRE DALL'IMPURITÀ. – E’ cosa facilissima il cedere alle seduzioni della voluttà, perché questa passione si accende più facilmente che la paglia al fuoco; ma quanto difficile riesce il liberarsene e spegnere gli ardori di tale incendio! Come dura e laboriosa impresa è quella di correggersi e uscire da tale cloaca, per chi vi è affogato con frequenti cadute e con lunga abitudine! 
E infatti, chi li aiuterà a togliersi da tale pantano? Forse Dio? Sì, Dio è pronto ad aiutarli e a sé li invita con le chiamate del divino Spirito, ma essendo la vita loro tutta di carne, sono divenuti carne e l'uomo carnale, ossia animalesco, poco intende la voce dello spirito (Rom. VIII, 5), (1 Cor. II, 19). «In essi non è più traccia, dice S. Giacomo, della sapienza che viene dall’alto, non vi rimane che la terrena, l'animalesca, la diabolica» (IACOB. III, 15). Ora, si può sperare che una tale sapienza si pieghi a darsi vinta ai puri e dolci influssi della sapienza divina? 
Forse la vergogna naturale, il ribrezzo che certe nefandezze provocano negli animi onesti? Nemmeno questo; perché abbandonati da Dio al furore delle loro malnate cupidigie, lasciati in balìa al reprobo senso, si spogliano di ogni rossore, non distinguono più la sconcezza della lussuria dalla bellezza dell'onestà: sono, come li chiama S. Giuda, uomini di vita animale, privi di senno (IUD. 19). 
Si lasceranno almeno commuovere e guadagnare alla grazia? Non possono, risponde S. Bernardo; «perché, come chi ha gustato le dolcezze della grazia, trova insipidi tutti i piaceri della carne, così chi trova appetitosi i piaceri del corpo, non sente più nessun gusto nelle dolcezze, nelle attrattive della grazia (De Convers. ad Cler.)». 
Sarà il terrore dei divini giudizi che rimetterà in senno i lussuriosi e li spingerà a togliersi dal fango? Non ci credete, dice S. Agostino, perché l'incontinenza distoglie dal pensiero dei novissimi (Confess.). 
Non hanno maggiore forza su l'animo degli impudichi gli avvertimenti, i consigli, le ammonizioni; nessuna di queste cose, per testimonianza del Crisostomo, non può scuotere e salvare dal naufragio l'anima che affoga nella lussuria (Hom, XLV in Matth.). Anzi, come osserva S. Cirillo, «il libidinoso invece di accogliere di buon grado gli ammonimenti, con cui si cerca di strapparlo alla vergognosa sua condizione, li prende in mala parte (Homil.)». Egli diventa un impasto di caparbietà, di orgoglio, di accecamento, di stupidezza, cosicché invano intorno a lui si adopera, e Dio e l'uomo. 
«Colti in questa diabolica rete di Satana, oh! quanto è difficile e raro esclama S. Gerolamo, che nel usciamo! (Epist.)». Perciò, dice S. Tommaso, il demonio si rallegra quando riesce a prendere un'anima nella lussuria, perché è cosa vischiosissima e difficilmente si riesce a liberarsene (De peccat.). Questo vizio è come una palude fangosa in cui, se si estrae un piede, si affonda l'altro. 
Questo spiega perché Clemente d'Alessandria chiami l'impurità «male incurabile (Lib. II Paedag. c, ult.)»; Tertulliano, «vizio immutabile (De Spectac.)» e S. Cipriano «madre dell'impenitenza (De bono Pudic.)». S. Dionigi di Chartres afferma che non si trova tra i voluttuosi abituati, chi abbia dolore del suo peccato perciò quasi tutti gli impudichi si dannano (In Vita). «E' quasi impossibile, scrive Pietro di Blois, che uno riesca a trionfare della carne, quando la carne ha già di lui trionfato (In Vita)». Infatti, osserva S. Agostino, «con lo sfogare la libidine, se ne contrae l'abitudine la quale, a lungo andare, diventa necessità. La caduta è una catena, la ricaduta e l'abitudine gettano in prigione, l'abitudine poi, diventa necessità, mura la porta di questa medesima prigione (Confess.)». 
Purtroppo la quotidiana esperienza di tanta gioventù che si abbandona al vizio e non si ravvede nemmeno tra il gelo della vecchiaia, è mallevatrice della verità delle sopraddette sentenze! 



8. CASTIGHI E DANNAZIONE DELL'IMPUDICO. - Bastano a darci un'idea dei castighi che porta con sé l'impurità i mali e le disgrazie che piombano come la folgore e la tempesta in capo all’impudico; e quella vita di nefandezza, di avvilimento di degradazione, d'illusione, d'inganno, di agitazione, di accecamento, di schiavitù, di rimorso, di affanno in cui lo vediamo trascinare i suoi giorni. E poi non è forse il più terribile dei castighi il fatto che Dio li abbandona ai corrotti appetiti della carne, al reprobo loro senso? 
«Deh! non v'illudete, esclama S. Paolo, Dio non si beffa. L'uomo raccoglierà quello che ha seminato: chi semina nella carne, raccoglierà dalla carne, corruzione; chi semina nello spirito, raccoglierà dallo spirito, vita eterna» (Gal. VI, 7-8). Ed agli Ebrei ricorda, che Dio farà giudizio dei fornicatori e degli adulteri (Hebr. XIII, 4). La stessa cosa predica anche Pietro là ove dice che Dio sa riservare al giorno del giudizio quelli che devono essere castigati e tra questi sono in prima fila coloro che si dànno ai piaceri sensuali (II PETR. II, 9-10): 
«Iddio, scrive S. Agostino, fa servire gli stessi peccati ai disegni della sua giustizia, per modo che quello che è stato strumento di piacere in mano al peccatore, diviene strumento di castigo in mano a Dio vendicatore (Confess.)». Il disonesto è dal Crisostomo paragonato all'indemoniato che non è padrone di se stesso (Hom. XXIX in Matth.). «Chi fa lega con persone di mala vita, diverrà sfacciato, dice l'Ecclesastico: avrà in retaggio la putredine e i vermi; sarà proposto ad esempio di terrore e di spavento e scancellato dal numero dei viventi» (Eccli. XIX, 3). 
Il più spaventoso castigo che abbia veduto il mondo, è certamente il diluvio; ora chi l'ha attirato su la terra? l’impurità del genere umano; ogni carne si era corrotta e Dio, per purgare il mondo, lo affogò in un diluvio d'acqua. Chi fece piovere su Sodoma e Gomorra fuoco e zolfo? l'impudicizia... Chi atterrò i grandi imperi? la dissolutezza... Donde sbucano la maggior parte delle eresie che scompigliano la Chiesa di Dio? dal vizio impuro. 
Percosso da disgrazie e da castighi nei giorni della sua vita il lascivo incontra una morte orrenda e spaventosa...; terribile sarà il suo giudizio...; l'inferno sarà la sua dimora eterna... Ah sì! l'impurità è un fuoco che si converte in fiamme eterne e termina nel fuoco dell'inferno. «I disonesti, scrive il cardinale Gaetano, portano già in questo mondo dentro se stessi l'inferno e termineranno con l'andare ad alimentare il fuoco dell’inferno. L'inferno sarebbe vuoto, cesserebbe, per così dire, la sua fiamma, quando l'impurità degli uomini cessasse dal fornirle alimento. La voluttà si cambierà in pece che nutrirà un fuoco cocentissimo nelle viscere dei lascivi per tutti i secoli. Oh che infelicità, che sventura prepara mai a se stesso l'impudico, nel tempo e nell'eternità!». 



9. RIMEDI CONTRO L'IMPURITÀ. - «La voluttà è simile al cane, osserva S. Giovanni Crisostomo; se lo cacciate, si allontana; se lo carezzate, più non vi lascia (Homil. XXII ad pop.)». Bisogna dunque scacciare e fuggire questa sirena incantatrice che è l’impurità, come già ne avvisava i giovani Seneca medesimo (Ap. Laert. lib. II). 
Altro rimedio ci suggerisce S. Basilio, ed è che si castighi il corpo e si tenga custodito e domato come animale furioso (Homil. de legend. lib. gentil.), malmenando con penitenze e rigori questo nostro vestimento di carne e di sozzura, come lo chiama l’apostolo S. Giuda (IUD. 23). Poiché la mortificazione del corpo, dice S. Basilio, forma la sanità e il vigore dell'anima (Ib.). 

Siccome questa passione invita con le lusinghe, attrae col solletico della felicità e del piacere, si impadronisce per uccidere e rovina quanto trova nell'uomo, è necessità non mai porgerle orecchio, non prestarle fede, non affidarsele, ma diffidarne, temerla, studiosamente e prontamente fuggirla. «Chi vuole praticare le virtù, scrive S. Gregorio, e non impedirne il crescere, deve spegnere in se stesso il fuoco impuro in modo tale che a forza di vigilanza non se ne lasci mai toccare neppure leggermente» (Moral.). 
Il rimedio, che ci premunisce contro le fiamme del fuoco impuro, sta nell'averne un grande orrore; nel non accostarvisi; nel fuggirne più lontano che si può; e questo si ottiene con la vigilanza e con la preghiera, dicendo Gesù: «Vigilate e pregate, acciocché non v'incolga tentazione; perché anche dove lo spirito è pronto, la carne è debole» (MATTH. XXVI, 41). 

Mezzi validissimi a vincere la voluttà sono: considerare la brevità del piacere e la lunghezza dei patimenti che vengono dopo; convincersi che la lussuria è il più pericoloso e mortale nemico dell'uomo e la causa principale di tutte le sue sciagure; meditare attentamente su la differenza immensa che passa tra le ricchezze, le consolazioni, le soavità della grazia, della continenza e la miseria, l’amarezza, l'angoscia, gli strazi dell'impurità, dell'incontinenza. 
L'umiltà è buon talismano contro gli incantesimi della lussuria: dove non vi è umiltà, rarissimamente vi è castità. Adamo per orgoglio si ribella a Dio, ed ecco tosto ribellarsi a lui la carne; si vede nudo, arrossisce ed è costretto a nascondersi... Bisogna che si sottometta a Dio, che a lui obbedisca chi vuole avere la carne soggetta e obbediente allo spirito... 
Per respingere gli assalti della voluttà, è pure ottima difesa il lavoro. «La libidine resta fiaccata e spenta dalle fatiche corporali», scrive S. Isidoro (De forma bene vivendi); quindi quell'aureo avviso di S. Gerolamo: «Bada che il demonio ti trovi sempre occupato al lavoro (Epist.)»; non dimenticare però di unire al lavoro la preghiera la quale è, come dice S. Gregorio, «la guardia del pudore (Moral.)». Finalmente il digiuno, i sacramenti, il pensiero della presenza di Dio, la divozione alla Vergine Maria, la considerazione dei novissimi sono tali mezzi che vincono sicuramente e prostrano il vizio dell'impurità.
SALUS NOSTRA IN MANU TUA EST, O MARIA
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Il valore sociale della temperanza.


Il valore sociale della temperanza.
Il culto del desiderio del ’68 mina il bene comune




Per capire meglio, dal punto di vista della dottrina cattolica, l’origine e la gravità dei danni prodotti dalla rivoluzione sessantottina, particolarmente di quella sessuale, e per sapere a quali rimedi bisogna ricorrere per guarirne, è bene ricordare che il Sessantotto è stato prodotto da una pubblica esplosione di alcuni vizi sociali, particolarmente di quello dell’intemperanza. Dobbiamo quindi partire dal riscoprire che cosa è l’intemperanza sociale, nella sua qualità di mancanza e anzi di ostacolo del suo contrario, ossia della virtù della temperanza sociale (1). 
  Questo termine può sembrare strano. Ingannati da due secoli di pensiero liberale, siamo ormai abituati a separare la morale dalla politica e quindi a considerare virtù e vizi come qualcosa di strettamente individuale, privato, senza conseguenze nella società: “il corpo è mio e me lo gestisco io”, era del resto uno degli slogan sessantottini. Eppure, quando si parla della virtù di carità, tutti ne colgono le benefiche conseguenze sociali, giuridiche, politiche ed economiche, pensando alle azioni caritatevoli verso poveri, malati, orfani, oppressi e ignoranti; ancor più quando si parla della virtù di giustizia, tutti ne colgono le conseguenze sociali, pensando ai problemi del lavoro e della proprietà. Ma stranamente, quando si parla della virtù di temperanza, si pretende ch’essa non abbia alcun legame con la società e che non provochi conseguenze sociali di rilievo.


In realtà, virtù e vizi determinano profondamente l’orientamento della vita umana e, poiché l’uomo è un essere sociale per natura, essi possono provocare profonde conseguenze nella società: «Nessun vizio, come nessuna virtù, arresta i suoi effetti all’uomo singolo; l’uno e l’altra provocano nella società i contraccolpi della loro azione» 2. Inoltre «ogni virtù si rapporta al bene comune» 3 da conseguire e, per contro, ogni vizio favorisce un “male comune” da evitare; questo vale quindi anche per la temperanza e per l’intemperanza nel loro aspetto sociale.

Temperanza e intemperanza


   Per capire cosa è la virtù sociale della temperanza, sarà bene prima ricordare cosa è la temperanza: questo termine è difatti del tutto scomparso dalla pubblicistica e dal linguaggio corrente e va scomparendo perfino dalle predicazione e dalla pastorale cattoliche.
   La temperanza è quella virtù cardinale che regola l’inclinazione ai piaceri sensibili, contenendoli entro i limiti della ragione illuminata e guidata dalla fede. Essa modera particolarmente i piaceri del tatto e del gusto, quelli cioè che favoriscono la procreazione e la nutrizione, ma in senso lato disciplina anche la generica brama di possedere i beni terreni e di goderne. Esercitando la temperanza, l’uomo diventa padrone di sé e servo di Dio: può cioè impegnare le proprie facoltà realizzando così la propria missione cristiana, «mantenendosi integro e incorrotto per Dio» 4. I frutti prodotti dalla temperanza nella vita dell’uomo sono numerosi e fondamentali: fra loro ricordiamo la pace interiore, la mitezza, l’umiltà, la studiosità, il decoro, lo spirito di sacrificio.
   Al contrario, l’intemperanza è «la rivolta delle passioni della concupiscenza contro la sovrana autorità dell’anima» 5. La cupidigia, condannata dalla Scrittura come «radice di tutti i mali» (1Tim., 6, 10), se viene lasciata libera, «può provocare il massimo sconvolgimento nell’animo umano» 6, per via della situazione causata dal Peccato Originale. Allora l’uomo si abbandona alla brama di possesso e di godimento, che si manifesta nei vizi della gola e ancor più della lussuria: difatti «i piaceri sessuali sono il maggior dissolvente dell’anima» 7, capaci di sovvertire l’interiore gerarchia delle facoltà umane. La concupiscenza scatenata ottenebra l’intelligenza, suscitando fantasie e desideri irrazionali, e seduce la volontà, imponendole le proprie eccessive o pazze esigenze e bramosie. L’uomo finisce col rendersi schiavo di bisogni inesistenti, giustificandoli come necessità assoluta; ad essi sacrifica tutto, non solo salute e ricchezze ma anche la posizione sociale, la dignità e i propri doveri più esigenti e gli affetti più cari. Diventato incapace di governarsi, alla fine egli si trasforma in un automa irresponsabile delle proprie azioni, rendendosi quindi facilmente manipolabile e pilotabile da chi sa suscitare in lui desideri e può esaudirli. Nasce così l’odierno uomo intemperante, uomo senza princìpi né progetti, incoerente, distratto, dissipato, succube delle mode, della propaganda ideologica e dei mezzi di comunicazione di massa; un uomo buono a nulla ma capace di tutto, come diceva un umorista; un uomo che, invece di “aver timor di Dio ma non aver paura del cannone”, come si diceva una volta, all’opposto non ha alcun timor di Dio ma ha paura, non diciamo del cannone, ma perfino del minimo rischio o dolore.
   Se non ritorna in sé e non riprende possesso di sé, quest’uomo è destinato a impantanarsi e ad affogare nella “ebetudine dei sensi”8, nella insensibilità tipica dell’accidia. Non essendo più padrone di sé, egli non può diventare servo di Dio; rifiutando in radice la propria missione di uomo e di cristiano, egli rischia di precipitare nella disperazione e talvolta nella pazzia o perfino nel suicidio. Quanti sono i pazzi o i suicidi la cui tragica fine è provocata non da fattori di “alienazione” o di “disadattamento”, ma dal semplice fatto di aver spento in sé la vita della grazia, e poi perfino la vita spirituale, nella illusione di rincorrere o di mantenere un idolo sensuale al quale hanno sacrificato tutto? Si compie così una sorta di nemesi, anzi una punizione divina: «l’uomo che non crocifigge le proprie passioni, finisce crocifisso da esse» 9.
  Fra le concrete conseguenze della intemperanza, la dottrina cattolica enumera: incontinenza, avventatezza, ira, violenza, egoismo, odio, vana curiosità, incapacità di contemplare e di studiare. Ma particolarmente significative, dal nostro punto di vista, sono altre conseguenze più complesse e gravide di ridondanze sociali: incapacità dell’intelligenza di riconoscere la verità, anzi perdita del senso stesso della realtà; indebolimento del libero arbitrio; rammollimento della sensibilità; rifiuto di fare sacrifici per ottenere beni superiori; svendere la propria dignità per il “piatto di lenticchie” del piacere; incapacità di esercitare la prudenza (con le conseguenti irriflessione, irresolutezza, faziosità); incapacità di progettare la propria vita; dissipazione del propri beni, sia materiali che spirituali; incapacità di agire disinteressatamente.


La temperanza sociale e i suoi frutti


    Evidentemente, la virtù della temperanza riguarda direttamente solo i singoli individui, che meritano o peccano in questo campo, e non ha diretta relazione con la vita civile. Ma, come tutte le virtù, anche la temperanza ha un aspetto sociale, costituito soprattutto dalle conseguenze e dalle ridondanze che il comportamento individuale provoca inevitabilmente nella società, specie se si tratta d’individui che hanno una rilevanza sociale per via del ruolo o della influenza che vi svolgono.
     Cosa è dunque la temperanza sociale? E’ quella virtù che regola e frena le inclinazioni e i desideri di un popolo riguardo i beni terreni. Anche un popolo ha infatti passioni, tendenze, virtù e vizi; il governo e le élites di una nazione hanno appunto la missione, e quindi il dovere morale, di regolarne le passioni e tendenze, suscitarne e favorirne le virtù, correggerne e reprimerne i vizi. In tal modo si favorisce la sanità morale di una nazione, facilitando il perseguimento del bene comune della società. Solo così un popolo potrà adempiere il proprio ruolo nel vasto scenario della civiltà internazionale, e soprattutto potrà compiere la missione affidatagli dalla Divina Provvidenza. «Anche la temperanza può essere rapportata al bene comune: la legge civile interviene per imporne il rispetto nella società» 10, applicando quella legge naturale che comanda di realizzare il bene comune e di proibire ciò che lo impedisce. Ecco perché «lo spirito di temperanza non è meno necessario alla società civile, nel governare gli uomini e nel guidare le nazioni» 11; anzi, «la temperanza è una legge d’importanza suprema, anche sociale» 12. 
Analogamente alla vita morale degl’individui, anche la vita morale di un popolo ha bisogno d’impegnarsi in quegli sforzi che applicano concretamente la virtù di temperanza: sacrificio, austerità, astinenza e moderazione. Anche la società, infatti, deve moderare e regolare il possesso e il godimento dei propri beni e piaceri, non solo evitando gli eccessi, ma anche accettando le privazioni necessarie al proprio progresso o addirittura alla propria sopravvivenza o salvezza. In questo modo, la temperanza preserva il carattere di un popolo, ne tempra il vigore morale, disponendolo a compiere grandi imprese per sé, per l’umanità e soprattutto per Dio e per la sua Chiesa 13. 
  L’importanza della temperanza sociale è confermata anche dal fatto che tutte le virtù sociali (giustizia, onestà, lealtà, generosità, sacrificio, risparmio, etc.) possono svilupparsi efficacemente e radicarsi stabilmente nella vita civile solo se trovano un ambiente sociale preservato dalla temperanza. Ecco perché la politica, come arte di governare un popolo, ha il dovere  morale di educarne lo spirito pubblico favorendo l’esercizio delle virtù sociali, a cominciare da quella della temperanza 14.
La temperanza sociale è anche un fattore che contribuisce potentemente ad elevare o a mantenere alto il livello di civiltà di un popolo. Essa difatti custodisce l’onore e il decoro nazionali: «per le coscienze, per le famiglie e per le nazioni, essa è la vigile guardiana dell’onore e della reputazione» 15.
Possiamo infine notare che la temperanza, nel suo esercizio sociale, è un grande fattore di progresso, di equilibrio, di ordine e quindi di pace per la vita civile. La concordia e l’amicizia civili sono possibili solo se fede e ragione “temperano” la brama di possesso e di godimento dei cittadini e degli ambienti sociali, specialmente delle classi superiori, spingendoli non solo a rinunciare alle brame illecite o troppo pericolose, ma anche a subordinare i propri desideri e bisogni leciti al bene comune e al progresso morale; le Sacre Scritture affermano che «l’astinenza predispone alla saggezza» (Eccl., 2, 3). Da questa sorta di ascesi sociale può dipendere non solo la prosperità e il progresso di un popolo, ma anche la sua stessa sopravvivenza fisica: «il vigore delle razze e il loro avvenire dipendono in gran parte dalla fedeltà con cui gli uomini osservano, secondo il loro stato, la castità cristiana» 16. Le gravi crisi sociali spesso provocate dalle conseguenze di malattie veneree – dalla sifilide di ieri all’Aids di oggi – costituiscono la periodica conferma di quanto la sanità fisica di un popolo dipenda da quella morale e in specie dalla continenza sessuale.
Un esempio tipico, che dimostra l’importanza sociale della temperanza, è quello della vita in famiglia. La temperanza familiare è quella virtù che regola i rapporti fra i coniugi nella loro vita affettiva e sessuale; essa si concretizza nell’esercizio degli atti di castità, pudore, fedeltà, austerità, pazienza, sacrificio, generosità. Sono queste le virtù che permettono alla famiglia di svolgere la propria missione generativa, allevativa ed educativa, contribuendo così al bene comune ed anzi costituendo la cellula e il modello della società. 
Un altro esempio riguarda la vita economica. L’esercizio della temperanza economica abitua un popolo a non pretendere di godere immediatamente del misero frutto delle proprie fatiche ma anzi a sacrificarsi lavorando per impegnare le proprie capacità nell’investire quei frutti, allo scopo di ottenere risultati più grandi e più duraturi, dei quali potranno beneficiare le generazioni future. Questo sacrificio delle brame e delle esigenze immediate ed elementari ha reso possibile lungo i secoli non solo il risparmio, ma anche la capitalizzazione di beni, strumenti e conoscenze, promuovendo così quel progresso sociale e tecnico del quale andiamo tanto fieri e che ci fa tanto comodo 17. Questo progresso però oggi sappiamo solo dilapidarlo, dimenticandoci quanto impegno e sacrificio – ossia quanta temperanza – ha richiesto per conquistarlo.


L’intemperanza sociale e i suoi veleni



Se esiste la virtù della temperanza sociale, esiste però anche il vizio corrispondente della intemperanza sociale. Essa è quel vizio che fomenta pubblicamente la ricerca, il possesso e il godimento irrazionali dei beni e dei piaceri materiali. Per giustificare e promuovere questa concupiscenza, si può giungere a fomentare la rivoluzione sociale e politica, sovvertendo il retto ordine della società in tutti i suoi aspetti, da quello religioso fino a quello economico 18. 
Quando l’intemperanza non si limita a corrompere i singoli cittadini, ma giunge a corrompere l’animo, la mentalità, le abitudini e gli ambienti di un popolo, allora essa diventa una piaga sociale; quando poi giunge ad essere tollerata, protetta o addirittura promossa dalle autorità pubbliche, dalle strutture politiche e dalle leggi civili – come accade oggi! – allora essa diventa una sorta di peccato sociale, perché favorisce potentemente l’allontanamento della società da Dio e dai suoi Comandamenti.
Essendo abituati da lungo tempo a considerare la vita civile come un campo sostanzialmente estraneo al giudizio teologico-morale, questo termine di peccato sociale può anch’esso sembrare strano. Eppure la Chiesa ne ha sempre parlato; recentemente Giovanni Paolo II ha ricordato ch’esso non si limita al campo economico, ma si estende all’intero campo sociale e può arrivare a creare “strutture di peccato”19. Se diventa un peccato sociale, l’intemperanza non è più una faccenda privata ma costituisce un “male comune”, un attentato alla pubblica moralità, anzi una sorta d’ingiustizia sociale: essa colpisce non soli ci singoli cittadini, che ne pagano comunque le conseguenze, ma anche la società come tale nella sua salute morale, nella sua costituzione e nella sua finalità. L’intemperanza sociale infatti «distoglie l’uomo dal suo giusto fine e dal suo fine ultimo che, nel campo temporale, è il bene comune della società»20; cioè impedisce alla società di compiere la propria missione storica e, indirettamente, anche di conseguire il proprio fine soprannaturale, che consiste nel fare la gloria di Dio realizzando la giustizia cristiana riassunta nei Dieci Comandamenti. 
Ad esempio, i peccati contro la castità, quando diventano una piaga sociale, costituiscono indirettamente un vero e proprio attentato alla giustizia e al bene comune sia della società che della intera umanità21. 
L’intemperanza diffonde germi di corruzione che s’insinuano nelle strutture civili provocandone la rovina. Essa semina pensieri, desideri, tendenze ed esigenze che alla lunga provocano piaghe sociali: «La vita inaridisce alle sue sorgenti, la bellezza si cancella dal volto, la bontà si ritrae dal cuore, la famiglie si consumano e si dileguano, le nazioni perdono il loro principio di resistenza e di espansione, il rispetto per le gerarchie si spegne negli scandali; tutti i mali entrano da quella porta e tutte le schiavitù vi sono passate»22. 
 Questa corruzione dei costumi mette a rischio la stessa sopravvivenza della società: «Là dove l’intemperanza trionfa, la società si sgretola riducendosi a un confuso aggregato d’individui che non cercano altro che il loro piacere individuale, a danno del bene comune. (…) L’impudicizia e la lussuria disorganizzano tutte le società umane, dalla famiglia allo Stato, polverizzandole in individui autonomi ripiegati sul loro privato godimento. (…) La depravazione è uno dei fattori più dissolventi della società, è la madre dell’anarchia»23.
Le ideologie politiche che hanno giustificato, difeso e favorito l’intemperanza sociale di massa sono state principalmente il liberalismo e il socialcomunismo. Il primo ha idolatrato la licenza fomentando soprattutto la ribellione all’autorità e alla legge; il secondo ha idolatrato l’uguaglianza fomentando soprattutto l’invidia. Basandosi sulla concupiscenza e sull’orgoglio, entrambi hanno favorito col promuovere, consciamente o inconsciamente, quel tentativo di congiungere massima licenza e massima uguaglianza che definisce l’anarchia, ma hanno prodotto soprattutto soprattutto divisione, rivalità e odio, portando la società sull’orlo della dissoluzione.
Comprenderemo meglio la gravità della intemperanza sociale se ne consideriamo le numerose e terribili conseguenze. Fra l’altro, essa:
- porta a disprezzare e calunniare le virtù sociali, impedendone l’esercizio;
- mina la tempra spirituale e morale di un popolo, indebolendone il vigore;
- distrugge il senso dell’onore popolare, spingendolo a svendere la propria dignità e libertà per un vantaggio materiale;
- rende impossibile la carità sociale, perché esalta il godimento individuale e rende insensibili ai bisogni del prossimo; le persone quindi non si curano più di aiutare i poveri, assistere i malati, soccorrere i deboli, liberare gli oppressi, insegnare agl’ignoranti;
- rende il popolo schiavo di bisogni fittizi, idolatrandoli come se fossero necessità richieste dalla “libertà”, dalla “eguaglianza” o dal “progresso”, alle quali tutto andrebbe sacrificato;
- crea disordine sociale, perché i cittadini non vogliono più mantenere il loro ruolo nella società, illusi dal miraggio di ottenere piaceri, guadagni e posizioni facili, immediati e spropositati (“tutto e subito”);
- spinge i cittadini a procurarsi con l’inganno e la violenza quei beni e quei piaceri, anche illeciti, che desiderano disordinatamente.
Quest’ultima conseguenza è oggi facilmente verificabile. La piaga della violenza sociale proviene direttamente dalla passione disordinata dell’ira; ma «tutte le passioni dell’irascibile hanno la loro origine e il loro scopo nelle passioni del concupiscibile»24: difatti, se un uomo fa violenza ad altri, lo fa perché mosso da un desiderio disordinato di ottenere una cosa ad ogni costo. Furti, rapine, inganni e omicidi derivano quindi dalla passione di ottenere disonestamente una cosa o del denaro o una posizione; le varie forme di violenza sessuale derivano dalla passione di godere di un certo piacere disonesto. Le stesse statistiche ci confermano che la stragrande maggioranza dei crimini viene commessa per soddisfare la concupiscenza, specialmente quella sessuale. Perciò, quando gli odierni guru del neo-liberalismo, sempre ossessionati dal promuovere la licenza e il “libero mercato” dei godimenti, pretendono di affermare che “i vizi non sono crimini”25, il cristiano deve rispondere che ogni crimine è provocato da un vizio e che quindi, se non esistessero vizi, non si commetterebbero più crimini. Se in una società dominasse la virtù della temperanza, mancherebbe il movente principale che spinge i viziosi a commettere crimini, e i delitti scenderebbero a livelli minimi; ne deriverebbero una sicurezza e una pace sociali tali, da favorire potentemente la ricchezza e il progresso di quella società… senza parlare ovviamente dei ben maggiori benefìci spirituali.
Particolarmente gravi sono le conseguenze prodotte dall’intemperanza nel campo della vita familiare. L’intemperanza sociale nega, ostacola e ridicolizza tutte le virtù familiari, a cominciare dalla castità, e mina la famiglia stessa nella sua unità e integrità, impedendole di svolgere la propria preziosa missione sociale. In particolare, l’intemperanza:
- distrugge la fedeltà e l’onestà matrimoniale, elevando l’adulterio a diritto;
- favorisce l’avvilimento della donna, riducendola a strumento di piacere;
- porta al rifiuto e al disprezzo della maternità (bollata come ostacolo al conseguimento del piacere sessuale), alla crisi della natalità e all’abbandono dei figli, che preferiscono liberarsene per dedicarsi a una vita comoda e gaudente;
- provoca il declino dell’autorità genitoriale, spingendo i figli a ribellarsi per emanciparsi precocemente e illecitamente (anche nel campo sessuale) e spingendo l’autorità statate a intervenire surrogando quella paterna e materna;
- rende quasi impossibile l’educazione dei figli, specialmente quella civile, provocando l’abbrutimento delle nuove generazioni e la conseguente piaga sociale della violenza giovanile e addirittura adolescenziale (“bullismo”);
- porta alla dissipazione del patrimonio familiare, che viene sacrificato alla ricerca del piacere più facile e immediato;
- distrugge la pace e la sicurezza familiari, compromettendo quindi anche quelle sociali.
Una volta ridotta a luogo di comodità e di piaceri individuali, la famiglia viene gradualmente sostituita dalla tribù, in cui si pratica il “libero amore” senza provvedere alla educazione dei figli, lasciando che le nuove generazioni crescano nella immoralità e nell’anarchia, dunque nella insicurezza e nella dissipazione. Le conseguenze di questa crisi familiare finiscono col cadere sulla intera società, minacciando la sopravvivenza della stessa vita civile e religiosa. 
Pesantissime sono anche le conseguenze economiche dell’intemperanza sociale. Da una parte, l’esaltazione, la ricerca e la promozione esagerata dei beni porta all’idolatria della produzione e del consumo senza scopi, per cui l’armonia della struttura sociale viene sconvolta e alla lunga si cade nella ipertrofia e nella saturazione economiche. Dall’altra, come reazione eguale e contraria, il predominio della ricchezza artificiale e inutile e il consumismo spingono all’ozio e al rifiuto del sacrificio, per cui le nuove generazioni finiscono col dilapidare gradualmente i frutti del lavoro delle passate generazioni, senza curarsi del bene comune né del destino delle future generazioni. «Spinta alla caccia del piacere, la nostra società fa uno spaventoso consumo di capitali e si applica ad una non meno spaventosa produzione di ricchezze di corruzione»26, ossia di quei beni artificiali, inutili e costosi che servono solo a soddisfare bisogni fittizi e ad alimentare la vanità e la sensualità. E così la intemperanza sociale, sia che spinga lungo la via dell’accumulo irrazionale o lungo quella del conseguente consumismo scialacquatore, produce un comune risultato: la miseria.
La storia è un cimitero pieno dei resti di civiltà ricche, raffinate, scettiche e depravate, come quella del basso impero romano, che si sono rovinate proprio in questo modo: sacrificando religione, famiglia e proprietà ai tirannici idoli dei vizi sociali. In una sua celebra pagina, il filosofo della storia Giambattista Vico già nel 1744 lanciava questo grido di allarme: se la nostra società non smetterà di rinnegare il Cristianesimo per superbia e di dissipare i propri beni per intemperanza, finirà col tornare al livello dei selvaggi, perdendo tutti i benefìci, anche tecnologici e sanitari, che le virtù sociali cristiane le hanno procurato nel corso dei secoli 27. Oggi siamo giunti appunto a questo bivio …


Gli attuali agenti della intemperanza sociale


Se prescindiamo dai fattori di tipo preternaturale, come l’influenza demoniaca, possiamo notare che la propagazione sociale del virus della intemperanza non è un fenomeno casuale né fatale, ma è dovuta principalmente a due agenti umani che potrebbero essere certamente neutralizzati.


Il primo agente è costituito dall’opera nefasta dei “nemici del genere umano”, come li chiama san Paolo, ossia dai fattori di corruzione sociale. Alludiamo a quelle persone di prestigio o di potere e a quelle fazioni o sette che – per convenienza, per compiacenza o addirittura per odio verso Dio – s’impegnano a giustificare, proteggere e propagare i vizi sociali. «L’intemperanza divampa soprattutto a causa delle seducenti malie e delle provocazioni mondane, assurte a vera tecnica scientifica, con le quali un infame connubio di cieche voglie e di sordidi calcoli avvolge il campo sessuale» 28. I più influenti ambienti della “cultura”, della politica, dell’economia e della comunicazione appaiono oggi come vincolati da un patto scellerato che l’impegna ostinatamente – talvolta perfino contro i loro veri interessi – a favorire l’immoralità pubblica e specialmente l’intemperanza sociale. I guru della “cultura” progressista ne elaborano le giustificazioni teoriche, i padrini della politica ne assicurano le coperture giuridiche e istituzionali, certi poteri economici ne forniscono i mezzi, i maghi della pubblicità ne lanciano gli slogan, i simboli e le immagini, per non parlare del mondo dello spettacolo e della moda che ne propongono sfacciatamente i modelli più seducenti e prestigiosi. 
Sottoposto a questa subdola e vasta opera di seduzione, lo spirito pubblico, sia pure di malavoglia e lentamente, finisce spesso con l’accettare una degradazione offertagli da tentatori così prestigiosi, abili e ricattatori. Una volta che i “poteri forti” hanno creato una mentalità che giustifica quel tal vizio e un ambiente che lo favorisce, il pubblico si abitua dapprima a tollerarlo, poi a rassegnarsi e infine a praticarlo. Appena possibile, le autorità costituite avranno cura di legalizzarlo, dapprima come un male da tollerare, ma poi come un “diritto civile” da tutelare, infine come un bene sociale da promuovere a colpi di legge. A questo punto, i ruoli si sono invertiti e la situazione si è capovolta: quel vizio sociale viene addirittura garantito e imposto come se fosse una virtù sociale, mentre l’opposta virtù viene contrastata e vietata come se fosse un vizio che impedisce il libero esercizio di un diritto civile favorendo l’intolleranza e la instabilità. Se applicate questo schema dal generico allo specifico, potete ripercorrere la storia della decadenza della vita pubblica e della legislazione italiane, dalle legge del divorzio in poi, rendendovi conto di come l’intemperanza sociale è stata dapprima diffusa, poi legalizzata e promossa e infine imposta dai pubblici poteri.

Il secondo agente che favorisce l’intemperanza sociale è la sconcertante debolezza dei buoni, l’ignavia di coloro che, pur potendo far molto per impedire il male, non vogliono farlo. Abbiamo qui a che fare col mistero di «una tolleranza che semina i vizi, nutre le negligenze e spinge al male non solo i malvagi, ma perfino i buoni» 29. E’ il solito problema per cui, come ammoniva amaramente sant’Agostino, «tutta la forza dei cattivi sta unicamente nella debolezza dei buoni». Ci si stringe il cuore, nel pensare quanto poco sarebbe bastato per impedire tanti mali morali che affliggono la nostra Italia, quanto sarebbe stato facile respingere fin dall’inizio le prime offensive che promuovevano l’immoralità pubblica e particolarmente l’intemperanza sociale: ossia le prime riviste e mode, i primi film e cartelloni, le prime giustificazioni nei discorsi e sui libri. Sarebbe bastato che le autorità e le istituzioni – allora controllate dalla Democrazia Cristiana – avessero ostacolato gli agenti e i mezzi della corruzione e avessero favorito le numerose forze sane ancora operanti nella vita civile. E’ invece accaduto proprio il contrario: gli agenti del progressismo corruttore hanno goduto dapprima di tolleranze e complicità, poi di favori e onori incredibili, mentre le persone e gli ambienti rimasti fedeli alla loro missione, specialmente educatrice, sono stati calunniati, isolati e ostacolati in modo incredibile, anche da coloro che avevano il compito di difendere la pubblica moralità.
 
D’altra parte, però, ci si allarga il cuore, nel pensare che ancor oggi, nonostante tutto, la causa non è perduta e molto può essere fatto per ricuperare il terreno perduto e per vincere la battaglia della morale pubblica. I malvagi hanno sempre più difficoltà nel sedurre l’opinione pubblica, che non sembra più disposta a seguirli ciecamente verso l’abisso. Sono gli stessi agenti rivoluzionari che ammettono questa loro difficoltà. E’ proprio per questo ch’essi oggi pongono tutte le loro speranze e mettono tutto il loro impegno nell’ottenere dai buoni, o almeno dai “moderati”, una complicità con i propri piani, per poter almeno guadagnar tempo e mantenere le posizioni oggi in pericolo. Ma è appunto quest’assurda e suicida proposta di complicità che gl’Italiani rimasti fedeli, e sono tanti, debbono lealmente e coraggiosamente rifiutare.
Quanto alla virtù sociale della temperanza, oggi non basta promuoverla ma bisogna anche e soprattutto difenderla dai suoi calunniatori, dimostrando ch’essa non solo non porta alla infelicità, ma anzi rende possibile quella poca felicità, quella pace e quel benessere sociale realizzabili su questa terra. Perché questa virtù, come le altre, possa risorgere, però, si presuppone una condizione imprescindibile: il mondo cattolico, a cominciare dalle autorità ecclesiastiche, devono tornare a praticarla, predicarla e favorirla. Non servirà a nulla far propaganda contro l’immoralità, la corruzione e il vizio dilaganti, se contemporaneamente la Chiesa non promuoverà le virtù sociali, a cominciare da quella della temperanza.


Guido Vignelli

Note

1 In questa esposizione seguiamo soprattutto tre testi che riassumono ottimamente l’insegnamento della Chiesa al riguardo: Josef Pieper, Sulla temperanza, Morcelliana, Brescia 1965; Marcel De Corte, De la tempérance, D. M. Morin, Bouère 1982; Antoine Janvier O.P., La virtù della temperanza, Marietti, Torino 1939. 
2 H. Lacordaire O.P., Conferenze, All’Insegna del Salvator Rosa, Napoli 1853, vol. I, conferenza XXII, p. 226. 
3 S. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II-IIae, q. 47, a. 10.
4 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., II-Iiae, q. 141, a. 2. 
5 M. De Corte, op. cit., p. 14.
6 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., II-IIae, q. 41, a. 2.
7 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., II-IIae, q. 153, a. 1.
8 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., II-IIae, q.148, a. 6.
9 A. Janvier, op. cit., p. 101.
10 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., II-IIae, q. 47, a. 10. 
11 A. Janvier, op. cit., pp. 20-21.
12 Card. M. Massimi, La nostra legge, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1960, p. 226.
13 J. Pieper, op. cit., pp. 61-62.
14 M. De Corte, op. cit., pp. 12 e 16.
15 A. Janvier, op. cit., p. 14.
16 A. M. Janvier, op. cit., p. 14.
17Cfr. l’analisi storico-sociale fatta da mons. Henri Delassus nel suo studio Il problema dell’ora presente, Cristianità, Piacenza 1979, vol. II, capitoli dal XXIII al XXXVII.
18 Cfr. la profonda diagnosi di Plinio Corrȇa de Oliveira, Rivoluzione e Controrivoluzione, Roma 1998, parte I, capitoli V e VII.
19Cfr. ad es. Giovanni Paolo II, esortazione apostolica Reconciliatio et paenitentia, § 6; enciclica Sollicitudo rei socialis, § 36; Catechismo della Chiesa Cattolica, § 1869. Un’analisi del peccato sociale è stata fatta dal p. Victorino Rodrìguez O.P. nel suo articolo su El pecado colectivo, in “Verbo” (Madrid), nn. 223-224 (1983).
20 M. De Corte, op. cit., p. 9.
21 S. Tommaso d’Aquino,, op. cit., II-IIae, q. 154, a. 3.
22 H. Lacordaire, op. cit., conferenza XXIII, p. 242. 
23 M. De Corte, op. cit., pp. 16, 36 e 44.
24 S. Tommaso d’Aquino, op. cit., I-IIae, q. 25, a. 1.
25 E’ questo il titolo di un significativo scritto libertario di Lindsay Spooner, ora riedito da LiberiLibri, Macerata 1998.
26 H. Delassus, op. cit., vol. I, p. 380.
27 G. B. Vico, Princìpi di scienza nuova, Rizzoli, Milano 1990, conclusione.
28 J. Pieper, op. cit., p. 59.
29 S. Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo secondo Matteo, omelia III (trad. it. Edizioni Città Nuova, Roma 1979).




Sia lodato l’Agnello eucaristico!



12 agosto. S. Chiara d’Assisi.

Vedo - e non sembrerà una cosa impossibile a vedersi perché noto a molti e molti - il miracolo della cacciata degli assalitori dal convento di Assisi per opera di Suor Chiara. Ma mi è gioia vederlo, e degli altri non mi curo. Le descrivo ciò che vedo.

Un ben misero conventino, basso basso, dal tetto molto spiovente in avanti, dal piccolo chiostro che grida la grande parola francescana da ogni sua pietra:
“Povertà”, dai corridoietti bui, brevi, stretti, in cui si aprono le porticine delle celle. Spavento e dolore agitano la povera dimora di pace. Il convento è
sonoro come un alveare di voci di preghiera e di gemiti. E veramente come un alveare sbigottito da una invasione sembra questo piccolo convento. Il rumore della lotta esterna penetra pure, unendo le sue voci di ferocia alle voci di pietà.

Non so se sia una conversa quella che porta la notizia che le orde nemiche tentano di invadere il convento o se è qualche assisano che avverte le Clarisse del pericolo. So che lo sgomento raggiunge il suo culmine mentre tutte si precipitano nella cella della Badessa, che è prostrata in preghiera presso la sponda del suo giaciglio e che si alza cerea, consumata, ma tanto bella e solenne, per accogliere le sue figlie impaurite. 

Le ascolta e dà ordine di scendere in coro con ordine e con fede, col silenzio della Regola, “perché” dice
“nessuna cosa per tremenda che sia deve fare dimenticare la santa Regola”. E lei le segue ed entra nel piccolo, misero coretto oltre il quale è la chiesetta
sbarrata, buia, con le uniche due fiammelle: l’una nella chiesa, l’altra nel coro, che splendono calme davanti al ciborio, di là per le anime del mondo che troppo poco si ricordano di Dio, di qua per le anime di Gesù che in quella fiammella perpetua vedono il simbolo di se stesse.

Pregano, sobbalzando ad ogni urlo più forte e più vicino. E quando una, certo una conversa, rientra, urlando senza ritegno per il luogo: “Madre, sono alla
porta!”, le clarisse si piegano come se fossero già colpite a morte.

Suor Chiara no. Anzi si alza in piedi e si porta proprio in mezzo al coro e dice: “Non temete. Essi sono uomini e sono fuori. Noi siamo qui, dentro, e con Gesù. Ricordate la sua parola: ‘Non vi sarà torto un capello’. Noi siamo le sue colombe. Egli non permetterà che le profanino gli sparvieri”.

Di fuori l’onda del tumulto si fa più forte, smentendo le sue parole. Ma lei non si sgomenta. Vedendo che le clarisse sono troppo terrorizzate per poter vincere
dubbio e terrore, si volge a Dio. “Mio dolce Gesù, perdona se la tua povera Chiara osa porre le mani là dove solo un sacerdote può porle. Ma qui non ci sei
che Tu e noi. Una di noi deve dunque dirti: ‘Vieni’. Le mie mani sono lavate di pianto. Possono toccare il tuo trono” e risoluta va al ciborio, lo apre, ne prende non l’ostensorio, come si dice, ma una custodia simile ad una pisside, e non è di metallo prezioso, mi pare di avorio o di madreperla, almeno nell’esterno e per quanto concede di vedere la poca luce. Lo prende e lo tiene con la riverenza con cui terrebbe il Dio bambino. Scende sicura i pochi scalini e va salmodiando verso la porta del convento, e le suore la seguono tremanti e
soggiogate.

“Apri la porta, figlia”.
“Ma sono lì fuori! Sentite che urli e che urti?”.
“Apri la porta, figlia”.
“Ma irromperanno qui dentro!”.
“Apri la porta. È l’ubbidienza!” e Chiara, prima dolce e persuasiva, assume un tono imperioso che non ammette tergiversazioni. È la antica feudataria usa al
comando e la grande Badessa che richiama all’ubbidienza.
La clarissa apre, con un gemito e un tremito che rallenta l’operazione, e le altre, dietro alla Badessa, hanno lo stesso tremito. Si segnano chiudendo gli
occhi, pronte al martirio, si calano il velo per morire velate.

L’uscio è finalmente socchiuso. L’urlo degli assalitori si muta in grido di vittoria e, cessando di usare le armi, si gettano a corsa verso l’uscio che si apre.

Chiara, bianca nel viso come la teca che porta ben alta, unico velo al suo volto di claustrata, fa due, tre, cinque passi fuori della soglia. Non so se veda chi ha di fronte, la sua terra, i suoi nemici. Non credo. I suoi occhi non fanno che adorare il Santissimo che ella porta. Alta e magrissima, consumata come è, bianca come un giglio, lenta nel passo, pare un angelo o un fantasma. A me pare angelo, agli altri deve parere un fantasma. La loro baldanza si frange, si arresta, e vedendole fare un altro passo in avanti si volge in fuga disordinata.

È allora che Chiara vacilla, e curva, come prossima a cadere, si affretta a rientrare oltre la soglia. “Sono fuggiti. Sia benedetto il Signore! Ora... ora sorreggete la vostra madre. Perché io possa riportarlo sul suo altare. Cantate, figlie, e sorreggetemi. Ora è ben stanca la madre vostra!”. Ha infatti un viso da morente, come avesse dato tutte le sue forze. Ma ha anche un sorriso tanto dolce, e tanta forza nelle mani ceree per tenere stretta la custodia!

Rientrano in coro e Chiara depone nel ciborio la teca intonando il “Te Deum” e rimanendo poi riversa sui due gradini dell’altare come fosse morta, mentre le
clarisse continuano l’inno di grazie.

Questo è ciò che vedo. E per me c’è questo solo: poche parole di S. Chiara, nella sua veste paradisiaca, non di clarissa:
«Con questo» e indica il Ss. Sacramento «tutto si vince. Sarà la grande forza del Paradiso e della Terra finché vi saranno i bisogni della Terra. Per i meriti
infiniti del Corpo Ss. annichilito per noi, noi santi del Cielo otteniamo grazie per voi, e per Esso voi ottenete vittorie. Sia lodato l’Agnello eucaristico! Il
Signore ti dia pace e benedizione.»

O SACRUM CONVIVIUM!

OPORTET ORARE SINE INTERMISSIONE



Litania di Gesù all’Umanità (1)- Protezione contro il Falso Profeta.

Carissimo Gesù, salvaci dall’inganno del Falso Profeta.
Gesù, abbi pietà di noi.
Gesù salvaci dalla persecuzione.
Gesù preservaci dall’Anticristo.
Signore pietà.
Cristo pietà.
Carissimo Gesù, ricoprici del Tuo Preziosissimo Sangue.
Carissimo Gesù, apri i nostri occhi alle menzogne del Falso Profeta.
Carissimo Gesù, riunisci la Tua Chiesa.
Gesù, proteggi i nostri Sacramenti.
Gesù, non lasciare che il Falso Profeta divida la Tua Chiesa.
Carissimo Gesù, aiutaci a respingere le menzogne presentate come verità.
Gesù, dacci la Forza.
Gesù, dacci la Speranza.
Gesù, inonda la nostra anima dello Spirito Santo.
Gesù, proteggici dalla Bestia.
Gesù, dacci il Dono del Discernimento per poter seguire la via della tua Vera Chiesa in ogni tempo e nei secoli dei secoli.
Amen