sabato 12 ottobre 2013

7 - Il Cuore di Maria è un Sole


7 - Il Cuore di Maria è un Sole

Come il sole è sorgente di luce. - Il sole, il quale è come il cuore di questo nostro mondo visibile, pur essendo la più bella, la più vistosa parte della natura, non è che un'ombra tenebrosa del nostro Sole divino, il Cuore di Maria.

Questo Cuore è un vaso ammirabile, e come il sole è opera di Dio «Vas admirabile, opus Exelsi; magnus Dominus, qui fecit illum» (Sir 43, 2. 5). Capolavoro incomparabile dell'Altissimo, riassunto di tutte le meraviglie da Lui compiute nelle creature, è destinato
ad essere eternamente l'oggetto dell'ammirazione dei Beati, poiché la sua divina magnificenza appare più in questo cuore ammirabile che non in tutte le cose create nell'ordine della natura, della grazia, della gloria.

Il sole che illumina questo mondo visibile, e che ne è come cuore, è tutto splendore, è sorgente della luce di tutti gli altri pianeti.
Il cuore di Maria è tutto circondato, e penetrato d'una luce incomparabilmente più brillante e più eccellente di tutte quante le luci del firmamento.

È tutto luce, e, dopo Dio, è la prima sorgente di tutte le luci che rischiarano il cielo della Chiesa: «Ego feci in caelis ut oriretur lumen indeficiens» (Sir, 24, 6).



Come il sole è il principio della vita vegetativa, sensitiva, animale di questo mondo visibile, così il cuore di Maria è sorgente di vita di tre grandi mondi.

1) Della vita stessa di Maria, che è per sé un mondo ricco di meraviglie, più di tutto il mondo visibile.
2) È il principio della vita d'un secondo mondo, infinitamente più ammirabile di quello naturale, quello dell'Uomo Dio vero figlio suo.
3) È l'origine della vita d'un terzo mondo, che è quello composto di tutti i veri figli di Dio, viventi in terra della vita della grazia, in cielo della vita della gloria. Essi sono debitori dell'una e dell'altra vita dopo che a Dio, alla madre di colui che è loro capo.

Se S. Giovanni Crisostomo poté dire che il cuore di S. Paolo fu «totius orbis cor»: cuore di tutto il mondo, perché per mezzo di questo cuore apostolico lo spirito della vera vita è stato elargito alle membra di Cristo, quanto più si potrà dire che il cuor della Regina di
tutti gli Apostoli è il cuore di tutto l'universo e della Chiesa militante, purgante e trionfante: «Vitam datam per Virginem, gentes redemptae, plaudite!».

Sorgente di gioia e di ogni bene. - Il sole è il tabernacolo di Dio: «In sole posuit tabernaculum suum» (Sal 18, 6). S. Ambrogio applica queste parole al cuore di Maria, nel quale Dio fa dimora assai più gloriosamente, ed opera cose infinitamente più grandi che non nel sole.


L'Eterno Padre dice che il trono di suo Figlio è come un sole al suo cospetto: «Thronus ejus sicut sol in conspectu meo» (Sal 88, 38). E quale sarà, dunque, questo trono del Figlio di Dio, se non il cuore della sua carissima madre, il quale, per conseguenza, è sole splendente dinanzi alla faccia del Padre dei lumi?

Il sole materiale spande la sua luce, il suo calore, il suo influsso su tutte le cose materiali che la terra presenta; il nostro sole mistico spande le sue luci sante, il suo divino calore, le sue celesti influenze dappertutto in cielo, in terra, sugli uomini, sugli Angeli: «Non est qui se abscondat a calore ejus» (Sal 18, 6).

Quello rallegra con la sua presenza tutto il mondo materiale; questo beatifica tutta l'universo: «Gaudium annuntiat universo mundo».

È la consolazione delle anime che soffrono in purgatorio; 
è la gioia dei fedeli che sono ancora sulla terra; 
è il giubilo dei Santi che sono in cielo; 
è la compiacenza e la delizia della SS Trinità; 
è la gioia universale di tutto il mondo. "Commune mundi Gaudium" (S. Germ. di Costant.) - Oceano insondabile di gioia (S. Giovanni Damas.).

Togliete il sole che rischiara il mondo, domanda S. Bernardo, poi che succederà?

Togliete Maria, - meglio, togliete il Cuore Immacolato di Maria, vero sole del mondo cristiano, - che cosa succederà a noi, se non di restare avvolti nelle tenebre più spaventose, sepolti nelle fitte ombre di morte?...


PREGHIERA.
O cuore della mia Regina, a mio amabilissimo sole, fortunati i cuori
che vi amano. O bel sole divino, rischiarate le nostre tenebre, 
riscaldate la nostra freddezza, dissipate dal nostro spirito ogni male, 
ogni timore, infiammate il nostro cuore del vostro fuoco sacro, 
spandete senza interruzione il vostro dolce influsso sull'anima
nostra, affinché tutte le virtù cristiane vi fioriscano e siano feconde 
di ogni sorta di opere buone! 
Fate che noi viviamo in terra la vita del cielo, e che non cerchiamo mai 
alcuna gioia che non sia la gioia dei figli di Dio, i quali altro non vogliono 
che piacere al loro amabilissimo padre e seguire in tutte le cose la sua 
adorabile volontà.
O sole divino, fate che il nostro cuore sia uno specchio terso su cui torni 
gradito a voi dipingere ed imprimere voi stessa, affinché porti in sé 
un'immagine perfetta della vostra umiltà, purezza, carità, santità e di 
tutte le altre vostre virtù e perfezioni, e questo per la sola gloria di 
colui che fece il vostro cuore per se stesso.

venerdì 11 ottobre 2013

La sacralità della liturgia, dunque, spinge la costituzione liturgica conciliare a tirare le conseguenze: “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica”(n. 22 § 3).


"CAMBIARE" LA LITURGIA?

di Mons. Nicola Bux



Oggi è più che manifesto il dissenso sulla natura della liturgia. È essa opera di Dio, in cui egli ha competenza, ha i suoi diritti? Oppure è intrattenimento umano dove fare ciò che noi vogliamo?

Le ombre, gli abusi e le deformazioni – termini usati da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ed effetti della bramosia di innovazione – hanno messo all'angolo la tradizione per cui “ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e dar loro il giusto posto” (così Benedetto XVI nella lettera di presentazione ai vescovi del motu proprio "Summorum pontificum").

Senza "traditio" – la consegna di ciò che abbiamo ricevuto, come scrive l'Apostolo – non si sviluppa organicamente il nuovo. Il dissenso si può risolvere solo comprendendo che la liturgia è sacra, cioè appartiene a Dio ed egli vi è presente e opera. 

Ma a chi compete salvaguardare i diritti di Dio sulla sacra liturgia? Alla Sede Apostolica e, a norma di diritto, al vescovo ed entro certi limiti alle conferenze episcopali compete “moderare” la liturgia: così recita il testo latino della costituzione liturgica del Concilio Vaticano II (n. 22, § 1-2).

Che vuol dire “moderare”? Confrontando altri passi del Vaticano II, significa salvaguardare la legittima diversità delle tradizioni in campo liturgico, spirituale, canonico e teologico: si pensi alle liturgie occidentali come la romana e l'ambrosiana e alle numerose liturgie orientali ritenute all'interno dell'unica Chiesa cattolica.

Il termine può essere tradotto anche “regolare”, il che presume che l'operazione avvenga "sotto la direzione" di un'autorità suprema. Da un altro documento del Vaticano II, il decreto sull'ecumenismo (Unitatis redintegratio n. 14), sappiamo che i redattori del testo intendevano "moderante" come "sotto la presidenza", o in francese: "intervenant d’un commun accord" (la traduzione francese è stata fatta dagli estensori del decreto). La formula limita gli interventi romani "ad extra" al sorgere di uno screzio grave circa la fede o la disciplina.

La sacralità della liturgia, dunque, spinge la costituzione liturgica conciliare a tirare le conseguenze: “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché  di sua iniziativa, in materia liturgica”(n. 22 § 3).

Il Catechismo della Chiesa cattolica ha ulteriormente precisato che “anche la suprema autorità della Chiesa [ossia il papa - ndr] non deve modificare la liturgia arbitrariamente, ma solo in obbedienza alla fede e con rispetto religioso per il mistero della liturgia” (n. 1125).

Ha scritto Joseph Ratzinger nella prefazione al libro di Alcuin Reid "Lo sviluppo organico della liturgia", Cantagalli, Siena, 2013:
“Mi sembra molto importante che il Catechismo, nel menzionare i limiti del potere della suprema autorità della Chiesa circa la riforma, richiami alla mente quale sia l'essenza del primato, così come viene sottolineato dai concili Vaticano I e II: il papa non è un monarca assoluto la cui volontà è legge, ma piuttosto il custode dell'antica Tradizione [una delle due fonti della divina rivelazione – ndr),  e il primo garante dell'obbedienza. Non può fare ciò che vuole, e proprio per questo può opporsi a coloro che intendono fare ciò che vogliono. La legge cui deve attenersi non è l'agire 'ad libitum', ma l'obbedienza alla fede. Per cui, nei confronti della liturgia, ha il compito di un giardiniere e non di un tecnico che costruisce macchine nuove e butta quelle vecchie. Il 'rito', e cioè la forma di celebrazione e di preghiera che matura nella fede e nella vita della Chiesa, è forma condensata della Tradizione vivente, nella quale la sfera del rito esprime l'insieme della sua fede e della sua preghiera, rendendo così sperimentabile, allo stesso tempo, la comunione tra le generazioni, la comunione tra coloro che pregano prima di noi e dopo di noi. Così il rito è come un dono fatto alla Chiesa, una forma vivente di 'paradosis'".
È questo un invito alla riflessione per quanti mettono in giro la voce che papa Francesco stia per “cambiare” la liturgia.

Nel secolo scorso in Russia, il tentativo del patriarca Nikon di cambiare i libri liturgici ortodossi produsse uno scisma. Anche tra i cattolici lo scisma di mons. Lefebvre fu dovuto in buona parte all'aver toccato la liturgia e ne soffriamo tuttora le conseguenze.


San Buenaventura: Del admirable Sacramento del altar


San Buenaventura
Del admirable Sacramento del altar



La misericordia divina ha multiplicado en todo tiempo y momento sus exquisitos cuidados sobre las numerosas miserias del hombre. De esta consideración debe brotar de nuestros corazones un ininterrumpido hacimiento de gracias por la liberalidad de Dios en curar y prevenir tanta deficiencia de nuestra naturaleza caída con tantos y tales dones que de sus manos nos han venido y nos vienen continuamente.


Seis grandes defectos aquejaban a la naturaleza humana, que fueron subsanados adecuadamente por otros tantos beneficios divinos. Estaba el hombre despojado de todo don sobrenatural, y Dios le enriqueció con su propia inhabitación. Estaba hambriento, y se le dio El mismo como alimento restaurador. Se hallaba rodeado de densas tinieblas, y se le comunicó El mismo como luz en su propio corazón. Yacía en sombras de muerte por el juicio divino que sobre él pesaba, y se ofreció Dios mismo como víctima para su reconciliación. Estaba vencido, con espantosa impotencia para todo lo sobrenatural, y se le dio El mismo como principio de operación en orden a la vida eterna. Obstinado y cautivo su corazón con vínculos férreos, fue El quien se ofreció para relajar estas ataduras.



Estas seis profundas dolencias de la naturaleza humana y las seis misericordias divinas que son su remedio se encuentran anunciadas en la sagrada Escritura por otras tantas figuras de la Eucaristía. Estas son: la grosura, el pan, la miel, el cordero pascual, el tesoro celestial y el maná.



Las propiedades de estos elementos que figuran los efectos de la Eucaristía en el alma son: la grosura, liquidada al fuego, se difunde y empapa los cuerpos que toca; así la Eucaristía entra en los senos del alma y la hinche con sus celestiales dones. El pan alimenta y restaura las fuerzas: del mismo modo la Eucaristía calma el hambre espiritual del hombre. La miel (según se pensaba entonces) es medicina para curar los ojos; de igual manera la Eucaristía es luz que disipa las tinieblas que nos rodean. El cordero pascual era víctima que debía ser inmolada: como él, la Eucaristía es sacrificio de reconciliación del hombre con Dios. El tesoro enriquece al que nada poseía; de modo semejante la Eucaristía llena de bienes al alma despojada de todo don celestial. El maná se derretía bajo la influencia del calor solar; en modo parecido se ablanda la dureza férrea y obstinada de los corazones al contacto con el calor divino de la Eucaristía



La primera figura de la Eucaristía es la grosura (Gen 49,20). En sus propiedades naturales podemos vislumbrar los efectos sobrenaturales de la Eucaristía en el alma. La grosura es condimento en los alimentos que los hace gustosos para quien los come; así, la Eucaristía es sabroso manjar que deleita grandemente al alma que devotamente la recibe. La grosura suaviza y dilata la piel que unge; la Eucaristía dilata igualmente al alma, que saliendo de sí misma, la proyecta, con amor sobrenatural, al prójimo. La grosura, derramada sobre el fuego, excita las llamas, elevándolo a lo alto. La Eucaristía es sacrificio de oblación que conserva y fomenta la piedad y devoción. Recibida dignamente en el alma, la arrebata y eleva a Dios. 



La segunda figura con que se representa la Eucaristía es el pan. El mismo Cristo dijo de sí: “Yo soy el pan vivo que he descendido del cielo..El pan que yo daré es mi misma carne para la vida del mundo”(Juan 6,51-52.) En el Antiguo Testamento se halla igualmente figurada la Eucaristía en el pan que dio el ángel al profeta Elías (III Reyes 19,6). Efectos, pues, propios de este Sacramento son: robustecer el alma para la obra dificultosa y continuada de la propia santificación durante todo el tiempo de su destierro; capacitar y elevar el alma a las alturas de la contemplación con la comunicación de luces divinas en el entendimiento y ardorosos afectos de amor en el corazón; disponerla para recibir la comunicación de los arcanos de los divinos secretos; elevada el alma a las alturas divinas que, por misterioso modo, contempla, las bellezas y esplendores infinitos de las divinas perfecciones que se le descubren la estimulan, con bríos renovados, a desprenderse de todo lo creado y tender con vivos anhelos a la bienaventuranza que columbra.



La tercera figura de la Eucaristía es la miel, de la cual se habla en la Escritura: “Come la miel, hijo mío, porque es buena y el panal es dulcísimo para tu garganta” (Prov 23,13.) La miel es deleitosa para el gusto, y, según el decir de los médicos, es medicina para la vista. He aquí los dos grandes efectos de la Eucaristía: deleite y suavidad sabrosa que alimenta nuestros afectos, y claridad celestial que envuelve nuestro entendimiento en fulgores divinos. La solícita abeja que laboró la miel sabrosísima de la Eucaristía, fue la bienaventurada Virgen María.




La cuarta figura de la Eucaristía es el cordero pascual, del cual se habla en el Éxodo (12,35.) De las disposiciones requeridas para comer el cordero pascual, se deducen las que deben acompañar al alma que se alimenta de este sagrado manjar.

Pero conviene declarar cómo debe aparejarse el alma antes de allegarse al Sacramento, el atavío que la debe adornarla en el momento de la recepción del mismo y la copia de frutos que redunda en ella después de la comunión.

*En el primer lugar, antes de allegarse el sacerdote al Sacrificio del altar, debe estar poseído de un sentimiento de universalidad, por cuanto que no obra entonces como persona privada, sino en nombre de la Iglesia universal. Por lo tanto, en nombre de todos los vivientes debe ofrecer el Sacrificio por los que expían en el purgatorio; en nombre de los que viven y murieron en el Señor, lo ofrece para gloria y alabanza de los santos ángeles y de los bienaventurados del cielo; y en nombre de toda la universalidad de los justos, lo ofrece en honor de la Santísima Trinidad. Debe hacerse apto e idóneo para recibir tan alto Sacramento, lo que conseguirá si antes da entrada a Dios en su corazón, al cual viene por la parte racional como luz y claridad, por la parte afectiva como dulzura y bondad, y por la irascible como vigor y fuerza con que vence los obstáculos que le impiden unirse con El. 


Además de esto debe el alma procurar la caridad, en cuyos ardorosos afectos ha de andar envuelta como en encendida túnica de amor para tratar dignamente este sacramento. 

Finalmente, debe acompañarle la integridad y pureza de la fe, que traspasa las fronteras de la razón. Según esto, ha de creer que está allí el verdadero cuerpo de Cristo, nacido de la Santísima Virgen, en virtud y por obra de la transubstanciación; la presencia del alma de Cristo se explica allí por la natural concomitancia con su cuerpo; juntamente con esto, está también la Divinidad, inseparable de la humanidad en fuerza de la unión hipostática; ambas naturalezas, divina y humana, residen en el Sacramento con los profundos misterios que las acompañan.

**En segundo lugar, en el momento de la recepción del Sacramento, debe presentarse el hombre ataviado con estas santas disposiciones: primera, una pureza angelical, con la represión y pleno dominio de todo movimiento levantisco de las pasiones; segunda, esta pureza debe extenderse a todos los afectos del alma, que deben estar limpios de todo lo que sabe a terreno y caduco; tercera, ha de acompañar al alma el recuerdo vivo de la pasión de Cristo, ya que este Sacramento es memorial de ella. Cuarta, debe aspirar con sus deseos a la plenitud de la felicidad eterna, cuyos primeros sabores y vislumbres se le comunican en este Sacramento.


***Finalmente, y en tercer lugar, se manifiestan los frutos o inefables beneficios que vienen al alma después de recibir la Eucaristía, que son los que a continuación se indican. Con la comunión Cristo da entrada en nuestra alma a sus secretos y misteriosos consuelos, estableciendo en ella su mansión, la cual debemos preparar con el humilde conocimiento de nosotros mismos, con dulces transportes de amor, con el sosiego y la paz exenta de toda turbación y con la contemplación de las cosas celestiales. Disminuye la inclinación al mal, que, si bien no la extingue absolutamente, la tiene como reprimida. Da, finalmente, al alma la seguridad de la bienaventuranza eterna.



La quinta figura es el tesoro celestial que promete el Espíritu Santo en Isaías:“te daré tesoros ocultos y las riquezas escondidas; yo soy el Señor” (45,3.) Y en verdad, en Cristo se hallan los tesoros de todo cuanto es o existe, porque todas las cosas son de El, y todas son para El, y todas existen en El (Rom 11,36). En El están los tesoros de toda sabiduría, porque no sólo conoce todas las cosas con conocimiento perfectísimo y cabal, sino porque El es el principio o la luz por la que conoce todo entendimiento creado cuanto conoce. El es el depositario de los tesoros de todas las gracias según todas sus clases y géneros. En El se cifran los tesoros de toda la gloria, porque todo cuanto hace bienaventurados a los ángeles y a los hombres de El procede.



La sexta figura que representa la Eucaristía es el maná, del cual se habla en el Exodo (cap. 16.) El cuerpo de Cristo en el Sacramento es manjar nobilísimo por su origen, suavísimo por su sabor, dignísimo por su contenido y maravillosísimo por su eficacia.



Es nobilísimo este manjar por su origen. Y en verdad fue cocido por la Santísima Trinidad en el seno virginal de María con el fuego del Espíritu Santo, y por obra de la misma beatísima Trinidad fue hecho este mismísimo Cuerpo del pan material en virtud de la transubstanciación. Es también nobilísimo porque seres nobilísimos, como son los ángeles, lo comen, sin el salvado de las especies sacramentales, en cuanto es Verbo increado, el mismo que comemos nosotros oculto bajo la corteza de los velos eucarísticos, en cuanto es Verbo encarnado.



Es de sabor suavísimo, que satisface cumplidamente los deseos todos de las milicias angélicas en el cielo y estimula nuestros anhelos al logro del premio eterno en la plenitud de estas suavidades divinas.


Encierra un contenido dignísimo, porque en este Sacramento reside toda la Santísima Trinidad por presencia y asistencia, pero sin circunscribirla. Allí está el Hijo por la encarnación, y el Padre, y el Espíritu Santo por la comunicación invisible de una misma substancia.



Posee una eficacia maravillosísima, por su celestial y misteriosa operación en las almas. Cristo viene a las almas, en este Sacramento, con la plenitud de su dones, de suyo poderosos para toda obra de santificación. Sin embargo, esta acción divina está condicionada al aparejo y atavío de una voluntad buena, santidad de vida y virtudes adquiridas que deben acompañar al alma al acercarse a recibir el cuerpo de Jesucristo en la Eucaristía. 

De ahí que en los grandes santos son altas y maravillosas las operaciones que obra en ellos la Eucaristía; en las almas medianas obra con acción mitigada; en los pequeños en la virtud, con operación muy limitada; en los malos, con operación dañina. 
Siendo una y poderosísima la gracia de la Eucaristía para obrar cumplidamente las divinas maravillas en las almas, sin embargo, cada cual participa de ella según la capacidad receptiva con que se allega al Sacramento.


Los que anhelen participar de estas operaciones misteriosas de la Eucaristía en la medida colmada que Jesús desea, deben concertar su vida con arreglo a estas disposiciones: 


primera, han de despojarse de todo hábito vicioso, que les incapacitaría para percibir las dulzuras divinas; 

segunda, juntamente con esto' deben producir frutos dignos de penitencia; 

tercera, deben igualmente desprenderse de todo lo terreno: riquezas, placeres, honores; 

cuarta, a imitación de Cristo, deben abrazarse a su cruz con voluntad libre, serena y alegre, de tal modo que la amargura de los sufrimientos, que tanto aterra a los mundanos, la trueque en suavidad y dulzura por la eficacia divina que en ellos descubre.

San Buenaventura, “Del Santísimo Cuerpo de Cristo”

ADORO TE DEVOTE

SANTA VERONICA : conquistata dall'amore a Gesù povero e crocifisso - “Figlia del Padre, sposa del Verbo, discepola dello Spirito”

Vita

Mercatello, Urbino, 1660 – Città di Castello, 1727

Statua di Santa Veronica
Santa Veronica Giuliani nacque il 27 dicembre 1660 a Mercatello sul Metauro, piccolo paese della diocesi di Urbino. Ultima di 7 figlie, il giorno seguente riceve il nome di Orsola al fonte battesimale della parrocchia.
La piccola Orsolina trascorre l’infanzia negli agi della famiglia borghese Giuliani, ricevendo dalla mamma Benedetta Mancini una profonda educazione cristiana.
La vita della grazia che accompagna la crescita umana della piccola Orsola, non le risparmia comunque le sofferenze della vita terrena. A soli 7 anni la madre si ammala gravemente e, prima di lasciare la terra, affida le 5 figlie viventi alle piaghe del Crocifisso. A Orsolina viene assegnata la piaga del costato nella quale troverà senso e sviluppo tutto il suo cammino spirituale di conformazione all’amato Gesù.
Con il suo carattere tenace ed esuberante, all’età di 17 anni, il 28 ottobre 1677, Orsola entra nel monastero delle Clarisse Cappuccine di Città di Castello (Perugia) per realizzare il desiderio di donarsi interamente a Gesù. Quel giorno riceve l’abito e il nome nuovo di Veronica, assegnatole con l’invito del Vescovo ad imitare la donna ricordata nella Via Crucis, riproducendo nella sua vita i lineamenti del Redentore. La sua vocazione era decisa fin dall’età di nove anni, ma dovette superare resistenze esterne ed interne prima di realizzarlo: da un lato quelle del padre che vedeva per la sua beniamina un futuro diverso e dall’altro quelle dovute alle seduzioni della vita mondana che, soprattutto nel soggiorno Piacentino, l’affascinavano molto appagando la sua ambizione ancora non purificata dalle vanità. La scelta di consacrarsi al Signore fra le Cappuccine chiama la giovane Veronica ad abbracciare lo stile di vita fondato da santa Chiara i cui elementi caratteristici sono soprattutto: l’amore a Gesù povero e crocifisso, da cui la spiritualità evangelica prende la forma di rigorosa povertà; la devozione all’Eucaristia, da cui sgorga la preghiera di lode, ringraziamento e riparazione a beneficio di tutte le membra del corpo di Cristo che è la Chiesa.
Cappellina di Santa Veronica, camino della casa natale
In un “poemetto” scritto da santa Veronica per celebrare il dono della vocazione, ritroviamo riassunte queste peculiarità vissute nei monasteri femminili ispirati alla Regola di santa Chiara.
Nel chiostro Veronica, libera dai condizionamenti mondani e dalle agiate condizioni di vita familiari, con spirito francescano di povertà e nella penitenza in uso al suo tempo, dedica tutta la sua vita a Dio offrendo preghiere, suppliche e sacrifici per la salvezza degli uomini. La sua esistenza brucia del desiderio di amare Dio e di donarsi interamente a Lui. In questa comunione vuole attirare tutta l’umanità e di conseguenza utilizza ogni strumento tipico della spiritualità dell’epoca come mezzo per realizzare questo scopo. In questa luce si può comprendere la sua forma estrema di penitenza e l’accondiscendenza di Dio Padre che ripresenta il suo amore per gli uomini rendendo visibili nel corpo di Veronica le stimmate del suo Figlio amato.
All’età di 33 anni Veronica riceve la corona di spine e a 36 anni le stimmate che segneranno il suo corpo per tutta la vita. Inoltre, per l’amore bruciante che la voleva conformata a Gesù redentore, portò scolpiti nel cuore i segni della passione (per questo nelle immagini è spesso raffigurata con il cuore in mano).
Santa Veronica riceve le Stimmate
La sua ansia di salvezza dell’umanità la porta a desiderare una conformità piena all’unico Mediatore fra Dio e gli uomini, Gesù Cristo, e a farsi come Lui “voce” dinnanzi al Padre usando l’appellativo dialettale di “Mezzana”, disposta a mettersi sulla porta dell’inferno e portare le pene dei peccatori pur di salvarli dalla dannazione eterna.
Se i confessori non le avessero chiesto di scrivere tutto quanto viveva (nel corpo e nell’anima) non sapremmo nulla di questa esperienza unica dell’amore di Dio per la sua creatura e della risposta generosa di Veronica: tutta la vicenda si è infatti tessuta tra le mura di un monastero di clausura. Le 22.000 pagine del diario, scritte per obbedire al comando dei confessori dal 1693 senza la possibilità di rileggersi, sono il racconto semplice e vivace di quanto la grazia ha operato in lei “Figlia del Padre, sposa del Verbo, discepola dello Spirito”, come Veronica stessa amava sottoscriversi. Una donna che ha fatto dell’Amore di Dio lo scopo della sua esistenza e che si è realizzato pienamente il 9 luglio 1727 quando, dopo 33 giorni di agonia, muore, unendosi nell’amplesso eterno con l’Amato.

BELLISSIMO: Luca 17,11-19 - Domenica 13 ottobre 2013, XXVIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C: "Chi ti fa vedere e capire è il tuo amore per Me. Maestro tuo, il vero e più grande Maestro che ti fa capire il tuo Maestro, è l’Amore», dice Gesù che fino a quel momento ha ascoltato e taciuto.


"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, 
ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta

BELLISSIMO: Luca 17,11-19

Domenica 13 ottobre 2013, XXVIII Domenica  del Tempo Ordinario - Anno C

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 17,11-19.
Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, 
alzarono la voce, dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!». 
Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono sanati. 
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; 
e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. 
Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? 
Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». E gli disse: 
«Alzati e và; la tua fede ti ha salvato!».
Traduzione liturgica della Bibbia 


Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" 
di Maria Valtorta : Volume 7 Capitolo 483 pagina 392.


1Sono sempre fra i monti, e monti ben rudi, su certe stradette dove non passano certo dei carri, ma soltanto viandanti a piedi o persone cavalcanti i forti somari della montagna, più alti e robusti dei soliti somarelli delle zone meno accidentate. Un’osservazione che a molti potrà parere inutile, ma che io faccio lo stesso.
In Samaria vi sono delle diversità dagli usi degli altri luoghi. Sia nel vestire come in tante altre cose. E una è l’abbondanza di cani, insolita altrove, che mi colpisce, come mi ha colpito la presenza di porci nella Decapoli. Molti cani, forse, perché la Samaria ha molti pastori e avrà molti lupi in quei monti così selvaggi. Molti anche perché i pastori in Samaria li vedo per lo più soli, al massimo con un fanciullo, pascolanti il gregge proprio, mentre altrove sono per lo più in molti a tutelare greggi numerose di capi di proprietà di qualche ricco. Fatto è che qui ogni pastore ha il suo cane, o più cani, a seconda del numero di pecore del suo gregge. 
Un’altra caratteristica sono proprio questi asini quasi alti quanto un cavallo, robusti, atti a scalare questi monti con dei carichi pesanti sul basto, sovente carichi delle legna forti che si trovano su questi magnifici monti coperti di boschi secolari. 
Altra particolarità: la scioltezza nel modo di fare degli abitanti che, senza essere dei «peccatori», come li giudicavano giudei e galilei, sono aperti, franchi, senza bigotterie, senza tutte quelle storie che hanno gli altri. E ospitali. Questa constatazione mi fa pensare che nella parabola del buon samaritano non ci sia stata soltanto l’intenzione voluta di far risaltare che il buono e il cattivo è da per tutto, in tutti i luoghi e razze, e anche fra eretici ci possono essere dei retti di cuore, ma proprio anche la reale descrizione delle abitudini samaritane verso chi è bisognoso di aiuto. Si saranno fermati al Pentateuco, sento che parlano di questo e non d’altro, ma lo praticano, almeno verso il prossimo, con più dirittura degli altri con i loro seicentotredici codicilli di precetti ecc. ecc. 


2Gli apostoli parlano col Maestro e, nonostante siano incorreggibilmente israeliti, devono riconoscere e lodare lo spirito che hanno trovato negli abitanti di Sichem i quali, lo comprendo dai discorsi che sento, hanno invitato Gesù a sostare fra di loro. 
«Hai sentito, eh?», dice Pietro, «come hanno detto chiaramente che sanno l’odio giudeo? Hanno detto: “Per Te e su Te c’è più odio che su noi samaritani per quanti siamo e quanti fummo. Ti odiano senza limite”». 
«E quel vecchio? Come ha detto bene: “È in fondo giusto che sia così, perché Tu non sei un uomo ma sei il Cristo, il Salvatore del mondo, e perciò sei il Figlio di Dio, perché solo un Dio può salvare il mondo corrotto. Perciò, essendo Tu senza limite come Dio, senza limitazioni nel tuo potere, nella tua santità e nel tuo amore, come sarà senza limite la tua vittoria sul Male, così è naturale che il Male e l’Odio, tutt’una cosa col Male, siano senza limiti contro Te”. Ha proprio detto bene! E questa ragione spiega tante cose!», dice lo Zelote. 
«Che spiega secondo te? Io... io dico che spiega soltanto che sono degli stolti», dice Tommaso spicciativo. 
«No. La stoltezza sarebbe ancora una scusante. Ma stolti non sono». 
«Ebbri allora, ebbri di odio», replica Tommaso. 
«Neppure. L’ebbrezza cede dopo essersi scatenata. Questo livore non cede». 
«E sì che più scatenato di così! È tanto che lo è... che ormai avrebbe dovuto cadere». 
«Amici, esso non ha ancora toccato la mèta», dice Gesù calmo, come se la mèta dell’odio non fosse il suo supplizio. 
«No?! Ma se non ci lasciano in pace mai?!». 
«Maestro, essi ancora non si persuadono che ho detto il vero. Ma l’ho detto. Oh! se l’ho detto! E dico anche che, se era per voi, sareste caduti tutti nella trappola come ci cadde il Battista. Ma non riusciranno perché io veglio...», dice l’Iscariota. 
E Gesù lo guarda. E lo guardo anche io domandandomi, e me lo chiedo da qualche giorno, se la condotta dell’Iscariota è causata da un buono e reale ritorno sulla via del bene e dell’amore per il suo Maestro, una liberazione dalle forze umane e extraumane che lo tenevano, o se sia un più raffinato lavoro di preparazione al colpo finale, un asservimento maggiore ai nemici di Cristo e a Satana. Ma Giuda è un essere talmente speciale che non è decifrabile. Solo Dio può capirlo. E Dio, Gesù, cala un velo di misericordia e di prudenza su tutte le azioni e sulla personalità del suo apostolo... un velo che si lacererà, completamente illuminando tanti perché, ora misteriosi, soltanto quando saranno aperti i libri dei Cieli. 


3Gli apostoli sono talmente preoccupati dall’idea che l’odio dei nemici non ha ancora raggiunto il suo termine, che non parlano più per qualche tempo. Poi Tommaso si rivolge ancora allo Zelote dicendo: «E allora, se non sono ebbri né stolti, se il loro odio spiega tante cose e non questa, che spiega allora? Che sono? Non lo hai detto...». 
«Che sono? Dei posseduti. Ciò che dicono di Lui essi sono. Questo spiega il loro accanimento che non conosce sosta, che anzi sempre più cresce più si appalesa la sua potenza. Ha detto bene quel samaritano. In Lui, Figlio del Padre e di Maria, Uomo e Dio, è l’Infinità di Dio, e infinito è l’Odio che a questa Infinità perfetta si oppone, anche se nel suo essere senza limite l’Odio non è perfetto, perché solo Dio è perfetto nelle sue azioni. Ma se l’Odio potesse toccare l’abisso della perfezione, esso scenderebbe a toccarlo, si precipiterebbe a toccarlo anzi, per rimbalzare poi, per la veemenza stessa della sua caduta nell’abisso d’inferno, contro il Cristo, a ferirlo con tutte le armi strappate all’abisso infernale. Il firmamento, regolato da Dio, ha un solo sole. Esso si alza e raggia e scompare lasciando il posto al sole più piccolo che è la luna, e questa, dopo aver raggiato a sua volta, tramonta per cedere il posto al sole. Gli astri molto insegnano agli uomini, perché essi si assoggettano ai voleri del Creatore. Ma gli uomini no. E un esempio è questo, di questo voler opporsi al Maestro. Che accadrebbe se la luna in un’aurora dicesse: “Non voglio scomparire e torno per la via già fatta”? Certo che cozzerebbe contro al sole con orrore e danno di tutto il creato. Essi questo vogliono fare, credendo di poter frantumare il Sole...». 
«È la lotta delle Tenebre contro la Luce. La vediamo ogni giorno nelle albe e nelle sere. Le due forze che si contrastano, che prendono a vicenda il dominio sulla Terra. Ma le tenebre sono sempre vinte, perché assolute non sono mai. Un poco di luce emana sempre, anche nella notte più priva d’astri. Pare che l’aria da se stessa la crei negli infiniti spazi del firmamento e l’effonda, anche se limitatissima, a far persuasi gli uomini che gli astri non sono spenti. E io dico che ugualmente, in queste particolari tenebre del Male contro la Luce che è Gesù, sempre, nonostante ogni sforzo delle Tenebre, la Luce sarà a confortare chi crede in Essa», dice Giovanni sorridendo al suo pensiero, raccolto in se stesso come se monologasse. 
Il suo pensiero viene raccolto da Giacomo d’Alfeo. «Nei Libri il Cristo è detto “Stella del mattino”. Una notte dunque Egli pure conoscerà, e - spavento mio! - noi pure la conosceremo, una notte, un tempo in cui non parrà forte la Luce, ma vittoriose le Tenebre. Ma, posto che Egli è detto Stella del mattino in modo che esclude un limite nel tempo, io dico che dopo la momentanea notte Egli sarà Luce mattutina, pura, fresca, verginale, rinnovante il mondo, simile a quella che successe al Caos nel primo giorno. Oh! sì. Il mondo sarà ricreato nella sua Luce». 
«E maledizione sarà sui reprobi che avranno voluto alzare le mani a colpire la Luce ripetendo gli errori già fatti, da Lucifero ai profanatori del popolo santo. Jeovè lascia libero l’uomo nelle sue azioni. Ma, per amore dell’uomo stesso, non permetterà che l’Inferno prevalga», termina Giuda d’Alfeo. 


4«Oh! meno male che, dopo tanto sopore di spiriti, per cui tutti sembravamo come ottusi e tardi per vecchiezza precoce, la sapienza rifiorisce sulle nostre labbra! Non sembravamo più noi! Ora ritrovo lo Zelote, e Giovanni, e i due fratelli di un tempo!», dice l’Iscariota felicitandosi. 
«Non mi pare che fossimo cambiati tanto da non parere più noi», dice Pietro. 
«Se lo eravamo! Tutti. Tu per il primo. E poi Simone e gli altri, me compreso. Se uno c’era che era su per giù quello di sempre, era Giovanni». 
«Uhm! Non so proprio in che...». 
«In che? Taciturni, come stanchi, indifferenti, pensierosi... Mai più si sentiva una delle conversazioni, simili a tante di un tempo, simili a quella di ora, che servono tanto...». 
«A disputare», dice il Taddeo ricordando come infatti sovente degenerassero in battibecchi. 
«No. A formarsi. Perché non tutti si è come Natanaele, né come Simone, né come voi di Alfeo, per nascita e sapienza. E chi lo è meno impara sempre da chi lo è più», ribatte l’Iscariota.


5«Veramente... io direi che più che tutto è necessario formarsi in giustizia. E di questa ce ne ha date magnifiche lezioni Simone», dice Tommaso. 
«Io? Ma tu vedi male. Io sono il più stolto di tutti», dice Pietro. 
«No. Tu sei quello che più sei cambiato. In questo ha ragione Giuda di Keriot. Non c’è più che ben poco in te del Simone che ho conosciuto io quando venni con voi, e che, perdona, rimase qual era per tanto tempo. Da quando ti ho ritrovato dopo la separazione per le Encenie, tu non hai fatto che trasformarti. Ora sei... sì, lo dico: sei più paterno e nello stesso tempo più austero. Compatisci tutti i tuoi poveri fratelli, mentre prima... E si vede, io almeno vedo, che ciò ti costa. Ma vinci te stesso. E mai come ora, che poco parli e poco rimproveri, ci incuti rispetto...». 
«Ma amico mio! Tu sei molto buono a vedermi così... Io, meno che l’amore per il Maestro, che mi cresce sempre, non ho proprio cambiato in nulla». 
«No. Toma ha ragione. Tu sei molto cambiato», confermano in molti. 
«Mah! voi lo dite...», dice Pietro stringendosi nelle spalle. E aggiunge: «Soltanto il giudizio del Maestro sarebbe sicuro. Ma mi guardo bene dal chiederglielo. Egli sa la mia debolezza e sa che anche una lode mal data potrebbe nuocere al mio spirito. Perciò non mi loderebbe, e farebbe bene. Capisco sempre meglio il suo cuore e il suo sistema, e ne vedo tutta la giustizia». 
«Perché hai animo retto e perché ami sempre più. Chi ti fa vedere e capire è il tuo amore per Me. Maestro tuo, il vero e più grande Maestro che ti fa capire il tuo Maestro, è l’Amore», dice Gesù che fino a quel momento ha ascoltato e taciuto. 
«Io credo che... sia anche il dolore che ho dentro...». 
«Dolore? Perché?», chiedono alcuni. 
«Eh! per tante cose, che poi, in fondo, sono una sola cosa: tutto quello che soffre il Maestro... e il pensiero di quello che soffrirà. 
6Non si può essere più svagati come i primi tempi, svagati come dei fanciulli che non sanno, adesso che si conosce di cosa sono capaci gli uomini e come si deve soffrire per salvarli. Ohilà! Credevamo tutto facile nei primi tempi! Credevamo che bastasse presentarsi perché gli altri venissero dalla nostra parte! Credevamo che conquistare Israele e il mondo fosse come... gettare una rete su un fondo pescoso. Poveri noi! Io penso che, se non ci riesce Lui a far buona preda, noi non ne faremo nessuna. Ma questo è niente ancora! Io penso che essi sono cattivi e lo fanno soffrire. E credo che questo sia il motivo del nostro cambiamento in generale...». 
«È vero. Per la mia parte, è vero», conferma lo Zelote. 
«Anche per me. Anche per me», dicono gli altri. 
«Io è tanto che ero inquieto per questo e ho cercato di... avere buoni aiuti. Ma mi hanno tradito... e voi non mi avete capito... E io non ho capito voi. Credevo che foste così come siete per stanchezza dello spirito, per sfiducia, per delusione...», confessa l’Iscariota. 
«Io non ho mai sperato umane gioie e perciò non sono deluso» , dice lo Zelote. 
«Io e mio fratello lo vorremmo vittorioso, ma per sua gioia. Lo abbiamo seguito per amor di parenti prima che di discepoli. Lo abbiamo sempre seguito sino da fanciulli, Egli il più piccolo per età di noi fratelli, ma tanto più grande sempre di noi...», dice Giacomo con la sua ammirazione sconfinata per il suo Gesù. 
«Se un dolore abbiamo è che non tutti noi della parentela lo amiamo nello spirito e col solo spirito. Ma non siamo i soli in Israele ad amarlo male», dice il Taddeo. 


7Giuda Iscariota lo guarda e forse parlerebbe, ma è distratto da un grido che li raggiunge da un poggetto che sovrasta il paesino che stanno costeggiando cercando la via per entrarvi. 
«Gesù! Rabbi Gesù! Figlio di Davide e Signore nostro, abbi pietà di noi». 
«Dei lebbrosi! Andiamo, Maestro, altrimenti il paese accorrerà e ci tratterrà fra le sue case», dicono gli apostoli. 
Ma i lebbrosi hanno il vantaggio di essere più avanti di loro, alti sulla via, ma almeno a un cinquecento metri dal paese, e scendono zoppicando sulla via e corrono verso Gesù ripetendo il loro grido. 
«Entriamo nel paese, Maestro. Essi non vi possono entrare», dicono alcuni apostoli, ma altri ribattono: «Già delle donne si affacciano a guardare. Se entriamo sfuggiremo i lebbrosi, ma non di esser conosciuti e trattenuti». 
E mentre sono incerti sul da farsi, i lebbrosi si fanno sempre più vicini a Gesù che, incurante dei ma e dei se dei suoi apostoli, ha proseguito per la sua strada. E gli apostoli si rassegnano a seguirlo, mentre donne coi bambini alle gonnelle e qualche uomo vecchio rimasto in paese vengono a vedere, stando a prudente distanza dai lebbrosi, che però si fermano a qualche metro da Gesù e ancora supplicano: «Gesù, abbi pietà di noi!». 
Gesù li contempla un istante; poi, senza accostarsi a questo gruppo di dolore, chiede: «Siete di questo paese?». 
«No, Maestro. Di luoghi diversi. Ma quel monte, dove stiamo, dall’altra parte guarda sulla via per Gerico, ed è buono per noi quel luogo...». 
«Andate allora al paese vicino al vostro monte e mostratevi ai sacerdoti». 
E Gesù riprende a camminare spostandosi sul ciglio della via per non sfiorare i lebbrosi, che lo guardano avvicinare senza avere altro che uno sguardo di speranza nei poveri occhi malati. E Gesù, giunto alla loro altezza, alza la mano a benedire. 
La gente del paese, delusa, ritorna nelle case... I lebbrosi si inerpicano di nuovo sul monte per andare verso la loro grotta o verso la via di Gerico. 
«Hai fatto bene a non guarirli. Non ci avrebbero più lasciati andare quelli del paese...». 
«Sì, e bisognerebbe giungere ad Efraim prima di notte». 


8Gesù cammina e tace. Il paese ormai è nascosto alla vista dalle curve della via molto sinuosa, perché segue i capricci del monte ai piedi del quale è tagliata. 
Ma una voce li raggiunge: «Lode al Dio altissimo e al suo vero Messia. In Lui è ogni potenza, sapienza e pietà! Lode al Dio altissimo che in Lui ci ha concesso la pace. Lodatelo, uomini tutti dei paesi di Giudea e di Samaria, della Galilea e dell’Oltre Giordano. Sino alle nevi dell’altissimo Hermon, sino alle arse petraie dell’Idumea, sino alle arene bagnate dalle onde del Mar Grande risuoni la lode all’Altissimo ed al suo Cristo. Ecco compita la profezia di Balaam. La Stella di Giacobbe splende sul cielo ricomposto della patria riunita dal vero Pastore. Ecco anche compiute le promesse fatte ai patriarchi! Ecco, ecco la parola di Elia che ci amò. Uditela, o popoli di Palestina, e comprendetela. Più non si deve zoppicare da due parti, ma scegliere si deve per luce di spirito, e se lo spirito sarà retto bene sceglierà. Questo è il Signore, seguitelo! Ah! che finora fummo puniti perché non ci siamo sforzati a comprendere! L’uomo di Dio maledisse il falso altare profetando: “Ecco, nascerà dalla casa di Davide un figlio chiamato Jeosciuè, il quale immolerà sopra l’altare e consumerà ossa di Adamo. E l’altare allora si squarcerà fin nelle viscere della Terra e le ceneri dell’immolazione si spargeranno a settentrione e mezzogiorno, a oriente e là dove tramonta il sole”. Non vogliate fare come lo stolto Ocozia, che mandava a consultare il dio di Acaron mentre l’Altissimo era in Israele. Non vogliate essere inferiori all’asina di Balaam, la quale per il suo ossequio allo spirito di luce avrebbe meritato la vita, mentre sarebbe caduto percosso il profeta che non vedeva. Ecco la Luce che passa fra noi. Aprite gli occhi, o ciechi di spirito, e vedete», e uno dei lebbrosi li segue sempre più da vicino, anche sulla via maestra ormai raggiunta, indicando Gesù ai pellegrini. 
Gli apostoli, seccati, si volgono due o tre volte intimando al lebbroso, perfettamente guarito, di tacere. E lo minacciano quasi l’ultima volta. 
Ma egli, cessando per un momento di alzare così la voce per parlare a tutti, risponde: «E che volete, che io non glorifichi le grandi cose che Dio mi ha fatto? Volete che io non lo benedica?». 
«Benedicilo in cuor tuo e taci», gli rispondono inquieti. 
«No, che non posso tacere. Dio mette le parole sulla mia bocca», e riprende forte: «Gente dei due luoghi di confine, gente che passate per caso, fermatevi ad adorare Colui che regnerà nel nome del Signore. Io deridevo tante parole. Ma ora le ripeto perché le vedo compiute. Ecco muoversi tutte le genti e venire giubilando al Signore per le vie del mare e dei deserti, per i colli e i monti. E anche noi, popolo che abbiamo camminato nelle tenebre, andremo alla gran Luce che è sorta, alla Vita, uscendo dalla regione di morte. Lupi, leopardi e leoni quali eravamo, rinasceremo nello Spirito del Signore e ci ameremo in Lui, all’ombra del Germoglio di Jesse divenuto cedro, sotto il quale si accampano le nazioni raccolte da Lui ai quattro punti della Terra. Ecco, viene il giorno in cui la gelosia di Efraim avrà fine, perché non c’è più Israele e Giuda, ma un solo Regno: quello del Cristo del Signore. Ecco, io canto le lodi del Signore che mi ha salvato e consolato. Ecco, io dico: lodatelo e venite a bere la salvezza alla fonte del Salvatore. Osanna! Osanna alle grandi cose che Egli fa! Osanna all’Altissimo che ha messo in mezzo agli uomini il suo Spirito rivestendolo di carne, perché divenisse il Redentore!». 
È inesauribile. 


9La gente aumenta, si affolla, ingombra la via. Chi era indietro accorre, chi era avanti torna indietro. Quelli di un piccolo paese, presso il quale sono ormai, si uniscono ai passanti. 
«Ma fallo tacere, Signore. Egli è il samaritano. Lo dice così la gente. Non deve parlare di Te, se Tu non permetti neppure che noi ti si preceda più predicandoti!», dicono inquieti gli apostoli. 
«Amici miei, ripeto le parole di Mosè a Giosuè figlio di Num, che si lamentava perché Eldad e Medad profetavano negli accampamenti: “Sei tu geloso per me, in mia vece? Oh! profetasse così tutto il popolo, e il Signore desse a tutti il suo spirito!”. Ma pure mi fermerò e lo congederò per farvi contenti». 
E si ferma voltandosi e chiamando a sé il lebbroso guarito, che accorre e si prostra dinanzi a Gesù baciando la polvere. 
«Alzati. E gli altri dove sono? Non eravate in dieci? Gli altri nove non hanno sentito bisogno di ringraziare il Signore. E che? Su dieci lebbrosi, dei quali uno solo era samaritano, non si è trovato altro che questo straniero che sentisse il dovere di tornare indietro a rendere gloria a Dio, prima di rendere se stesso alla vita e alla famiglia? Ed egli è detto “samaritano”. Non più ubbriachi sono allora i samaritani, posto che vedono senza traveggole e accorrono sulla via di Salute senza barcollare? Parla dunque la Parola un linguaggio straniero se lo intendono gli stranieri e non quelli del suo popolo?». 
Gira gli splendidi occhi sulla folla di ogni luogo della Palestina che si trova presente. E sono insostenibili nei loro balenii quegli occhi... Molti chinano il capo e spronano le cavalcature o si danno a camminare allontanandosi... 


10Gesù china gli occhi sul samaritano inginocchiato ai suoi piedi, e lo sguardo si fa dolcissimo. Alza la mano, che teneva abbandonata lungo il fianco, in un gesto di benedizione e dice: «Alzati e vattene. La tua fede ha salvato in te più ancora della tua carne. Procedi nella luce di Dio. Va’». 
L’uomo bacia nuovamente la polvere e prima di alzarsi chiede: «Un nome, Signore. Un nome nuovo, perché tutto è nuovo in me, e per sempre». 
«In che terra ci troviamo?». 
«In quella d’Efraim». 
«Ed Efrem chiamati da ora in poi, perché due volte la Vita ti ha dato vita. Va’». 
E l’uomo si alza e va. 
La gente del luogo e qualche pellegrino vorrebbero trattenere Gesù. Ma Egli li soggioga con il suo sguardo che non è severo, anzi è molto dolce nel guardarli, ma che deve sprigionare una potenza, perché nessuno fa un gesto per trattenerlo. 
E Gesù lascia la via senza entrare nel paesino, traversa un campo, poi un piccolo rio e un sentiero, e sale sul poggio orientale, tutto boscoso, e si inselva con i suoi dicendo: «Per non smarrirci seguiremo la via, ma stando nel bosco. Dopo quella curva, la strada si appoggia a questo monte. Vi troveremo qualche grotta per dormire, superando all’alba Efraim...».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

AVE MAMMA DOLCISSIMA