giovedì 3 ottobre 2013

S. Giovanni Crisostomo, S. Girolamo e....l'Anticristo


LEGGENDO I SANTI PADRI

S. Giovanni Crisostomo (4-5° secolo - Padre e Dottore della Chiesa)

"Nello stesso modo in cui furono distrutti quei regni (quello dei babilonesi dai persiani, quello dei persiani dai greci, quello dei greci dai romani) che erano esistiti prima dell’Impero Romano, così l’Impero Romano sarà distrutto dall’Anticristo. Questo accadrà quando l’Impero Romano sarà stato diviso in dieci regni". [c]

"«Solo allora» dice [S. Paolo in 2 Tes 2,8] «sarà rivelato l'empio». E dopo di ciò? La consolazione è vicina. «Il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della Sua bocca e lo annienterà all'apparire della Sua venuta, l'iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di Satana»". [h]
IV omelia sulla seconda lettera ai Tessalonicesi

"«Quando tutti i Gentili, dice egli [San Paolo], saranno entrati, allora tutto Israele sarà salvato», al tempo della Sua seconda venuta, alla fine del mondo". [c]

"Il mondo sarà senza fede e degenerato dopo la nascita dell’Anticristo. L’Anticristo sarà posseduto da Satana e sarà il figlio illegittimo di una donna ebrea proveniente dall’Est.". [a, b, d]

"Giovanni...è precursore della prima venuta di Cristo, Elia...precursore della seconda venuta di Cristo". [i]
Panegirici su S. Paolo, Città Nuova Editrice

"Ma chi è egli [l’Anticristo]? E’ Satana? Niente affatto, ma è qualcuno che permette che [Satana] operi in lui pienamente. Perché si tratta di un uomo, «e s'innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto» [cfr. 2 Tes 2,4]. Egli non introdurrà l’idolatria, ma sarà una sorta di oppositore di Dio; abolirà tutti gli dei, ordinerà agli uomini di adorare lui anziché Dio e siederà nel tempio di Dio, non solo in quello di Gerusalemme ma anche in ogni chiesa [...] Compirà grandi opere e mostrerà segni prodigiosi". [h, l]
III omelia su II Tessalonicesi
Nicene And Post-Nicene Fathers, Vol. 13, edited by Philip Schaff, D.D., LL.D., Wm. B. Eerdmans Publishing Company

"«Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio dell’Uomo» [cfr. Mt 24,30], cioè la croce che sarà più splendente del sole [...] Ma perché appare questo segno? Perché l’impudenza degli ebrei possa essere abbondantemente tacitata [gli ebrei, che non accolsero Cristo alla sua prima venuta, per metterlo alla prova gli domandarono un segno dal cielo (cfr. Lc 11,16; Mc 8,11); N.d.R.]". [h, l]
LXXVI omelia sul Vangelo di Matteo
Nicene And Post-Nicene Fathers, Vol. 10, edited by Philip Schaff, D.D., LL.D., Wm. B. Eerdmans Publishing Company




S. Girolamo (4-5° secolo - Padre della Chiesa)

"[...] dichiariamo ciò che gli autori ecclesiastici ci hanno tramandato: alla consumazione del mondo, quando il Regno dei Romani sarà stato distrutto, quando dieci re avranno diviso fra di loro il territorio dei Romani, ne sorgerà un undicesimo [re] da un piccolo regno… quando [quest’ultimo] avrà vinto tre dei dieci re, cioè il re degli egiziani, quello degli africani, e quello degli etiopi, che successivamente … egli ucciderà, gli altri sette re si assoggetteranno al vincitore". [c]

"E neanche pensiamo che egli sia il Diavolo o un demone (come alcuni altri pensano), ma uno dell’umanità [un uomo] in cui Satana abiterà totalmente ... proferendo la sua bocca grande vanto, perché egli è l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, tanto che siederà nel tempio come se fosse Dio". [c]
Corpus Christianorum, Series Latina, Vol. LXXV A, S. Heironymi Presbyteri Opera, Pars I, Commentariorum in Danielem

"Satana eserciterà la sua influenza su tutte le facoltà dell’Anticristo, sia su quelle del corpo che dell’anima - cioè sulla sua volontà, il suo intelletto e la sua memoria". [c]
Commentariorum in Danielem

"«Io sono venuto a voi nel nome del Padre mio e non mi ricevete; se un altro verrà nel suo proprio nome, voi lo riceverete» (Gv 5,43). Non c’è dubbio che in «quest’altro» che Gesù dice che verrà di propria autorità e che sarà ricevuto dai Giudei, Egli intendesse parlare dell’Anticristo". [i]
Epistola CLI ad Algasiam., quest. II; Commentariorum in Danielem, 11,24




Beati Martiri Cattolici del Brasile

Beati Martiri Cattolici del Brasile (3 ottobre – 16 luglio)
† Cunhaú (Brasile), 16 luglio 1645 e Uruaçu (Brasile), 3 ottobre 1645

Padre Andre Soveral, gesuita brasiliano nato nel 1572 e martirizzato il 16 luglio 1645, nella cappella della Madonna delle Candele a Cunhau, assieme ai suoi fedeli, da una truppa di soldati olandesi.
Padre Ambrosio Francisco Ferro, martirizzato il 3 ottobre 1645, assieme ai suoi parrocchiani, dopo diverse torture, da soldati olandesi e da 200 indios, comandati dal loro capo Antonio Paraopaba.
Martirologio Romano: 16 luglio: Nella città di Cunhaú vicino a Natal in Brasile, Beati Andrea de Soveral, sacerdote della Compagnia di Gesù, e Domenico Carvalho, martiri, che, mentre si celebrava la Messa, furono rinchiusi in chiesa con l’inganno insieme alla folla dei fedeli e atrocemente uccisi.
3 ottobre: Sulla riva del fiume Uruaçu vicino a Natal in Brasile, Beati Ambrogio Francesco Ferro, sacerdote, e compagni, martiri, vittime della repressione perpetrata contro la fede cattolica.

 

Il cristianesimo in generale e il cattolicesimo in particolare, possono annoverare nella loro esistenza millenaria, una sfilata di martiri di ogni età, sesso e condizione sociale, che per l’affermarsi nel mondo pagano della nuova religione di fratellanza, uguaglianza, pace e serenità nei cuori e nel sociale, in nome di Cristo versarono in ogni tempo il loro sangue, soffrendo indicibili dolori fisici e morali.
Se tutto questo soffrire, proveniente dai pagani o da religioni diverse dai seguaci di Cristo, alla fine si poteva mettere nel conto, prevedendo la reazione di quanti avevano interesse a non sconvolgere il loro potere sulle masse ciecamente osservanti.
Tanto più odioso è lo scatenarsi sanguinario e persecutorio, di cristiani contro altri cristiani, divisi da interpretazioni dottrinarie, predicate da riformatori sia del clero che laici, succedutasi nei secoli e che hanno portato l’unico grande albero della Chiesa di Cristo, a dividersi in tanti rami scismatici e riformati, che tanto hanno nociuto all’unità del Cristianesimo.
Il movimento riformatore dei Calvinisti, nato dalle idee teologiche e politico-religiose di Giovanni Calvino (1509-1564), fu uno di questi, che nell’intenzione di portare i laici ad una larga e diretta partecipazione alla vita ecclesiastica, costituendo comunità politico-religiose, fortemente omogenee al loro interno, grazie alla stretta dipendenza del potere politico dall’autorità religiosa, si associò in primo piano alle conquiste coloniali nel mondo, fomentando ribellioni e persecuzioni contro i cattolici già presenti in quelle terre.
E in questo panorama qui tracciato in generale, va inquadrata la vicenda del martirio dei 30 cattolici del Brasile, beatificati il 5 marzo 2000 da Papa Giovanni Paolo II.
L’evangelizzazione nel Rio Grande do Norte, Stato del Nord-Est del Brasile, fu iniziata nel 1597 da missionari Gesuiti e sacerdoti diocesani, provenienti dal cattolico Portogallo; cominciando con la catechesi degli indios e con la formazione delle prime comunità cristiane.
Negli anni seguenti ci furono sbarchi di Francesi e Olandesi, intenzionati a scalzare dai luoghi colonizzati i Portoghesi; nel 1630 gli Olandesi ci riuscirono nella regione del Nord-Est, essi di religione calvinista e accompagnati dai loro pastori, determinarono nella zona fino allora pacifica, una conflittualità per cui ci fu una restrizione della libertà di culto e i cattolici furono perseguitati.
In questo contesto avvennero i due episodi del martirio dei Beati di cui parliamo; allora nel Rio Grande do Norte, c’erano soltanto due parrocchie, a Cunhaú la parrocchia della Madonna della Purificazione o delle Candele, guidata dal parroco don Andrea de Soveral e a Natal, la parrocchia della Madonna della Presentazione con parroco don Ambrogio Francesco Ferro.
Ambedue le parrocchie furono vittime della dura persecuzione religiosa calvinista; vi sono pochissime notizie riguardanti i martiri singolarmente, ma i vari scrittori del secolo XVII narrarono gli episodi dettagliatamente.
Cunhaú, 16 luglio 1645
Padre Andrea de Soveral il parroco, nacque verso il 1572 a Säo Vicente, nell’Isola di Santos; studiò nel Collegio dei Bambini di Gesù, fondato dai Gesuiti nel 1553.
A 21 anni entrò nella Compagnia di Gesù facendo il Noviziato nel Collegio di Bahia; da lì dopo aver completato gli studi di latino e teologia, fu mandato a Olinda in Pernambuco, centro missionario per la catechesi degli indios di tutta la vasta regione.
Nel 1606 era fra gli indios del Rio Grande do Norte, insieme a padre Diego Nunes. Poi dal 1607 uscito dai Gesuiti, divenne membro del clero diocesano e parroco di Cunhaú, all’epoca del martirio aveva 73 anni.
Era domenica 16 luglio 1645, e come era solito, padre Andrea de Soveral aveva riunito nella chiesa della Parrocchia della Madonna delle Candele o della Purificazione, i fedeli per la celebrazione della Messa.
I circa 69 fedeli erano in maggior parte contadini e operai nella lavorazione della canna da zucchero, tutti di Cunhaú; all’inizio della celebrazione si presentò in chiesa il tedesco Jacó Rabe, persona crudele e senza scrupoli, dicendo che aveva disposizioni da dare per conto del Supremo Consiglio Olandese di Recife, che avrebbe comunicato alla fine della Messa.
Ma dopo la consacrazione una schiera di soldati olandesi con parecchi indios delle tribù dei ‘Tapuias’ e dei ‘Patiguari’ tutti armati, precipitatosi nel tempio chiusero le porte attaccando ferocemente gli indifesi fedeli.
Padre Andrea de Soveral comprese le loro intenzioni, interruppe la celebrazione e intonò pregando con loro le preghiere degli agonizzanti; furono tutti massacrati a colpi di spada, meno cinque fedeli portoghesi che furono presi in ostaggio e portati al Forte olandese dei Re Magi.
I nomi di questi cinque ostaggi sono noti e riportati dai cronisti dell’epoca, di tutti i numerosi martiri invece oltre che il parroco, si conosce il nome di uno solo, il laico Domingos Carvalho, al quale furono prese numerose monete d’oro e una catena, che furono contate e divise poggiate sul suo corpo; i cadaveri furono depredati di abiti e oggetti e i barbari assassini fecero gran festa a modo loro.
Uruaçu, 3
 ottobre 1645
Presi dal terrore di quanto accaduto a Cunhaú, i cattolici di Natal, cercarono di mettersi in salvo rifugiandosi in alcuni improvvisati rifugi, ma fu tutto inutile.
Insieme al loro parroco don Ambrogio Francesco Ferro, furono inviati dalle autorità olandesi in un posto stabilito ad Uruaçu, dove erano attesi da soldati e da circa 200 indios comandati dal capo indigeno Antonio Paraopaba, il quale convertito al protestantesimo calvinista, aveva una vera e propria avversione verso i cattolici.
I parrocchiani e il loro sacerdote, furono seviziati in modo orribile e lasciati morire fra inumane mutilazioni, che anche il cronista dell’epoca ebbe vergogna a descrivere dettagliatamente.
Di tutti questi numerosi gruppi di fedeli martirizzati, le Autorità ecclesiastiche cercarono di conoscere i nomi, riuscendoci solo per 30 di loro e nel 1989 fu avviata la Causa di Beatificazione, giunta poi alla proclamazione del 5 marzo 2000.
Essi sono:
Uccisi a Cunhaú (celebrazione liturgica 16 luglio)
Padre Andrea de Soveral parroco, Domingo Carvalho laico.
Uccisi a Uruaçu (celebrazione liturgica 3 ottobre)
Don Ambrogio Francesco Ferro parroco;
Antonio Vilela il giovane; Giuseppe do Porto; Francisco de Bastos; Diego Pereira; João Lostau Navarro; Antonio Vilela Cid; Estévão Machado de Miranda; Vicente de Souza Pereira; Francisco Mendes Pereira; João da Silveria; Simão Correia; Antonio Baracho; Mateus Moreira; João Martins; Manuel Rodrigues Moura; la moglie di Manuel Rodrigues; la figlia di Antonio Vilela il giovane; la figlia di Francisco Dias il giovane; 7 giovani compagni di João Martins; 2 figlie di Estévão Machado de Miranda. I loro resti mortali, sono venerati nei luoghi del loro martirio in Brasile. (Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria. - Beati Martiri Cattolici del Brasile, pregate per noi.  

L'IMPORTANZA DEL DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI: ...una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto.




INCONTRO CON I PARROCI E IL CLERO DI ROMA
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Aula Paolo VI

Giovedì, 14 febbraio 2013



Eminenza, 

cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!



E’ per me un dono particolare della Provvidenza che, prima di lasciare il ministero petrino, possa ancora vedere il mio clero, il clero di Roma. E’ sempre una grande gioia vedere come la Chiesa vive, come a Roma la Chiesa è vivente; ci sono Pastori che, nello spirito del Pastore supremo, guidano il gregge del Signore. E’ un clero realmente cattolico, universale, e questo risponde all’essenza della Chiesa di Roma: portare in sé l’universalità, la cattolicità di tutte le genti, di tutte le razze, di tutte le culture. Nello stesso tempo, sono molto grato al Cardinale Vicario che aiuta a risvegliare, a ritrovare le vocazioni nella stessa Roma, perché se Roma, da una parte, dev’essere la città dell’universalità, dev’essere anche una città con una propria forte e robusta fede, dalla quale nascono anche vocazioni. E sono convinto che, con l’aiuto del Signore, possiamo trovare le vocazioni che Egli stesso ci dà, guidarle, aiutarle a maturare, e così servire per il lavoro nella vigna del Signore.

Oggi avete confessato davanti alla tomba di san Pietro il Credo: nell’Anno della fede, mi sembra un atto molto opportuno, necessario forse, che il clero di Roma si riunisca sulla tomba dell’Apostolo al quale il Signore ha detto: “A te affido la mia Chiesa. Sopra di te costruisco la mia Chiesa” (cfr Mt16,18-19). Davanti al Signore, insieme con Pietro, avete confessato: “Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo” (cfr Mt 16,15-16). Così cresce la Chiesa: insieme con Pietro, confessare Cristo, seguire Cristo. E facciamo questo sempre. Io sono molto grato per la vostra preghiera, che ho sentito – l’ho detto mercoledì – quasi fisicamente. Anche se adesso mi ritiro, nella preghiera sono sempre vicino a tutti voi e sono sicuro che anche voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimango nascosto.

Per oggi, secondo le condizioni della mia età, non ho potuto preparare un grande, vero discorso, come ci si potrebbe aspettare; ma piuttosto penso ad una piccola chiacchierata sul Concilio Vaticano II, come io l’ho visto. Comincio con un aneddoto: io ero stato nominato nel ’59 professore all’Università di Bonn, dove studiano gli studenti, i seminaristi della diocesi di Colonia e di altre diocesi circostanti. Così, sono venuto in contatto con il Cardinale di Colonia, il Cardinale Frings. Il Cardinale Siri, di Genova – mi sembra nel ’61 - aveva organizzato una serie di conferenze di diversi Cardinali europei sul Concilio, e aveva invitato anche l’Arcivescovo di Colonia a tenere una delle conferenze, con il titolo: Il Concilio e il mondo del pensiero moderno.

Il Cardinale mi ha invitato – il più giovane dei professori – a scrivergli un progetto; il progetto gli è piaciuto e ha proposto alla gente, a Genova, il testo come io l’avevo scritto. Poco dopo, Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il Cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, Eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”. Così, il Cardinale sapeva di essere sulla strada giusta e mi ha invitato ad andare con lui al Concilio, prima come suo esperto personale; poi, nel corso del primo periodo - mi pare nel novembre ’62 – sono stato nominato anche perito ufficiale del Concilio.

Allora, noi siamo andati al Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo. C’era un’aspettativa incredibile. Speravamo che tutto si rinnovasse, che venisse veramente una nuova Pentecoste, una nuova era della Chiesa, perché la Chiesa era ancora abbastanza robusta in quel tempo, la prassi domenicale ancora buona, le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa erano già un po’ ridotte, ma ancora sufficienti. Tuttavia, si sentiva che la Chiesa non andava avanti, si riduceva, che sembrava piuttosto una realtà del passato e non la portatrice del futuro. E in quel momento, speravamo che questa relazione si rinnovasse, cambiasse; che la Chiesa fosse di nuovo forza del domani e forza dell’oggi. E sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso. Così, eravamo pieni di speranza, di entusiasmo, e anche di volontà di fare la nostra parte per questa cosa. Mi ricordo che un modello negativo era considerato il Sinodo Romano. Si disse - non so se sia vero – che avessero letto i testi preparati, nella Basilica di San Giovanni, e che i membri del Sinodo avessero acclamato, approvato applaudendo, e così si sarebbe svolto il Sinodo. I Vescovi dissero: No, non facciamo così. Noi siamo Vescovi, siamo noi stessi soggetto del Sinodo; non vogliamo soltanto approvare quanto è stato fatto, ma vogliamo essere noi il soggetto, i portatori del Concilio. Così anche il Cardinale Frings, che era famoso per la fedeltà assoluta, quasi scrupolosa, al Santo Padre, in questo caso disse: Qui siamo in altra funzione. Il Papa ci ha convocati per essere come Padri, per essere Concilio ecumenico, un soggetto che rinnovi la Chiesa. Così vogliamo assumere questo nostro ruolo.

Il primo momento, nel quale questo atteggiamento si è mostrato, è stato subito il primo giorno. Erano state previste, per questo primo giorno, le elezioni delle Commissioni ed erano state preparate, in modo – si cercava – imparziale, le liste, i nominativi; e queste liste erano da votare. Ma subito i Padri dissero: No, non vogliamo semplicemente votare liste già fatte. Siamo noi il soggetto. Allora, si sono dovute spostare le elezioni, perché i Padri stessi volevano conoscersi un po’, volevano loro stessi preparare delle liste. E così è stato fatto. I Cardinali Liénart di Lille, il Cardinale Frings di Colonia avevano pubblicamente detto: Così no. Noi vogliamo fare le nostre liste ed eleggere i nostri candidati. Non era un atto rivoluzionario, ma un atto di coscienza, di responsabilità da parte dei Padri conciliari.

Così cominciava una forte attività per conoscersi, orizzontalmente, gli uni gli altri, cosa che non era a caso. Al “Collegio dell’Anima”, dove abitavo, abbiamo avuto molte visite: il Cardinale era molto conosciuto, abbiamo visto Cardinali di tutto il mondo. Mi ricordo bene la figura alta e snella di mons. Etchegaray, che era Segretario della Conferenza Episcopale Francese, degli incontri con Cardinali, eccetera. E questo era tipico, poi, per tutto il Concilio: piccoli incontri trasversali. Così ho conosciuto grandi figure come Padre de Lubac, Daniélou, Congar, eccetera. Abbiamo conosciuto vari Vescovi; mi ricordo particolarmente del Vescovo Elchinger di Strasburgo, eccetera. E questa era già un’esperienza dell’universalità della Chiesa e della realtà concreta della Chiesa, che non riceve semplicemente imperativi dall’alto, ma insieme cresce e va avanti, sempre sotto la guida – naturalmente – del Successore di Pietro.

Tutti, come ho detto, venivano con grandi aspettative; non era mai stato realizzato un Concilio di queste dimensioni, ma non tutti sapevano come fare. I più preparati, diciamo quelli con intenzioni più definite, erano l’episcopato francese, tedesco, belga, olandese, la cosiddetta “alleanza renana”. E, nella prima parte del Concilio, erano loro che indicavano la strada; poi si è velocemente allargata l’attività e tutti sempre più hanno partecipato nella creatività del Concilio. I francesi ed i tedeschi avevano diversi interessi in comune, anche con sfumature abbastanza diverse. La prima, iniziale, semplice - apparentemente semplice – intenzione era la riforma della liturgia, che era già cominciata con Pio XII, il quale aveva già riformato la Settimana Santa; la seconda, l’ecclesiologia; la terza, la Parola di Dio, la Rivelazione; e, infine, anche l’ecumenismo. I francesi, molto più che i tedeschi, avevano ancora il problema di trattare la situazione delle relazioni tra la Chiesa e il mondo.

Cominciamo con il primo. Dopo la Prima Guerra Mondiale, era cresciuto, proprio nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel Messale Romano del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la Messa secondo il Messale, ed i laici, che pregavano, nella Messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare. Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del Messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse “Et cum spiritu tuo” eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.

Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. “Operi Dei nihil praeponatur”: questa parola dellaRegola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del Corpo e Sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale la pena sempre tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.

Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il Mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della Risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la Risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della Creazione, è l’inizio della ricreazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo Risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della Creazione, noi stiamo sul fondamento della Creazione, crediamo nel Dio Creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la Creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.


Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.


Secondo tema: la Chiesa. Sappiamo che il Concilio Vaticano I era stato interrotto a causa della guerra tedesco-francese e così è rimasto con una unilateralità, con un frammento, perché la dottrina sul primato - che è stata definita, grazie a Dio, in quel momento storico per la Chiesa, ed è stata molto necessaria per il tempo seguente - era soltanto un elemento in un’ecclesiologia più vasta, prevista, preparata. Così era rimasto il frammento. E si poteva dire: se il frammento rimane così come è, tendiamo ad una unilateralità: la Chiesa sarebbe solo il primato. Quindi già dall’inizio c’era questa intenzione di completare l’ecclesiologia del Vaticano I, in una data da trovare, per una ecclesiologia completa. Anche qui le condizioni sembravano molto buone perché, dopo la Prima Guerra Mondiale, era rinato il senso della Chiesa in modo nuovo. Romano Guardini disse: “Nelle anime comincia a risvegliarsi la Chiesa”, e un vescovo protestante parlava del “secolo della Chiesa”. Veniva ritrovato, soprattutto, il concetto, che era previsto anche dal Vaticano I, del Corpo Mistico di Cristo. Si voleva dire e capire che la Chiesa non è un’organizzazione, qualcosa di strutturale, giuridico, istituzionale - anche questo -, ma è un organismo, una realtà vitale, che entra nella mia anima, così che io stesso, proprio con la mia anima credente, sono elemento costruttivo della Chiesa come tale. In questo senso, Pio XII aveva scritto l’Enciclica Mystici Corporis Christi, come un passo verso un completamento dell’ecclesiologia del Vaticano I.


Direi che la discussione teologica degli anni ’30-’40, anche ’20, era completamente sotto questo segno della parola “Mystici Corporis”. Fu una scoperta che ha creato tanta gioia in quel tempo ed anche in questo contesto è cresciuta la formula: Noi siamo la Chiesa, la Chiesa non è una struttura; noi stessi cristiani, insieme, siamo tutti il Corpo vivo della Chiesa. E, naturalmente, questo vale nel senso che noi, il vero “noi” dei credenti, insieme con l’”Io” di Cristo, è la Chiesa; ognuno di noi, non “un noi”, un gruppo che si dichiara Chiesa. No: questo “noi siamo Chiesa” esige proprio il mio inserimento nel grande “noi” dei credenti di tutti i tempi e luoghi. Quindi, la prima idea: completare l’ecclesiologia in modo teologico, ma proseguendo anche in modo strutturale, cioè: accanto alla successione di Pietro, alla sua funzione unica, definire meglio anche la funzione dei Vescovi, del Corpo episcopale. E, per fare questo, è stata trovata la parola “collegialità”, molto discussa, con discussioni accanite, direi, anche un po’ esagerate. Ma era la parola - forse ce ne sarebbe anche un’altra, ma serviva questa - per esprimere che i Vescovi, insieme, sono la continuazione dei Dodici, del Corpo degli Apostoli. Abbiamo detto: solo un Vescovo, quello di Roma, è successore di un determinato Apostolo, di Pietro. Tutti gli altri diventano successori degli Apostoli entrando nel Corpo che continua il Corpo degli Apostoli. Così proprio il Corpo dei Vescovi, il collegio, è la continuazione del Corpo dei Dodici, ed ha così la sua necessità, la sua funzione, i suoi diritti e doveri. Appariva a molti come una lotta per il potere, e forse qualcuno anche ha pensato al suo potere, ma sostanzialmente non si trattava di potere, ma della complementarietà dei fattori e della completezza del Corpo della Chiesa con i Vescovi, successori degli Apostoli, come elementi portanti; ed ognuno di loro è elemento portante della Chiesa, insieme con questo grande Corpo.


Questi erano, diciamo, i due elementi fondamentali e, nella ricerca di una visione teologica completa dell’ecclesiologia, nel frattempo, dopo gli anni ’40, negli anni ’50, era già nata un po’ di critica nel concetto di Corpo di Cristo: “mistico” sarebbe troppo spirituale, troppo esclusivo; era stato messo in gioco allora il concetto di “Popolo di Dio”. E il Concilio, giustamente, ha accettato questo elemento, che nei Padri è considerato come espressione della continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Nel testo del Nuovo Testamento, la parola “Laos tou Theou”, corrispondente ai testi dell’Antico Testamento, significa – mi sembra con solo due eccezioni – l’antico Popolo di Dio, gli ebrei che, tra i popoli, “goim”, del mondo, sono “il” Popolo di Dio. E gli altri, noi pagani, non siamo di per sé il Popolo di Dio, diventiamo figli di Abramo, e quindi Popolo di Dio entrando in comunione con il Cristo, che è l’unico seme di Abramo. Ed entrando in comunione con Lui, essendo uno con Lui, siamo anche noi Popolo di Dio. Cioè: il concetto “Popolo di Dio” implica continuità dei Testamenti, continuità della storia di Dio con il mondo, con gli uomini, ma implica anche l’elemento cristologico. Solo tramite la cristologia diveniamo Popolo di Dio e così si combinano i due concetti. Ed il Concilio ha deciso di creare una costruzione trinitaria dell’ecclesiologia: Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo.


Ma solo dopo il Concilio è stato messo in luce un elemento che si trova un po’ nascosto, anche nel Concilio stesso, e cioè: il nesso tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo, è proprio la comunione con Cristo nell’unione eucaristica. Qui diventiamo Corpo di Cristo; cioè la relazione tra Popolo di Dio e Corpo di Cristo crea una nuova realtà: la comunione. E dopo il Concilio è stato scoperto, direi, come il Concilio, in realtà, abbia trovato, abbia guidato a questo concetto: la comunione come concetto centrale. Direi che, filologicamente, nel Concilio esso non è ancora totalmente maturo, ma è frutto del Concilio che il concetto di comunione sia diventato sempre più l’espressione dell’essenza della Chiesa, comunione nelle diverse dimensioni: comunione con il Dio Trinitario - che è Egli stesso comunione tra Padre, Figlio e Spirito Santo -, comunione sacramentale, comunione concreta nell’episcopato e nella vita della Chiesa.


Ancora più conflittuale era il problema della Rivelazione. Qui si trattava della relazione tra Scrittura e Tradizione, e qui erano interessati soprattutto gli esegeti per una maggiore libertà; essi si sentivano un po’ – diciamo – in una situazione di inferiorità nei confronti dei protestanti, che facevano le grandi scoperte, mentre i cattolici si sentivano un po’ “handicappati” dalla necessità di sottomettersi al Magistero. Qui, quindi, era in gioco una lotta anche molto concreta: quale libertà hanno gli esegeti? Come si legge bene la Scrittura? Che cosa vuol dire Tradizione? Era una battaglia pluridimensionale che adesso non posso mostrare, ma importante è che certamente la Scrittura è la Parola di Dio e la Chiesa sta sotto la Scrittura, obbedisce alla Parola di Dio, e non sta al di sopra della Scrittura. E tuttavia, la Scrittura è Scrittura soltanto perché c’è la Chiesa viva, il suo soggetto vivo; senza il soggetto vivo della Chiesa, la Scrittura è solo un libro e apre, si apre a diverse interpretazioni e non dà un’ultima chiarezza.


Qui, la battaglia - come ho detto - era difficile, e fu decisivo un intervento di Papa Paolo VI. Questo intervento mostra tutta la delicatezza del padre, la sua responsabilità per l’andamento del Concilio, ma anche il suo grande rispetto per il Concilio. Era nata l’idea che la Scrittura è completa, vi si trova tutto; quindi non si ha bisogno della Tradizione, e perciò il Magistero non ha niente da dire. Allora, il Papa ha trasmesso al Concilio mi sembra 14 formule di una frase da inserire nel testo sulla Rivelazione e ci dava, dava ai Padri, la libertà di scegliere una delle 14 formule, ma disse: una deve essere scelta, per rendere completo il testo. Io mi ricordo, più o meno, della formula “non omnis certitudo de veritatibus fidei potest sumi ex Sacra Scriptura”, cioè la certezza della Chiesa sulla fede non nasce soltanto da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa illuminato, portato dallo Spirito Santo. Solo così poi la Scrittura parla ed ha tutta la sua autorevolezza. Questa frase che abbiamo scelto nella Commissione dottrinale, una delle 14 formule, è decisiva, direi, per mostrare l’indispensabilità, la necessità della Chiesa, e così capire che cosa vuol dire Tradizione, il Corpo vivo nel quale vive dagli inizi questa Parola e dal quale riceve la sua luce, nel quale è nata. Già il fatto del Canone è un fatto ecclesiale: che questi scritti siano la Scrittura risulta dall’illuminazione della Chiesa, che ha trovato in sé questo Canone della Scrittura; ha trovato, non creato, e sempre e solo in questa comunione della Chiesa viva si può anche realmente capire, leggere la Scrittura come Parola di Dio, come Parola che ci guida nella vita e nella morte.


Come ho detto, questa era una lite abbastanza difficile, ma grazie al Papa e grazie – diciamo – alla luce dello Spirito Santo, che era presente nel Concilio, è stato creato un documento che è uno dei più belli e anche innovativi di tutto il Concilio, e che deve essere ancora molto più studiato. Perché anche oggi l’esegesi tende a leggere la Scrittura fuori dalla Chiesa, fuori dalla fede, solo nel cosiddetto spirito del metodo storico-critico, metodo importante, ma mai così da poter dare soluzioni come ultima certezza; solo se crediamo che queste non sono parole umane, ma sono parole di Dio, e solo se vive il soggetto vivo al quale ha parlato e parla Dio, possiamo interpretare bene la Sacra Scrittura. E qui - come ho detto nella prefazione del mio libro su Gesù (cfr vol. I) - c’è ancora molto da fare per arrivare ad una lettura veramente nello spirito del Concilio. Qui l’applicazione del Concilio ancora non è completa, ancora è da fare.

E, infine, l’ecumenismo. Non vorrei entrare adesso in questi problemi, ma era ovvio – soprattutto dopo le “passioni” dei cristiani nel tempo del nazismo – che i cristiani potessero trovare l’unità, almeno cercare l’unità, ma era chiaro anche che solo Dio può dare l’unità. E siamo ancora in questo cammino. Ora, con questi temi, l’”alleanza renana” – per così dire – aveva fatto il suo lavoro.


La seconda parte del Concilio è molto più ampia. Appariva, con grande urgenza, il tema: mondo di oggi, epoca moderna, e Chiesa; e con esso i temi della responsabilità per la costruzione di questo mondo, della società, responsabilità per il futuro di questo mondo e speranza escatologica, responsabilità etica del cristiano, dove trova le sue guide; e poi libertà religiosa, progresso, e relazione con le altre religioni. In questo momento, sono entrate in discussione realmente tutte le parti del Concilio, non solo l’America, gli Stati Uniti, con un forte interesse per la libertà religiosa. Nel terzo periodo questi hanno detto al Papa: Noi non possiamo tornare a casa senza avere, nel nostro bagaglio, una dichiarazione sulla libertà religiosa votata dal Concilio. Il Papa, tuttavia, ha avuto la fermezza e la decisione, la pazienza di portare il testo al quarto periodo, per trovare una maturazione ed un consenso abbastanza completi tra i Padri del Concilio. Dico: non solo gli americani sono entrati con grande forza nel gioco del Concilio, ma anche l’America Latina, sapendo bene della miseria del popolo, di un continente cattolico, e della responsabilità della fede per la situazione di questi uomini. E così anche l’Africa, l’Asia, hanno visto la necessità del dialogo interreligioso; sono cresciuti problemi che noi tedeschi – devo dire – all’inizio, non avevamo visto. Non posso adesso descrivere tutto questo. Il grande documento “Gaudium et spes” ha analizzato molto bene il problema tra escatologia cristiana e progresso mondano, tra responsabilità per la società di domani e responsabilità del cristiano davanti all’eternità, e così ha anche rinnovato l’etica cristiana, le fondamenta. Ma, diciamo inaspettatamente, è cresciuto, al di fuori di questo grande documento, un documento che rispondeva in modo più sintetico e più concreto alle sfide del tempo, e cioè la “Nostra aetate”. Dall’inizio erano presenti i nostri amici ebrei, che hanno detto, soprattutto a noi tedeschi, ma non solo a noi, che dopo gli avvenimenti tristi di questo secolo nazista, del decennio nazista, la Chiesa cattolica deve dire una parola sull’Antico Testamento, sul popolo ebraico. Hanno detto: anche se è chiaro che la Chiesa non è responsabile della Shoah, erano cristiani, in gran parte, coloro che hanno commesso quei crimini; dobbiamo approfondire e rinnovare la coscienza cristiana, anche se sappiamo bene che i veri credenti sempre hanno resistito contro queste cose. E così era chiaro che la relazione con il mondo dell’antico Popolo di Dio dovesse essere oggetto di riflessione. Si capisce anche che i Paesi arabi – i Vescovi dei Paesi arabi – non fossero felici di questa cosa: temevano un po’ una glorificazione dello Stato di Israele, che non volevano, naturalmente. Dissero: Bene, un’indicazione veramente teologica sul popolo ebraico è buona, è necessaria, ma se parlate di questo, parlate anche dell’Islam; solo così siamo in equilibrio; anche l’Islam è una grande sfida e la Chiesa deve chiarire anche la sua relazione con l’Islam. Una cosa che noi, in quel momento, non abbiamo tanto capito, un po’, ma non molto. Oggi sappiamo quanto fosse necessario.



Quando abbiamo incominciato a lavorare anche sull’Islam, ci hanno detto: Ma ci sono anche altre religioni del mondo: tutta l’Asia! Pensate al Buddismo, all’Induismo…. E così, invece di una Dichiarazione inizialmente pensata solo sull’antico Popolo di Dio, si è creato un testo sul dialogo interreligioso, anticipando quanto solo trent’anni dopo si è mostrato in tutta la sua intensità e importanza. Non posso entrare adesso in questo tema, ma se si legge il testo, si vede che è molto denso e preparato veramente da persone che conoscevano le realtà, e indica brevemente, con poche parole, l’essenziale. Così anche il fondamento di un dialogo, nella differenza, nella diversità, nella fede sull’unicità di Cristo, che è uno, e non è possibile, per un credente, pensare che le religioni siano tutte variazioni di un tema. No, c’è una realtà del Dio vivente che ha parlato, ed è un Dio, èun Dio incarnato, quindi una Parola di Dio, che è realmente Parola di Dio. Ma c’è l’esperienza religiosa, con una certa luce umana della creazione, e quindi è necessario e possibile entrare in dialogo, e così aprirsi l’uno all’altro e aprire tutti alla pace di Dio, di tutti i suoi figli, di tutta la sua famiglia.
Quindi, questi due documenti, libertà religiosa e “Nostra aetate”, connessi con “Gaudium et spes” sono una trilogia molto importante, la cui importanza si è mostrata solo nel corso dei decenni, e ancora stiamo lavorando per capire meglio questo insieme tra unicità della Rivelazione di Dio, unicità dell’unico Dio incarnato in Cristo, e la molteplicità delle religioni, con le quali cerchiamo la pace e anche il cuore aperto per la luce dello Spirito Santo, che illumina e guida a Cristo.


Vorrei adesso aggiungere ancora un terzo punto: c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media. Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie deimedia di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per imedia, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa. Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare. Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività. Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via.


Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa. Mi sembra che, 50 anni dopo il Concilio, vediamo come questo Concilio virtuale si rompa, si perda, e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale. Ed è nostro compito, proprio in questo Anno della fede, cominciando da questo Anno della fede, lavorare perché il vero Concilio, con la sua forza dello Spirito Santo, si realizzi e sia realmente rinnovata la Chiesa. Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore! Grazie!

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mercoledì 2 ottobre 2013

Cebù e Manila. "Sono con voi gli Angeli Custodi, che vi conducono nella luce, così che il mio giardino sia presto tutto fiorito."



Cebù (Filippine), 2 ottobre 1980. Festa dei Santissimi Angeli Custodi.


Un grande disegno su questo popolo.


«Guarda questo immenso arcipelago e vedi come, in maniera straordinaria, la mia Opera si è anche qui diffusa.
Contempla le mie meraviglie in ogni parte del mondo; ti ho anche svelato tempi e luoghi in cui si sta realizzando il trionfo del mio Cuore Immacolato.
Guarda il cuore e l'anima di tutti questi miei figli: sono così fedeli a Gesù, devoti verso di Me e tanto uniti alla Chiesa. Per mezzo di essi la Luce del mio Cuore si diffonde in tutte le nazioni di questo continente.

Ho un grande disegno su questo popolo. Mi è gradito per la sua semplicità, la sua religiosità, la
grande povertà, la sua umiltà e pazienza.
Sono la Mamma di tutti i popoli. Io guardo al cuore delle nazioni, per cogliervi i semi di bene e farli fiorire nel giardino del mio Cuore Immacolato, affinché possa salvarne in maggior numero, nel momento della prova decisiva, quando alcune di esse scompariranno dalla faccia della terra.

Guardo con tenerezza e con gioia a questi miei figli, e ti conduco in mezzo a loro per fare Cenacoli di preghiera e per rinnovare insieme la consacrazione al mio Cuore Immacolato.

La tua venuta è segno della mia particolare presenza accanto a loro. Dona, a Me tutte le corone di fiori profumati con cui ti cingono. E' segno della grande corona di amore, che ormai i figli da ogni parte del mondo mi offrono, per togliermi la dolorosa corona di spine. Sono con voi gli Angeli Custodi, che vi conducono nella luce, così che il mio giardino sia presto tutto fiorito.

Allora la Chiesa e il mondo vedranno il capolavoro di amore, che per ora custodisco gelosamente nel mio Cuore Immacolato» .



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Manila (Filippine), 13 ottobre 1980. Anniversario ultima apparizione di Fatima.


Non peccate più.


«In questo giorno vi raccogliete qui, in un Cenacolo di preghiera, e ricordate la mia ultima apparizione nella Cova da Iria confermata dal miracolo del sole. Da questa terra, da Me prediletta, per l'amore e la devozione con cui sono amata e venerata, rivolgo ancora al mondo l'appello angosciato, che rivolsi nello stesso giorno a Fatima e che riassume, in poche parole, il messaggio che dal Cielo sono venuta a comunicarvi.
Non peccate più.
Non offendete più mio Figlio Gesù, che è già troppo offeso. Ritornate a Dio per mezzo della vostra conversione, sulla strada della preghiera e della penitenza.

Purtroppo questo mio messaggio è rimasto inascoltato. Così l'umanità ha continuato a
percorrere la strada della ribellione a Dio, del rifiuto ostinato della sua legge di amore.

Si è giunti persino alla negazione del peccato, a giustificare anche i più gravi disordini morali, in nome di una libertà falsamente intesa. Così Satana, il mio Avversario, è riuscito a farvi cadere nella sua seduzione.

Da molti si è persa la coscienza del peccato; perciò esso viene sempre più commesso e giustificato. E' quasi scomparso il senso del pentimento, che è il primo passo da compiere sulla via della conversione.
Anche nelle nazioni di più antica tradizione cristiana si è persino legittimato il grande delitto della uccisione dei bambini ancora nel seno della madre. Questo delitto grida vendetta al cospetto di Dio.

Questa è l'ora della giustizia e della misericordia. Questa è l'ora del castigo e della salvezza.
La Mamma Celeste intercede presso Dio per voi, perché mai, come in questi momenti, siete
così minacciati e così vicini alla prova suprema.

Per questo vi supplico di pentirvi e di ritornare a Dio. Per mezzo vostro, figli da Me prediletti e a Me consacrati, Apostoli miei in questi ultimi tempi, voglio che questo angosciato appello raggiunga gli estremi confini della terra.

Da questa nazione benedetta, su cui ho un grande disegno di amore e di luce, tutti vi raccolgo
nel rifugio del mio Cuore Immacolato».


"Io guardo al cuore delle nazioni, per cogliervi i semi di bene e farli fiorire nel giardino del mio Cuore Immacolato"


Beato Antonio Chevrier

B.Antonio Chevrier 
Beato Antonio Chevrier - Sacerdote (2 ottobre)
Lione, 16 aprile 1826 - 2 ottobre 1879
Fu davanti al presepe, in un momento di intensa preghiera, che ebbe l'intuizione di vivere in pieno la povertà.
Guidato da Giovanni Maria Vianney, il curato d'Ars, Antonio Chevrier accettò di diventare il direttore spirituale della «Città di Gesù Bambino», che si proponeva di incentivare la Prima Comunione nei bambini poveri. Era nato il 16 aprile 1826 a Lione, da una modesta famiglia.
A 17 anni entrò in seminario e nel 1850 fu ordinato sacerdote. Precursore dell'impegno sociale del clero, iniziò la missione pastorale in una parrocchia operaia della periferia. Poi, l'incontro con il curato d'Ars.
Pensò allora di fondare una propria opera. Nel 1860 acquistò il «Prado», un'antica sala da ballo, ormai in rovina: nacque «La Provvidenza del Prado». Aprì anche una scuola di chierici, i quali, dopo l'ordinazione, formarono la «Società dei Preti del Prado», impegnati sempre in opere di carità.
Morì il 2 ottobre 1879, dopo una lunga malattia. Il 4 ottobre 1986 è stato beatificato da Giovanni Paolo II. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Lione in Francia, Beato Antonio Chevrier, sacerdote, che fondò l’Opera della Provvidenza del Prado per preparare i sacerdoti ad insegnare ai giovani poveri la fede cristiana.

 

Tutto aveva per restare un uomo ordinario; di tutto, invece, si servì per diventare straordinario, fino alla santità. È certamente meno famoso del suo contemporaneo e confidente Curato d’Ars, ma ingiustamente, perché in Padre Antonio Chevrier si concretizza, forse per la prima volta in modo così visibile, l’opzione fondamentale per i poveri, ed è lui ad aprire il cammino che porterà all’esperienza dei “preti-operai” (non a caso, è proprio un suoseguace e successore, Mons. Alfred Lancel, il primo vescovo-operaio e uno dei pochi presuli autorizzati dal Cardinal Ottaviani a tentare questa profetica avventura in seno alla Chiesa).

Nasce in una modesta famiglia lionese nel 1826; sacerdote a 24 anni e subito inserito come vicario in una parrocchia operaia, si “converte” a 30 anni nella notte di Natale 1856. E’ lui stesso a definire “conversione” la particolarissima esperienza di Dio che ha in quella notte, davanti al presepe: “è meditando sulla povertà di Nostro Signore e sul suo abbassamento tra gli uomini che ho deciso di lasciare tutto e di vivere il più poveramente possibile: è il mistero dell’Incarnazione che mi ha convertito”.

Poiché però tra il dire e il fare, anche per i santi, c’è di mezzo il mare, va prima a consultare Giovanni Maria Vianney, che abita ad Ars, a meno di 40 chilometri da casa sua. Sono due anime in perfetta sintonia, che sulla povertà radicale se la intendono; torna a Lione rafforzato nella sua idea e confortato dai consigli del Curato d’Ars, ma da questi continuerà a differenziarsi per l’impronta marcatamente missionaria del suo ministero, a dimostrazione che i santi di Dio non sono fatti in serie e che vicendevolmente ci si può sorreggere, condizionare mai.

La sua attenzione si concentra subito sui “poveri più poveri”, quanti, cioè, oltre che poveri di mezzi economici, sono anche poveri di cultura e anche di fede.
Chiede di lasciare la parrocchia, scegliendo il modesto incarico di assistente spirituale della “Città del Bambino Gesù”, e anche questa è una scelta di “povertà” perché nel nuovo ministero altro non deve fare che assicurare la messa quotidiana e insegnare catechismo. Intanto s’innamora di Francesco d’Assisi, a sua volta grande innamorato di “Madonna Povertà”, e veste l’abito del terz’ordine francescano, vivendo lo spirito di povertà condensato nel suo motto: “avere il necessario e sapersene accontentare”.

Nel 1860 acquista la malfamata sala da ballo del Prado, per trasformarla in centro di accoglienza e di formazione cristiana di bambini e ragazzi poveri, che proprio per la loro condizione di indigenza finiscono per restare ai margini o non inserirsi affatto nei percorsi ordinari della pastorale parrocchiale.
Non è una scuola e non è un oratorio, o forse è parte dell’una e dell’altro perché al “Prado” si insegna gioiosamente il catechismo ai poveri, nella convinzione che anche loro hanno diritto di prepararsi bene alla Prima Comunione. Con una dozzina di questi ragazzi che pensano seriamente al sacerdozio mette così le basi della “Società dei Preti del Prado”, che nella testa e nel cuore del fondatore devono essere “preti poveri a servizio dei poveri”.
A questi ripete, fino alla noia, che “è nella povertà che il sacerdote trova la propria forza, la propria potenza, la propria libertà” e insegna loro che, a imitazione di Gesù “che si lascia mangiare nella Santa Eucaristia”, anche il prete deve essere un “uomo mangiato” da tutti. Convinto che “è meglio vivere dieci anni in meno lavorando per Dio, che dieci anni di più senza far niente”, si sottopone ad un ritmo di lavoro davvero spossante, che rende la sua salute fragile fragile.

*Così fragile da non sopportare l’ultima spogliazione, l’ultimo esercizio di povertà che gli si chiede, quando si vede abbandonato da alcuni dei suoi preti della prima ora e si sente come uno “che pensava di aver fatto qualcosa e vede invece che non ha fatto niente”.*

Muore il 2 ottobre 1878, ad appena 52 anni, povero davvero, materialmente e spiritualmente. Ma non muore il Prado e la “spiritualità pradosiana”, diffusa oggi come stile di vita anche tra i preti diocesani. È stato beatificato il 4 ottobre 1986. (Autore: Gianpiero Pettiti – Fonte: Enciclopedia dei Santi)

 

Nacque il 16 aprile 1826 a Lione, da una modesta famiglia, a 17 anni entrò in Seminario e fu ordinato sacerdote a 24 anni nel 1850. Iniziò la sua missione pastorale in una parrocchia operaia della periferia come vicario. Nel 1856, mentre era in intensa preghiera, davanti al presepe, ebbe l’intuizione della divina povertà. Sotto la giuda del santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, accettò di diventare il direttore spirituale della “Città di Gesù Bambino”, che si proponeva di incentivare la Prima Comunione nei bambini poveri e procurare l’alloggio ai miserabili.
Conscio dell’immenso campo di lavoro, pensò di fondare una propria opera e nel 1860 acquistò il “Prado” che era un’antica sala da ballo, ormai in rovina, chiamando l’istituzione “ La Provvidenza del Prado”.
Andò avanti per una ventina d’anni con il solo aiuto di qualche sacerdote, affiancò all’opera una scuola di chierici, i quali diventati preti formarono la “Società dei Preti del Prado”, con lo scopo di gestire l’opera iniziale e le sue attività caritatevoli.
Morì il 2 ottobre 1879, dopo una lunga e sofferta malattia, il suo corpo riposa nella cappella del Prado, fu un precursore dell’impegno sociale del sacerdozio. É stato beatificato a Lione da Papa Giovanni Paolo II, il 4 ottobre 1986. (Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria. - Beato Antonio Chevrier, pregate per noi.