Caritas non inflatur.
Chi ama Gesù Cristo
non s'invanisce de' propri pregi, ma si umilia e gode di vedersi umiliato anche dagli altri.
1. Il superbo è come un pallone di vento che comparisce grande
a se stesso, ma in sostanza tutta la sua grandezza si riduce ad un poco di vento
che, aprendosi il pallone, tutto in un subito svanisce. Chi ama Dio è vero umile
nè si gonfia per vedere in sè qualche pregio; perchè vede che quanto ha, tutto è
dono di Dio, e del suo non ha altro che il niente ed il peccato; onde nel
conoscere i favori fattigli da Dio più si umilia, vedendosi così indegno e così
da Dio favorito.
2. Dice S. Teresa, parlando delle grazie speciali che Dio le
facea: «Iddio fa con me come si fa con una casa che, stando per cadere, si aiuta
con puntelli». Quando un'anima riceve qualche amorosa visita di Dio, provando in
sè un ardore straordinario di amor divino accompagnato da lagrime o da una gran
tenerezza di cuore, si guardi dal pensare che il Signore la favorisca allora per
qualche sua buona opera; ma allora dee più umiliarsi, pensando che Dio
l'accarezza acciocchè ella non l'abbandoni; altrimenti se per tali doni ne
concepisce qualche vanità, stimandosi più favorita perchè si porta con Dio più
bene degli altri, un tal difetto farà che Dio la privi de' suoi favori. Per
conservar la casa due sono le cose più necessarie, il fondamento ed il tetto: il
fondamento in noi ha da essere l'umiltà, nel riconoscere che a niente vagliamo e
niente possiamo: il tetto poi è la divina protezione in cui solamente dobbiam
confidare.
3. Allorchè ci vediamo più favoriti da Dio bisogna che più ci
umiliamo. S. Teresa quando riceveva qualche grazia speciale, allora procurava di
mettersi avanti gli occhi tutte le sue colpe commesse, e così il Signore più a
sè l'univa. Quanto più l'anima si confessa indegna di grazie, tanto più Iddio di
grazie l'arricchisce. Taide, prima peccatrice e poi santa, si umiliava tanto con
Dio che stimavasi indegna anche di nominarlo; onde non ardiva di dire, «Dio
mio», ma diceva, «Creatore mio, abbi pietà di me: Plasmator meus, miserere
mei». E scrive S. Girolamo che per tale umiltà vide apparecchiarsele un gran
trono in cielo. Si legge similmente di S. Margherita da Cortona, nella sua vita,
che visitandola un giorno il Signore con maggior tenerezza d'amore, ella
esclamando gli disse: «Ma come, Signore, vi siete scordato di quella ch'io sono
stata? come con tante finezze mi pagate le tante ingiurie che vi ho fatte?» E
Dio le rispose che quando un'anima l'ama e si pente di cuore d'averlo offeso,
egli si scorda di tutte le offese ricevute; come già lo disse per Ezechiele:
Si autem impius egerit poenitentiam... omnium iniquitatum eius quas operatus
est, non recordabor (Ezech. XVIII, 21 et 22). Ed in pruova di ciò le fe'
vedere che le aveva apparecchiato in cielo un gran soglio in mezzo a' serafini.
— Oh se giungessimo ad intendere il valore dell'umiltà! Vale più un atto
d'umiltà che non è l'acquistare tutte le ricchezze del mondo.
4. Dicea S. Teresa: «Non credere di aver fatto profitto nella
perfezione se non ti tieni per lo peggiore di tutti, e se non desideri di esser
posposto a tutti». E così facea la santa, e così han fatto tutti i santi. S.
Francesco d'Assisi, S. Maria Maddalena de' Pazzi e gli altri, si riputavano i
maggiori peccatori del mondo, e si ammiravano come la terra gli sostenesse e non
si aprisse loro sotto i piedi; e ciò lo diceano con vero sentimento. Trovandosi
vicino alla morte il V. Giovanni d'Avila che fin da giovine fece una vita santa,
venne un sacerdote ad assisterlo, e gli dicea cose molto sublimi, trattandolo da
quel gran servo di Dio e gran dotto ch'egli era: ma il P. Avila gli fe' sentire:
«Padre, vi prego a raccomandarmi l'anima, come si raccomanda l'anima ad un
malfattore condannato a morte, perchè tale son io». Tale è il sentimento che
hanno i santi di se stessi in vita ed in morte.
5. Così bisogna che facciamo ancor noi se vogliamo salvarci e
conservarci in grazia di Dio sino alla morte, mettendo tutta la nostra
confidenza solamente in Dio. Il superbo confida nelle sue forze e perciò cade;
ma l'umile, perchè solo confida in Dio, benchè sia assalito da tutte le
tentazioni le più veementi, sta forte e non cade, dicendo sempre: Omnia
possum in eo qui me confortat (Phil. IV, 13). Il demonio ora ci tenta di
presunzione, ora di sconfidenza: quando egli ci dice che per noi non v'è timor
di cadere, allora più tremiamo, perchè se per un momento Iddio non ci assiste
colla sua grazia, siamo perduti. Quando poi ci tenta a sconfidare, allora
voltiamoci a Dio e diciamogli con gran confidenza: In te Domine speravi, non
confundar in aeternum (Ps. XXX, 2): Dio mio, in voi ho poste le mie
speranze, spero di non avermi a veder mai confuso e privo della vostra grazia.
Questi atti di sconfidare di noi e confidare in Dio dobbiamo esercitarli sino
all'ultimo punto della nostra vita, pregando sempre il Signore che ci dia la
santa umiltà.
6. Ma non basta, ad esser umili, l'aver basso concetto di noi
ed il tenerci per quei miserabili che siamo; il vero umile, dice Tommaso da
Kempis, disprezza sè e desidera essere disprezzato ancora dagli altri. Questo è
quel tanto che ci raccomandò Gesù Cristo a praticare secondo il suo esempio:
Discite a me, quia mitis sum et humilis corde (Matth. XI, 29). Chi dice
di essere il maggior peccatore del mondo e poi si sdegna cogli altri che lo
disprezzano, dà segno ch'è umile di bocca, ma non di cuore. Scrive S. Tommaso
d'Aquino che quando alcuno, vedendosi disprezzato, si risente, ancorchè facesse
miracoli, si tenga per certo ch'egli è molto lontano dalla perfezione. La divina
Madre mandò S. Ignazio di Loyola ad istruire nell'umiltà S. Maria Maddalena de'
Pazzi, ed ecco l'insegnamento che il santo le diede: «L'umiltà è un godimento di
tutto ciò che c'induce a disprezzare noi stessi». Si noti, un godimento:
se il senso si risente ne' disprezzi che riceviamo, almeno collo spirito
dobbiamo goderne.
7. E come mai un'anima che ama Gesù Cristo, vedendo il suo Dio
sopportare schiaffi e sputi in faccia, come soffrì nella sua Passione, — tunc
exspuerunt in faciem eius et colaphis eum ceciderunt, alii autem palmas in
faciem eius dederunt (Matth. XXVI, 67) — potrà non amare i disprezzi? A
questo fine il Redentore ha voluto che sugli altari si esponesse la sua
immagine, non già in forma di glorioso, ma di crocifisso, affinchè avessimo
sempre avanti gli occhi i suoi disprezzi, a vista de' quali i santi godono in
vedersi vilipesi in questa terra. E questa fu la domanda che S. Giovanni della
Croce fe' a Gesù Cristo, allorchè gli apparve colla croce sulla spalla:
Domine, pati et contemni pro te: Signore, in vederti così disprezzato per
amor mio, non altro ti cerco, che il farmi patire ed esser disprezzato per amor
tuo.
8. Dice S. Francesco di Sales: «Il sopportare gli obbrobri è la
pietra di paragone dell'umiltà e della vera virtù». Se una persona che fa la
spirituale, fa orazione, si comunica spesso, digiuna, si mortifica, ma poi non
può sopportare un affronto, una parola pungente, che segno è? È segno ch'è canna
vacante, senza umiltà e senza virtù. E che sa fare un'anima che ama Gesù Cristo,
se non sa soffrire un disprezzo per amor di Gesù Cristo che ne ha sofferti tanti
per lei? Scrive il da Kempis nel suo libretto d'oro dell'Imitazione di Gesù
Cristo: «Giacchè tanto abborrisci di esser umiliato, è segno che non sei
morto al mondo, non hai umiltà e non hai Dio avanti gli occhi. Chi non ha Dio
avanti gli occhi si conturba per ogni parola di biasimo che sente». Tu non puoi
sopportare schiaffi e ferite per Dio: sopporta almeno qualche parola.
9. Oh che ammirazione e scandalo dà una persona che si comunica
spesso, e poi si risente ad ogni parola di suo disprezzo! All'incontro, che
bella edificazione dà un'anima che, ricevendo disprezzi, risponde con qualche
parola dolce per placare chi l'ha offesa; o pure non risponde nè se ne lamenta
cogli altri, ma se ne resta con volto sereno senza dimostrarne amarezza! Dice S.
Giovanni Grisostomo che il mansueto è utile non solo a se stesso, ma anche agli
altri col buon esempio che loro dà di dolcezza nell'esser disprezzato:
Mansuetus utilis sibi et aliis.
Il da Kempis intorno a questa materia avverte molte cose nelle
quali dobbiamo umiliarci. Dice così: «Si ascolterà quanto dicono gli altri, e
quanto dici tu sarà dispregiato. Dimanderanno gli altri e riceveranno:
dimanderai tu e ti sarà negato. Gli altri saran grandi nella bocca degli uomini,
e di te si tacerà. Agli altri sarà commessa questa o quella incombenza, ma tu a
nulla verrai giudicato buono. Con queste pruove il servo fedele suole
sperimentarsi dal Signore, come egli sappia reprimersi e quietarsi. Si
contristerà alcuna volta la natura, ma farai gran guadagno se tutto sopporterai
con silenzio».
10. Dicea S. Giovanna di Chantal: «Chi è vero umile, venendo
umiliato più s'umilia». Sì, perchè il vero umile non mai crede di esser umiliato
abbastanza quanto merita. Quelli che fanno così son chiamati beati da Gesù
Cristo: non son chiamati beati quei che dal mondo sono stimati, onorati e lodati
per nobili, per dotti, per potenti; ma quei che sono maledetti dal mondo,
perseguitati e mormorati: perchè a costoro sta preparata, se tutto soffrono con
pazienza, una gran mercede in paradiso: Beati estis cum maledixerint vobis,
et persecuti vos fuerint, et dixerint omne malum adversum vos mentientes,
propter me. Gaudete et exsultate, quoniam merces vestra copiosa est in
caelis (Matth. V, 11 et 12).
11. Principalmente poi dobbiamo praticar l'umiltà quando siamo
ripresi da' superiori o da altri di qualche difetto. Taluni fanno come i ricci
che quando non sono toccati paiono tutti placidi e mansueti; ma se poi li tocca
un superiore o un amico ammonendoli di una cosa mal fatta, subito diventano
tutti spine, e rispondono con risentimento che ciò non è vero o che hanno avuta
ragione di farlo, e che non ci capiva quell'ammonizione; in somma chi li
riprende loro diventa nemico, facendo come coloro che se la pigliano col
cerusico perchè gli fa sentire dolore con medicargli la piaga: Medicanti
irascitur, scrive S. Bernardo. L'uomo santo ed umile, dice S. Gio.
Grisostomo, quando è corretto geme per l'errore commesso; il superbo
all'incontro, quando è corretto anche geme, ma geme perchè vede scoverto il suo
difetto, e perciò si sturba, risponde, e si sdegna con chi l'avverte. Ecco la
bella regola che dava S. Filippo Neri, quando alcuno si vede incolpato: «Chi
vuol farsi veramente santo, dicea, non dee mai scusarsi, ancorchè sia falso
quello di che viene tacciato». In ciò dee eccettuarsene il solo caso in cui
sembrasse esser necessaria la difesa per togliere lo scandalo. Oh quanto merito
si fa appresso Dio chi è ripreso, benchè a torto, e tace e non si scusa! Dicea
S. Teresa: «Talvolta più si avanza e si perfeziona una anima con lasciar di
scusarsi, che con sentire dieci prediche; poichè col non iscusarsi comincia ad
acquistar la libertà di spirito ed a non curarsi più se si dice bene o male di
lei».
Affetti e preghiere.
O Verbo Incarnato, deh vi prego, per li meriti della vostra
santa umiltà che vi fe' abbracciare tante ignominie ed ingiurie per amor nostro,
liberatemi dalla superbia e datemi parte della vostra santa umiltà. E come mai
potrò dolermi io d'ogni obbrobrio che mi sia fatto, dopo specialmente d'essermi
fatto tante volte reo dell'inferno? Deh, Gesù mio, per lo merito di tanti
disprezzi che soffriste nella vostra Passione, datemi la grazia di vivere e
morire umiliato in questa terra, come voi viveste e moriste umiliato per me. Io
per amor vostro vorrei vedermi disprezzato e abbandonato da tutti, ma senza voi
non posso niente.
V'amo, mio sommo bene, v'amo, o diletto dell'anima mia: io
v'amo, e da voi spero, come propongo, di soffrir tutto per voi, affronti,
tradimenti, persecuzioni, dolori, aridità, abbandoni; basta che non mi
abbandoniate voi, unico amore dell'anima mia. Non permettete ch'io mi allontani
più da voi.
Datemi desiderio di darvi gusto. Datemi fervore nell'amarvi.
Datemi pace nel patire. Datemi rassegnazione in tutte le cose contrarie.
Abbiate pietà di me. Io non merito niente, ma tutto spero da
voi che mi avete comprato col vostro sangue.
E tutto spero da voi, regina e madre mia Maria, che siete il
rifugio dei peccatori.
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"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
mercoledì 1 agosto 2012
CAPITOLO IX Caritas non inflatur. Chi ama Gesù Cristo non s'invanisce de' propri pregi, ma si umilia e gode di vedersi umiliato anche dagli altri.
CAPITOLO VIII Caritas non agit perperam. Chi ama Gesù Cristo fugge la tepidezza ed ama la perfezione, i di cui mezzi sono: 1. Il desiderio. 2. La risoluzione. 3. L'orazione mentale. 4. La comunione. 5. La preghiera.
Caritas non agit perperam.
Chi ama Gesù Cristo fugge la tiepidezza
ed ama la perfezione, i di cui mezzi sono: 1. Il desiderio. 2. La risoluzione. 3. L'orazione mentale. 4. La comunione. 5. La preghiera.
1. S. Gregorio spiegando questo passo, non agit perperam
(I Cor. XIII, 4), dice che la carità impiegandosi sempre più nel solo amore
divino, non sa ammettere quel che non è conforme al retto e santo: Quia
caritas quae se in solum Dei amorem dilatat, quidquid a rectitudine discrepat
ignorat (San Greg. Mor. l. 10. c. 8). Ciò ben lo scrisse prima l'Apostolo
dicendo che la carità è un vincolo che lega insieme nell'anima le virtù più
perfette: Caritatem habete, quod est vinculum perfectionis (Coloss. III,
14). E poichè la carità ama la perfezione, per conseguenza abborrisce la
tepidezza colla quale servono taluni a Dio con gran pericolo di perdere la
carità, la divina grazia, l'anima e tutto.
2. Bisogna non però avvertire che vi sono due sorta di
tepidezza, l'una inevitabile e l'altra evitabile. L'inevitabile è quella
da cui non sono esenti neppure i santi; e questa comprende tutti i difetti che
da noi si commettono senza piena volontà, ma solo per la nostra fragilità
naturale. Tali sono le distrazioni nell'orazione, i disturbi interni, le parole
inutili, le vane curiosità, i desideri di comparire, i gusti nel mangiare o nel
bere, i moti di concupiscenza non subitamente repressi, e simili. Questi difetti
dobbiamo noi evitarli quanto possiamo; ma, per cagion della debolezza di nostra
natura infettata dal peccato, è impossibile evitarli tutti. Dobbiamo bensì
detestarli dopo averli commessi, perchè sono disgusti di Dio; ma, come
avvertimmo nel capo antecedente, ci dobbiam guardare di disturbarci per quelli.
Scrisse S. Francesco di Sales: «Tutti quei pensieri che ci danno inquietudine
non sono da Dio ch'è principe di pace, ma provengono sempre o dal demonio o
dall'amor proprio o dalla stima che facciamo di noi stessi».
3. Tali pensieri pertanto che c'inquietano bisogna subito
rigettarli e non farne conto. Dice il medesimo santo che i difetti indeliberati
siccome involontariamente si fanno così anche involontariamente si cancellano.
Un atto di dolore, un atto di amore basta a cancellarli. La Ven. Suor Maria
Crocifissa benedettina vide una volta un globo di fuoco, sovra cui essendovi
buttate molte pagliuccie osservò che tutte quelle restarono incenerite. Le fu
dato ad intendere per tal figura che un atto fervente di amor divino distrugge
tutt'i difetti che abbiamo nell'anima. Lo stesso effetto fa la santa comunione,
secondo quel che abbiamo nel Concilio di Trento (Sess. XIII, c. 2), ove chiamasi
l'Eucaristia antidotum quo liberamur a culpis quotidianis. Sicchè tali
difetti sono bensì difetti, ma non impediscono la perfezione, cioè di camminare
alla perfezione, poichè in questa vita niuno giunge alla perfezione prima che
arrivi al regno beato.
4. La tepidezza poi che impedisce la perfezione è la tepidezza
evitabile, quando taluno commette peccati veniali deliberati; poichè
tutte queste colpe commesse ad occhi aperti ben possono dalla divina grazia
evitarsi anche nello stato presente. Quindi dicea S. Teresa: «Da peccato
avvertito, per molto piccolo che sia, Dio vi liberi». Tali sono per esempio le
bugie volontarie, le piccole mormorazioni, le imprecazioni, i risentimenti di
parole, le derisioni del prossimo, le parole pungitive, i discorsi di stima
propria, i rancori d'animo nudriti nel cuore, le affezioni disordinate a persone
di diverso sesso. «Questi sono certi vermi, scrisse la stessa S. Teresa, che non
si lascian conoscere, finchè non abbian rose le virtù». Onde la santa avvertì in
altro luogo: «Per mezzo di cose picciole il demonio va facendo buchi per dove
entrano cose grandi».
5. Bisogna dunque tremare di tai difetti deliberati, mentre Dio
per quelli restringe la mano a' lumi più chiari ed agli aiuti più forti, e ci
priva delle dolcezze spirituali; e quindi ne nasce che l'anima fa le cose
spirituali con gran tedio e pena, e così poi comincia a lasciar l'orazione, le
comunioni, le visite al Sagramento, le novene; ed in fine facilmente lascerà
tutto, com'è avvenuto non di rado a tante anime infelici.
6. Questo importa quella minaccia che fa il Signore a' tepidi:
Neque frigidus es, neque calidus: utinam frigidus esses, etc.: sed quia
tepidus es... incipiam te evomere (Apoc. III, 15 et 16). Gran cosa! dice:
Utinam frigidus esses! Come? è meglio esser freddo, cioè privo della
grazia, che tepido? Sì, in certo modo è meglio esser freddo, perchè il freddo
può più facilmente emendarsi, scosso dal rimorso della coscienza; ma il tepido
fa l'abito a dormire ne' suoi difetti senza pigliarsene pena e senza pensare ad
emendarsi, e così rendesi quasi disperata la sua cura. Tepor, scrive S.
Gregorio, qui a fervore defecit in desperatione est. Diceva il Ven. P.
Luigi da Ponte che egli avea commessi innumerabili difetti in sua vita, ma che
non mai avea fatta pace coi difetti. Taluni fan pace co' difetti, e quindi
avviene la loro ruina; specialmente quando il difetto è con attacco di qualche
passione di stima propria, di voler comparire, di accumular danari, di rancore
verso alcun prossimo o di affezione disordinata con persona di diverso sesso.
Allora vi è gran pericolo che i capelli diventino per quell'anima, come diceva
S. Francesco d'Assisi, catene che la tirino all'inferno. Almeno quell'anima non
si farà più santa, e perderà quella gran corona che Dio l'apparecchiava se fosse
stata fedele alla grazia. L'uccello quando è sciolto da ogni laccio, subito
vola: l'anima quando è sciolta da ogni attacco terreno, subito vola a Dio; ma se
sta ligata, ogni filo basterà ad impedirle il camminare a Dio. Oh quante persone
spirituali non si fanno sante perchè non si fan forza a sbrigarsi da certi
piccioli attacchi!
7. Tutto il danno viene dal poco amore che si porta a Gesù
Cristo. Coloro che sono gonfi della stima di se medesimi; quei che spesso si
accorano per gli eventi difformi al lor desiderio; che sono molto indulgenti a
se stessi per timore della lor sanità; che tengono il cuore aperto agli oggetti
esterni e la mente sempre distratta, con avidità di ascoltare e saper tante cose
che non tendono al divino servizio, ma solo a contentare il proprio genio; quei
che si risentono ad ogni minima disattenzione che apprendono di aver ricevuta da
alcuno: dal che poi ne avviene che spesso si turbano, e mancano all'orazione o
al lor raccoglimento: ora tutti divoti e giubilanti, ora tutti impazienti e
mesti, siccome accadono le cose a seconda o contra del loro umore; questi non
amano o molto poco amano Gesù Cristo, e discreditano la vera divozione.
8. Ma chi mai si trovasse caduto in questo miserabile stato di
tepidezza che ha da fare? È vero ch'è cosa molto difficile il vedere un'anima
intepidita ripigliar l'antico fervore; ma disse il Signore che quel che gli
uomini non possono, ben può farlo Iddio: Quae impossibilia sunt apud homines,
possibilia sunt apud Deum (Luc. XVIII, 27). Chi prega e prende i mezzi, ben
giungerà a tutto quel che desidera. Cinque sono i mezzi per uscir dalla
tepidezza ed incamminarsi alla perfezione.
1º Il desiderio di quella.
2º La risoluzione di giungervi.
3º L'orazione mentale.
4º La frequenza della comunione.
5º La preghiera.
9. Il primo mezzo dunque è il desiderio della
perfezione.
I desideri santi sono le ali che ci fanno alzare da terra;
poichè, siccome dice S. Lorenzo Giustiniani, il santo desiderio vires
subministrat, poenam exhibet leviorem: da una parte dà forza di camminare
alla perfezione, e dall'altra alleggerisce la pena del cammino. Chi veramente
desidera la perfezione non lascia mai di andare avanzandosi in quella; e se non
lascia, finalmente vi arriverà. All'incontro chi non la desidera sempre anderà
in dietro, e sempre troverassi più imperfetto di prima. Dice S. Agostino che
nella via di Dio il non avanzarsi è tornare in dietro: Non progredi reverti
est. Chi non si fa forza per andare avanti si troverà sempre in dietro,
trasportato dalla corrente della nostra natura corrotta.
10. È un grande errore poi quel che dicono alcuni: Dio non
vuol tutti santi. No, dice S. Paolo: Haec est... voluntas Dei,
sanctificatio vestra (I Thess. IV, 3). Iddio vuol tutti santi, ed ognuno
nello stato suo, il religioso da religioso, il secolare da secolare, il
sacerdote da sacerdote, il maritato da maritato, il mercadante da mercadante, il
soldato da soldato, e così parlando d'ogni altro stato. Son troppo belli i
documenti che su questa materia dà la mia grande avvocata S. Teresa. In un luogo
dice: «I nostri pensieri sieno grandi, che di qua verrà il nostro bene». In
altro luogo dice: «Non bisogna avvelire i desideri, ma confidare in Dio, che
sforzandoci noi, a poco a poco potremo arrivare dove colla divina grazia
arrivarono molti santi». Ed in conferma di ciò ella attestava aver la sperienza
che le persone animose in poco di tempo avean fatto gran profitto: «Poichè,
diceva, il Signore talmente si compiace de' desideri, come se fossero eseguiti».
In altro luogo dice: «Iddio non fa molti segnalati favori, se non a chi ha molto
desiderato il suo amore». Dice di più in altro luogo: «Dio non lascia di pagare
qualunque buon desiderio in questa vita, mentr'egli è amico di anime generose,
purchè vadano diffidate di loro stesse». Di tale spirito generoso appunto era
dotata la santa; onde giunse una volta a dire al Signore che se in paradiso
avesse veduti altri che godessero più di lei, ciò non le importava; ma che poi
se avesse avuto a vedere chi più di lei lo amasse, dicea che non sapeva come
avesse potuto sopportarlo.
11. Bisogna dunque farsi animo grande: Bonus est Dominus...
animae quaerenti illum (Thren. III, 25). Dio è troppo buono e liberale con
chi lo cerca di cuore. Nè i peccati commessi ci possono impedire di farci santi,
se veramente desideriamo di farci santi. Avverte S. Teresa: «Il demonio procura
che paia superbia l'aver desideri grandi e voler imitare i santi; ma giova molto
il farsi animo a cose grandi, chè quantunque l'anima non abbia subito forza, dà
nondimeno un generoso volo, ed arriva molto avanti». Scrive l'Apostolo:
Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum (Rom. VIII, 28). Aggiunge la
glosa: etiam peccata. Anche i peccati commessi possono cooperare alla
nostra santificazione, in quanto la loro memoria ci rende più umili e più grati,
vedendo i favori che Dio ci dispensa dopo che l'abbiamo tanto offeso. Io non
posso niente, dee dire il peccatore, nè merito niente, altro non merito che
l'inferno; ma ho che fare con un Dio di bontà infinita che ha promesso di
esaudire ognun che lo prega; ora, giacch'egli mi ha cacciato dallo stato di
dannazione e vuole ch'io mi faccia santo, e già mi offerisce il suo aiuto, ben
posso farmi santo, non colle forze mie, ma colla grazia del mio Dio che mi
conforta: Omnia possum in eo qui me confortat (Phil. IV, 13). Allorchè
abbiamo dunque buoni desideri, bisogna che ci facciamo animo e, fidati in Dio,
procuriamo di metterli in esecuzione; ma se poi troviamo impedimento in qualche
impresa spirituale, quietiamoci nella divina volontà. Il voler di Dio dee
preferirsi ad ogni nostro buon desiderio. S. Maria Maddalena de' Pazzi si
contentava più presto di restar priva d'ogni perfezione, che averla senza il
volere di Dio.
12. Il secondo mezzo per la perfezione è la risoluzione
di darsi tutto a Dio.
Molti sono chiamati alla perfezione, sono spinti a quella dalla
grazia, acquistano desiderio di quella; ma, perchè poi non si risolvono, vivono
e muoiono nel lezzo della lor vita tepida ed imperfetta. Non basta il desiderio
della perfezione, se non vi è ancora una ferma risoluzione di conseguirla.
Quante anime si pascono di soli desideri, ma non danno mai un passo nella via di
Dio! Questi son que' desideri di cui parla il Savio: Desideria occidunt
pigrum (Prov. XXI, 25). Il pigro sempre desidera, e non si risolve mai di
prendere i mezzi propri del suo stato per farsi santo. Dice: Oh se stessi in un
deserto e non in questa casa! Oh se potessi andare a vivere in un altro
monastero, vorrei darmi tutto a Dio! E frattanto non può soffrire quel compagno,
non può sentire una parola di contraddizione, si dissipa in molte cure inutili,
commette mille difetti, di gola, di curiosità e di superbia: e poi sospira al
vento: Oh se avessi, oh se potessi, ecc. Tali desideri fan più danno che
utile; perchè taluno si pasce di quelli, e frattanto vive e seguita a vivere
imperfetto. Dicea S. Francesco di Sales: «Io non approvo che una persona
attaccata a qualche obbligo o vocazione si fermi a desiderare un'altra sorta di
vita, fuori di quella ch'è convenevole all'officio suo, nè altri esercizi
incompatibili al suo stato presente; perchè ciò dissipa il suo cuore e lo fa
languire negli esercizi necessari».
13. Bisogna dunque desiderar la perfezione, e risolutamente
prendere i mezzi per quella. Scrive S. Teresa: «Dio non vuole da noi che una
risoluzione, per poi far egli tutto dal canto suo. Di anime irresolute non ha
paura il demonio». A ciò serve l'orazione mentale, per pigliare quei mezzi che
ci conducono alla perfezione. Alcuni fanno molta orazione, ma in quella non
concludono mai niente. Diceva la stessa santa: «Io vorrei orazione di poco tempo
che produce grandi effetti, più presto che quella di molti anni in cui l'anima
non finisce di risolversi a far qualche cosa di valore per Dio». Ed altrove
dice: «Io ho sperimentato che chi al principio si aiuta a risolversi di fare
alcuna cosa, per difficile che sia, se si fa per dar gusto a Dio, non vi è che
temere».
14. La prima risoluzione ha da essere di fare ogni forza e
morir prima che di commettere qualunque peccato deliberato, per minimo che sia.
È vero che tutti i nostri sforzi senza l'aiuto divino non possono bastarci a
superar le tentazioni; ma Dio vuole che spesso noi ci facciamo dalla parte
nostra questa violenza, poichè supplirà egli poi colla sua grazia e soccorrerà
la nostra debolezza con farci ottener la vittoria. Questa risoluzione ci libera
dall'impedimento di camminare avanti, e ci dà insieme un gran coraggio, poichè
ella ci assicura di stare in grazia di Dio. Scrisse S. Francesco di Sales: «La
maggior sicurezza che noi possiamo avere in questo mondo di esser in grazia di
Dio non consiste già ne' sentimenti che abbiamo del suo amore, ma nel puro ed
irrevocabile abbandonamento di tutto il nostro essere nelle sue mani, e nella
risoluzione ferma di non mai consentire ad alcun peccato, nè grande nè piccolo».
Ciò viene a dire l'esser delicato di coscienza. — Avvertasi, altro è l'esser
delicato di coscienza, altro l'essere scrupoloso. L'esser delicato è necessario
per farsi santo, ma l'essere scrupoloso è difetto e fa danno; e perciò bisogna
ubbidire a' padri spirituali, e vincere gli scrupoli che altro non sono che vane
ed irragionevoli apprensioni.
15. Indi fa d'uopo risolversi a scegliere il meglio, non solo
ciò ch'è di gusto di Dio, ma ciò ch'è di maggior gusto di Dio, senza riserba.
Dice S. Francesco di Sales: «Bisogna cominciare con una forte e costante
risoluzione di darsi tutto a Dio, protestandogli che per l'avvenire vogliamo
esser suoi senza alcuna riserva, e poi andare spesso rinnovando questa medesima
risoluzione». S. Andrea di Avellino fe' voto di avanzarsi ogni giorno nella
perfezione. Chi vuol farsi santo non è necessario che ne faccia voto; ma bisogna
che ogni giorno procuri di dar qualche passo nella perfezione. Scrisse S.
Lorenzo Giustiniani: «Quando uno cammina bene davvero, sente in sè una brama
continua di avanzarsi; e quanto più cresce nella perfezione tanto più gli cresce
la stessa brama; poichè, crescendogli ogni dì più il lume, gli pare sempre di
non avere alcuna virtù e di non fare alcun bene; e se pur vede di far qualche
bene, sempre gli pare molto imperfetto, e ne fa poco conto. Quindi è che egli
sta di continuo faticando per l'acquisto della perfezione senza mai
stancarsi».
16. E bisogna far presto, e non aspettare il domani. Chi sa se
appresso non avremo più tempo di farlo? Avverte l'Ecclesiaste: Quodcumque
facere potest manus tua, instanter operare (Eccl. IX, 10): quel che puoi
fare, fallo presto nè differirlo. E ne adduce la ragione: Quia nec opus, nec
ratio, nec sapientia, nec scientia erunt apud inferos, quo tu properas
(Ibid.): perchè nell'altra vita non vi è più tempo di operare, nè ragione di
merito, nè sapienza a ben fare, nè scienza o sia sperienza a ben consigliarti,
poichè dopo la morte quel ch'è fatto è fatto. Una religiosa del monastero di
Torre de' Specchi in Roma, chiamata Suor Bonaventura, costei menava una vita
molto tepida. Venne un religioso, il P. Lancizio, a dar gli esercizi spirituali
alle monache, e Suor Bonaventura, perchè niente desiderava di uscir dalla sua
tepidezza, di mala voglia cominciò a sentire gli esercizi. Ma la grazia divina
alla prima predica la guadagnò, ond'ella andò subito a' piedi del padre che
predicava, e gli disse con vera risoluzione: «Padre, voglio farmi santa, e
presto santa». E col divino aiuto così fece, poichè non visse dopo tal tempo che
otto mesi in circa, e fra quel poco tempo visse e morì da santa.
17. Dicea Davide: Et dixi, nunc coepi (Ps. LXXVI, 11).
Così replicava ancora S. Carlo Borromeo: «Oggi comincio a servire Dio». E così
bisogna fare, come per lo passato non avessimo fatto alcun bene. Siccome in
fatti tutto quel che facciamo per Dio tutto è niente, perchè tutto siam tenuti a
farlo: ogni giorno dunque risolviamoci di cominciare ad esser tutti di Dio, nè
stiamo a vedere quel che fanno o come fanno gli altri. Pochi son quelli che da
vero si fanno santi. Dice S. Bernardo: Perfectum non potest esse nisi
singulare. Se vogliamo imitare il comune degli uomini, saremo sempre
imperfetti, com'essi comunemente sono. Bisogna vincer tutto, rinunziare a tutto,
per ottenere il tutto. Dicea S. Teresa: «Perchè noi non finiamo di dar tutto a
Dio il nostro affetto, nè anche a noi vien dato tutto l'amor suo». Oh Dio, che
tutto è poco quel che si fa per Gesù Cristo, il quale per noi ha dato il sangue
e la vita. «Tutto è schifezza, scrive la stessa santa, quanto possiamo fare, in
comparazione di una sola goccia di sangue sparso dal Signore per noi». I santi
non sanno risparmiarsi quanto si tratta di piacere a un Dio che si è dato tutto
a noi senza riserva appunto per obbligarci a non negargli niente. Scrisse il
Grisostomo: Totum tibi dedit, nihil sibi reliquit. Iddio ti ha dato tutto
se stesso, non è ragione che tu vai riservato con Dio. Egli è giunto a morire
per tutti noi, dice l'Apostolo, acciocchè ognuno di noi non viva che per colui
il quale per noi è morto: Pro nobis omnibus mortuus est Christus, ut
et qui vivunt iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est (II Cor.
V, 15).
18. Il terzo mezzo per farsi santo è l'orazione
mentale.
Scrive Giovanni Gersone (De medit. cons. 7) che chi non medita
le verità eterne, senza miracolo non può vivere da cristiano. La ragione si è
perchè senza l'orazione mentale manca la luce e si cammina all'oscuro. Le verità
della fede non si vedono cogli occhi del corpo, ma cogli occhi dell'anima,
quando ella le medita; chi non le medita non le vede e perciò cammina
all'oscuro, e facilmente, stando nelle tenebre, si attacca agli oggetti
sensibili, per li quali disprezza poi gli eterni. Scrisse Santa Teresa (Lettera
8) al vescovo di Osma: «Sebbene ci pare che non si trovino in noi imperfezioni,
quando però apre Iddio gli occhi dell'anima, come suol farlo nell'orazione, ben
elle compariscono». E prima scrisse S. Bernardo che quegli il quale non medita
seipsum non exhorret quia non sentit: non abborrisce se stesso perchè non
si conosce. L'orazione, dice il santo, regit affectus, dirigit actus,
regola gli affetti dell'anima e dirige le nostre azioni a Dio; ma senza orazione
gli affetti si attaccano alla terra, le azioni si conformano agli affetti, e
così il tutto va in disordine.
19. È terribile il caso che si legge nella vita della Ven. Suor
Maria Crocifissa di Sicilia (lib. 2. cap. 8). Mentre la serva di Dio stava
orando, intese un demonio che si vantava di aver fatta lasciare l'orazione
comune ad una religiosa; e vide in ispirito che dopo questa mancanza il demonio
la tentava a dare il consenso ad una colpa grave, e che quella era già vicina ad
acconsentirvi. Ella subito accorse, ed ammonendola la liberò dalla caduta. Dicea
S. Teresa che chi lascia l'orazione «tra breve diventa o bestia o demonio».
20. Chi lascia dunque l'orazione lascerà di amare Gesù Cristo.
L'orazione è la beata fornace ove si accende e si conserva il fuoco del santo
amore: In meditatione mea exardescet ignis (Ps. XXXVIII, 4). S. Caterina
di Bologna diceva: «Chi non frequenta l'orazione si priva di quel laccio che
stringe l'anima con Dio. Onde non sarà difficile al demonio che trovando la
persona fredda nel divino amore, la tiri a cibarsi di qualche pomo avvelenato».
All'incontro dicea S. Teresa: «A chi persevera nell'orazione, per quanti peccati
opponga il demonio, tengo per certo che finalmente il Signore lo conduca a porto
di salvazione». In altro luogo dice: «Chi nel cammino dell'orazione non si
ferma, benchè tardi pure arriva». Ed in altro luogo scrive che il demonio perciò
si affatica tanto a distogliere l'anime dall'orazione, perchè «sa il demonio che
l'anima la quale con perseveranza attende all'orazione egli l'ha perduta». — Oh
quanti beni si raccolgono dall'orazione! Nell'orazione si concepiscono i santi
pensieri, si esercitano gli affetti divoti, si eccitano i desideri grandi e si
fanno le risoluzioni ferme di darsi intieramente a Dio; e così l'anima poi gli
sagrifica i piaceri terreni e tutti gli appetiti disordinati. Dicea S. Luigi
Gonzaga: «Non vi sarà molta perfezione senza molta orazione». Avverta chi ama la
perfezione questo gran detto del santo.
21. Non già dee andarsi all'orazione per sentire le dolcezze
dell'amor divino; chi vi va per tal fine, ci perderà il tempo, o poco profitto
ne caverà. Dee la persona mettersi ad orare solo per dar gusto a Dio, cioè solo
per intender ciò che voglia Dio da lui e per domandargli l'aiuto per eseguirlo.
Il Ven. P. D. Antonio Torres diceva: «Il portar la croce senza consolazioni fa
volare l'anime alla perfezione». L'orazione senza consolazioni sensibili riesce
la più fruttuosa per l'anima. Ma povera quell'anima che la lascia per non
sentirvi gusto! Dicea S. Teresa: «L'anima che lascia l'orazione è come se da se
stessa si ponesse all'inferno, senza bisogno di demoni».
22. Dall'esercizio poi dell'orazione avviene che la persona
sempre pensi a Dio: «Il vero amante, dice S. Teresa, sempre si ricorda
dell'amato». E da qui nasce poi che le persone di orazione parlano sempre di
Dio, sapendo quanto piace a Dio che gli amanti suoi si dilettino in parlar di
lui e dell'amore ch'esso ci porta, e così procurino d'infiammarne anche gli
altri. Scrisse la stessa santa: «Ai discorsi de' servi di Dio sempre si trova
presente Gesù Cristo, e gli piace molto che si dilettino di lui».
23. Dall'orazione ancora nasce quel desiderio di ritirarsi ne'
luoghi solitari per trattare da solo a solo con Dio, e di conservare il
raccoglimento interno nel trattare gli affari esterni necessari. Dico
necessari, o per ragion del governo della famiglia o degli offici imposti
dall'ubbidienza; poichè la persona di orazione dee amar la solitudine e non
dissiparsi in faccende ultronee ed inutili; altrimenti perderà lo spirito di
raccoglimento ch'è un gran mezzo per mantenere l'unione con Dio. Hortus
conclusus soror mea sponsa (Cant. IV, 12). L'anima sposa di Gesù Cristo dee
essere un orto chiuso a tutte le creature, e non dee ammettere nel suo cuore
altri pensieri ed altri negozi che di Dio o per Dio. Cuori aperti non si fanno
santi. I santi che sono operari, in acquistare anime a Dio, anche in mezzo alle
loro fatiche di predicare, prender le confessioni, trattar paci, assistere
agl'infermi, non perdono il loro raccoglimento. Lo stesso corre per coloro che
stanno applicati allo studio. Quanti per istudiare assai e farsi dotti non si
fanno nè santi nè dotti, perchè la vera dottrina è la scienza de' santi, cioè il
sapere amar Gesù Cristo, mentre all'incontro l'amor divino apporta seco e la
scienza e tutti i beni: Venerunt autem mihi omnia bona... cum illa, cioè
colla santa carità (Sap. VII, 11). Il Ven. Giovanni Berchmans avea un affetto
straordinario per lo studio, ma egli, colla sua virtù, non permise mai che lo
studio gl'impedisse il profitto spirituale. Scrisse l'Apostolo: Non plus
sapere, quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem (Rom. XII, 3).
Bisogna sapere, specialmente a chi è sacerdote; bisogna che sappia, perchè il
sacerdote dee istruire gli altri nella divina legge: Labia enim sacerdotis
custodient scientiam et legem requirent ex ore eius (Malac. II, 7); bisogna
che sappia, ma usque ad sobrietatem. Chi per lo studio lascia l'orazione
dà segno che nello studio non cerca Dio, ma se stesso. Chi cerca Dio lascia lo
studio, quando non è attualmente necessario, per non lasciar l'orazione.
24. Inoltre il maggior male si è che senza l'orazione mentale
non si prega. — In più luoghi delle mie opere spirituali ho parlato della
necessità della preghiera, e specialmente in un libretto a parte intitolato:
Del gran mezzo della preghiera, ed in questo capo brevemente anche ne
dirò più cose. Basti solamente qui avvertire quel che scrisse il Ven. vescovo di
Osma Monsig. Palafox (nell'Annot. alla lettera di S. Teresa 8, n. 10): «Come può
durar la carità, se Dio non ci dà la perseveranza? Come ci darà la perseveranza
il Signore, se non gliela chiediamo? E come gliela chiederemo senza l'orazione?
Senza l'orazione non vi è comunicazione con Dio per conservar le virtù». E così
è, poichè chi non fa orazione mentale poco vede i bisogni dell'anima sua, poco
conosce i pericoli della sua salute, poco i mezzi che dee usare per vincere le
tentazioni, e così, poco conoscendo la necessità che ha di pregare, lascerà di
pregare e certamente si perderà.
25. In quanto poi alla materia della meditazione, non vi è cosa
più utile che meditare i novissimi, la morte, il giudizio, l'inferno e 'l
paradiso; ma specialmente giova il meditar la morte, figurandoci di star
moribondi sul letto, abbracciati col Crocifisso e vicini ad entrare
nell'eternità. Ma sovra tutto, a chi ama Gesù Cristo e desidera di sempre più
crescere nel santo amore, non vi è pensiero più efficace che quello della
Passione del Redentore.
Dicea S. Francesco di Sales che «il monte Calvario è il monte degli amanti». Tutti gli amanti di Gesù Cristo se la fanno sempre su questo monte, ove non si respira altra aria che del divino amore. A vista d'un Dio che muore per nostro amore, e muore perchè ci ama — dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis (Ephes. V, 2) — non è possibile il non ardentemente amarlo. Dalle piaghe del Crocifisso escono sempre tali saette d'amore che feriscono i cuori anche di pietra. Oh felice chi se la fa continuamente sul monte Calvario in questa vita! O monte beato, monte amabile! O monte caro, e chi più ti lascerà? Monte che mandi fuoco ed infiammi l'anime che in te perseverantemente dimorano!
26. Il quarto mezzo per la perfezione ed anche per la
perseveranza in grazia di Dio è la frequenza della santa comunione della
quale parlammo già nel capo II, ove dicemmo che un'anima non può far cosa di
maggior gusto di Gesù Cristo, che riceverlo spesso nel Sagramento
dell'altare.
Dicea S. Teresa: «Non vi è migliore aiuto per la perfezione che
la comunione frequente: oh come il Signore mirabilmente la va perfezionando!» E
soggiungeva che, ordinariamente parlando, le persone che più spesso si
comunicano si trovano più avanzate nella perfezione; e che in quei monasteri ove
più frequentasi la santa comunione, ivi regna più spirito. E perciò, come si
dice nel decreto d'Innocenzo XI dell'anno 1679, i SS. Padri hanno tanto lodata e
promossa la comunione frequente ed anche quotidiana. La comunione, come parla il
Concilio di Trento (Sess. 13. c. 2.) ci libera dalle colpe giornali e ci
preserva dalle mortali. S. Bernardo dice che la comunione reprime i moti
dell'iracondia e dell'incontinenza, che sono le due passioni che più spesso e
più fortemente ci assaltano. S. Tommaso (3. p. q. 79. a. 1.) dice che la
comunione abbatte le suggestioni del demonio. E S. Giovanni Grisostomo
finalmente dice che la comunione c'infonde una grande inclinazione alle virtù ed
una prontezza a praticarle, ed insieme ci compartisce una gran pace, e così ci
rende facile e dolce il cammino della perfezione. Sovratutto niun sagramento
infiamma tanto le anime dell'amor divino, quanto il sagramento dell'Eucaristia,
ove Gesù Cristo a questo fine ci dona tutto se stesso, per unirci tutti a lui
per mezzo del santo amore. Quindi dicea il Ven. P. Gio. d'Avila: «Chi allontana
le anime dalla frequente comunione fa l'officio del demonio». Sì, perchè il
demonio molto odia questo Sagramento da cui ricevono le anime gran forza per
avanzarsi nel divino amore.
27. Per far bene poi la comunione vi bisogna il conveniente
apparecchio. — Il primo apparecchio, o sia l'apparecchio rimoto, per poter
frequentare la comunione quotidiana o di più volte la settimana, è l'astenersi
1. da ogni difetto deliberato, cioè commesso ad occhi aperti. 2. È l'esercizio
di molta orazione mentale. 3. È la mortificazione de' sensi e delle
passioni.
Insegna S. Francesco di Sales nella sua Filotea (al capo 20):
«Chi avesse superato la maggior parte delle sue male inclinazioni, e fosse
giunto a notabil grado di perfezione, potrebbe comunicarsi ogni giorno». S.
Tommaso l'Angelico insegna che ben può far la comunione quotidiana chi ha la
sperienza che comunicandosi gli si aumenta il fervore del santo amore (Dist. 2.
q. 13. a. 1. fol. 2.). Quindi disse Innocenzo XI nel mentovato decreto che la
frequenza maggiore o minore della comunione dee determinarla il confessore che
in ciò dovrà regolarsi secondo il profitto che vede ricavarsi dalle anime da lui
dirette.
L'apparecchio prossimo poi alla comunione è quello che si fa
nella stessa mattina della comunione, per cui vi bisogna almeno una mezz'ora di
orazione mentale.
28. Inoltre per ritrarre gran frutto dalla comunione è
necessario un lungo ringraziamento. Dicea San Giov. d'Avila che il tempo dopo
la comunione è «tempo di guadagnar tesori di grazie». S. Maria Maddalena de'
Pazzi dicea che non vi è tempo più atto ad infiammarci di amor divino che il
tempo dopo che ci siamo comunicati. E S. Teresa scrisse: «Dopo la comunione non
perdiamo così buona occasione di negoziare con Dio. Non suole Sua Divina Maestà
mal pagare l'alloggio se gli vien fatta buona accoglienza».
29. Certe anime pusillanimi, esortate dal confessore a
comunicarsi più spesso, rispondono: Ma io non ne son degna. Ma non
sapete, sorella, che quanto più state a comunicarvi più ve ne rendete indegna?
perchè senza la comunione avrete meno forza, e commetterete più difetti. Eh via,
ubbidite al vostro direttore e lasciatevi da lui guidare: i difetti non
impediscono la comunione quando non sono pienamente volontari: oltrechè tra'
vostri difetti il maggiore è questo, il non ubbidire a quel che vi dice il padre
spirituale.
30. Ma io per lo passato ho fatta una mala vita. E non
sapete, vi rispondo, che chi sta più infermo ha più bisogno del medico e della
medicina? Gesù nel Sagramento è medico e medicina. Dicea S. Ambrogio: Quia
semper pecco, debeo semper habere medicinam (De sacr. c. 6). — Dirà: Ma
il confessore non mi dice ch'io mi comunichi più spesso. E se esso non ve lo
dice, cercategli voi la licenza di comunicarvi più spesso. Se egli poi ve la
nega, ubbidite; ma frattanto fategli la richiesta. — Pare superbia.
Sarebbe superbia se voleste comunicarvi contra il suo parere, ma non quando voi
con umiltà glielo domandate. Questo pane celeste desidera fame. Gesù vuol essere
desiderato, sitit sitiri, dice un divoto scrittore. Eh che il pensare,
oggi mi son comunicato o domani mi ho da comunicare, oh come tiene
l'anima attenta questo pensiero a fuggire i difetti e far la divina volontà! —
Ma io non ho fervore. Se parlate del fervore sensibile, questo non è
necessario, nè Dio lo dà sempre anche all'anime sue dilette; basta che abbiate
il fervore di una volontà risoluta di esser tutta di Dio e di avanzarvi nel
divino amore. Dice Gio. Gersone che chi si astiene dalla comunione per non
sentire quella divozione che vorrebbe sentire, fa come colui che non si accosta
al fuoco per non sentirsi caldo.
31. Ah Dio mio, che molte anime per non impegnarsi a vivere con
più raccoglimento e maggior distacco dalle cose terrene, lasciano di chiedere la
comunione; e questa è la vera ragione di non voler comunicarsi più spesso.
Conoscono che colla comunione frequente non conviene quel voler comparire,
quella vanità di vestire, quello stare attaccati alla gola, alle comodità ed
alle conversazioni di spasso: conoscono che vi vorrebbe più orazione, più
mortificazione interna ed esterna, più ritiratezza: e perciò si vergognano di
accostarsi più spesso all'altare. Non ha dubbio che a tali anime sta bene
l'astenersi dalla frequente comunione ritrovandosi in questo misero stato di
tepidezza; ma da questa tepidezza dee in ogni conto uscirne chi, essendo
chiamato a vita più perfetta, non vuol mettere in gran pericolo la sua eterna
salute.
32. Giova ancor molto, per conservare l'anima in fervore, il
fare spesso la comunione spirituale, tanto lodata dal Concilio di Trento (Sess.
13, c. 8), ove si esortano tutti i fedeli a praticarla. — La comunione
spirituale, come dice S. Tommaso (3. p. q. 80. a. 1. ad 3) consiste in un
ardente desiderio di ricever Gesù Cristo nel Sagramento; e perciò i santi han
soluto farla più volte il giorno. Il modo di farla è questo: Gesù mio, io vi
credo nel SS. Sagramento. Vi amo e vi desidero; venite all'anima mia. Io
v'abbraccio, e vi prego a non permettere ch'io m'abbia a separar mai da voi.
Più breve: Gesù mio venite a me, io vi desidero, vi abbraccio, stiamoci
sempre uniti. — Questa comunione spirituale si può praticare più volte il
giorno, quando si fa l'orazione, quando si fa la visita al SS. Sagramento, e
specialmente quando si assiste alla Messa nel punto che si comunica il
sacerdote. Dicea la B. Agata della Croce domenicana: «Se il confessore non mi
avesse insegnato questo modo di così comunicarmi più volte il giorno, io non mi
sarei fidata di vivere».
33. Il quinto mezzo, e 'l più necessario per la vita
spirituale e per acquistar l'amore di Gesù Cristo, è il mezzo della
preghiera.
Io dico primieramente che in questo mezzo Iddio ci fa conoscere
il grande amor che ci porta. Qual prova maggiore d'affetto può dare una persona
ad un amico, che dirgli: «Amico mio, cercami tutto quello che vuoi, e da me
l'avrai»? Or questo appunto ci dice il Signore: Petite, et dabitur vobis:
quaerite, et invenietis (Luc. XI, 9). Quindi la preghiera si chiama
onnipotente appresso Dio per impetrar ogni bene: Oratio cum sit una omnia
potest, scrisse Teodoreto. Chi prega ottiene da Dio quanto vuole. Son belle
le parole di Davide: Benedictus Deus qui non amovit orationem meam et
misericordiam suam a me (Ps. LXV, 20). Chiosando S. Agostino questo passo
dice: «Quando vedi che non manca in te la preghiera, sta sicuro che non ti
mancherà la divina misericordia». E S. Gio. Grisostomo aggiunge: Semper
obtinetur, etiam dum adhuc oramus: Quando noi preghiamo il Signore, prima
che terminiamo di pregare egli ci dona la grazia che cerchiamo. Se dunque siamo
poveri, non ci lamentiamo che di noi, mentre siamo poveri perchè vogliamo esser
poveri, e perciò non meritiamo compassione. Qual compassione può meritare un
mendico che avendo un signor molto ricco il quale vuol provvederlo di tutto
purchè glielo domandi, esso vuol restarsi nella sua povertà per non chiedere ciò
che gli bisogna? Ecco, dice l'Apostolo, il nostro Dio che sta pronto ad
arricchire ognun che lo chiama: Dives in omnes qui invocant illum (Rom.
X, 12).
34. Sicchè l'umile preghiera ottiene tutto da Dio; ma bisogna
insiem sapere che quanto ella ci è utile, altrettanto ci è necessaria per
salvarci.
È certo che per vincer le tentazioni de' nemici abbiamo assoluto
bisogno del divino aiuto; e talvolta in certi insulti più veementi, la grazia
sufficiente che Iddio dona a tutti potrebbe bastarci a resistere, ma per la
nostra mala inclinazione non basterà, e vi bisognerà una grazia speciale. Chi
prega l'ottiene, ma chi non prega non l'ottiene e si perde. E parlando
singolarmente della grazia della perseveranza finale, di morire in grazia di
Dio, ch'è la grazia assolutamente necessaria alla nostra salute, senza la quale
saremo perduti in eterno, dice S. Agostino che questa grazia Iddio non la dona
se non a chi prega. E questa è la ragione per cui tanti pochi si salvano; perchè
pochi son quelli che attendono a cercare a Dio questa grazia della
perseveranza.
35. In somma dicono i SS. Padri che a noi la preghiera è
necessaria non solo di necessità di precetto — per cui dicono i dottori che chi
trascura per un mese di raccomandare a Dio la sua salute eterna non è scusato da
peccato mortale — ma anche di necessità di mezzo; viene a dire che chi non prega
è impossibile che si salvi. E la ragione in breve si è perchè non possiamo
ottener la salute senza l'aiuto delle divine grazie, e queste grazie non le
concede Iddio se non a chi prega. E perchè in noi le tentazioni ed i pericoli di
cadere in disgrazia di Dio sono continui, continue ancora hanno da essere le
nostre preghiere.
Onde scrisse S. Tommaso che all'uomo per salvarsi è necessario
un continuo pregare: Necessaria est homini iugis oratio, ad hoc quod caelum
introeat (3. p. q. 39. a. 5). E prima lo disse Gesù Cristo: Oportet
semper orare et non deficere (Luc. XVIII, 1); ed indi l'Apostolo: Sine
intermissione orate (I Thess. V, 17). In quello spazio che intermetteremo di
raccomandarci a Dio, il demonio ci vincerà. La grazia della perseveranza,
sebbene da noi non può meritarsi, come insegna il Concilio di Trento (Sess. 6,
cap. 13), nulladimeno dice S. Agostino che, col pregare, in certo modo ella può
meritarsi: Hoc Dei donum perseverantiae suppliciter emereri potest, id est
supplicando impetrari (De dono persev. c. 6). Il Signore vuol dispensarci le
sue grazie, ma vuol essere pregato, anzi, come scrive S. Gregorio, vuol esser
importunato e quasi costretto colle nostre preghiere: Vult Deus orari, vult
cogi, vult quodam modo importunitate vinci.
E dicea S. Maria Maddalena de'
Pazzi che quando noi cerchiamo grazie a Dio, non solo egli ci esaudisce, ma in
certo modo ci ringrazia. Sì, perchè essendo Dio una bontà infinita che brama di
diffondersi agli altri, ha per così dire un infinito desiderio di dispensarci i
suoi beni; ma vuol essere pregato: onde quando si vede pregato da una anima, è
tanto il compiacimento che ne riceve, che in certo modo esso ne la
ringrazia.
36. Dunque se vogliamo conservarci sempre in grazia di Dio sino
alla morte, bisogna che sempre facciamo i pezzenti e teniamo la bocca aperta a
pregare Dio che ci aiuti, replicando sempre: Gesù mio, misericordia: non
permettete ch'io mi abbia a separare da voi: Signore, assistetemi: Dio mio,
aiutatemi. Questa era la continua orazione che praticavano i padri antichi nel
deserto: Deus, in adiutorium meum intende: Domine, ad adiuvandum me
festina (Ps. LXIX, 2): Signore, aiutami ed aiutami presto, perchè se
trattieni ad aiutarmi, io cadrò e mi perderò. E ciò bisogna farlo specialmente
in tempo di tentazioni: chi non fa così, è perduto.
37. Ed abbiamoci gran fede alla preghiera. È promessa di Dio
d'esaudir chi lo prega: Petite et accipietis (Io. XVI, 24). Che
dubitiamo, dice S. Agostino, giacchè il Signore colla promessa fatta si è
obbligato e non può mancare di farci le grazie che gli cerchiamo? Promittendo
debitorem se fecit (De verb. Dom. serm. 2). Quando ci raccomandiamo a Dio,
bisogna che allora abbiamo una confidenza certa che Dio ci esaudisce, ed
otterremo quanto vogliamo. Ecco quel che dice Gesù Cristo: Omnia quaecumque
orantes petitis, credite quia accipietis, et evenient vobis (Marc. XI,
24).
38. Ma io son peccatore, dirà taluno, non merito di
essere esaudito. Ma Gesù Cristo dice: Omnis... qui petit accipit
(Luc. XI, 10): Ognuno che cerca ottiene: ognuno, o sia giusto o peccatore.
Insegna S. Tommaso che la forza della preghiera ad ottenerci le grazie non
consiste ne' meriti nostri, ma nella misericordia di Dio che ha promesso di
esaudir chi lo prega: Oratio in impetrando non innititur nostris meritis; sed
soli divinae misericordiae (2. 2. q. 178. a. 2 ad 1). E 'l nostro Salvatore,
per toglierci ogni timore quando preghiamo, ci disse: Amen, amen dico vobis,
si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis (Io. XVI, 23); come
dicesse: Peccatori, voi non avete meriti da ottener le grazie, onde fate così:
quando volete le grazie, chiedetele a mio Padre in nome mio, cioè per li meriti
miei e per amor mio, e poi cercate quanto volete e vi sarà dato. Ma notiamo
quella parola, in nomine meo, viene a dire, come spiega S. Tommaso, in
nomine Salvatoris, cioè che le grazie che domandiamo hanno da essere grazie
spettanti alla salute eterna; e perciò bisogna avvertire che la promessa non è
per le grazie temporali: queste, quando sono utili alla salute eterna, il
Signore ce le concede, e quando no, ce le nega. Onde le grazie temporali bisogna
che le cerchiamo sempre colla condizione, se hanno da giovare all'anima. Ma
quando sono grazie spirituali, allora non ci vuol condizione, ma confidenza e
confidenza certa, dicendo: Padre eterno, in nome di Gesù Cristo liberatemi da
questa tentazione, datemi la santa perseveranza, datemi l'amor vostro, datemi il
paradiso. Queste grazie possiamo cercarle anche a Gesù Cristo in nome suo, cioè
per li meriti suoi, perchè anche di ciò vi è la promessa di Gesù Cristo: Si
quid petieritis me in nomine meo, hoc faciam (Io. XIV, 14). E quando
preghiamo Dio, ricordiamoci di raccomandarci ancora alla dispensiera delle
grazie Maria. Dice S. Bernardo che Iddio è quegli che fa le grazie, ma le fa per
mano di Maria: Quaeramus gratiam et per Mariam quaeramus, quia quod quaerit
invenit, et frustrari non potest (Serm. de aquaeduct.). Se Maria prega
ancora per noi, siam sicuri, perchè le preghiere di Maria son tutte esaudite, nè
hanno mai ripulsa.
Affetti e preghiere.
Gesù amor mio, io risolutamente voglio amarvi quanto posso, e
voglio farmi santo; e perciò voglio farmi santo, per darvi gusto ed amarvi assai
in questa e nell'altra vita. Io non posso niente, ma voi potete tutto, e so che
mi volete santo. Vedo già che per grazia vostra l'anima mia per voi sospira e
non va cercando altro che voi. Io non voglio vivere più a me stesso; voi mi
desiderate tutto vostro, ed io tutto vostro voglio essere. Venite, ed unite me a
voi e voi a me. Voi siete una bontà infinita, voi siete quello che tanto mi
avete amato; siete per tanto troppo amante e troppo amabile; come dunque potrò
io amare altra cosa che voi? Io preferisco il vostro amore a tutte le cose del
mondo; voi siete l'unico oggetto, l'unico segno di tutti gli affetti miei. Io
lascio tutto per impiegarmi nell'amar solo voi, mio Creatore, mio Redentore, mio
consolatore, mia speranza, mio amore e mio tutto.
Non voglio diffidarmi di farmi santo per l'offese che negli
anni passati vi ho fatte; so che voi, Gesù mio, siete morto per perdonare chi si
pente. Io v'amo ora con tutta l'anima mia, v'amo con tutto il cuore, v'amo più
di me stesso, e mi pento più d'ogni male di aver disprezzato voi, sommo
bene.
Ora non sono più mio, son vostro: o Dio del mio cuore,
disponete di me come vi piace. Accetto, per darvi gusto, tutte le tribulazioni
che volete mandarmi, infermità, dolori, angustie, ignominie, povertà,
persecuzioni, desolazioni, tutte l'accetto per darvi gusto: come anche accetto
quella morte che mi avete preparata, con tutte le angoscie e croci che
l'accompagneranno: basta che mi concediate la grazia di amarvi assai. Datemi
aiuto, datemi forza di compensare in questa vita che mi resta, col mio amore, le
amarezze che vi ho date per lo passato, o unico amore dell'anima mia.
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CAPITOLO VII Caritas non aemulatur. L'anima che ama Gesù Cristo non invidia i grandi del mondo, ma solamente coloro che più amano Gesù Cristo.
Caritas non aemulatur.
L'anima che ama Gesù Cristo
non invidia i grandi del mondo, ma solamente coloro che più amano Gesù Cristo.
1. Spiega S. Gregorio quest'altro contrassegno della carità, e
dice che la carità non invidia, poichè non sa invidiare a' mondani quelle
terrene grandezze ch'ella non desidera, ma disprezza: Non aemulatur, quia per
hoc quod in praesenti mundo nihil appetit, invidere terrenis successibus
nescit (Mor. l. 10. c. 8). Quindi bisogna distinguere due sorta di
emulazioni, una malvagia e l'altra santa. La malvagia è quella che invidia e si
rattrista per li beni mondani che gli altri possedono in questa terra.
L'emulazione poi santa è quella che non già invidia, ma più tosto compatisce i
grandi di questo mondo che vivono tra gli onori e piaceri terreni. Ella non
cerca nè desidera altro che Dio, ed altro non pretende in questa vita che di
amarlo quanto può; e perciò santamente invidia chi l'ama più di lei, mentr'ella
nell'amarlo vorrebbe superare anche i serafini.
2. Questo è quell'unico fine che hanno in terra le anime sante,
fine che innamora e ferisce di amore talmente il cuore di Dio che gli fa dire:
Vulnerasti cor meum, soror mea sponsa, vulnerasti cor meum in uno oculorum
tuorum (Cant. IV, 9). Quell'uno degli occhi significa l'unico fine che ha
l'anima sposa in tutti i suoi esercizi e pensieri, di piacere a Dio. Gli uomini
del mondo nelle loro azioni guardano le cose con più occhi, cioè con diversi
fini disordinati, di piacere agli uomini, di farsi onore, di acquistar ricchezze
e, se non di altro, di contentare se stessi; ma i santi non hanno che un occhio,
per guardare in tutto ciò che fanno il solo gusto di Dio; e dicono con Davide:
Quid... mihi est in caelo? et a te quid volui super terram?... Deus cordis
mei, et pars mea Deus in aeternum (Ps. LXXII, 25 et 26): che altro io
voglio, mio Dio, in questo e nell'altro mondo, se non voi solo? Voi solo siete
la mia ricchezza, voi l'unico signore del mio cuore. Si godano pure, dicea san
Paolino, i ricchi i loro tesori di terra, si godano i re i loro regni, voi, Gesù
mio, siete il mio tesoro e 'l regno mio: Habeant sibi divitias suas divites,
regna sua reges, Christus mihi gloria et regnum est.
3. Quindi avvertiamo che non basta fare opere buone, ma bisogna
farle bene. Acciocchè le opere nostre sian buone e perfette è necessario farle
col puro fine di piacere a Dio. Questa fu la degna lode che fu data a Gesù
Cristo: Bene omnia fecit (Marc. VII, 37). Molte azioni saranno in sè
lodevoli, ma perchè saran fatte per altro fine che della divina gloria, poco o
niente varranno appresso Dio. Dicea S. Maria Maddalena de' Pazzi: «Iddio
rimunera le nostre opere a peso di purità». Viene a dire che secondo è pura la
nostra intenzione, così il Signore gradisce e premia le nostre azioni. Ma oh
Dio, e quanto è difficile a trovare un'azione fatta solo per Dio! Io mi ricordo
d'un santo religioso vecchio che molto avea faticato per Dio e morì in concetto
di santità; ora costui un giorno, dando un'occhiata alla sua vita, tutto mesto
ed atterrito mi disse: «Oimè, che guardando tutte le opere di mia vita, non ne
trovo una fatta solo per Dio». Maledetto amor proprio che ci fa perdere o tutto
o la maggior parte del frutto delle nostre buone azioni. Quanti nei loro
impieghi più santi di predicatori, confessori, missionari, faticano, stentano, e
poco o niente guadagnano, perchè non guardano Dio solo, ma la gloria mondana o
l'interesse o la vanità di comparire o almeno la propria inclinazione!
4. Dice il Signore: Attendete a non fare il bene per essere
veduti dagli uomini, altrimenti non avrete alcun premio dal Padre celeste:
Attendite ne iustitiam vestram faciatis coram hominibus, ut videamini ab eis:
alioquin mercedem non habebitis apud Patrem vestrum, qui in caelis est
(Matth. VI, 1). Chi fatica per contentare il suo genio, già riceve il suo
premio: Amen dico vobis, receperunt mercedem suam (Ibid. 5). Mercede però
che si riduce ad un poco di fumo o ad una effimera soddisfazione che presto
passa, e niente profitto ne resta all'anima. Dice il profeta Aggeo che chi
fatica per altro che per piacere a Dio, ripone le sue mercedi in un sacco rotto
che quando va ad aprirlo niente più vi ritrova: Et qui mercedes congregavit
misit eas in sacculum pertusum (Agg. I, 6). E da ciò poi nasce che costoro,
se dopo le loro fatiche non ottengono l'intento di qualche cosa che imprendono,
molto s'inquietano. Questo è il segno che non hanno avuto per fine la sola
gloria di Dio: chi fa un'opera per la sola gloria di Dio, ancorchè poi quella
non riesca, niente si turba: mentre egli già ha ottenuto il suo fine di dar
gusto a Dio, avendo operato con retta intenzione.
5. Ecco i segni per vedere se uno che s'impiega in qualche
affare spirituale opera solo per Dio. 1º Se non si disturba allorchè non ottiene
l'intento, perchè non volendolo Dio neppur egli lo vuole. 2º Se gode egualmente
del bene che han fatto gli altri, come se esso l'avesse fatto. 3º Se non
desidera più un impiego che un altro, ma gradisce quello che vuole l'ubbidienza
de' superiori. 4º Se dopo le sue operazioni non cerca dagli altri nè
ringraziamenti nè approvazioni: e perciò se mai dagli altri ne vien mormorato o
disapprovato, non si affligge, contentandosi solamente di aver contentato Dio. E
se mai ne riceve qualche lode dal mondo, non se ne invanisce, ma risponde alla
vanagloria che gli si presenta innanzi per esser accettata, ciò che le rispondea
il Ven. Giovanni d'Avila: «Va via, sei arrivata tardi, perchè l'opera già me la
trovo data tutta a Dio».
6. Questo è l'entrare nel gaudio del Signore, cioè godere del
godimento di Dio, come sta promesso ai servi fedeli: Euge, serve bone et
fidelis quia super pauca fuisti fidelis... intra in gaudium domini tui
(Matth. XXV, 23). Ma se noi arriviamo ad aver la sorte di fare qualche cosa che
piace a Dio, dice il Grisostomo, che altro andiamo cercando? Si dignus fueris
agere aliquid quod Deo placet, aliam praeter id mercedem requiris? (Chrys.
L. 2. de Compunct. cord.). Questa è la maggior mercede, la maggior fortuna a cui
può giungere una creatura, il dar gusto al suo Creatore.
7. E ciò è quello che pretende Gesù Cristo da un'anima che
l'ama: Pone me, le dice, ut signaculum super cor tuum, ut signaculum
super brachium tuum (Cant. VIII, 6). Vuole che lo metta come segno sopra il
suo cuore e sopra il suo braccio: sopra il suo cuore, acciocchè quanto ella
medita di fare, intenda di farlo sol per amore di Dio; sopra il suo braccio,
acciocchè quanto opera, tutto lo faccia per dar gusto a Dio; sicchè Dio sia
sempre l'unico scopo di tutti i suoi pensieri e di tutte le sue azioni. Dicea S.
Teresa che chi vuol farsi santo bisogna che viva senza altro desiderio che di
dar gusto a Dio. E la sua prima figlia, la Ven. Beatrice dell'Incarnazione,
dicea: «Non v'è prezzo con cui possa pagarsi qualunque cosa, benchè minima,
fatta per Dio». E con ragione, perchè tutte le cose fatte per piacere a Dio sono
atti di carità che ci uniscono a Dio e ci acquistano beni eterni.
8. Dicesi che la purità d'intenzione è l'alchimia celeste per
la quale il ferro diventa oro, cioè le azioni più triviali, come il lavorare, il
cibarsi, il ricrearsi, il riposare, fatte per Dio, diventano oro di santo amore.
Quindi credea per certo S. Maria Maddalena de' Pazzi che quei che fanno con pura
intenzione tutto quel che fanno, vadano diritto in paradiso senza entrar nel
purgatorio. Si narra nell'Erario Spirit. (to. 4. cap. 4) che un santo solitario
prima di fare qualunque azione solea fermarsi per un poco ed alzare gli occhi al
cielo. Richiesto perchè ciò facesse, rispose: «Procuro di accertare il colpo». E
volea dire che siccome il sagittario prima di scoccar la saetta prende la mira
per indovinare il tiro, così egli prima di metter mano a qualunque azione
prendea di mira Iddio, acciocchè quell'opera riuscisse di suo piacere. Così
dobbiamo fare ancor noi; anzi nel proseguire l'opera incominciata è bene che
rinnoviamo da quando in quando l'intenzione di dar gusto a Dio.
9. Quei che ne' loro affari non guardano altro che il volere
divino godono quella santa libertà di spirito che hanno i figli di Dio, la quale
fa che abbraccino ogni cosa che piace a Gesù Cristo, non ostante qualunque
ripugnanza dell'amor proprio o del rispetto umano. L'amore a Gesù Cristo mette i
suoi amanti in una totale indifferenza, per cui tutto ad essi è eguale, il dolce
e l'amaro: niente vogliono di quel che piace a se stessi, e tutto vogliono di
quel che piace a Dio. Colla stessa pace s'impiegano nelle cose grandi e nelle
picciole, nelle cose grate e nelle dispiacevoli: basta loro che piacciano a
Dio.
10. Molti all'incontro voglion servire a Dio, ma in
quell'impiego, in quel luogo, con quei compagni, con quelle circostanze,
altrimenti o lasciano l'opera o la fanno di mala voglia. Questi non hanno la
libertà di spirito, ma sono schiavi dell'amor proprio, e perciò poco meritano
anche in ciò che fanno; e vivono inquieti, mentre riesce loro grave il giogo di
Gesù Cristo. I veri amanti di Gesù Cristo amano di fare solo quel che piace a
Gesù Cristo, e perchè piace a Gesù Cristo; quando vuole, dove vuole e nel modo
che vuole Gesù Cristo; ed o che voglia Gesù Cristo impiegarli in una vita
onorata dal mondo, o in una vita oscura e negletta. Ciò importa l'amar Gesù
Cristo con puro amore; ed in ciò noi dobbiamo affaticarci, combattendo contra
gli appetiti dell'amor proprio che vorrebbe vederci occupati in opere grandi di
onore e di nostra inclinazione.
11. E bisogna che siamo distaccati da tutti gli esercizi anche
spirituali, quando il Signore ci vuole impiegati in altre opere di suo gusto. Un
giorno il P. Alvarez, trovandosi molto occupato, desiderava sbrigarsene per
andare a fare orazione, poichè gli parea che in quel tempo egli non era con Dio;
ma il Signore allora gli disse: «Quantunque io non ti tenga meco, ti basti che
io mi serva di te». Ciò vale per quelle persone che talvolta s'inquietano per
vedersi obbligate dall'ubbidienza o dalla carità a lasciare le loro solite
divozioni: sappiano che tal inquietudine allora certamente non viene da Dio, ma
viene o dal demonio o dal loro amor proprio. Diasi gusto a Dio, e si muoia.
Questa è la prima massima de' santi.
Affetti e preghiere.
Eterno mio Dio, io vi offerisco tutto il mio cuore; ma oh Dio,
e qual cuore vi offerisco? Cuore bensì creato per amarvi, ma che, in vece
d'amarvi, tante volte si è ribellato da voi. Ma guardate, Gesù mio, che se un
tempo questo mio cuore vi è stato ribelle, ora sta tutto addolorato e pentito
de' disgusti che vi ha dati. Sì, mio caro Redentore, mi pento di avervi
disprezzato, e sto risoluto di volervi ubbidire ed amare ad ogni costo. Deh
tiratemi tutto al vostro amore; fatelo per quell'amore che mi portaste morendo
in croce per me.
V'amo, Gesù mio, v'amo con tutta l'anima, v'amo più di me
stesso, o vero, o unico amante dell'anima mia, mentre non trovo altri che voi
che per amor mio avete sacrificata la vita.
Mi fa piangere il vedere l'ingratitudine che vi ho usata.
Povero me, io già mi era perduto, ma spero che voi colla grazia vostra mi
abbiate restituita la vita. Questa sarà la mia vita, l'amarvi sempre, sommo mio
bene.
Fate ch'io v'ami, o amore infinito, e niente più vi
dimando.
O Maria, madre mia, accettatemi per vostro servo, e fatemi
accettare da Gesù vostro figlio.
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CAPITOLO VI Caritas benigna est. Chi ama Gesù Cristo ama la dolcezza.
Caritas benigna est.
Chi ama Gesù Cristo ama la dolcezza.
1. Lo spirito di dolcezza è proprio di Dio: Spiritus enim
meus super mel dulcis (Eccli. XXIV, 27). Quindi l'anima amante di Dio ama
tutti coloro che sono amati da Dio, quali sono i nostri prossimi; onde
volentieri va sempre cercando di soccorrer tutti, consolar tutti, e tutti
contentar, per quanto l'è permesso. Dice S. Francesco di Sales che fu il maestro
e l'esempio della santa dolcezza: «L'umile dolcezza è la virtù delle virtù che
Dio tanto ci ha raccomandata; perciò bisogna praticarla sempre e da per tutto».
Onde il santo ci dà poi questa regola: «Ciò che vedrete potersi far con amore,
fatelo; e ciò che non può farsi senza contrasto, lasciatelo». S'intende sempre
che può lasciarsi senza offesa di Dio, perchè l'offesa di Dio dee impedirsi
sempre e subito che si può, da chi è tenuto ad impedirla.
2. Questa dolcezza dee specialmente praticarsi co' poveri, i
quali ordinariamente, perchè son poveri, son trattati aspramente dagli uomini.
Dee usarsi particolarmente ancora cogli infermi i quali si trovano afflitti
dall'infermità, e per lo più sono poco assistiti dagli altri. Più
particolarmente poi dee usarsi la dolcezza coi nemici. Vince in bono
malum (Rom. XII, 21). Bisogna vincer l'odio coll'amore, e la persecuzione
colla dolcezza; così han fatto i santi, e si han conciliato l'affetto de' loro
più ostinati nemici.
3. «Non vi è cosa, dice S. Francesco di Sales, che tanto
edifichi i prossimi, quanto la caritatevole benignità nel trattare». Il santo
perciò ordinariamente facea vedersi colla bocca a riso e colla faccia che
spirava benignità, accompagnata dalle parole e dai gesti. Onde dicea S. Vincenzo
de' Paoli non aver egli conosciuto uomo più benigno. Dicea di più sembrargli che
monsignor di Sales avesse l'immagine espressa della benignità di Gesù Cristo.
Egli anche nel negare quel che non potea concedere senza offesa della coscienza,
si dimostrava talmente benigno, che gli altri, benchè non avessero l'intento, ne
partivano affezionati e contenti. Era egli benigno con tutti, co' superiori, co'
suoi eguali e cogl'inferiori, in casa e fuor di casa. A differenza di coloro,
come lo stesso santo dicea, che sembrano angeli fuori di casa e demoni in
casa. Anche trattando co' servi, il santo non si lagnava mai de' loro
mancamenti; appena qualche volta gli avvertiva, ma sempre con parole benigne.
Cosa molto lodevole a tutti i superiori. Il superiore dee usare tutta la
benignità co' suoi sudditi. Nell'imponere ciò che quelli hanno da eseguire, dee
più presto pregare che comandare. Dicea S. Vincenzo de' Paoli: «Non v'è modo a'
superiori di esser meglio ubbiditi da' sudditi, che la dolcezza». E parimente S.
Giovanna di Chantal dicea: «Ho sperimentato più modi nel governo, ma non ho
trovato migliore che il dolce e sofferente».
4. Anche nel riprendere i difetti, il superiore dee essere
benigno. Altro è il riprendere con fortezza, altro il riprendere con asprezza;
bisogna talvolta riprendere con fortezza, quando il difetto è grave, e
specialmente quando è replicato, dopo che il suddito n'è stato già ammonito; ma
guardiamoci di riprender mai con asprezza ed ira; chi riprende con ira fa più
danno che profitto. Questo è quel zelo amaro riprovato da S. Giacomo. Taluni si
vantano di tener la famiglia a registro col modo aspro che usano, e dicono che
così bisogna governare; ma non dice così S. Giacomo: Quod si zelum amarum
habetis,... nolite gloriari (Iac. III, 14). Se mai in qualche caso raro
bisognasse dire qualche parola aspra per indurre il difettoso ad apprender la
gravezza del suo difetto, sempre non però all'ultimo bisogna lasciarlo colla
bocca dolce, con qualche parola benigna. Bisogna sanar le ferite, come fece il
Samaritano del Vangelo, col vino e coll'olio. «Ma siccome l'olio, dicea S.
Francesco di Sales, va sempre di sopra tutti i liquori, così bisogna che in
tutte le nostre azioni vada sopra la benignità». E quando avviene che la persona
la quale dee esser corretta sta disturbata, bisogna allora trattener la
riprensione ed aspettare che cessi la sua collera, altrimenti più la
provocheremo a sdegnarsi. Dicea S. Giovanni canonico regolare: «Quando la casa
arde non bisogna aggiunger legna al fuoco».
5. Nescitis cuius spiritus estis (Luc. IX, 55). Così
disse Gesù Cristo a' suoi discepoli Giacomo e Giovanni, allorchè essi voleano
che fossero corretti con castighi i Samaritani, i quali gli aveano discacciati
dal lor paese. Ah, disse loro il Signore, e quale spirito è questo? Questo non è
lo spirito mio, il quale è tutto dolce e benigno; giacchè io non son venuto a
perdere, ma a salvare le anime: Filius hominis non venit animas perdere sed
salvare (Ibid. 56). E voi volete indurmi a perderle? Tacete, e non mi fate
più simili domande, perchè non è questo lo spirito mio. — Ed in fatti con quanta
dolcezza Gesù Cristo trattò l'adultera! Mulier, le disse, nemo te
condemnavit? nec ego te condemnabo: Vade, et iam amplius noli peccare (Io.
VIII, 10 et 11). Si contentò di solo ammonirla a non più peccare, e la mandò in
pace. Con quanta benignità parimente cercò di convertire la Samaritana, e così
già la convertì. Prima le domandò da bere; dipoi le disse: Oh sapessi tu chi
è colui che ti cerca da bere! Indi le rivelò ch'egli era il Messia
aspettato. In oltre con quanta dolcezza procurò di convertire l'empio Giuda,
ammettendolo a mangiare nello stesso suo piatto, lavandogli i piedi, ed
avvertendolo nell'atto stesso del suo tradimento: Giuda, così con un bacio mi
tradisci? Iuda, osculo Filium hominis tradis? (Luc. XXII, 48). Come poi
convertì Pietro, dopo che Pietro l'avea rinnegato? Eccolo: Conversus Dominus
respexit Petrum (Ibid. 61). In uscir dalla casa del pontefice, senza
rimproverargli il suo peccato, lo mirò con un tenero sguardo, e così lo
convertì; e lo convertì in modo, che Pietro finchè visse non lasciò mai di
piangere l'ingiuria fatta al suo maestro.
6. Oh quanto si guadagna più colla dolcezza che coll'amarezza!
Dicea S. Francesco di Sales che non v'è cosa più amara della noce; ma se quella
si confetta, diventa dolce ed amabile: così le correzioni, benchè sono in sè
dispiacenti, nondimeno quando si fanno con amore e dolcezza, diventano
gradevoli, e così riescono di maggior profitto. Narrava di sè S. Vincenzo de'
Paoli che nel governo tenuto nella sua congregazione non aveva mai corretto
alcuno con asprezza, se non tre volte credendo aver avuto ragione di farlo, ma
che poi sempre se n'era pentito, perchè sempre gli era riuscito male; dove il
correggere con dolcezza sempre gli era riuscito bene.
7. S. Francesco di Sales colla sua benignità ottenea dagli
altri quanto voleva; e così gli riusciva di tirar a Dio anche i peccatori più
ostinati. Lo stesso praticava S. Vincenzo de' Paoli, il quale insegnava a' suoi
questa massima: «L'affabilità, dicea, l'amore e l'umiltà mirabilmente si
guadagnano i cuori degli uomini, e gl'inducono ad abbracciare le cose più
ripugnanti alla natura». Una volta egli consegnò ad un padre de' suoi un gran
peccatore, affinchè l'avesse ridotto a penitenza; ma quel padre, per quanto
avesse faticato, niente profittò; onde pregò il santo a dirgli esso qualche
cosa. Allora gli parlò il santo e lo convertì. Quel peccatore disse poi che la
singolar dolcezza e carità del P. Vincenzo gli aveano guadagnato il cuore.
Quindi il santo non potea soffrire che i suoi missionari trattassero i penitenti
con asprezza, e dicea loro che lo spirito infernale si serve del rigore di
alcuni per maggiormente rovinare le anime.
8. Bisogna praticar la benignità con tutti, ed in ogni
occasione, ed in ogni tempo. Avverte S. Bernardo che taluni sono mansueti finchè
le cose avvengono a loro genio, ma appena poi che son toccati con qualche
avversità o contraddizione, subito si accendono, e cominciano a fumare come il
monte Vesuvio. Costoro posson dirsi carboni ardenti, ma nascosti sotto la
cenere. Chi vuol farsi santo bisogna che in questa vita sia come un giglio tra
le spine, che per quanto venga da quelle punto non lascia di esser giglio, cioè
sempre egualmente soave e benigno. L'anima amante di Dio conserva sempre la pace
nel cuore, e la dimostra anche nel volto, comparendo sempre eguale a se stessa
negli eventi, così prosperi come avversi, siccome cantò il cardinal
Petrucci:
Mira cangiarsi in variate forme
Fuori di sè le creature, e dentro
Il suo più cupo centro
Sempre unita al suo Dio vive uniforme.
9. Nelle cose avverse si conosce lo spirito di una persona. S.
Francesco di Sales amava con tenerezza l'ordine della Visitazione che gli
costava tante fatiche. Più volte egli lo vide in pericolo di perdersi per le
persecuzioni che pativa, ma il santo non perdè mai la sua pace, sempre contento
di vederlo anche distrutto, se così piaceva a Dio; ed allora fu che disse: «Da
qualche tempo in qua le tante opposizioni e contraddizioni che mi sono venute mi
recano una pace sì dolce che non ha pari, e mi presagiscono il prossimo
stabilimento dell'anima mia in Dio ch'è l'unico mio desiderio».
10. Quando ci occorre di dover risponder a chi ci maltratta,
stiamo attenti a rispondere sempre con dolcezza: Responsio mollis frangit
iram (Prov. XV, 1): una risposta dolce basta a spegnere ogni fuoco di
collera. E quando ci sentiamo sturbati, allora meglio è tacere, perchè allora ci
sembra giusto di dir quel che ci viene in bocca; ma sedata poi la passione,
vedremo che tutte le parole da noi proferite sono state difetti.
11. E quando accade che noi stessi commettiamo qualche difetto,
bisogna che ancora con noi medesimi usiamo la dolcezza: l'adirarci con noi dopo
il difetto commesso non è umiltà, ma è fina superbia, come se noi non fossimo
quei deboli e miserabili che siamo. Dicea S. Teresa: «Umiltà che inquieta non
viene mai da Dio, ma dal demonio». L'adirarci con noi stessi dopo il difetto è
un difetto più grande del difetto fatto, il quale porterà seco la conseguenza di
molti altri difetti: ci farà lasciare le nostre divozioni, l'orazione, la
comunione; e se le faremo riusciranno poco ben fatte. Dicea S. Luigi Gonzaga che
nell'acqua torbida più non si vede, ed ivi pesca il demonio. Quando l'anima sta
disturbata poco conosce Dio e quel che dee fare. Bisogna dunque, allorchè
cadiamo in qualche difetto, voltarsi a Dio con umiltà e confidenza, e,
cercandogli perdono, dirgli come dicea S. Caterina di Genova: «Signore, queste
sono l'erbe dell'orto mio». V'amo, con tutto il cuore, e mi pento di avervi dato
questo disgusto. Non voglio farlo più, datemi il vostro aiuto.
Affetti e preghiere.
O beate catene che legate le anime con Dio, deh stringete me
ancora, e stringetemi tanto che io non possa più sciogliermi dall'amore del mio
Dio!Gesù mio, io vi amo; v'amo, o tesoro, o vita dell'anima mia; a voi mi
stringo e vi dono tutto me stesso. No, che non voglio, amato mio Signore,
lasciarvi più d'amare. Voi che per pagare i miei peccati avete sofferto d'esser
legato qual reo, e così legato essere condotto per le vie di Gerusalemme alla
morte, voi che voleste essere inchiodato alla croce, e non la lasciaste se non
dopo avervi lasciata la vita, deh, per lo merito di tante pene, non permettete
ch'io mai abbia a separarmi da voi!
Mi pento più d'ogni male di avervi un tempo voltate le spalle,
e propongo colla grazia vostra di prima morire che darvi più disgusto nè grave
nè leggiero.
O Gesù mio, in voi mi abbandono. Io v'amo con tutto il cuore,
v'amo più di me stesso. Vi ho offeso per lo passato, ma ora me ne pento, e
vorrei morirne di dolore. Deh tiratemi tutto a voi. Io rinunzio a tutte le
consolazioni sensibili, voi solo voglio e niente più. Fate ch'io v'ami e poi
fate di me quel che vi piace.
O Maria, speranza mia, ligatemi a Gesù; e fate ch'io sempre
viva a lui ligato, e ligato muoia per venire un giorno al beato regno, dove non
avrò più timore di vedermi sciolto del suo santo
amore.
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