Vita di sant'Ignazio di Loyola | ||
Ignazio Lopez di Loyola, il fondatore dell'Ordine dei Gesuiti, nasce nel Castello di Loyola, nei Paesi baschi spagnoli, nel 1491. All'età di sedici anni fu paggio presso Juan Velazquez, il tesoriere del Regno di Castiglia. Proprio alla corte della famiglia Velazquez, ebbe modo di apprezzare il "bel mondo", maturando una particolare attenzione verso le donne. Amante del rischio, litigioso, non rinunciava a partecipare a duelli di scherma. Per alcuni anni indossò un abbigliamento da guerriero e non dimenticò mai di portare con sè una spada ed altri tipi di armi. Nella difesa di Pamplona, capitale della Navarra, contro i francesi, fu colpito da una palla di cannone che gli fratturò una gamba ferendogli anche l'altra (20 maggio 1521). Nella lunga e penosa convalescenza chiese libri di avventure cavalleresche, ma in casa si trovarono solo "La vita di Cristo", di Landolfo di Sassonia e "Leggenda Aurea" di Giacomo da Varazze. Rimase folgorato da quegli esempi e decise di darsi totalmente a Cristo. Maturò la sua conversione nel monastero di Montserrat. Raggiunse, poi, Manresa dove intraprese una vita molto ascetica e penitente. In particolare visse in una grotta vicino al fiume per dieci mesi, pregando e facendo l'elemosina. Qui gettò le basi del suo celebre libro, gli "Esercizi Spirituali", che successivamente perfezionò. Dopo un pellegrinaggio in Terra Santa, fortemente desideroso di servire Dio, Ignazio ritenne opportuno, al fine di assolvere questo fondamentale compito, acquisire una maggiore istruzione, soprattutto in teologia e in filosofia. Dopo un fallito tentativo di seguire gli studi a Manresa, si stabilì a Barcellona. Poi si spostò ad Alcalà. Poi arrivò all'Università di Parigi. A Parigi Ignazio conobbe un ragazzo basco chiamato Francesco Saverio ed uno francese Pierre Favre. Influenzati dal percorso spirituale di Ignazio i due ragazzi, insieme a molti altri studenti universitari, seguirono gli "Esercizi Spirituali" sotto la sua guida. A Montmartre fondò la Compagnia di Gesù e divenne sucessivamente sacerdote a Venezia. Stabilitosi a Roma, pose la Compagnia di Gesù a disposizione del Papa per la difesa della fede, la riforma della Chiesa e l'opera missionaria. Il Papa Paolo III riconobbe tale Compagnia come un ordine religioso della Chiesa Cattolica nel 1540. Ignazio dedicò la sua vita a dirigere la Compagnia, scrisse "Le Costituzioni" che regolarono la vita del neonato ordine, concluse gli "Esercizi Spirituali". Morì a Roma il 31 luglio 1556. Sarà beatificato da Paolo V nel 1609 e canonizzato da Gregorio XV nel 1622. Il 23 luglio 1637 fu collocato il corpo di sant'Ignazio in un'urna di bronzo dorato, nella Cappella di sant'Ignazio. La statua del Santo, in argento, è opera di Pierre II Le Gros (1666-1719). *** San Francesco Saverio "O Dio, che hai chiamato molti popoli dell’Oriente alla luce del Vangelo, con la predicazione apostolica di san Francesco Saverio, fa’ che ogni comunità cristiana arda dello stesso fervore missionario, perché su tutta la terra la santa Chiesa si allieti di nuovi figli. Per il nostro Signore Gesù Cristo..." Ripensiamo al ministero apostolico di san Francesco Saverio, per ammirare il dinamismo che lo animò sempre. San Francesco Saverio fu mandato nelle Indie, come dire, allora nel 1542 all'estremità del mondo, dove si arrivava con viaggi lunghissimi e pieni di pericoli. Subito si diede all'evangelizzazione, ma non in un solo posto, bensì in numerose città e villaggi, viaggiando continuamente, senza temere né intemperie nè pericoli di ogni genere. E non si accontentò delle Indie, che pure erano un campo immenso di apostolato, che sarebbe bastato per parecchie vite d'uomo. Egli era spinto dall'urgenza di estendere il regno di Dio, di preparare dovunque la venuta del Signore e così, dopo appena due anni, giunge a Ceyfon e poi ancora più lontano, alle isole Molucche. Torna in India per confermare i risultati della sua evangelizzazione, per organizzare, per dare nuovo impulso all'opera dei suoi compagni, ma non vi rimane a lungo. Vuol andare ancora più lontano, in Giappone, perché gli hanno detto che è un regno mo! lto importante, ed egli spera che la conversione del Giappone possa influire su tutto l'Estremo Oriente. E in Giappone riprende i suoi viaggi estenuanti, estate e inverno, sotto la neve, con fatiche estreme. Torna dal Giappone, ma il suo desiderio lo spinge verso la Cina. Ed è proprio mentre tenta di penetrare in questo immenso impero che muore nell'isola di Sanchian nel 1552. In una decina di anni ha percorso migliaia e migliaia di chilometri, malgrado le difficoltà del tempo, si è rivolto a numerosi popoli, in tutte le lingue, con mezzi di fortuna. Tutto questo rivela un dinamismo straordinario, che egli attingeva nella preghiera e nella unione con il Signore, nella unione al mistero di Dio che vuole comunicarsi. Anche Gesù, per venire in mezzo a noi, ha superato una distanza infinita: ha lasciato il Padre, come dice il Vangelo giovanneo, per venire nel mondo. E nel suo breve ministero di tre anni ha continuato questo viaggio: si spostava continuamente, non aspettava che la gente andasse da lui, ma percorreva città e villaggi per annunciare la buona novella del regno. E ora? Ora, se si vuole che Gesù venga, bisogna agire nello stesso modo: non aspettare che gli altri vengano da noi, ma andare noi da loro. San Francesco Saverio ha dovuto fare viaggi enormi, è continuamente andato verso gli altri, sospinto dall'urgenza di preparare dovunque la venuta del Signore, e in questo modo ha preparato la venuta del Signore in se stesso. Dopo essersi estenuato, dopo aver speso tutte sue forze, la sua intelligenza, il suo cuore, egli riceveva il Signore a tal punto che lo supplicava di limitare un po' le grazie di cui lo inondava. Il suo viso era radioso, il suo cuore fremeva, si dilatava: egli aveva seguito in pieno l'ispirazione che il Signore gli aveva dato e per questo il mistero di Cristo si rinnovava nel suo intimo. Andare agli altri, senza aspettare che siano essi a venire: ecco la missione della Chiesa, la missione di ogni cristiano, ognuno nella sua situazione concreta. Se vogliamo che il Signore venga a noi, noi dobbiamo preparare la sua venuta negli altri, dobbiamo andare da loro, corrispondendo al dinamismo della misericordia divina. È questa la rivelazione del Nuovo Testamento, che completa quella dell'Antico: la rivelazione di una misericordia che si diffonde, sempre più lontano. Accogliamo la rivelazione di questo dinamismo dell'amore che viene da Dio: se vogliamo ricevere Cristo in noi dobbiamo essere pronti a portarlo agli altri, seguendo questo movimento che ci porta sempre fuori di noi stessi, verso gli altri con grande amore. E questo l'insegnamento che ci viene dalla vita di san Francesco Saverio /come anche di san Ignazio/, in modo impressionante. Per ricevere l'amore di Dio bisogna trasmetterlo, per riceverlo di più bisogna averlo dato agli altri molto fedelmente, molto generosamente. Domandiamo al Signore la grazia di corrispondere davvero al desiderio del suo cuore.
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"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
venerdì 27 luglio 2012
Vita di sant'Ignazio di Loyola e di San Francesco Saverio
giovedì 26 luglio 2012
Caelorum candor splenduit, novum sidus emicuit ... // VENI CREATOR SPIRITUS ...
Caelorum candor
splenduit, novum sidus emicuit: Sacer
Franciscus claruit, Cui Seraph apparuit: Signans eum caractere In volis, plantis, latere, Dum formam Crucis
gérere Vult corde, ore, opere.
Caelorum candor splenduit,
novum sidus emicuit:
sacer Franciscus claruit,
cui Seraph apparuit,
obsignans eum vulnere
in volis, plantis, latere,
dum forman crucis gerere
vult corde, ore, opere.
Il chiarore dei cieli risplende,
Una nuova stella sfavilla:
Santo Francesco rifulge.
Gli è apparso un Serafino
che lo ha segnato con le
ferite di Cristo
sui piedi, sulle mani e sul fianco,
perché Francesco vuole portare
l'immagine della Croce
nel cuore, nelle parole e nelle azioni.
*
VENI CREATOR SPIRITUS...
Ave Maria!
Ave Domina, sancta Regina, sancta Dei genetrix Maria ... // Sancta Maria virgo, ...
1Ave Domina, sancta Regina, sancta Dei genetrix
Maria, quae es virgo ecclesia facta 2et electa a sanctissimo Patre de
caelo, quam consecravit cum sanctissimo dilecto Filio suo et Spiritu sancto
Paraclito, 3in qua fuit et est omnis plenitudo gratiae et omne bonum.
4Ave palatium eius; ave tabernaculum eius; ave domus eius.
5Ave vestimentum eius; ave ancilla eius; ave mater eius
6et vos omnes sanctae virtutes, quae per gratiam et illuminationem
Spiritus sancti infundimini in corda fidelium, ut de infidelibus fideles Deo
faciatis.
1Sancta Maria virgo, non est tibi
similis nata in mundo in mulieribus,
2filia et ancilla altissimi
summi Regis Patris caelestis, mater sanctissimi Domini nostri Jesu Christi,
sponsa Spiritus Sancti:
3ora pro nobis cum S. Michaele archangelo et
omnibus virtutibus caelornm et omnibus sanctis apud tuum sanctissimum dilectum
Filium, Dominum et magistrum.
(S. FRANCESCO)
Oratio: Benedicamus Domino Deo vivo et vero: laudem, gloriam, honorem, benedictionem et omnia bona referamus ei semper. Amen. Amen. Fiat. Fiat.
mercoledì 25 luglio 2012
"Il peccato mortale è come una freccia a due punte che l’uomo ha fabbricato nella sua coscienza, consigliato da satana. ...il peccato veniale non deve essere preso alla leggera,
Il peccato
Il peccato è una trasgressione volontaria della legge di Dio.
Suppone sempre tre elementi essenziali:
- materia proibita (o almeno ritenuta tale)
- avvertenza da parte dell’intelletto
- consenso o accettazione da parte della volontà.
Se la materia è grave e l’avvertenza e il consenso perfetti, abbiamo il peccato mortale; se la materia è leggera o l’avvertenza e il consenso imperfetti, il peccato è veniale.
Il peccato mortale
Ad una donna, Consuelo, la Madonna dice: "Il peccato mortale è come una freccia a due punte che l’uomo ha fabbricato nella sua coscienza, consigliato da satana. L’uomo, quando commette un peccato che conduce alla morte, lancia con ribellione questa freccia contro il cuore di Dio. La cosa più sorprendente è che essa non raggiunge il cielo, perché da lì furono precipitati satana, autore del male, e la sua iniquità. La freccia avvelenata si conficca di nuovo nell’anima dell’uomo che ebbe l’ardimento di ribellarsi contro il Creatore e lo ferisce a morte."
Sono troppi gli uomini che vivono abitualmente in peccato mortale. Assorbiti quasi completamente dalle preoccupazioni della vita, occupati negli affari professionali, divorati da una sete insaziabile di piaceri e di divertimenti e immersi in una ignoranza religiosa che giunge spesso a livelli incredibili, non si pongono neppure il problema dell’al di là. Alcuni, soprattutto se hanno ricevuto nell’infanzia una certa educazione cristiana e conservano ancora un barlume di fede, sogliono reagire dinanzi alla morte imminente e ricevono con dubbie disposizioni gli ultimi sacramenti prima di comparire davanti a Dio; ma molti altri scendono nel sepolcro rattristati solo dal pensiero di dover abbandonare per sempre questo mondo, al quale avevano profondamente attaccato il cuore.
Queste anime sono sovrastate dal pericolo dell’eterna dannazione. Il peccato mortale abituale ha totalmente adombrato le loro anime.
Tuttavia, non tutti coloro che vivono abitualmente in peccato hanno contratto la medesima responsabilità davanti a Dio.
Possiamo distinguere quattro specie di peccati rappresentanti altrettante categorie di peccatori:
- I peccati di ignoranza.Non ci riferiamo all’ignoranza totale e invincibile, che toglierebbe ogni responsabilità morale, ma a quella che è frutto di una educazione antireligiosa o indifferente e che si associa ad una intelligenza mediocre e ad un ambiente ostile e refrattario ad ogni influenza religiosa.
Coloro che vivono in tali condizioni avvertono, di solito, una certa malizia nel peccato. Si rendono perfettamente conto che certe azioni ripetute di frequente non sono moralmente rette. Sentono, forse, ogni tanto, il pungolo del rimorso. Hanno quindi una sufficiente capacità per commettere liberamente un vero peccato mortale che li allontana dalla via della salvezza.
Però è necessario riconoscere che la loro responsabilità è molto attenuata davanti a Dio.
Se hanno conservato l’orrore per quello che pareva loro più ingiusto e peccaminoso, se il fondo del loro cuore si è sempre mantenuto retto in quello che è fondamentale e se hanno coltivato, sia pure in modo superficiale, qualche devozione alla Vergine, se si sono astenuti dall’attaccare la religione e i suoi ministri e, soprattutto, se nell’ora della morte innalzano il loro cuore a Dio pentiti e fiduciosi nella sua Misericordia, non v’è dubbio che saranno giudicati con benignità allorché si troveranno di fronte al tribunale divino.
Se Cristo ha detto che molto sarà chiesto a chi molto fu dato (Luca 12,48), è lecito pensare che poco sarà chiesto a chi poco ha ricevuto.
Costoro sogliono ritornare a Dio con relativa facilità quando se ne presenta l’occasione. Siccome la loro vita dissipata non proviene da vera malvagità, ma da una profonda ignoranza, tutto ciò che impressiona la loro anima, come la morte di un familiare, la predica di un missionario, un dissesto finanziario, di solito basta per riportarli sul retto cammino.
Tuttavia non brilleranno mai né per fervore né per dottrina.
- I peccati di fragilitàSono molte le persone sufficientemente istruite in fatto di religione i cui disordini non si possono attribuire alla semplice ignoranza dei propri doveri. Ciononostante, non peccano per calcolata e fredda malvagità.
Sono deboli, di scarsa energia di volontà, fortemente inclinate ai piaceri sensuali, irriflessive.
Lamentano le loro cadute, ammirano i buoni, vorrebbero essere come loro, però poco si impegnano per divenirlo veramente.
Queste disposizioni non le scusano dal peccato; anzi, sono più colpevoli di coloro che peccano per ignoranza, dal momento che vi si abbandonano con maggior cognizione di causa. Tuttavia, in fondo, sono più deboli che cattive.
- I peccati di indifferenzaLa terza categoria è costituita da coloro che peccano non per ignoranza o per fragilità, ma per meditata indifferenza.
Peccano pur sapendo di peccare, non perché vogliano il male in quanto offesa di Dio, ma perché non sanno rinunciare ai propri piaceri e poco si curano se la loro condotta non è accetta agli occhi di Dio.
Peccano con meditata indifferenza, senza rimorsi di coscienza e se anche questi sopraggiungono li mettono a tacere per continuare indisturbati sulla loro via.
La loro conversione è molto difficile, data la loro continua infedeltà alle mozioni della grazia, la consapevole noncuranza dei principi morali e il disprezzo sistematico dei buoni consigli che possono ricevere da coloro che hanno a cuore il loro bene.
- I peccati di ostinazione e di malizia.C’è infine una quarta categoria di peccatori, la peggiore di tutte. Sono coloro che si danno al male per raffinata malizia e satanica ostinazione.
Il loro peccato più abituale è la bestemmia, intesa come espressione di odio verso Dio. All’inizio furono forse buoni cristiani, però scivolarono a poco a poco; le passioni, sempre più accontentate, acquistarono proporzioni gigantesche, e arrivò il momento in cui si considerarono definitivamente perduti.
Frutto della disperazione, la defezione e l’apostasia. Infrante le ultime barriere che li trattenevano sull’orlo del precipizio, si abbandonarono, per una specie di vendetta contro Dio e contro la propria coscienza, ad ogni sorta di delitti e di disordini.
Attaccano fieramente la religione, combattono la Chiesa, odiano i buoni, fanno parte delle sette anticattoliche e, perseguitati dai rimorsi della loro coscienza, si immergono sempre più nel male.
Si hanno allora i casi di persone che dicono: "Io non credo all’esistenza dell’inferno; però, se esiste e io vi andrò, almeno avrò il piacere di non dover curvarmi mai davanti a Dio", oppure "Se nell’ora della morte chiedessi un sacerdote per confessarmi, non chiamatelo perché starò delirando".
Solo un miracolo della grazia può convertire uno di questi infelici. La persuasione e il consiglio riescono inutili; anzi, potrebbero avere un effetto contrario. Non rimane che la via soprannaturale: l’orazione, il digiuno, le lacrime, l’incessante ricorso alla Vergine Maria, avvocata e rifugio dei peccatori.
Il peccato veniale
Sempre a Consuelo, Maria SS.ma dice: "Il peccato veniale è una disobbedienza lieve contro la legge di Dio, nella quale prende parte la volontà dell’uomo. Questo peccato non provoca nell’anima le stragi del peccato mortale; tuttavia, sebbene non abbia quegli effetti terribili e nocivi perché manca di materia grave, non deve essere preso alla leggera, dato che il peccato veniale predispone e lascia aperta la porta al peccato che conduce alla morte, dopo il quale si perde la grazia santificante e l’amicizia con Dio.
Dopo il peccato mortale non c’è nulla che debba essere evitato con maggior cura che il peccato veniale.
Benché molto meno disastroso del peccato mortale, esso si trova ancora sul piano del male morale, che è il maggiore di tutti i mali.
A differenza, però, del mortale, il peccato veniale rappresenta una semplice deviazione, non una totale opposizione a Dio; è una malattia, non la morte dell’anima. Chi commette un peccato veniale devia solo dal retto sentiero, senza perdere l’orientamento fondamentale alla meta.
Si considerano tre specie di peccati veniali:
- Ex genere suo: sono quelle mancanze che per loro stessa natura implicano solo un leggero disordine o una leggera deviazione (per es.: una bugia che non reca pregiudizio a nessuno)
- Ex parvitate materiae: sono quelle mancanze che, di per se gravemente proibite, per l’esiguità della materia implicano solo un leggero disordine (per es.: il furto di una piccola somma di denaro)
- Ex imperfetione actus: sono quelle mancanze che difettano del pieno consenso o della piena avvertenza in materia per sé grave (per es.: i pensieri impuri semideliberati o semiavvertiti)
I peccati veniali non mutano di specie anche se vengono ripetuti con frequenza. Mille peccati veniali non faranno mai un peccato mortale. Tuttavia un peccato veniale potrebbe diventare mortale:
- per la coscienza erronea o anche seriamente dubbiosa riguardo alla malizia grave di un’azione che tuttavia si esegue;
- per il suo fine gravemente cattivo (per es.: colui che ingiuria leggermente il prossimo allo scopo di fargli pronunciare una bestemmia);
- per il pericolo prossimo di cadere in peccato mortale;
- per lo scandalo grave cui potrebbe dare occasione (per es.: una persona stimata per il suo stile di vita altamente religioso che per semplice curiosità entrasse in una sala da ballo malfamata);
- per l’accumularsi della materia di molti peccati veniali (per es.: colui che commette a ripetizione piccoli furti sino a giungere alla materia grave).
Un abisso separa il peccato veniale dal mortale. Tuttavia, il peccato veniale costituisce una vera offesa a Dio, una disobbedienza alle sue leggi e una ingratitudine ai suoi benefici. Da una parte, ci si propone la volontà di Dio e la sua gloria, dall’altra, i nostri gusti e le nostre soddisfazioni; e volontariamente preferiamo questi ultimi.
E’ certo che non li preferiremmo se sapessimo che ci allontano radicalmente da Dio (e in questo si distingue il peccato veniale dal mortale), però non c’è dubbio che la mancanza di rispetto e di delicatezza verso Dio è di per sé grandissima anche nel peccato veniale.
E’ tanto grave la malizia di un peccato veniale per l’offesa che arreca a Dio, che non lo si dovrebbe commettere, anche se con esso fosse possibile liberare tutte le anime del purgatorio o estinguere per sempre le fiamme dell’inferno.
Tuttavia, occorre distinguere tra i peccati veniali di pura fragilità e quelli che si commettono con piena avvertenza.
I primi non li potremo mai evitare del tutto e Dio, che conosce le nostre debolezze, facilmente ce li perdonerà. L’unica cosa che conviene fare è cercare di diminuirne il numero ed evitare lo scoraggiamento che suppone sempre un senso di amor proprio più o meno dissimulato.
Reagendo prontamente, con un pentimento vivo ma pieno di mansuetudine, di umiltà e di fiducia nella misericordia del Signore, queste mancanza di fragilità lasciano appena una traccia nell’anima e non costituiscono un serio ostacolo per la nostra santificazione.
E’ certo che non li preferiremmo se sapessimo che ci allontano radicalmente da Dio (e in questo si distingue il peccato veniale dal mortale), però non c’è dubbio che la mancanza di rispetto e di delicatezza verso Dio è di per sé grandissima anche nel peccato veniale.
E’ tanto grave la malizia di un peccato veniale per l’offesa che arreca a Dio, che non lo si dovrebbe commettere, anche se con esso fosse possibile liberare tutte le anime del purgatorio o estinguere per sempre le fiamme dell’inferno.
Tuttavia, occorre distinguere tra i peccati veniali di pura fragilità e quelli che si commettono con piena avvertenza.
I primi non li potremo mai evitare del tutto e Dio, che conosce le nostre debolezze, facilmente ce li perdonerà. L’unica cosa che conviene fare è cercare di diminuirne il numero ed evitare lo scoraggiamento che suppone sempre un senso di amor proprio più o meno dissimulato.
Reagendo prontamente, con un pentimento vivo ma pieno di mansuetudine, di umiltà e di fiducia nella misericordia del Signore, queste mancanza di fragilità lasciano appena una traccia nell’anima e non costituiscono un serio ostacolo per la nostra santificazione.
Quando, invece, i peccati veniali sono frutto di una piena avvertenza e di un deliberato consenso, rappresentano un grave impedimento al perfezionamento dell’anima.
E’ impossibile progredire nella via della santità: tali peccati contristano lo Spirito Santo, come dice S.Paolo, e paralizzano completamente la sua azione santificatrice nell’anima.
Il peccato veniale deliberato produce effetti un questa e nell’altra vita:
- in questa vita:
- ci priva di molte grazie attuali che lo Spirito Santo aveva condizionate alla nostra fedeltà. Questa privazione determinerà alcune volte la caduta in una tentazione; altre volte, l’assenza di un vero progresso nella vita spirituale; sempre, una diminuzione del grado di gloria eterna.
- diminuisce il fervore della carità e la generosità nel servizio di Dio.
Generosità e fervore che suppongono un sincero desiderio di perfezione e uno sforzo costante verso di essa, incompatibili con il peccato veniale deliberato, che rappresenta una rinuncia all’ideale di santità e un arresto volontario nella lotta intesa a conseguirla. - aumenta le difficoltà per l’esercizio delle virtù.
Privati di molte grazie attuali di cui avremmo bisogno per mantenerci sulla via del bene e diminuito il fervore e la generosità nel servizio di Dio, l’anima a poco a poco si debilita e perde sempre più energie. - predispone al peccato mortale.
Rare volte si registra la caduta improvvisa di un’anima ricca di vita soprannaturale, per quanto violento sia l’attacco dei suoi nemici.
Le cadute che debilitano l’anima quasi sempre sono state preparate lentamente. L’anima ha ceduto sempre più terreno al nemico, ha diminuito sempre più il vigore con le sue imprudenze volontarie in cose che giudicava di poca importanza; si sono affievolite le luci e le ispirazioni divine, si sono smantellate le difese che la presidiavano fino al giungere del momento in cui il nemico, con un assalto più vigoroso, se ne impadronisce.
- nell’altra vita:
- nel purgatorio.
L’unica ragione d’essere delle pene del purgatorio è il castigo e la purificazione dell’anima. Ogni peccato, oltre la colpa, comporta un reato di pena che occorre soddisfare in questa vita o nell’altra. Tutto si paga. Dio non può rinunciare alla sua giustizia e l’anima dovrà pagare fino all’ultimo. Le pene che dovrà soffrire nel purgatorio per le mancanze che adesso commette con tanta disinvoltura definendole bagattelle o scrupoli, sorpassano ogni altra pena di questo mondo. - nel cielo.
Gli aumenti di grazia santificante di cui l’anima rimase priva in questa vita per la sottrazione di tante grazie attuali in pena dei suoi peccati veniali, avranno una ripercussione eterna.
L’anima avrà in paradiso una gloria minore di quella che avrebbe potuto conseguire con una maggiore fedeltà alla grazia. Il grado di felicità propria e di gloria divina sono commensurati al grado di grazia conseguito in questa vita.
Occorre essere fedeli nell’esame di coscienza generale e particolare, incrementare lo spirito di sacrificio e di orazione, conservare il raccoglimento interno ed esterno nella misura in cui lo permettono gli obblighi del proprio stato, essere disposti a sostenere tutto pur di non commettere un solo peccato veniale deliberato. Quando saremo giunti a radicare nella nostra anima questa disposizione in modo permanente e abituale, quando saremo in grado di praticare qualsiasi sacrificio pur di evitare un peccato veniale volontario, anche lievissimo, saremo giunti vicino al traguardo finale.
Non è un’impresa facile, tuttavia, mediante un lavoro costante e l’umile orazione, è possibile avvicinarci a questo ideale e conseguirlo nella misura in cui vi riuscirono i santi.
Le imperfezioni
Paolo, l’apostolo delle genti, era un uomo di grandi impeti, incline all’ira e poco mansueto. La sua presenza provocava alterchi negli uomini.....Paolo si era tracciato un cammino per somigliare a Cristo e lottò sempre contro le sue debolezze e insufficienze."L’imperfezione, anche se volontaria, si differenzia dal peccato veniale. Un atto buono in se stesso non cessa di essere sulla linea del bene anche se poteva essere migliore; il peccato veniale, anche il più lieve, si trova invece sulla linea del male.
Ciò non toglie che, nella pratica, l’imperfezione volontaria impedisce all’anima di dirigersi con slancio verso la santità.
Dice S.Giovanni della Croce: "Se l’anima desiderasse qualche imperfezione, che Dio senza dubbio non può volere, non si formerebbe una unica volontà divina, perché l’anima vorrebbe ciò che Dio non vuole.
Senza avvertenza e cognizione e senza libertà, l’anima potrà di certo cadere in imperfezioni e peccati veniali e negli appetiti naturali, poiché, di tali peccati sta scritto che il giusto vi cadrà sette volte al giorno e se ne rialzerà.
Imperfezioni abituali sono, per esempio, l’abitudine di parlare spesso, l’attaccamento a piccole cose che l’anima mai si decide di superare, come sarebbe l’affetto ad una persona, ad un vestito, ad una stanza, a quel tale genere di cibi, di relazioni, a quelle piccole soddisfazioni, alla mania di udire novità e simili.
Se l’anima porta affetto abituale a qualsivoglia di queste imperfezioni, incontra maggiore ostacolo a crescere in virtù e sarà impossibile che l’anima progredisca nella perfezione benché l’imperfezione si piccolissima. Difatti che importa se un uccellino sia legato ad un filo sottile piuttosto che ad uno grosso?
Per quanto il filo sia sottile, è sempre vero che l’uccellino è legato e, sino a che non lo spezzi, non potrà volare. Senza dubbio il filo più tenue è più facile a rompersi, ma pur deve rompersi, ché altrimenti l’uccello non si potrà liberare. Così avviene all’anima unita con affetto a qualche cosa: benché fornita di molte virtù, non giungerà alla libertà dell’unione divina.
Colui che non si cura di riparare la fenditura di un vaso, benché sottilissima, vedrà trapelarne a poco a poco tutto il liquido in esso contenuto."L’anima deve porre tutto il suo impegno e spiegare tutte le sue energie, facendo uso di tutti i mezzi a sua disposizione, per diminuire il numero delle imperfezioni e tendere sempre verso quello che è più perfetto, procurando di fare tutte le cose con la maggiore intensità possibile. Si tratta, in sintesi, di perfezionare i motivi che ci spingono ad operare, facendo tutte le cose ogni volta con maggior purezza di intenzione, con l’ansia di glorificare Dio, con il desiderio di rimanere sotto l’azione dello Spirito Santo, senza riguardo per i nostri gusti ed i nostri capricci.
Occorre tendere sempre più ad una conformità sempre più perfetta e docile alla volontà di Dio su di noi, fino a lasciarci portare da lui, senza resistenza, ovunque egli vorrà, fino alla morte totale dei nostri personali egoismi ad alla piena trasformazione in Cristo, che ci permetta di dire con S.Paolo: "Non sono più io che vivo; è Cristo che vive in me" (Gal. 3,20).
Fonti Bibliografiche: A. Royo Marin - Teologia della perfezione cristiana - Edizioni Paoline. Consuelo - Maria Trono della Sapienza - Edizioni Ancora
"Ave Maria!"
SANT'ANNA
Sant' Anna Madre della Beata Vergine Maria
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Gerusalemme, I secolo a.C.
Anna e Gioacchino sono i genitori della Vergine Maria.
Gioacchino è un pastore e abita a Gerusalemme, anziano sacerdote è sposato con
Anna. I due non avevano figli ed erano una coppia avanti con gli anni. Un giorno
mentre Gioacchino è al lavoro nei campi, gli appare un angelo, per annunciargli
la nascita di un figlio ed anche Anna ha la stessa visione. Chiamano la loro
bambina Maria, che vuol dire «amata da Dio». Gioacchino porta di nuovo al tempio
i suoi doni: insieme con la bimba dieci agnelli, dodici vitelli e cento capretti
senza macchia. Più tardi Maria è condotta al tempio per essere educata secondo
la legge di Mosè. Sant'Anna è invocata come protettrice delle donne incinte, che
a lei si rivolgono per ottenere da Dio tre grandi favori: un parto felice, un
figlio sano e latte sufficiente per poterlo allevare. È patrona di molti
mestieri legati alle sue funzioni di madre, tra cui i lavandai e le ricamatrici.
(Avvenire)
Etimologia: Anna = grazia, la benefica, dall'ebraico Emblema: Libro Martirologio Romano: Memoria dei santi Gioacchino e Anna, genitori dell’immacolata Vergine Maria Madre di Dio, i cui nomi sono conservati da antica tradizione cristiana. |
Nonostante che di s. Anna ci siano poche notizie e per giunta provenienti non da testi ufficiali e canonici, il suo culto è estremamente diffuso sia in Oriente che in Occidente. Quasi ogni città ha una chiesa a lei dedicata, Caserta la considera sua celeste Patrona, il nome di Anna si ripete nelle intestazioni di strade, rioni di città, cliniche e altri luoghi; alcuni Comuni portano il suo nome. La madre della Vergine, è titolare di svariati patronati quasi tutti legati a Maria; poiché portò nel suo grembo la speranza del mondo, il suo mantello è verde, per questo in Bretagna dove le sono devotissimi, è invocata per la raccolta del fieno; poiché custodì Maria come gioiello in uno scrigno, è patrona di orefici e bottai; protegge i minatori, falegnami, carpentieri, ebanisti e tornitori. Perché insegnò alla Vergine a pulire la casa, a cucire, tessere, è patrona dei fabbricanti di scope, dei tessitori, dei sarti, fabbricanti e commercianti di tele per la casa e biancheria. È soprattutto patrona delle madri di famiglia, delle vedove, delle partorienti, è invocata nei parti difficili e contro la sterilità coniugale. Il nome di Anna deriva dall’ebraico Hannah (grazia) e non è ricordata nei Vangeli canonici; ne parlano invece i vangeli apocrifi della Natività e dell’Infanzia, di cui il più antico è il cosiddetto “Protovangelo di san Giacomo”, scritto non oltre la metà del II secolo. Questi scritti benché non siano stati accettati formalmente dalla Chiesa e contengono anche delle eresie, hanno in definitiva influito sulla devozione e nella liturgia, perché alcune notizie riportate sono ritenute autentiche e in sintonia con la tradizione, come la Presentazione di Maria al tempio e l’Assunzione al cielo, come il nome del centurione Longino che colpì Gesù con la lancia, la storia della Veronica, ecc. Il “Protovangelo di san Giacomo” narra che Gioacchino, sposo di Anna, era un uomo pio e molto ricco e abitava vicino Gerusalemme, nei pressi della fonte Piscina Probatica; un giorno mentre stava portando le sue abbondanti offerte al Tempio come faceva ogni anno, il gran sacerdote Ruben lo fermò dicendogli: “Tu non hai il diritto di farlo per primo, perché non hai generato prole”. Gioacchino ed Anna erano sposi che si amavano veramente, ma non avevano figli e ormai data l’età non ne avrebbero più avuti; secondo la mentalità ebraica del tempo, il gran sacerdote scorgeva la maledizione divina su di loro, perciò erano sterili. L’anziano ricco pastore, per l’amore che portava alla sua sposa, non voleva trovarsi un’altra donna per avere un figlio; pertanto addolorato dalle parole del gran sacerdote si recò nell’archivio delle dodici tribù di Israele per verificare se quel che diceva Ruben fosse vero e una volta constatato che tutti gli uomini pii ed osservanti avevano avuto figli, sconvolto non ebbe il coraggio di tornare a casa e si ritirò in una sua terra di montagna e per quaranta giorni e quaranta notti supplicò l’aiuto di Dio fra lacrime, preghiere e digiuni. Anche Anna soffriva per questa sterilità, a ciò si aggiunse la sofferenza per questa ‘fuga’ del marito; quindi si mise in intensa preghiera chiedendo a Dio di esaudire la loro implorazione di avere un figlio. Durante la preghiera le apparve un angelo che le annunciò: “Anna, Anna, il Signore ha ascoltato la tua preghiera e tu concepirai e partorirai e si parlerà della tua prole in tutto il mondo”. Così avvenne e dopo alcuni mesi Anna partorì. Il “Protovangelo di san Giacomo” conclude: “Trascorsi i giorni necessari si purificò, diede la poppa alla bimba chiamandola Maria, ossia ‘prediletta del Signore’”. Altri vangeli apocrifi dicono che Anna avrebbe concepito la Vergine Maria in modo miracoloso durante l’assenza del marito, ma è evidente [???] il ricalco di un altro episodio biblico, la cui protagonista porta lo stesso nome di Anna, anch’ella sterile e che sarà prodigiosamente madre di Samuele. Gioacchino portò di nuovo al tempio con la bimba, i suoi doni: dieci agnelli, dodici vitelli e cento capretti senza macchia.L’iconografia orientale mette in risalto rendendolo celebre, l’incontro alla porta della città, di Anna e Gioacchino che ritorna dalla montagna, noto come “l’incontro alla porta aurea” di Gerusalemme; aurea perché dorata, di cui tuttavia non ci sono notizie storiche. I pii genitori, grati a Dio del dono ricevuto, crebbero con amore la piccola Maria, che a tre anni fu condotta al Tempio di Gerusalemme, per essere consacrata al servizio del tempio stesso, secondo la promessa fatta da entrambi, quando implorarono la grazia di un figlio. Dopo i tre anni Gioacchino non compare più nei testi, mentre invece Anna viene ancora menzionata in altri vangeli apocrifi successivi, che dicono visse fino all’età di ottanta anni, inoltre si dice che Anna rimasta vedova si sposò altre due volte, avendo due figli la cui progenie è considerata, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, come la “Santa Parentela” di Gesù. Il culto di Gioacchino e di Anna si diffuse prima in Oriente e poi in Occidente (anche a seguito delle numerose reliquie portate dalle Crociate); la prima manifestazione del culto in Oriente, risale al tempo di Giustiniano, che fece costruire nel 550 ca. a Costantinopoli una chiesa in onore di s. Anna. L’affermazione del culto in Occidente fu graduale e più tarda nel tempo, la sua immagine si trova già tra i mosaici dell’arco trionfale di S. Maria Maggiore (sec. V) e tra gli affreschi di S. Maria Antiqua (sec. VII); ma il suo culto cominciò verso il X secolo a Napoli e poi man mano estendendosi in altre località, fino a raggiungere la massima diffusione nel XV secolo, al punto che papa Gregorio XIII (1502-1585), decise nel 1584 di inserire la celebrazione di s. Anna nel Messale Romano, estendendola a tutta la Chiesa; ma il suo culto fu più intenso nei Paesi dell’Europa Settentrionale anche grazie al libro di Giovanni Trithemius “Tractatus de laudibus sanctissimae Annae” (Magonza, 1494). Gioacchino fu lasciato discretamente in disparte per lunghi secoli e poi inserito nelle celebrazioni in data diversa; Anna il 25 luglio dai Greci in Oriente e il 26 luglio dai Latini in Occidente, Gioacchino dal 1584 venne ricordato prima il 20 marzo, poi nel 1788 alla domenica dell’ottava dell’Assunta, nel 1913 si stabilì il 16 agosto, fino a ricongiungersi nel nuovo calendario liturgico, alla sua consorte il 26 luglio. Artisti di tutti i tempi hanno raffigurato Anna quasi sempre in gruppo, come Anna, Gioacchino e la piccola Maria oppure seduta su una alta sedia come un’antica matrona con Maria bambina accanto, o ancora nella posa ‘trinitaria’ cioè con la Madonna e con Gesù bambino, così da indicare le tre generazioni presenti. Dice Gesù nel Vangelo “Dai frutti conoscerete la pianta” e noi conosciamo il fiore e il frutto derivato dalla annosa pianta: la Vergine, Immacolata fin dal concepimento, colei che preservata dal peccato originale doveva diventare il tabernacolo vivente del Dio fatto uomo. Dalla santità del frutto, cioè di Maria, deduciamo la santità dei suoi genitori Anna e Gioacchino. Autore: Antonio Borrelli
"Ave Maria!"
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