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lunedì 26 febbraio 2018

Apprendessimo anche noi

Gerardo Majella, il santo che andava a giocare ogni giorno con il Bambino Gesù

Nashastudiya | CC BY SA 4.0

Se amate e proteggete la vita nascente, siate amici di questo santo!

Venerdì 19 gennaio si è svolta a Washington, D.C., la Marcia Annuale per la Vita, in cui decine di migliaia di persone hanno marciato in difesa dei bambini non nati. Un santo dal cielo li protegge sicuramente con una cura speciale.
San Gerardo Majella è patrono dei bambini non ancora nati e delle mamme in attesa, e molti miracoli sono stati attribuiti alla sua intercessione.
Gerardo era il figlio minore di Domenico e Benedetta Majella [Machiella], che avevano già tre figlie. L’unico maschio nacque il 6 aprile 1726 a Muro Lucano (Potenza). I Majella lavoravano sodo, e Benedetta portava i figli a Messa al santuario di Nostra Signora delle Grazie ogni volta che poteva. Ad appena tre anni, Gerardo già amava la statua della “bella signora con il bambino”.
Quando Gerardo crebbe un po’ andava al santuario da solo. La prima volta che lo fece tornò a casa gridando “Mamma, mamma, guarda cosa mi ha dato il bambino!” Nella mano teneva un pezzetto di pane. Nessuno ci fece molto caso, ma molti giorni dopo quell’episodio la madre decise di seguire il bambino per vedere cosa succedeva.
Quello che vide la lasciò senza parole, perché la statua di Nostra Signora delle Grazie apparentemente prendeva vita, e il Bambino che teneva tra le braccia scendeva giù per giocare con Gerardo. Benedetta si allontanò rapidamente, e quando Gerardo tornò a casa portava con sé un altro pezzetto di pane. Benedetta lo conservò.
Il padre di Gerardo morì quando il bambino aveva 12 anni, e la famiglia cadde in povertà. Il padre di Gerardo era sarto, e quindi la madre mandò il figlio a imparare a cucire perché seguisse le orme paterne. Dopo un apprendistato di quattro anni, però, a Gerardo venne offerto un impiego di servizio presso il vescovo locale di Lacedonia. Avendo bisogno di denaro accettò.
Il vescovo aveva sentito varie storie su Gerardo e sulla sua gentilezza, e su come si fermava sempre a far visita ai poveri, aiutava gli altri e portava perfino alla povera gente i resti che trovava sulla tavola del presule. Il ragazzo si stava facendo un’ottima reputazione essendo semplicemente se stesso.
Quando il vescovo morì, Gerardo tornò al mestiere di sarto. Divideva i suoi guadagni tra la madre, i poveri e le offerte per le anime del Purgatorio. A 21 anni aveva messo su un’attività solida. La madre, però, era piuttosto preoccupata per lui, perché sembrava magro e fragile visto che digiunava e faceva penitenze in continuazione. Lo pregava di mangiare, ma lui le rispose “Mamma, Dio provvederà. Quanto a me, voglio essere santo”.
Gerardo cercò di unirsi ai cappuccini, ma questi lo ritenevano di salute troppo fragile per affrontare la vita richiesta dall’Ordine. Alla fine, dopo molte preghiere e insistenze, venne accettato come fratello laico nella Congregazione del Santissimo Redentore, nota anche come Redentoristi.

Come fratello laico 
non sarebbe mai diventato sacerdote, non avrebbe mai celebrato la Messa o ascoltato confessioni, ma avrebbe vissuto sotto lo stesso tetto, indossato lo stesso abito e condiviso le preghiere. Avrebbe anche preso i voti di povertà, castità e obbedienza. Sarebbe stato custode del monastero.
Gerardo abbracciò questo ruolo e servì la comunità al meglio, fungendo da giardiniere, sagrestano, portiere, cuoco, falegname e ovviamente sarto.
I bambini accorrevano da lui per ascoltare le sue splendide storie e imparare come pregare. Una volta, mentre un folto gruppo di loro era seduto accanto a lui ad ascoltarlo, un ragazzino cadde da un precipizio. Quando arrivarono dal bambino pensarono che fosse morto. Gerardo disse al padre del piccolo “Non è niente”, poi tracciò la croce sulla fronte del bimbo e questi si risvegliò. Fu solo uno dei tanti miracoli di Gerardo testimoniati dalla gente.
Gerardo contrasse la tubercolosi e morì il 16 ottobre 1755, ad appena 29 anni. Molti miracoli sono stati attribuiti alla sua intercessione. Uno spicca come motivo per il quale è diventato noto come patrono delle mamme. Qualche mese prima della sua morte fece visita a una famiglia; gli cadde il fazzoletto e una delle bambine lo prese per restituirglielo, ma lui le disse di tenerlo perché un giorno ne avrebbe avuto bisogno.
Anni dopo, ormai sposata, stava per partorire e il medico era sicuro che il bambino non sarebbe sopravvissuto. Ricordò allora il fazzoletto e chiese di portarglielo. Quando se lo poggiò sul grembo il dolore scomparve e partorì un bambino sano, senza alcuna spiegazione.
Gerardo Majella è stato beatificato nel 1893 da Papa Leone XIII e canonizzato l’11 dicembre 1904 da Papa San Pio X.
San Gerardo Majella, prega per tutti i bambini ancora non nati che rischiano di morire, e per tutte le mamme incinte, ovunque siano.
[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

AMDG et DVM

lunedì 16 ottobre 2017

Suor Rita, San Gerardo, e ...l'attentato a Giovanni Paolo II

L'ATTENTATO A 
GIOVANNI PAOLO II


 

1.   Il fatto raccontato da Antonio Socci    

     Si dichiara che riguardo all’autenticità della cosiddetta “bilocazione” e di altri fenomeni di origine non naturale, descritti nel seguente racconto, il giudizio definitivo spetta alla Chiesa. Noi intendiamo attenerci a tale giudizio e il lettore è libero di prestare ai fenomeni citati una fede puramente umana, in base ai Decreti di Urbano VIII e della Congregazione per la Dottrina della Fede.


     Il 13 maggio 1981, verso le ore 17,17, in piazza San Pietro a Roma, un killer turco inviato da forze oscure e potenti, Mehmet Ali Agca, sta per sparare al Papa Giovanni Paolo II. Il ventitreenne "lupo grigio" è un professionista, è un ottimo tiratore, è lì per uccidere, si trova dietro la prima fila, a distanza molto ravvicinata (solo tre metri dal Santo Padre). E' molto calmo e determinato, dunque il bersaglio, indifeso ed esposto davanti a lui, non ha scampo.
     Ma allora come e perchè l'assassinio è fallito? Se l'avesse ucciso - e le probabilità erano il 99,99 per cento - il suo pontificato sarebbe stato soffocato agli albori. La storia della Chiesa sarebbe stata molto diversa, ma soprattutto lo sarebbe stata la storia mondiale, perchè il ruolo che il "papa polacco" ebbe nel successivo crollo incruento del comunismo fu colossale, decisivo. Tutto dunque sarebbe andato diversamente e, di certo, molto più drammaticamente per l'intera umanità.
     Ripeto dunque la domanda: come e perchè quell'assassinio è fallito? Chi impedì al killer di perpetrare quell'omicidio ormai a portata di mano alle 17,17 di quel giorno in piazza San Pietro, il luogo che aveva visto, diciannove secoli prima, il martirio dell'apostolo Pietro?
     Papa Wojtyla ha sempre affermato di essere stato salvato da un intervento soprannaturale della Santa Vergine. Ne danno testimonianza l'icona della Madonna che ha fatto dipingere sopra piazza San Pietro, nel punto dove si consumò il crimine, e una pallottola - di quell'attentato - che il papa volle portare l'anno successivo come ex voto al santuario di Fatima per farla incastonare nella corona della Regina della pace. In effetti il giorno dell'attentato era la festa della Madonna di Fatima, l'anniversario della prima apparizione (avvenuta il 13 maggio 1917). E' una simile coincidenza fa davvero pensare a una soprannaturale protezione sul papa scampato alla morte.

                                                              

     E' davvero inspiegabile che un killer professionista, molto abile e determinato, abbia fallito a distanza ravvicinatissima un bersaglio così facile e indifeso sparando solo due colpi. Anche la traiettoria del proiettile che colpì al ventre il Santo Padre sembrò innaturale, anzitutto ai chirurghi. Che una mano misteriosa abbia deviato la pallottola per salvare la vita del papa non è solo una persuasione soggettiva di Karol Wojtyla, è un fatto oggettivo, in un certo senso scientificamente acclarato: "Il professor Crucitti aggiunse di aver osservato una cosa 'assolutamente anomala e inspiegabile'. La pallottola si era mossa, nel ventre del papa, a zigzag, evitando gli organi vitali. Era passata a un soffio dall'aorta centrale: se l'avesse raggiunta, il Santo Padre sarebbe morto dissanguato ancora prima di arrivare in ospedale. Aveva evitato la spina dorsale e tutti gli altri principali centri nervosi: se li avesse colpiti, Giovanni Paolo II sarebbe rimasto paralizzato. 'Sembra' concluse il professore 'che quella pallottola sia stata guidata per non provocare danni irreparabili'."
     Per questo il 13 maggio 1994, parlando ai vescovi italiani, Giovanni Paolo II potè ragionevolmente affermare: "fù una mano materna a guidare la traiettoria della pallottola e il papa agonizzante si fermò sulla soglia della morte (...) Il proiettile mortale si fermò e il papa vive - vive per servire!".
     Che quella mano misteriosa appartenga alla Madre di Dio, di cui quel giorno si celebrava l'apparizione a Fatima, era per papa Wojtyla una certezza. " Sono stato a Fatima per ringraziare la Madonna" ha scritto in Memoria e identità. In effetti quel giorno, il 13 maggio 1982, primo anniversario dell'attentato, dichiarò: " Ho visto in tutto ciò che mi stava succedendo una speciale protezione materna della Madonna. In questa ora, quì nel santuario di Fatima, voglio ripetere adesso davanti a tutti voi: Totus Tuus - " tutto tuo" o Madre!". Il papa ha poi ripetuto in varie occasioni: " una mano ha sparato, un'altra mano ha deviato la pallottola".
     Nessuno, ovviamente, ha mai cercato testimoni di quell'intervento soprannaturale. Nessuno poteva immaginare che una mano avesse fisicamente impedito ad Agca di sparare i colpi decisivi. Finché un giorno di luglio del 2007 mi sono imbattuto in alcuni documenti che avevo ricevuto nel maggio del 2005, accantonandoli senza prestarvi attenzione.
     Sistemando dei libri ho aperto un incartamento che neanche sapevo di avere e che conteneva la straordinaria vicenda di Cristina Montella, la "bambina" di padre Pio. Mi tuffo nella lettura, scopro un continente sconosciuto. E dopo qualche giorno mi metto alla ricerca di colui che ha raccolto tante testimonianze e documenti straordinari su di lei.
     Un caldo e luminoso giorno di agosto percorro in macchina verso sud la valle spoletana, che corre sotto Assisi. Sembra di essere in pellegrinaggio: sfioro Santa Maria degli Angeli con la grande basilica che contiene la Porziuncola, poi Rivotorto (una chiesina costruita sopra la stalla in cui Francesco visse alcuni mesi con i suoi compagni), quindi Spello, infine Trevi. E, dirigendomi verso Montefalco, nel mezzo della campagna trovo il santuario della Madonna della Stella.
     Vive quì il padre passionista Franco D'Anastasio, un raffinato biblista che è stato per anni rettore del santuario San Gabriele dell'Addolorata. Proprio sul santo e specialmente sulla sua "presenza carismatica" ha scritto una quantità di pregevoli opere che fanno di lui oggi il suo maggior biografo e storico. Uno dei suoi libri recenti è dedicato alle analogie fra San Gabriele e padre Pio.
     Ma negli ultimi anni padre D'Anastasio ha portato a termine una imponente ricerca storica, raccogliendo una montagna di documenti e testimonianze, sulla figura di suor Rita Montella (al secolo Cristina Montella), monaca agostiniana morta in fama di santità il 26 novembre 1992 nel monastero di clausura di Santa Croce sull'Arno, in Toscana.

                                                                            

     La vita di suor Rita, anzi soprattutto la sua vocazione, così piena di doni, di carismi superiori ( a cominciare dalla bilocazione), è intrecciata fin dall'inizio a quella di padre Pio e particolarmente alla sua "azione riparatrice". Il suo legame con il santo cappuccino è speciale, come vedremo, ed è documentato e testimoniato fra l'altro da padre Teofilo dal Pozzo - stimatissima e autorevole figura di francescano - che fu direttore spirituale di suor Rita e superiore della provincia cappuccina di Foggia, quindi superiore diretto e amico di padre Pio,
     Padre Teofilo fu un testimone diretto delle misteriose "missioni" congiunte di padre Pio e di suor Rita. E fu in modo rigoroso e profondo il primo a verificare i carismi e la santità di vita di suor Rita, insieme ad altri autorevoli religiosi e religiose. Padre D'Anastasio, raccogliendo tutte queste testimonianze, a potuto però attingere anche alla sua conoscenza personale della suora da cui, nel corso degli anni, ha appreso informazioni importanti. Una delle quali davvero sconvolgente, riguarda l'attentato a Giovanni Paolo II di cui per altro suor Rita era coetanea.
     Suor Rita, subito dopo il 1981, in un colloquio confidò a padre Franco - facendogli promettere di tenere il segreto almeno fino alla morte di lei - di essere stata presente in bilocazione in piazza San Pietro quel 13 maggio 1981. Ma c'è di più : "Assieme alla Madonna deviai il colpo dell'attentatore del papa". Queste le sue testuali parole. 
     Si tratta di una rivelazione che ovviamente lascia sconcertati, che può essere presa in esame solo considerando l'assoluta affidabilità di questa religiosa, la sua vita santa e i doni soprannaturali che ebbe e che sono testimoniati da persone del tutto degne di fiducia a cominciare da ciò che di lei attestò san Pio da Pietrelcina il quale, come vedremo, proprio con suor Rita ha compiuto alcune delle sue imprese straordinarie.
     
     (...) A questo sconcertante segreto peraltro si aggiunge un'altra breve frasetta che suor Rita si lasciò sfuggire - in una diversa circostanza in modo indipendente - alla signora Gabriella Panzani, da tanti anni amica della religiosa. Dunque suor Rita un giorno, mentre si parlava dell'attentato al papa, disse: "Quanto ho dovuto faticare perchè non avvenisse di peggio".
      Un flash che lascia intravedere il drammatico "prezzo" d'amore che dev'essere stato pagato, fatto di preghiere e di durissime penitenze che questa mistica prendeva su di sè al posto di altri, in questo caso per riparare a un immane sacrilegio. Siamo in quella dimensione di "espiazione vicaria" che suor Rita visse eroicamente e che permise anche a padre Pio di strappare al Cielo tante grazie per gli esseri umani sofferenti e per la Chiesa. Quella frase inoltre ci fa intravedere la risposta a un'obiezzione che viene naturale fare: ma perchè mai il Cielo, per salvare il papa, avrebbe dovuto aver bisogno di una piccola suora di clausura sconosciuta a tutti? la prima risposta ovviamente è che i disegni di Dio sono imperscrutabili. Forse in questo caso il Cielo potrebbe aver voluto che una persona desse testimonianza di quello che la Madonna ha operato. Ma un frammento della risposta potrebbe stare anche nel fatto che suor Rita era una creatura terrena, appartenente alla Chiesa militante, e dunque poteva offrire e offrirsi per ottenere alla Chiesa e al mondo quella immensa grazia. Solo gli uomini che sono in questa vita possono farlo e così hanno un "potere" straordinario. Padre Pio sosteneva che l'unica cosa che gli angeli ci invidiano infinitamente è la sofferenza e l'offerta, perchè è il modo più forte e sincero di dire a Dio: "Ti amo davvero!".
     Vedremo con padre Pio che infinito valore ha - agli occhi di Dio - la sofferenza umana offerta con amore, vedremo quanto sia capace di commuovere il suo Cuore e far "violenza" alla sua giustizia ("il Regno di Dio appartiene ai violenti [Mt 11,12]"). In questo caso per ottenere una grazia immensa: la salvezza di un grande papa.
     Di una simile, clamorosa rivelazione che conferme possiamo cercare? pensavo che non ce ne potessero essere di alcun genere, trattandosi di un evento soprannaturale. Ritenevo che non avesse senso neanche cercarle. Sennonchè una sorprendente conferma potrebbe averla data inconsapevolmente - senza sapere nulla di tutta questa storia - proprio il protagonista dell'evento, l'attentatore Mehmet Ali Agca. Al giudice istruttore Ilario Martella che lo interrogava, nel corso della seconda indagine giudiziaria sull'attentato, ha così descritto quello che accadde: "era mio preciso intendimento uccidere il papa. Questo era il mandato che mi era stato affidato, tant'è che ho sparato solo due colpi perchè accanto a me c'era una suora che a un certo momento mi ha preso il braccio destro, per cui non ho potuto continuare a sparare. Altrimenti io avrei ucciso il papa."

                                                                            

     Quando ho letto queste parole mi è sembrato di ravvisarvi una notizia clamorosa che pare sia sfuggita all'attenzione: una suora che ha sventato l'assassinio. E' stato inevitabile pensare a suor Rita. Per la verità si era subito diffusa la notizia di una suora che aveva ostacolato Agca mentre sparava. Ce ne traccia sui giornali del tempo. Lo ha ricordato per esempio Adriano Sofri in un suo articolo dedicato appunto alle suore: "Nel pomeriggio dell'attentato in piazza San Pietro, si disse che una suora si era gettata addosso ad Ali Agca per deviarne il colpo".
     Ma, a quanto pare, tutti hanno sempre sovrapposto la figura della suora di cui parla Agca, quella che gli afferrò il braccio, all'altra che poi ne bloccò la fuga. Un errore forse dovuto al fatto che l'unica suora reperibile e identificata dalla polizia sul posto è stata la seconda, che ha pure testimoniato al processo. Della prima ifatti non c'era traccia, non fu identificata dalla polizia, non era rimasta in piazza San Pietro dopo aver afferrato il braccio destro dell'attentatore impedendogli di sparare altri colpi. Si era come volatilizzata. Stiamo sfiorando - come ben si capisce - il mistero, il soprannaturale e certo qualcuno storcerà il naso. I mistici, come dice Jean Guitton, sconvolgono le nostre presunte certezze fisico-matematiche perché spalancano davanti a noi altre dimensioni, ci fanno intuire quanto sia corta la nostra vista e lasciano irrompere l'Eterno nell'istante presente.
     Così diventa comprensibile perfino l'impossibile: la notizia di una suora che vive in un monastero di clausura in Toscana e che, in bilocazione, un giorno, impedisce all'attentatore del papa di sparare ancora. Del resto le testimonianze sulle bilocazioni di suor Rita e di padre Pio, come vedremo, sono tante e indiscutibili. Inoltre i fatti sono obiettivamente concordanti con la "rivelazione" relativa a suor Rita. Il primo è la confessione di Agca che parla di una suora che gli prese il braccio impedendogli di sparare altri colpi. Il secondo fatto è la testimonianza di quella "suor Lucia" che bloccò la fuga di Agca.
     Non è stato facile raggiungerla (peraltro indirettamente). Sapevo che vive in un convento di Genova, ma non parla con i giornalisti. Però recentemente il 10 gennaio 2006, ha scritto un suo ricordo dell'attentato per "L'eco di Bergamo". Suor Lucia Giudici - che in realtà da religiosa si chiama suor Letizia - scrive: "Sì, è toccato proprio a me acciuffare Ali Agca che tentava di fuggire dalla piazza dopo aver sparato al Santo Padre. Ho atteso invano quel giorno che qualcuno lo bloccasse, ma tutti i pellegrini e turisti in quel momento erano allibiti e sconvolti nell'osservare il papa che ferito gravemente veniva trasportato all'ospedale Agostino Gemelli. Tutto si svolse in una manciata di minuti ed io istintivamente ho cercato il momento per bloccarlo e tenerlo fino al momento di consegnarlo alla polizia".
     Suor Lucia qui non dice affatto di essersi trovata accanto all'attentatore e di avergli afferrato il braccio, anzi colloca il suo gesto dopo che l'attentatore ha sparato, mentre sta fuggendo. Dunque fornisce una risposta. Ma occorre capire precisamente quanto lei era distante dal killer turco. Come fare ? Apprendo che suor Lucia è originaria di un paesino della bergamasca e che, nei giorni in cui sto scrivendo, si trova lì in vacanza. Grazie alla preziosa collaborazione di Ettore Ongis, direttore dell' "Eco", riesco a farla raggiungere il 23 agosto 2007 alla messa delle ore 18 e lì, informalmente, fornisce una spiegazione precisa che mi sembra definitiva. Eccola: Ali Agca si trovava davanti alla suora, a una distanza di circa 10 metri. Lui ha sparato i due colpi, poi si è voltato e ha cominciato a scappare dirigendosi verso il colonnato del Bernini, cioè verso di lei. Siccome nessuno lo fermava, lei ha allargato le braccia per sbarrargli la strada. Lui allora le ha puntato la pistola ma, muovendosi per tornare indietro, ha perso l'equilibrio e a quel punto lei l'ha bloccato finchè non sono arrivati altri e poi dei carabinieri che l'hanno ammanettato.
     Quindi adesso è certo: suor Lucia si trovava lontano da Agca al momento degli spari, stava a dieci metri, dunque non era lei la suora che - secondo le parole dell'attentatore - "a un certo momento mi ha preso il braccio destro, per cui non ho potuto continuare a sparare. Altrimenti io avrei ucciso il papa". Ma se non era suor Lucia, chi sarà stata quella suora che non fu mai identificata sul posto dalla polizia perchè, dopo l'attentato sembra essersi volatilizzata da piazza San Pietro ?
     Padre Franco D'Anastasio oggi può rivelare la confidenza ricevuta da suor Rita perchè lei è morta nel 1992. Quindi non è piu' tenuto al segreto.
     (...) Del resto suor Rita ha dato anche altri elementi interessanti a padre d'Anastasio subito dopo l'attentato. Li riassumo in sintesi: "L'attentatore non parlerà. Le pallottole che ferirono il Santo Padre erano avvelenate. Lui era con altri due che sono fuggiti. C'era una trama internazionale contro il papa e la chiesa". Tutti i flash che poi hanno trovato puntuale conferma nelle indagini della magistratura e negli eventi successivi.

                                  (da Antonio Socci, Il segreto di Padre Pio, Rizzoli 2007, pp. 9-20, con il permesso dell'autore)

*

2.  Valutazione del racconto fatto da Antonio Socci.
     Secondo il parere del sacerdote passionista Padre Franco D’Anastasio, teologo, importante testimone e biografo di Suor Rita, Socci nel suo libro ha esposto con precisione e in modo esauriente i fatti riguardanti l’intervento di Suor Rita nell’attentato a Giovanni Paolo II.
     L’unica inesattezza si riscontra nel passo seguente (contenuto nell’Antefatto del libro di Socci, alle pagine 19-20, ma non riportato nei brani presi dal libro e citati qui sopra):  “Nel 2007 il cardinale Stanislao Dziwisz, arcivescovo di Cracovia e già segretario del pontefice polacco, ha fatto chiamare padre D’Anastasio e gli ha chiesto di rilasciare sotto giuramento la testimonianza sull’attentato e le parole ascoltate da Suor Rita per il processo diocesano di beatificazione di Karol Wojtyla che si era aperto a Cracovia”.

                                          

     In verità il cardinale Stanislao Dziwisz non "ha fatto chiamare” Padre Franco D’Anastasio a Cracovia, né gli “ha chiesto” di rilasciare la testimonianza sulle parole di Suor Rita, ma ha ricevuto inaspettatamente per posta nel 2006, dietro notifica e lettera accompagnatoria di un sacerdote, in occasione del venticinquesimo dell’attentato al Papa, la dichiarazione firmata da Padre D’Anastasio, controfirmata da un notaio, nella quale venivano riportate le testuali parole che erano state riferite di persona da Suor Rita Montella, quando era viva, a Padre Franco D’Anastasio stesso.
     Il cardinale, a sua volta, in data 21 giugno 2006, ha risposto ringraziando per l’informazione ricevuta e attestando che l’avrebbe fatta pervenire a Roma (non a Cracovia) a Mons. Slawomir Oder, Postulatore della Causa del Servo di Dio Giovanni Paolo II.
     A parte questa imprecisione di poco valore (che già abbiamo fatto presente all’autore), il resoconto steso da Antonio Socci nell’Antefatto del suo libro è molto positivo, merita una lettura attenta e grande considerazione.
     Le copie autentiche dei documenti sopra citati, cioè la dichiarazione di Padre Franco D’Anastasio e la lettera del cardinale di Cracovia, sono nelle nostre mani.



3.  Il testo della dichiarazione di Padre Franco D’Anastasio.
     La dichiarazione è stata rilasciata “a tutti gli effetti e conseguenze esclusivamente delle leggi ecclesiastica e canonica” il 10 maggio 2006.
     In essa Padre D’Anastasio afferma che “in occasione di un incontro alla fine dell’anno 1981, ci trovammo a parlare dell’attentato al Santo Padre Giovanni Paolo II e Suor Rita mi confidò: La Madonna ed io abbiamo deviato con le nostre mani quella dell’attentatore al Papa”. Padre D’Anastasio continua così: “Suor Rita si riferiva a un fenomeno che, secondo la mia opinione personale, può definirsi bilocazione”.
     Poi, in ossequio all’autorità della Chiesa, a cui spetta giudicare una materia così delicata come i fenomeni di bilocazione, egli aggiunge: “Circa la natura di tale fenomeno, mi sottometto alla Chiesa e lascio alla Chiesa stessa l’ultimo giudizio”.
     Termina la dichiarazione dicendo che Suor Rita “mi pregò di non parlarne a nessuno, prima della sua morte, promessa che ho fedelmente mantenuto”.
     In un foglio allegato alla dichiarazione Padre Franco dice: “Sono pienamente disposto a confermare sotto forma di giuramento tutto quello che ho scritto”.
     Il documento porta la firma sua e quella di un notaio, iscritto nel “Ruolo del Distretto notarile di Perugia”, il quale certifica che la firma di Padre Franco D’Anastasio è “vera ed autentica, apposta in mia presenza”.
     Questa dichiarazione è attendibile sia per l’onestà e la sincerità di chi l’ha firmata, sia per il modo “solenne e ufficiale” in cui è stata redatta. Contestarla sarebbe temerario, a meno che non esistano motivi fondati per impugnarne il contenuto. Ridicolizzarla, solo perché per principio non si vuole ammettere la possibilità delle “bilocazioni”, dimenticando che a Dio niente è impossibile, sarebbe stolto.
     E’ di grande importanza per capire tutte le altre testimonianze sull’attentato a Giovanni Paolo II.

http://suorritamontella.com/Attentato_al_papa.htm

et:

AMDG et BVM

venerdì 16 ottobre 2015

SAN GERARDO

La Vita di San Gerardo Maiella  Mostre gerarde gerarde Santuari e





Gerardo Maiella, Missionario Redentorista, è invocato in tutto il mondo come il Santo delle mamme e dei bambini. Spentosi a Materdomini il 16 ottobre del 1755 alla giovane età di 29 anni, la sua breve esistenza sarà nota come la "Vita meravigliosa di san Gerardo Maiella"

Al pari di qualsiasi altro personaggio, san Gerardo Maiella bisogna prenderlo così com'è: una copia del Cristo sofferente, un fanatico della volontà di Dio, un carismatico cacciatore di anime, un mistico spesso in estasi, un semina­tore di miracoli. Nascondere i suoi miracoli sarebbe come rifiutare la storia e scrivere un romanzo.

Sarebbe come negare, in Gerardo, la virtù che fu poi la fonte di tutte le altre: "una fede capace di trasportare le monta­gne", secondo la promessa del Signore (Mt 17,20). Certo l'entusiasmo che un taumaturgo lascia dietro di sé si ingrossa e si allarga sempre di più. Come in ogni altro Santo, è evidente che la luce irradiata da Gerardo non è autonoma: egli è solo luce riflessa del Cristo.

La sua vita non ci parla d'altro che della forza del Redentore, il quale, con il dono dello Spirito, ci libera, ci guarisce, ci rinnova; il suo insegnamento è eco fedele del Vangelo; gli orizzonti, verso i quali ci proietta, sono quelli aperti dalla croce e dalla risurrezione del Cristo. Riferirsi a Gerardo significa voler fissare lo sguardo, in maniera sempre più intensa, su Cristo; riconoscere in lui il solo nostro maestro (cf Mt 23,10); ripetergli con Pietro: «Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).

Scrive Giovanni Paolo II: «Non si tratta di inventare un "nuovo programma". Il programma c'è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace».


La vita di San Gerardo







lunedì 17 novembre 2014

San GERARDO Maiella

san_gerardo_maiella_1.jpg
Mosaico della Parrocchia San Gerardo
Maiella, Fort Oglethorpe (Stati Uniti)
Come un cristallo purissimo attraversato da intensi raggi di Sole, l'anima di San Gerardo Maiella lasciò passare la luce divina senza opporLe resistenza. Per questo, egli ha potuto, mentre era ancora in questa valle di lacrime, "vedere Dio"!

Suor Clara Isabel Morazzani Arráiz

"Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5, 8). Forse questa è una delle più belle frasi del Vangelo, e una delle più conosciute. Tuttavia, non sempre troviamo il significato più profondo voluto dal Divino Maestro nel pronunciarla. Di certo non si riferiva solo alla purezza dei Santi nel Cielo, né a quella per cui il cuore, ancor qui sulla Terra, è continuamente alla ricerca di Dio, ma anche alla visione che l'innocente possiede di tutte le creature, discernendo in loro un riflesso del Creatore.

Ora, secondo Sant'Agostino, San Tommaso d'Aquino e altri Dottori, è possibile per un uomo cominciare a godere, ancora in questa vita, dei premi promessi nel Discorso della Montagna. Circa la ricompensa dei puri, scrive il Dottor Angelico: "Con la visione purificata dal dono dell'intelligenza, Dio può, in un certo modo, esser visto".1

Se tutti i Santi raggiungono questa singolare verginità di spirito, in alcuni essa sembra brillare con maggior splendore, servendo da modello da imitare. Così avviene con San Gerardo Maiella, che nella sua breve esistenza di soli 29 anni lasciò alla Chiesa un esempio vivo di questa beatitudine. "O mio Dio, di tutte le virtù che Ti sono gradite, la mia preferita è la purezza di cuore"2 – ha scritto.

Percorrendo la sua storia, analizzando le sue virtù, i suoi miracoli e, soprattutto, le terribili sofferenze che dovette affrontare, abbiamo l'impressione di contemplare un cristallo purissimo attraversato da intensi raggi di Sole: la sua anima lasciò passare la luce divina senza opporLe resistenza. Per questo, egli ha potuto, mentre era ancora in questa valle di lacrime, "vedere Dio"!

Un bambino predestinato

Ultimo figlio di una pia famiglia, Gerardo nacque nella piccola città di Muro Lucano, vicino a Napoli, nell'aprile del 1726. Fin da molto giovane diede manifestazioni di essere un'anima prediletta dalla Provvidenza: non chiedeva mai di mangiare e, in alcuni giorni della settimana, arrivava a rifiutarlo, preannunciando i digiuni che avrebbe più tardi praticato e la sua celebre massima: "L'amore a Dio non entra nell'anima se lo stomaco è pieno".3

Il suo principale passatempo consisteva nell'erigere piccoli altari, adornandoli con candele e fiori; ma il suo luogo preferito era la cappella di Capodigiano, dedicata alla Santissima Vergine, distante da Muro circa 2 km.
Da qui tornò, una volta, portando un piccolo pane bianco. Alla mamma che gli chiese chi gli avesse dato l'alimento, rispose: "Il figlio di una bella signora col quale ho giocato".4

Siccome il fatto si ripeté quotidianamente per vari mesi, una delle sue sorelle lo seguì un giorno, senza che lui se ne accorgesse, e poté testimoniare il seguente spettacolo: appena Gerardo si inginocchiò ai piedi della statua di Maria, il Bambino Gesù scese dalle braccia di sua Madre per giocare con lui e, al momento di salutarlo, gli consegnò un pezzo di pane.
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Di notte, scalava il campanile della cattedrale per introdurvisi attraverso le arcate delle
campane e andare a pregare ai piedi del Santissimo Sacramento
La città di Muro, con in cima la Concattedrale di San Nicola
La sua Prima Comunione non fu meno straordinaria: avendo ricevuto dal parroco una categorica risposta negativa, perché era ancora troppo piccolo per ricevere il Pane dei forti, il piccolo Gerardo si mise a singhiozzare in fondo alla chiesa. Quella stessa notte gli apparve San Michele Arcangelo e gli amministrò la Sacra Eucaristia!

Già nell'adolescenza, segno di contraddizione

A somiglianza di Nostro Signore Gesù Cristo, Gerardo fu, fin dai primi anni, un segno di contraddizione (cfr. Lc 2, 34) negli ambienti che frequentava. A causa della morte di suo padre, si vide obbligato a lavorare come apprendista di un sarto. Il padrone dello stabilimento si affezionò a lui; ma il capo dei dipendenti, al contrario, fu preso da antipatia per il giovinetto, proprio perché lo vedeva così pio. Lo accusava di essere un vagabondo, lo copriva di schiaffi, al punto che, una volta, gli fece perdere i sensi. Gerardo non si lamentava mai col padrone; anzi, era contento di patire per Gesù e ripeteva al suo carnefice: "Battimi, battimi ancora, che merito questo castigo"!5

Qualche tempo dopo, si mise a servizio di Mons. Albini, Vescovo di Lacedonia, noto per il suo carattere irascibile. Per tre anni Gerardo sopportò umiliazioni, reprimende, maltrattamenti... Una volta, fece cadere nella cisterna il mazzo di chiavi della residenza episcopale. Preso da una terribile afflizione, trovò solo una via d'uscita: fece scendere fino in fondo al pozzo, legata alla corda, una statua del Bambino Gesù, e nel contempo supplicava: "Solo Tu puoi aiutarmi... Se non vieni in mio soccorso, Monsignore mi sgriderà. Per favore, riportami la chiave!".6 Tirò la corda e – oh, meraviglia! – la statua aveva le chiavi in mano. Questo prodigio e la sua eroica pazienza gli valsero l'ammirazione di tutta la città, eccezion fatta per lo stesso prelato. E quando questi morì, Gerardo dimostrò con le sue lacrime quanto stimava colui che tanto lo faceva soffrire:
– Ho perso il mio migliore amico! – esclamava sconsolato.

"Più pazzo sei Tu, Signore"!

Ritornato a Muro, Gerardo aprì una sartoria. Mentre l'ago correva tra le sue agili dita, la sua anima si elevava alle altezze della contemplazione. Nutriva una filiale devozione per Maria Santissima, cui aveva consacrato la sua verginità, e gli bastava pronunciare il suo nome per sperimentare trasporti d'amore.

Inebriato dalla "stoltezza" della Croce (cfr. I Cor 1, 18), cercava di imitare in tutto le sofferenze del Salvatore: si flagellava fino a sanguinare, si comportava da pazzo per attirare il disprezzo dei suoi concittadini, passava giorni interi senza mangiare e, le notti, scalava il campanile della cattedrale per introdurvisi attraverso le arcate delle campane e andare a pregare ai piedi del Santissimo Sacramento. Se, da un lato, il demonio gli ordiva delle trappole, prendendo le sembianze di un cane furioso o provocando incidenti, dall'altro, il Signore lo ricompensava con numerose consolazioni.
Andreas F. Borchert (CC-3.0)     
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Non appena vide alcuni religiosi
redentoristi, Gerardo comprese
che quella era la sua vocazione
Sant'Alfonso de' Liguori - Cattedrale
di Carlow (Irlanda)
In una di queste lunghe veglie, una voce soave, proveniente dal tabernacolo, ruppe il silenzio notturno: "Pazzerello!".7 La risposta uscì rapida dalle sue labbra ardenti: "Più pazzo sei Tu, Signore, che per amore stai qui, prigioniero nel tabernacolo!".8

Nella Congregazione del Santissimo Redentore

Essere religioso era stato sempre il sogno di Gerardo; tuttavia, alla Provvidenza piacque provare la sua perseveranza prima di accettare la sua consegna. Non riuscì in due tentativi ad entrare nei Cappuccini e in una breve esperienza come anacoreta. Questo avrebbe scoraggiato qualunque altro, non il giovane Maiella!

Alcuni preti della Congregazione Redentorista, che era appena stata fondata da Sant'Alfonso de' Liguori, giunsero a Muro per predicare una missione. Non appena li vide, Gerardo comprese che questa era la sua vocazione, e chiese di essere ammesso. Il superiore, padre Paolo Cafaro, si rifiutò esplicitamente, allegando che lui non possedeva le forze necessarie per sopportare i rigori della vita religiosa. Siccome si era incaponito nella sua decisione e lo importunava incessantemente, padre Cafaro chiese a sua madre di chiuderlo a chiave in camera, il giorno della partenza dei missionari. Il giovane, però, usando una corda fabbricata con le lenzuola, scappò dalla finestra e corse dietro ai redentoristi, lasciando un biglietto per la famiglia: "Vado a farmi santo. Dimenticatemi".9

Li raggiunse per strada e li seguì fino alla città vicina, ricevendo sempre lo stesso rifiuto. Infine, la sua santa e serena tenacia poté più della determinazione ferrea del superiore: nel maggio 1749, a 23 anni, fu accolto, a titolo di prova, nel convento di Deliceto.

Instancabile apostolo, grande taumaturgo

Cominciava per Gerardo l'ultima tappa della sua vita: soltanto sei anni lo separavano dalla sua dipartita per l'eternità... sei anni fecondi in meriti, ricchi di fatti miracolosi e rapimenti celesti, inframmezzati da difficoltà e sofferenze quasi sovrumane.

Considerato inutile per qualsiasi lavoro a causa della sua estrema magrezza, non tardò a smentire questa fama. Il fuoco interiore che lo consumava suppliva alla mancanza di robustezza, al punto che i religiosi affermavano che rendeva per quattro persone. Si prodigava in attenzioni verso gli altri e assumeva su di sé gli incarichi più umili: giardiniere, sacrestano, collettore di elemosine, portinaio... La sua presenza fu contesa nelle diverse case della Congregazione.

Esimio nel compimento degli obblighi, si rivelò anche apostolo infaticabile e irresistibile nelle missioni. Scrive uno dei suoi biografi: "Il suo aspetto, la sua semplice presenza, raccontano i testimoni, valevano una predicazione; si sentiva Dio in lui. La sua parola ardente imprimeva nelle anime l'orrore per il peccato, l'ardore per la preghiera, l'amore a Gesù e a Maria, e la fedeltà ai doveri di stato. [...] Esalava dalla sua persona un non so che di divino che consolava i cuori, guariva le anime e trascinava alla virtù".10

Assecondato dal dono di miracoli concesso dalla Provvidenza, produceva abbondanti frutti di apostolato. Gli elementi, le malattie e i demoni obbedivano alla sua parola. Guarì un numero sterminato di infermi, tra i quali una bambina paralitica dalla nascita. In varie occasioni, moltiplicò il cibo e giunse ad aprire le acque di un fiume che gli impediva il passaggio.
Uno dei suoi più clamorosi prodigi fu quello realizzato a Napoli. Una folla riunita in riva al mare si affliggeva davanti allo spettacolo di un'imbarcazione piena di passeggeri che si dibatteva tra le onde, in mezzo a una furiosa tempesta. Passando per di lì, Gerardo si gettò in acqua e ordinò alla barca, in nome della Santissima Trinità, di fermarsi. Dopo la trascinò fino a terra, come se fosse paglia, e uscì dall'acqua con gli indumenti interamente asciutti. Tutto il popolo lo acclamava, volendo rendergli omaggio, ma egli fuggì di corsa per le vie della città.

Un serafino in carne e ossa

Tuttavia, dove più si faceva sentire l'aroma della sua santità era nel recinto sacro del convento. In tal modo in questo religioso esemplare rivaleggiavano le virtù, che sarebbe difficile indicarne una come la principale. Non c'era nessuno più umile, più obbediente, più osservante della regola! I suoi stessi maestri lo prendevano a modello e i confessori si confondevano davanti all'integrità di quel fratello laico, neofita nella vita religiosa e già elevato alle vette della perfezione. Alcuni suoi contemporanei giunsero ad affermare che sembrava non essere stato toccato dal peccato originale, come un serafino in carne e ossa!

I fenomeni mistici con cui fu graziato sono uno dei tratti più sorprendenti della sua spiritualità. "A quanto pare, tutti i favori concessi da Dio agli altri santi, nell'ordine mistico, Egli ha voluto riunirli nella persona del nostro serafico confratello",11 scrive il citato padre Saint-Omer. Infatti, in un secolo nel quale il razionalismo cercava di negare l'esistenza del soprannaturale e, in fondo, di Dio stesso, la vita di Gerardo mostrava come siano tenui i veli che ci separano dal mondo invisibile, per cui dobbiamo convincerci che siamo sempre sotto lo sguardo di Dio.
Visioni, estasi, levitazioni, dono di profezia, scienza infusa, discernimento degli spiriti, conoscenza a distanza, aureole, bilocazioni, invisibilità... Impossibile descrivere nell'esiguo spazio di un articolo ognuna di queste meraviglie!
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All’improvviso, Gerardo fu chiamato a Pagani, dove allora risiedeva Sant’Alfonso de Liguori.
Era il primo incontro dell’umile frate col fondatore... e quanto doloroso!

Cella e cappella privata di Sant’Alfonso de’ Liguori, Pagani
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Citiamo soltanto due esempi. In visita al Carmelo di Ripacandida, entrò improvvisamente in estasi e il suo corpo diventò incandescente al punto di sciogliere la grata di ferro che egli toccava con le mani. Gli accadde anche di sollevarsi dal suolo, contemplando un bel dipinto della Santissima Vergine, fino a raggiungere l'altezza del quadro e, baciandolo con ineffabile affetto, esclamare: "Come è bella! Guarda com'è bella!".12

Sotto il segno del dolore

Si farebbe comunque, un'idea sbagliata riguardo a Gerardo, chi credesse che egli sia stato un uomo quasi magico, immune dalle tentazioni e dalle sofferenze. Nulla di più contrario della realtà! Dal suo ingresso nella Congregazione, soffrì terribili privazioni spirituali, nelle quali si riteneva abbandonato da Dio, pronto a soccombere alla disperazione. La sua stessa descrizione, in una lettera a una religiosa, è più convincente di qualsiasi narrazione: "Sono sceso così in basso che non vedo più nemmeno la possibilità di uscire da questo precipizio... poco mi preoccuperei se per lo meno potessi amare Dio e piacerGli. Ma, ecco la spina che trafigge il mio cuore: mi sento che soffro senza Dio. [...] Mi vedo come sospeso sull'abisso della disperazione. Mi sembra che Dio sia scomparso per sempre, che le sue divine misericordie si siano esaurite, che sopra la mia testa aleggino minacciosi i fulmini della sua giustizia".13

Fatto curioso: nella misura in cui Gerardo progrediva in virtù, le angosce si facevano più frequenti e intense. Nel 1754, un anno prima della morte, sopravvenne la grande prova, terribile e spaventosa. All'improvviso, fu chiamato a Pagani, dove allora risiedeva Sant'Alfonso de Liguori. Era il primo incontro dell'umile frate col fondatore... e quanto doloroso! Dopo averlo salutato, Sant'Alfonso lesse a voce alta due lettere nelle quali qualcuno accusava il giovane religioso di un crimine commesso proprio contro la virtù che lui più amava: la castità!

Ciò nonostante, senza far trasparire alcuna emozione, Gerardo rimase in silenzio. Tale atteggiamento equivaleva a un assenso... Sorpreso, il fondatore decise di non espellerlo, ma gli impose una durissima penitenza: privazione dell'Eucaristia e proibizione di trattare con persone esterne alla Congregazione. Per più di due mesi egli sopportò questa situazione vessatoria, sorvegliato dai superiori, oggetto di sospetto di quanti lo conoscevano. Quello che più gli faceva male, però, era la mancanza della Comunione. Gli costava contenere gli ardori del desiderio di ricevere un così augusto Sacramento. A un sacerdote che lo esortava a servire da accolito la sua Messa, rispose: "Non mi tentare, caro padre, potrei strapparti l'Ostia dalle mani!".14

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"Figlio mio, perché non hai parlato?
Perché non hai pronunciato neppure
una parola per difendere la tua
innocenza?"
Conversazione tra Sant'Alfonso
e San Gerardo - Santuario di
Pagani (Salerno)
Finalmente, la verità venne fuori: altre due lettere, che smentivano la calunnia delle precedenti, rivelarono a Sant'Alfonso la falsità dell'accusa alla quale il suo cuore di padre si rifiutava di dare interamente credito... Invitato, ancora una volta, a presentarsi davanti al fondatore, Gerardo fu ricevuto con queste parole: "Figlio mio, perché non hai parlato? Perché non hai pronunciato neppure una parola per difendere la tua innocenza?".15 Al che egli replicò: "Padre mio, come avrei potuto farlo, se la nostra regola non ammette scuse di fronte ai rimproveri dei superiori?".16

"La volontà divina e io siamo una cosa sola"

Gerardo non era più di questo mondo. Del resto, non lo era mai stato! Tuttavia, quella tribolazione lo aveva allontanato ancor più dalle cose terrene. Nell'agosto del 1755, durante una missione, ebbe la prima emottisi. Il suo superiore lo indirizzò al convento di Materdomini, affinché si ristabilisse. Lungi dal regredire, la malattia peggiorò rapidamente: sangue, febbre, malesseri infiniti. Nulla, tuttavia, riuscì a strappargli un solo lamento: "La volontà divina e io siamo una cosa sola",17 diceva con gioia. A costo di enorme sforzo lasciava il letto per passare alcune ore in ginocchio davanti al Crocefisso della sua cella.

Anche questo periodo fu segnato da fatti straordinari: dal suo corpo minato dalla tubercolosi emanava un profumo così penetrante che i visitatori identificavano la sua stanza con facilità. Più edificante ancora fu la sua obbedienza: avendo ricevuto l'ordine di guarire, si alzò subito e riprese la vita comunitaria per varie settimane.

Senza dubbio, la volontà di Dio era un'altra, e in ottobre la malattia lo attaccò con maggior rigore. Nei pochi giorni che gli restavano, patì, per uno speciale favore del Cielo, i tormenti della Passione di Cristo. Giunto il giorno 15, annunciò che sarebbe morto quella sera stessa. Ricevette la mattina il Viatico e, nel pomeriggio, recitò il Salmo Miserere. Due ore prima di morire, vedendo approssimarSi la Regina del Cielo, si inginocchiò sul letto ed entrò in estasi. Era circa la mezzanotte quando la sua anima abbandonò il corpo.

Immediatamente il suo volto inerte si trasfigurò, acquistando una bellezza angelica. E quando il campanaro del convento volle far suonare il rintocco dei defunti, sentì una forza irresistibile che lo obbligò a suonare il carillon delle grandi feste!
Nel 1893, Leone XIII elevò Gerardo Maiella all'onore degli altari, come Beato. Undici anni dopo, San Pio X iscrisse nel Catalogo dei Santi questo religioso esemplare che mantenne sempre intatta la sua purezza di cuore.

1 SAN TOMMASO D'AQUINO. Somma Teologica. I-II, q.69, a.2, ad 3.
2 DUNOYER, CSsR, Jean-Baptiste. Vie de Saint Gérard Majela, rédemptoriste. Saint-Étienne: Bureaux de "L'Apôtre du Foyer", 1943, p.103.
3 REY-MERMET, CSsR, Thèodule. San Gerardo Maiella, il "pazzerello" di Dio. Materdomini: Stampa Valsele, 1992, p.51.
4 SAINT-OMER, CSsR, Édouard. Le Thaumaturge du XVIIIe siècle ou la vie, les vertus et les miracles du Bienheureux Gérard-Marie Majela. Desclée de Brouwer et Cie, 1893, p.2.
5 DUNOYER, op. cit., p.21.
6 Idem, p.32.
7 REY-MERMET, op. cit., p.32.
8 Idem, ibidem.
9 Idem, p.46.
10 SAINT-OMER, op. cit., p.75.
11 Idem, p.80.
12 Idem, p.46.
13 DUNOYER, op. cit., p.276- 277.
14 REY-MERMET, op. cit., p.114.
15 Idem, p.115.
16 Idem, ibidem.
17 Idem, p.133.

martedì 15 ottobre 2013

3. Vita meravigliosa di san Gerardo Maiella.

Gli ultimi mesi di vita

Nel mese di giugno del 1754 il Santo viene inviato a Materdomini. La minuscola borgata aveva assunto il nome della Vergine «Madre del Signore», alla quale era dedicato un piccolo santuario costruito quasi a picco sulle sorgenti del Sele, fiume che alimenta l'Acquedotto Pugliese. Sant'Alfonso, inviandolo a Materdomini, pensò di fargli dimenticare i giorni tristi della «calunnia».
Intanto padre Francesco Margotta, procuratore della Congregazione, dovendo trattenersi a Napoli per affari amministrativi, condusse con sé fratello Gerardo. Da Napoli Gerardo scriveva: «Io mi trattengo in Napoli per compagnia di padre Margotta, e ora più che mai me la scialo col mio caro Dio!» (cioè me la spasso). Passava di chiesa in chiesa, dove si celebravano le Quarantore, e sostava ore e ore in preghiera. Il resto del tempo lo passava nella visita agli ammalati dell'ospedale «Incurabili», già frequentato da sant'Alfonso.
E giunse anche il giorno del trionfo.

Nella baia di Napoli imperversava una tempesta. Gerardo era uscito di casa per le spese necessarie alla giornata. Al largo della «Pietra del pesce» un gruzzolo di gente urla e si dispera, attirando l'attenzione dei passanti e richiamando altra gente. «Sarà successo qualcosa di grave», pensa Gerardo. In effetti, una barca di pescatori fa fatica a raggiungere la riva, travolta da onde impetuose, che minacciano di capovolgerla.

Nessuno immagina come portare aiuto. Ci pensa fratello Gerardo. Una preghiera silenziosa, occhi al cielo, un segno di croce, il mantello sul braccio, e via: «In nome della Santissima Trinità» dice. Corre, camminando sull'acqua, e «con due ditelle» - come dirà lui stesso a padre Margotta - afferra la prua della barca e la trascina a riva.

La folla delira; dimentica barca e pescatori e va dietro al Santo, scandendo ad alta voce il suo nome. Ma Gerardo s'è già dileguato tra i vicoli del quartiere.
La notizia del miracolo volò sulle ali del vento, e Gerardo non riusciva più a mettere piede in strada, perché tutti gli correvano dietro.
Ritirandosi a casa, sostava nelle botteghe degli artisti a San Biagio dei Librai. Apprese così a usar la cartapesta e, una volta ritornato a Materdomini, si esibì in un celebre Ecce Homo e in alcuni Crocifissi: immagini che si conservano come reliquie. Queste opere, forse poco artistiche, riflettono lo stato d'animo dell'autore. Il Cristo appassionato era stampato nel cuore di Gerardo fin dal tempo di Muro Lucano. Da giovane aveva già impersonato il Crocifisso in una rappresentazione del venerdì santo a Muro, suscitando commozione e lacrime negli astanti.
In seguito, da religioso, si era impegnato con tutte le forze a trasformarsi progressivamente nell'immagine del Redentore. A Napoli, questa crocifissione mistica raggiunge i vertici. Aridità di spirito, desolazione interiore, abbandono, forse il ricordo della calunnia subita, certamente le sofferenze di una malattia che comincia a manifestarsi...

Gerardo a Materdomini


Il padre dei poveri


Trascorso velocemente il soggiorno a Napoli, ritornò a Materdomini. Qui Gerardo trovò un cantiere di lavoro che completava la fabbrica del collegio, e insieme religiosi e laici, ritirati in esercizi spirituali. Il superiore, padre Gaspare Caione, trovò subito l'impiego a fratello Gerardo: gli consegnò le chiavi della portineria. «Queste chiavi devono aprirmi le porte del Paradiso», profetizzò Gerardo. E Materdomini divenne un faro di fede e di carità. Correvano dai cento paesi della Valle del Sele per ascoltare la sua voce, perché aveva «una bocca di Paradiso», che consolava e infondeva speranza; correvano sacerdoti e gentiluomini per consigli e preghiere; correvano soprattutto i poveri. Come il Maestro, passava facendo del bene. «La carità si deve fare sempre», esclamava, privando se stesso e la comunità per dare ai poveri. Il rimprovero del superiore e dei confratelli trovava immancabilmente questa risposta sulle sue labbra: «Dio provvederà». E provvedeva il Signore, come a Capodigiano, come a Monte Sant'Angelo, come tante volte, spalancando i granai dei benefattori al passaggio dell'umile fratello.

Durante l'inverno 1754-1755 a Materdomini «erano caduti tre palmi di neve», e i braccianti, pagati a giornata, restarono senza lavoro per diverse settimane. In quel terribile inverno sbocciò eroica la carità di Gerardo. Alla portineria del convento giungevano a frotte uomini, donne e bambini coperti di stracci, i piedi affondati nella neve. Anche il superiore della comunità restò toccato da quello spettacolo che si ripeteva ogni mezzogiorno. Diede licenza a Gerardo di pensare ai poveri. Non occorreva altro. Il santo portinaio cominciò a svestirsi dei suoi indumenti e, pian piano, svuotò il guardaroba e la dispensa. C'era qualcosa per tutti. I piccoli intenerivano maggiormente il suo cuore: «Noi abbiamo peccato - diceva - e questi innocenti ne portano la pena».

I confratelli notavano la sensibile diminuzione delle provviste e lanciarono l'allarme: «Qui manca tutto e i poveri aumentano!». E Gerardo con tono sicuro rispondeva: «Voi avete il cuore piccolo e non sapete quanto è grande Dio e quanto onnipotente è la sua mano. Se ne dubitate, mettiamolo alla prova: offriamo un pranzo di festa ai poveri, poi vedrete che cosa egli sa fare». Il giovedì seguente Gerardò chiamò a raccolta più di cento poveri. La sua carità aveva contagiato i confratelli che gioiosi servivano a mensa. Al pari del profeta Elia, moltiplicò farina e olio, che non mancò per i confratelli, e i poveri continuarono ad affluire numerosi. Quell'umile fratello era diventato per quanti bussavano alla portineria di Materdomini «il padre dei poveri». Il suo motto era: «Dobbiamo sacrificare tutto per il povero che è l'immagine di Gesù Cristo». Dove non arrivava con le provvigioni, arrivava con le parole, con la presenza affabile e confortatrice.


Teologo improvvisato

Dio lo guidava per la strada ardua, e lo rendeva simile a sé. Ricevette il carisma della profezia, riuscì a tirare peccatori sulla via del bene rivelando i segreti del cuore, e a guidare alla vita monastica e alla perfezione anime consacrate. Anche sacerdoti e teologi più scettici ammisero che la scienza di Gerardo era frutto della sapienza vera, alla quale lo Spirito lo aveva iniziato e alla quale lo guidava per la comprensione dei misteri di Dio. Aveva scritto nei suoi propositi: «Io mi eleggo lo Spirito Santo per unico mio consolatore e protettore del tutto. Egli sia il mio difensore e vincitore di tutte le mie difese. E tu, unica mia gioia, Immacolata Vergine Maria, tu ancora mi sii unica, seconda protettrice e consolatrice in tutto quello che mi accadrà. E sii sempre l'unica mia avvocata appresso Dio».

Al di là di carismi particolari, egli aveva buoni talenti. Durante una discussione con un reverendo di Muro, rivelò con franchezza: «Paesano, avete studiato teologia, ma non siete teologo: questa scienza si acquista con umiltà e orazione». Si capisce meglio così che la teologia in Gerardo, essendo dono che conserva tutto il dinamismo della fede, diventava azione di carità operante e anche azione pastorale. Ciò rendeva la sua opera di fratello coadiutore infaticabile; e faceva anche parte dell'opera pastorale dei padri Redentoristi, che venivano a lui per consigli e per direzione di coscienza.

Il medico Nicola Santorelli ci dà questa testimonianza, raccolta dal Tannoia: «Quando il fratello Gerardo si metteva a parlare dei divini misteri, usciva di sé. Le cose più difficili si rendevano facili in bocca sua e le cose più oscure chiare faceva vedere e capibili. Io, trattandolo, restavo fuori di me, considerando come un povero laico e senza lettere, poteva entrare in sì profondi arcani, spiegarsi e farsi capire». Il segreto? Una fede vissuta in comunione col suo caro Dio, che provocava l'amore e lo guidava ad amare le creature e il mondo. Scriveva così: «Fede ci vuole ad amare Dio; ché, chi manca di fede, manca a Dio. Io son già risoluto a vivere e morire impastato di santa fede. La fede mi è vita, e la vita mi è fede. Oh Dio, e chi vuol vivere senza la santa fede? Ed io vorrei sempre esclamare, e che fossi inteso per tutto l'universo mondo e così dire sempre: evviva la nostra fede del nostro caro Dio! Dio solo merita di essere amato. E come potrò vivere se manco al mio Dio?». Con letture ascetiche e meravigliose contemplazioni arricchì il patrimonio delle proprie cognizioni.La mano scarna, abituata all'ago o alla scopa, fu costretta alla penna. Prima bisogni personali, poi ragioni di apostolato, lo indussero a scrivere; e scrisse inconsapevolmente sulla carta tesori interiori.


Apostolato epistolare

Oltre al Regolamento di vita, scritto da Gerardo a Materdomini nel luglio del 1754 per ordine del padre Francesco Giovenale, conosciamo numerose sue lettere a candide anime claustrali, a peccatori nel vortice del mondo, a venerandi sacerdoti impegnati nel ministero della confessione, a confratelli.Particolarmente ebbe scambio di corrispondenza con le Benedettine di Atella, le Domenicane di Corato, le Clarisse di Muro Lucano, le Monache del Santissimo Salvatore di Foggia, prediligendo il monastero delle Teresiane di Ripacandida, cui non mancava una settimana che dirigesse, o da esse ricevesse, lettere spirituali, accendendosi e stimolandosi reciprocamente all'amore di Dio e all'acquisto della più eroica santità. Il padre Tannoia nota un vasto raggio di azione quando asserisce: «Tante e tante anime dell'uno e dell'altro sesso, già infangate nel vizio e da lui convertite a Dio, dirette da lui, non vivevano che una vita tutta santa. Non potendo di persona, anche per lettera le animava al bene, e sentendo taluno deviato non lasciava mezzo per raddrizzarlo».


In un manoscritto inedito, il padre Landi, altro contemporaneo, rivela: «Scriveva continuamente lettere ad anime tribolate e tentate, ed era meraviglioso il conforto che quelle anime ricevevano dalle sue risposte, le quali erano piene di una singolare devozione e di una dottrina appresa unicamente alla scuola dell'orazione». Le lettere e i frammenti epistolari pervenutici sono appena quarantasette, datati tra il 1751 e il 1755. Il numero esatto o approssimativo di quelle scritte è impossibile stabilirlo, essendo andate le altre disperse o distrutte; ma il chiaro riferimento dei contemporanei dice abbastanza che lo scrivere fu per Gerardo un aspetto particolare della sua missione, un'altra vocazione impostagli dal Signore.


La bella volontà di Dio

Dai suoi scritti, carichi di dialettismi, traspare una dottrina umile e profonda, di un'anima serafica, ed è evidente l'immediatezza con cui riesce a comunicare il suo pensiero e ad essere ascoltato. Ma soprattutto emerge quella sua spiccata nota spirituale che lo rende singolare ed eroico: l'uniformità alla volontà di Dio. «Tutta la nostra perfezione consiste nell'amare il nostro amabilissimo Dio. Ma poi tutta la perfezione dell'amore consiste nell'unire la nostra alla sua santissima volontà», aveva scritto sant'Alfonso. Gerardo, iniziando il suo cammino di consacrato redentorista, formula questo proposito: «Mio caro ed unico amor mio e vero Dio, oggi e per sempre mi rassegno alla vostra divina volontà; e così in tutte le tentazioni e tribolaziòni dirò: Fiat voluntas tua. Terrò sempre gli occhi al cielo per adorare le vostre divine mani che spargono su di me gemme preziose del suo divino volere».

Un santo incolto, che però diventa coltissimo mettendosi in docile ascolto della Parola, imparando a leggerla e interpretarla, e a percepire la gradualità delle infinite esigenze che essa comporta. Gerardo sempre, nella sua vita, con modalità tipiche, esprime la sua passione nel ricercare la volontà di Dio. In ogni sua lettera la invoca, esorta a cercarla, la descrive come «tesoro nascosto e senza prezzo». Per Gerardo «gran cosa è la volontà di Dio», perché in essa si racchiude l'essenza dell'essere cristiano e della santità. Nello sforzo continuo di ricercare la volontà di Dio, egli riesce gradualmente a spogliarsi di tutto e a «stare indifferentissimo in tutto»; libero, povero e felice, gode di una grande pace che gli offre la «bella volontà di Dio».

Il questuante infermo


Sotto il torrido sole d'agosto del 1755 Gerardo era di nuovo in cammino per le aride vie polverose e gli acquitrini ronzanti di zanzare lungo la Valle del Sele per raccogliere fondi alle costruende casa e chiesa di Materdomini. Pallido e sparuto come sempre, non lamentava i suoi malanni, anzi vi scherzava per non destare apprensione. Durante la giornata aveva espettorati sanguigni, sintomi d'etisia che non erano sfuggiti al medico, Nicola Santorelli. A lui Gerardo medesimo aveva annunziato: «Non lo sai che burlando burlando quest'anno me ne muoio tisico?».

Quello che operò di bene e di prodigi durante la sua marcia può suonare esagerato, ma le testimonianze dei contemporanei, mitigando lo spirito critico del nostro tempo, possono far scoprire la potenza di Dio nell'uomo trasformato in sua immagine perfetta. La questua procedette bene fino alla sera del 21 agosto, malgrado la tosse e l'affanno; ma mentre stava inginocchiato nella chiesa di San Gregorio Magno ebbe uno sbocco forte di sangue. Salassato alla tempia da un medico inesperto, non vedendo miglioramento, pensò di far ritorno a Caposele. Arrivò a Buccino la sera dopo, il 22 agosto. Per trascorrere la notte riuscì a trascinarsi in canonica. Assalito ancora dalla tosse violenta, ebbe il secondo sbocco di sangue, e due medici lo salassarono al piede, consigliando subito il cambiamento d'aria. Raggiunse con sforzo Oliveto Citra. Dalla casa dell'arciprete Arcangelo Salvadore, informava il rettore padre Gaspare Caione: «Sappia vostra Riverenza che, mentre stavo inginocchiato nella chiesa di S. Gregorio, mi venne un butto di sangue. Andai con segretezza a ritrovare un medico e gli raccontai quanto era accaduto. Egli mi assicurò che il sangue non veniva dal petto, ma dalla gola; mi osservò che non avevo febbre, né dolore di testa, e perciò mi replicò con molte espressioni che non era niente; mi fece salassare alla vena della testa, mentre io non mi sentivo veruno incomodo. Ieri sera, giunto a Buccino, mi venne la solita tosse e buttai sangue nella stessa maniera. Mandarono a chiamare i medici, i quali mi ordinarono certi medicamenti e fra l'altro mi fecero salassare il piede. Il sangue che buttai lo buttai senza dolori e senza incomodi. Mi dissero ancora che non viene dal petto, e mi ordinarono che subito, la mattina seguente, che è stata questa mattina, fossi partito da quell'aria sottile e mi consigliarono che mi fossi ritirato a Oliveto, tanto per l'aria, quanto per parlare col signor don Giuseppe Salvadore, uomo insigne per medicina.
Io non l'ho trovato, ma mi dice l'arciprete suo fratello che viene questa sera. Tutto questo l'avviso a Vostra Riverenza per sapere come fare. Se volete che seguiti la questua, io la continuerò senza incomodo; perché circa il petto io mi sento meglio di quando stavo in casa. Tosse non ne ho più. Or via, mandatemi un'ubbidienza forte, e sia come sia. Mi dispiace che Vostra Riverenza si metta in apprensione. Allegramente, Padre mio caro, non è niente. Raccomandatemi a Dio, che mi faccia far sempre la sua divina volontà e il suo gusto divino».
Questo documento-relazione, calmo, misurato, preciso, cui non si può né aggiungere né togliere una parola, è una cronaca abbagliante. Rispecchia tutto intero Gerardo Maiella, che rivestito di cinque voti di perfezione, batte la sua strada inchiodato alla volontà di Dio, cadendo improvviso sotto la croce, ed esausto domanda la forza di riprendere il cammino.

Incontro alla morte

A padre Caione, che vedendolo - al ritorno a Materdomini - smunto e arso dalla febbre, non poté trattenere le lacrime, disse: «Padre mio, è volontà di Dio; perciò state allegramente, perché la divina volontà deve farsi sempre allegramente».
All'esterno della sua porta fece appendere una tabella con la scritta: «Qui si sta facendo la volontà di Dio, come vuole Dio e per tutto il tempo che piace a Dio». Tra le quattro anguste pareti l'estasi della sofferenza lo innalzava a vertici di amore: «Se mi trovassi su un'alta montagna, vorrei incendiare il mondo con i miei sospiri», esclamava. E ancora a padre Caione: «Padre mio, io mi figuro che questo letto sia la volontà di Dio, e che io vi stia inchiodato come se stessi inchiodato alla medesima volontà di Dio: anzi mi figuro io e la volontà di Dio siamo diventati la stessa cosa». Ecco un breve testamento pronunziato davanti a Cristo viatico: «Mio Dio, voi sapete che quanto ho fatto e detto, tutto l'ho fatto e detto per gloria vostra. Muoio contento, nella speranza di aver cercato solo la vostra gloria e la vostra santissima volontà».
Ma le ultime ore del crocifisso con Cristo non erano senza sofferenze. Il dolore e il lamento rassegnato del Figlio di Dio riecheggiavano sulle labbra morenti dell'uomo: «Signore, aiutatemi in questo purgatorio in cui mi avete posto!... Sto sempre dentro le piaghe di Gesù Cristo, e le piaghe di Gesù Cristo stanno dentro di me!... Patisco continuamente le pene e i dolori della passione di Gesù Cristo!... Patisco assai, ma tutto è poco, o mio Dio, per voi che moriste per me!». Le ultime parole udite furono: «Mio Dio, mi pento... Voglio morire per fare la vostra volontà!». Aveva desiderato morire abbandonato da tutti, e l'aveva ottenuto. Per una casuale coincidenza il confratello che lo assisteva s'era allontanato per prendere dell'acqua da lui richiesta. Gli altri di comunità non prevedevano imminente la fine. Quando il fratello ritornò con l'acqua, Gerardo boccheggiava, piegato su un fianco. Era l'una e mezza di notte del 16 ottobre 1755.

La notizia della scomparsa del santo fratello volò sulle ali del vento. Una grande folla assalì la chiesetta e si strinse intorno al feretro. Si piangeva per impetrare protezione con la certezza di avere un nuovo protettore in cielo. Piangeva di commozione fratel Carmine Santaniello, incaricato di suonare le campane a morto; alla vista di tale spettacolo di fede lo tradì la commozione e dalle sue mani uscirono scampanii di gloria che si diffusero echeggianti nella vallata del Sele. Con quel suono iniziava una nuova alba pasquale.

Quello che conosciamo di san Gerardo Maiella lo dobbiamo ai suoi confratelli, ma anche alle numerose testimonianze di amici e devoti che lo conobbero in vita o sperimentarono il suo patrocinio dopo la morte. Il suo sepolcro divenne subito meta di pellegrini.

Insieme alla tomba si cominciò a venerare la sua stanza, testimone di preghiere, di penitenze, di sofferenze, di estasi e della visione confortatrice della Vergine Maria prima di volare al cielo. Padre Francesco Santoli la descrive così: «Piccola e disadorna: misurava m. 4 di lunghezza e 3 di larghezza e di altezza. Al lato sinistro un lettino formato da due cavalletti di ferro, sormontati da due rozze tavole di castagno e un duro pagliericcio (saccone di cartocci di granturco).
In un altro angolo un tavolo dozzinale con lucerna ad olio e qualche libro spirituale. Un paio di sedie in legno ed un catino per l acqua. Alle pareti sospese quattro immagini cartacee... Fra la mobilia di Fr. Gerardo non mancava anche un teschio da morto sul tavolo, per il ricordo continuo di sorella morte temporale».

Ora pro nobis peccatoribus, nunc
et in hora mortis nostrae.Amen.