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lunedì 8 luglio 2019

Come deve essere chi si accosta al governo delle anime

10 — Come deve essere chi si accosta al governo delle anime (dalla Regola di san Gregorio Magno)
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Pertanto, in tutti i modi deve essere trascinato, a divenire esempio di vita, colui che morendo a tutte le passioni della carne vive ormai spiritualmente; ha posposto a tutto il successo mondano; non teme alcuna avversità; desidera solamente i beni interiori. 

Pienamente conformi alla sua intima disposizione, non lo contrastano né il corpo con la sua debolezza né lo spirito col suo orgoglio. Egli non è condotto a desiderare i beni altrui, ma è largo dei propri. 
Per le sue viscere di misericordia si piega ben presto al perdono ma non deflette dalla più alta rettitudine, passando sopra più di quanto conviene. Non commette nulla di illecito, ma piange come proprio il male commesso dagli altri. 

Compatisce la debolezza altrui con tutto l’affetto del cuore, gioisce dei beni del prossimo come di successi suoi. In tutto ciò che fa si mostra imitabile agli altri, così che con loro non gli avviene di dover arrossire nemmeno per fatti passati. 
Si studia di vivere in modo tale da essere in grado di irrigare, con le acque della dottrina, gli aridi cuori del suo prossimo. 
Attraverso la pratica della preghiera, ha imparato per esperienza che può ottenere da Dio ciò che chiede, lui cui in modo speciale è detto dalla parola profetica: Mentre ancora tu parli, io dirò: Eccomi, sono qui (Is. 58, 9). 

Infatti, se venisse qualcuno a prenderci per condurci come suoi intercessori presso un potente adirato con lui e che, per altro, non conosciamo, noi risponderemmo subito: non possiamo venire ad intercedere perché non sappiamo niente di lui. 

Dunque, se un uomo si vergogna di farsi intercessore presso un altro uomo che non conosce, con quale animo può attribuirsi la funzione di intercedere per il popolo presso Dio, chi non sa di godere la familiarità della sua grazia con la sua condotta di vita? 
O come può chiedergli perdono per gli altri uno che non sa se egli è placato verso di lui? 

A questo proposito, un’altra cosa occorre temere con maggiore sollecitudine, cioè che colui che si crede possa placare l’ira, non la meriti a sua volta a causa del proprio peccato. 
Giacché sappiamo tutti molto bene che se chi viene mandato a intercedere è già sgradito per se stesso, l’animo di chi è irato viene provocato a cose peggiori. 
Pertanto, chi è ancora stretto dai desideri terreni veda di non accendere più gravemente l’ira del Giudice severo e mentre gode del suo luogo di gloria, non divenga autore di rovina per i sudditi. 

AMDG et DVM

giovedì 18 dicembre 2014

La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne

  S.Gregorius
Regola pastorale 207


La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore

207

La guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore, affinché, dedito alle attività esterne non venga meno alla vita spirituale oppure occupato solo in essa manchi di rendere quel che deve al prossimo nell’attività esterna. 




Quindi ancora dice: Nessuno può servire a due padroni (Lc 16,13). Perciò Paolo interdice le anime religiose dal commercio col mondo dichiarando o piuttosto consigliando pressantemente: Nessuno che militi per Dio si immischi in affari secolari per potere piacere a colui che l’ha arruolato (2Tm 2,4). 
   Perciò prescrive alle guide della Chiesa di essere liberi da altri interessi e mostra loro come provvedere quando si tratti di cercare consigli, dicendo: Pertanto, se avrete delle liti riguardo a interessi secolari stabilite come giudici persone da niente nella Chiesa (1Co 6,4), perché all’amministrazione dei beni terreni servano quelli che sono non dotati di alcun dono spirituale. Come se dicesse apertamente: poiché non sanno penetrare le realtà interiori, operino almeno per le necessità esterne. 
     Perciò Mosè, che parla con Dio (cf. Es. Ex 18,17-18), viene giudicato dal rimprovero di Ietro, uno straniero, perché serve con una fatica inutile alle faccende terrene del popolo, e riceve subito il consiglio di stabilire altri al posto suo a dirimere le liti, per potere lui stesso più liberamente conoscere i misteri spirituali e insegnarli al popolo. Pertanto tocca ai sudditi svolgere le attività di grado inferiore, e alle guide delle anime meditare le verità somme affinché il darsi cura della polvere non oscuri l’occhio preposto a fare da guida nel cammino 
   Infatti, tutti coloro che presiedono sono capo dei sudditi e senza alcun dubbio è il capo che deve provvedere dall’alto a che i piedi siano in grado di percorrere la via diritta e non si intorpidiscano nel procedere del viaggio, quando il corpo si incurva e il capo si piega verso terra. 
   Ma con quale disposizione interiore colui che è preposto alle anime esercita sugli altri la dignità pastorale se lui stesso è preso dalle attività terrene che dovrebbe rimproverare negli altri? È chiaramente questo che il Signore, dall’ira della giusta retribuzione, minaccia per mezzo del profeta dicendo: E come il popolo così sarà il sacerdote (Os 4,9). E il sacerdote è come il popolo quando colui che esplica un ufficio spirituale compie esattamente le stesse cose di coloro che vengono ancora designati dai loro interessi carnali. 
   Vedendo questo, il profeta Geremia piange, con grande dolore ispirato dalla sua carità, e lo raffigura nella distruzione del tempio dicendo: Come si è annerito l’oro e si è mutata la sua splendida lucentezza, le pietre del santuario sono state disperse in capo a tutte le piazze (Lm 4,1). Che cosa si intende infatti con oro, che è il metallo più prezioso di tutti, se non l’eccellenza della santità? Che cosa si esprime con splendida lucentezza se non la riverenza che ispira la dignità religiosa amabile a tutti? Che cosa significano le pietre del santuario, se non le persone insignite di ordini sacri? Che cosa si raffigura col nome di piazze, se non la larghezza della vita presente? Infatti nella lingua greca la larghezza è detta platos ed è certo per la larghezza che le piazze sono chiamate così. Ma la Verità in persona dice: Larga e spaziosa è la via che porta alla perdizione (Mt 7,13). 

   L’oro pertanto annerisce quando una vita che deve essere santa si contamina con attività terrestri. La splendida lucentezza si muta quando diminuisce la stima che si era fatta di certuni i quali si credeva vivessero religiosamente. Infatti quando qualcuno, chiunque sia, lascia il costume di una vita santa per immischiarsi in attività terrestri, la riverenza che egli ispirava, divenuta oggetto di disgusto, impallidisce agli occhi degli uomini come la vivezza di un colore alterato. E anche le pietre del santuario vengono sparse nelle piazze quando coloro, che per il decoro della Chiesa avrebbero dovuto attendere solo ai misteri dello spirito, come nel segreto del Tabernacolo, vagano invece fuori, sulle larghe vie degli affari mondani. In effetti, le pietre del santuario erano fatte per comparire nell’interno del Santo dei Santi sulla veste del sommo sacerdote; ma quando i ministri della religione non sanno esigere, coi meriti della loro condotta di vita, l’onore dovuto dai sudditi al loro Redentore, allora le pietre del santuario non sono ornamento del pontefice. Esse giacciono sparse sulle piazze perché coloro che portano gli ordini sacri, dediti alla larghezza dei loro piaceri, sono tutti presi dagli affari terreni. 
E occorre notare che non dice che sono sparsi nelle piazze, ma in capo alle piazze, poiché mentre si occupano delle cose del mondo aspirano ad apparire in alto, per mantenersi sulle larghe vie, per l’allettamento del piacere, e insieme in capo alle piazze, per l’onore che viene attribuito alla santità. 
Del resto possiamo anche intendere senza difficoltà che le pietre del santuario siano invece quelle medesime con cui il santuario era stato costruito; in questo caso quelle pietre giacciono in capo alle piazze quando gli uomini insigniti degli ordini sacri si pongono con desiderio al servizio di affari mondani mentre prima sembrava che la loro gloria consistesse nel servizio delle cose sante. 
Così, gli affari mondani si devono assumere talvolta per esigenze di carità, ma non si devono mai ricercare con passione, per evitare che esse, gravando l’animo di chi le predilige, lo trascinino avvinto al proprio peso, dalle regioni celesti giù nel profondo. 
Ma si dà anche il caso che alcuni assumano effettivamente la cura del gregge, ma aspirano tanto per sé di essere liberi di dedicarsi alle cose spirituali che non si occupano per nulla affatto di cose esterne. Allora, poiché essi trascurano totalmente le cure materiali, non soccorrono in nulla le necessità dei sudditi e per lo più la loro predicazione viene sdegnata e non vengono ascoltati volentieri poiché rimproverano l’agire dei peccatori, ma poi non amministrano loro quanto è necessario alla vita presente. Infatti la parola della dottrina non penetra nella mente del bisognoso se una mano misericordiosa non la raccomanda al suo cuore. E invece, il seme della parola germina facilmente quando la pietà di chi predica lo irriga nel petto di colui che ascolta. Perciò è necessario che la guida delle anime possa infondere le verità spirituali e anche provvedere alle necessità esteriori con una attenzione del pensiero che però non gli danneggi. 

   Così, i Pastori siano ferventi degli interessi spirituali dei loro sudditi, purché in questo non tralascino di provvedere pure alla loro vita esteriore. Infatti, come abbiamo detto, è comprensibile che l’animo del gregge non creda alla predicazione che dovrebbe accogliere, se il Pastore tralascia la cura dell’aiuto esterno. Perciò il primo Pastore ammonisce con sollecitudine dicendo: Scongiuro gli anziani che sono tra voi, io anziano come loro e testimone dei patimenti di Cristo e fatto partecipe della sua gloria che deve essere rivelata in futuro, pascete il gregge di Dio che è tra voi. Ed egli stesso spiega a questo punto quale pascolo intenda, se del cuore o del corpo, poiché aggiunge subito: Governandolo non per costrizione ma spontaneamente, secondo Dio, non per turpe guadagno ma volontariamente (1P 5,1). 
   E certo, con queste parole, previene piamente i Pastori perché, mentre soddisfano l’indigenza dei sudditi, non uccidano se stessi con la spada dell’ambizione, e se per loro mezzo il prossimo riceve il sollievo di aiuti materiali, loro stessi poi non rimangano digiuni del pane della giustizia. Paolo eccita questa sollecitudine dei Pastori dicendo: Chi non ha cura dei suoi, soprattutto dei familiari, ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele (1Tm 5,8). 
E così, tra queste cose, bisogna però sempre temere e prestare vigile attenzione che mentre si trattano affari esterni non se ne venga sommersi, privati dell’intimo fervore; poiché spesso, come abbiamo già detto, le guide delle anime piegano improvvisamente il loro cuore a servire le cure temporali, e così si raffredda l’amore nel loro intimo, ed espandendosi al di fuori non temono di vivere nell’oblio, col pretesto di doversi occupare delle anime. 

Pertanto, la cura che pure si deve avere nei confronti dei bisogni materiali dei sudditi deve essere necessariamente contenuta entro certi limiti. Perciò si dice bene in Ezechiele: I sacerdoti non si radano il capo, né si facciano crescere i capelli, ma li accorcino tagliandoli (Ez 44,20). Infatti sono giustamente chiamati sacerdoti coloro che presiedono ai fedeli per offrire loro una guida sacra. I capelli del capo sono i pensieri della mente volti a cure esteriori e finché nascono insensibilmente sul capo designano le cure della vita presente, le quali crescono, senza quasi che ce ne accorgiamo, da una sensibilità trascurata poiché nascono talvolta in modo inopportuno. Dunque, poiché tutti quelli che presiedono devono avere di fatto delle sollecitudini esteriori, senza d’altra parte dedicarsi ad esse con eccessiva passione, giustamente si proibisce ai sacerdoti di radersi il capo e di farsi crescere i capelli, affinché non taglino radicalmente da sé i pensieri che riguardano la vita materiale dei sudditi, né d’altra parte diano loro troppo spazio in modo da farli crescere. Perciò è ben detto: Accorcino i capelli tagliandoli, evidentemente nel senso che se pure, per quel che è inevitabile, possono nascere preoccupazioni di cure materiali, tuttavia esse devono essere tagliate ben presto perché non crescano smodatamente. 


Pertanto, quando la vita materiale viene protetta attraverso la pratica di una previdenza esteriore — e in più non è ostacolata dalla tensione spirituale, quando questa è illuminata — è allora che i capelli sul capo del sacerdote vengono conservati perché coprano la pelle, ma vengono tagliati perché non chiudano gli occhi.

mercoledì 17 dicembre 2014

S.Gregorius: Regola pastorale

  S.Gregorius
Regola pastorale 206

La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene; e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori

206



La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; così non si anteponga in nulla ai buoni, e quando la colpa dei malvagi lo esige, non esiti a riconoscere il potere del suo primato. In tal modo, lasciando da parte la dignità che riveste, si consideri uguale ai sudditi che vivono operando il bene, e verso i malvagi non tema di affermare i diritti della verità e della giustizia. Infatti, come ricordo di avere scritto nei libri morali (Moralia, lib. 21, cap. 10), è certo che gli uomini sono tutti uguali per natura ma, variando l’ordine dei meriti, la colpa pospone gli uni agli altri. 

Però, anche la diversità che procede dal peccato è regolata dalla disposizione divina affinché, siccome non ogni uomo è in grado di mantenersi in questa condizione di eguaglianza, ci siano alcuni uomini governati da altri. Perciò tutti coloro che presiedono, in se stessi non debbono considerare il potere del proprio grado ma l’eguaglianza secondo natura; non godano dunque di governare sugli uomini ma di giovare loro. I nostri antichi padri, del resto, furono pastori di pecore, non re di uomini; e quando il Signore disse a Noè e ai suoi figli: Crescete e moltiplicatevi e riempite la terra, subito aggiunse: E terrore di voi e tremore sia su tutti gli animali della terra (Gn 9,1). Evidentemente, se viene prescritto che debba esserci questo terrore e tremore sugli animali della terra, viene senz’altro proibito che esso possa esercitarsi sugli uomini. 



L’uomo è stato preposto per natura agli animali bruti, non agli altri uomini; e perciò gli viene detto che gli animali e non gli uomini lo devono temere; quindi voler essere temuto da un eguale corrisponde ad una esaltazione contro natura. E tuttavia è necessario che le guide delle anime incutano timore ai sudditi quando esse si accorgono che quelli non hanno alcun timore di Dio, affinché coloro che non hanno paura dei giudizi divini temano di peccare almeno per una paura umana. Infatti, coloro che sono preposti ad altri non insuperbiscono nella ricerca di questo timore, poiché con essa non cercano la propria gloria ma la giustizia dei sudditi: nell’esigere timore per sé da coloro che conducono una vita malvagia è come se governassero animali e non uomini, perché è per quella parte di loro con cui si comportano da bestie che i sudditi debbono giacere persino prostrati dalla paura. 
Ma spesso chi guida delle anime, per il fatto stesso di essere preposto ad altri si gonfia nell’esaltazione del suo pensiero: tutto è a sua disposizione, i suoi ordini vengono prontamente eseguiti secondo il suo desiderio, tutti i sudditi sono pronti a lodarlo ampiamente se fa qualcosa di buono e sono privi di autorità per contraddirlo per quello che fa di male, anzi, per lo più sono disposti a lodarlo anche quando dovrebbero disapprovarlo; allora il suo animo si innalza al di sopra di sé sedotto da tutto ciò che gli viene elargito dal basso. 
Così, circondato all’esterno da grandissimo favore, si svuota interiormente della verità e dimentico della sua realtà profonda si disperde compiacendosi dell’apprezzamento altrui e si crede tale quale è la sua fama al di fuori, non quale dovrebbe riconoscersi nel proprio intimo. Disprezza i sudditi, non li riconosce uguali a sé secondo l’ordine naturale e si immagina di avere superato, anche per i meriti della propria vita, coloro che gli stanno sottoposti a motivo di un potere datogli in sorte. Si giudica più sapiente di tutti coloro dei quali si vede più potente. Nella stima che ha di se stesso si è come stabilito su una cima e sdegna di guardare agli altri come a uguali, lui che pure è legato a loro dalla condizione di una, uguale natura. 

E così diviene simile a colui di cui è scritto: Vede ogni sublime altezza ed egli stesso è re sopra tutti i figli della superbia (Giob. 41, 25), a colui cioè che aspirando a un luogo più elevato e disprezzando la comune vita degli angeli dice: Porrò la mia dimora presso l’Aquilone e sarò simile all’Altissimo (cf. Is. Is 14,13-14). 
Pertanto egli scoprì dentro di sé, per mirabile giudizio divino, un abisso di abiezione poiché al di fuori si era innalzato al culmine del potere. E così diviene simile all’angelo apostata l’uomo che sdegna di essere simile agli altri uomini. Similmente Saul, dopo avere ben meritato per la sua umiltà, si gonfiò di superbia per l’altezza del suo potere; per l’umiltà fu scelto ma fu riprovato per la superbia, secondo la testimonianza del Signore che dice: Non ti costituii forse capo tra le tribù di Israele quando eri piccolo ai tuoi occhi? (1S 15,17). 

Prima si era visto piccolo coi suoi occhi ma poi, sostenuto dalla sua potenza mondana, non si vedeva più piccolo. Infatti, preferendo se stesso a paragone degli altri poiché aveva un potere superiore a tutti, si stimava più grande di tutti. Ma come — mirabilmente — per essere piccolo davanti a se stesso fu grande davanti a Dio, quando appari grande davanti a se stesso divenne piccolo davanti a Dio. Dunque accade spesso che l’animo si gonfia perché è grande il numero di coloro che gli sono soggetti e, adulato dalla sola altezza della sua potenza, esso si corrompe effondendosi nella superbia. Ma questa potenza, evidentemente, la regge bene chi sa tenerla in pugno e insieme combatterla; la regge bene chi sa, con essa, erigersi sopra le colpe, e con essa sa essere uguale agli altri. Infatti la mente umana spesso si esalta anche quando non si sostiene su alcun potere; quanto più si leverà in alto se le si aggiunge anche il potere. Però il potere può essere ben esercitato da chi sa trarre da esso ciò che giova e sa vincere le tentazioni che esso ispira e, pur possedendolo, sa vedersi uguale agli altri e insieme sa anteporsi ai peccatori per lo zelo della punizione. E se consideriamo l’esempio del primo Pastore, possiamo riconoscere più pienamente in che cosa consiste questa discrezione. 

Infatti Pietro che pure teneva il primato nella Santa Chiesa, per volontà di Dio, ricusò di accogliere i segni di una venerazione fuor di misura da Cornelio, uomo buono che faceva il bene, il quale gli si era umilmente prostrato; ma riconoscendosi invece simile a lui gli disse: Alzati, non farlo, sono un uomo anch’io (Atti, 10, 26). Quando però scopri la colpa di Anania e di Saffira (cf. Atti, 5, 5), mostrò subito per quale potenza egli fosse divenuto preminente sugli altri. Infatti con una sola parola colpi la loro vita che egli aveva conosciuto col discernimento spirituale e si ricordò di essere la somma autorità nella Chiesa contro i peccati; cosa che non volle riconoscere di fronte a fratelli buoni e attivi nel bene, per un onore che gli veniva tributato con trasporto. 

E in questo caso, la santità delle opere meritò di essere accolta in una comunione tra uguali; nell’altro, lo zelo della punizione provocò l’esercizio del potere. Paolo non si considerava preposto ai fratelli attivi nel bene quando diceva: Non facciamo da padroni della vostra fede, ma siamo cooperatori della vostra gioia (2Co 1,23). E aggiunge subito: infatti voi state saldi nella fede (ibid.), come per spiegare quello che aveva premesso dicendo: Perciò, non facciamo da padroni sulla vostra fede, perché voi state saldi nella fede; infatti noi siamo uguali a voi in ciò in cui riconosciamo che restate fermi. 

Ed era come non considerarsi preposto ai fratelli quando diceva: Siamo divenuti un bambino piccolo in mezzo a voi (1Th 2,7); e ancora: E noi vostri servi per Cristo(2Co 4,5). Ma quando scopri la colpa che avrebbe dovuto essere corretta, subito si ricordò di essere maestro, dicendo: Che cosa volete? Devo venire da voi con la verga? (1Co 4,21). Colui che presiede regge bene il sommo potere quando domina sui vizi piuttosto che sui fratelli; ma quando i superiori correggono i sudditi peccatori è necessario che in virtù del loro potere attendano con sollecitudine a punire le colpe, per il dovere cui sono tenuti di conservare la disciplina. 

Tuttavia, per conservare l’umiltà, si riconoscano nello stesso tempo uguali a quegli stessi fratelli che vengono corretti da loro, anzi sarebbe spesso cosa degna che nella nostra tacita considerazione anteponessimo a noi stessi le medesime persone che correggiamo. Infatti i loro vizi vengono puniti per mezzo nostro col rigore della disciplina, mentre in ciò che noi stessi commettiamo di male non siamo scalfiti neppure da una parola di rimprovero da parte di alcuno. Siamo dunque tanto più obbligati presso il Signore quanto più impunemente pecchiamo presso gli uomini. D’altra parte, la nostra correzione fa tanto più liberi i sudditi davanti al giudizio divino in quanto Egli non lascia impunite qui le loro colpe. 

Così bisogna conservare l’umiltà nel cuore e la disciplina nelle opere. Ma detto questo, bisogna anche guardare saggiamente che le esigenze del governo non restino vanificate da una custodia impropria dell’umiltà e se un superiore si abbassa più del conveniente non possa più trattenere poi la vita dei sudditi sotto il vincolo della disciplina. Dunque, le guide delle anime restino ferme a quell’atteggiamento esteriore che assumono in vista dell’utilità degli altri e conservino nell’intimo quella disposizione che le fa temere grandemente quanto alla stima di sé. 

Tuttavia i sudditi devono poter percepire, da certi segni di sobria spontaneità, che esse sono umili e vedere così ciò che devono temere dalla loro autorità e conoscere ciò che devono imitare della loro umiltà. Pertanto, i superiori, quanto maggiore appare all’esterno la loro potenza tanto più non cessino di provvedere a deprimerla interiormente ai propri occhi, evitando che il pensiero ne sia tutto preso, l’animo sia rapito dal compiacimento di sé e non sia più in grado di tenere sottomessa quella potenza, alla quale si sottomette per libidine di dominio. Infatti, affinché l’animo del superiore non venga rapito dal compiacimento del suo potere fino all’esaltazione, un sapiente ha giustamente detto: Ti hanno stabilito guida, non ti esaltare ma sii tra di loro come uno di loro (Si 32,1). 

Perciò anche Pietro dice: Non come padroni delle persone a voi toccate in sorte, ma fatti a forma del gregge (1P 5,3). Perciò la Verità stessa invitandoci ai più alti meriti della virtù dice: Sapete che i capi delle nazioni le dominano e i grandi esercitano il potere su di loro. Non così sarà tra voi, ma chiunque vorrà essere maggiore fra voi sarà vostro servo, e chi vorrà essere primo tra voi sarà vostro schiavo, come il Figlio dell’uomo non è venuto a essere servito ma a servire (Mt 20,25). Di qui il senso delle parole che si riferiscono a quel servo esaltato per il potere ricevuto, ma poi lo attenderanno i supplizi: Che se quel servo malvagio dirà in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire; e incomincerà a battere i suoi conservi e mangerà e berrà con gli ubriachi; verrà il padrone di quel servo nel giorno in cui non l’aspetta e in un’ora che non sa, e lo separerà e la sua parte sarà con gli ipocriti (Mt 24,48 ss.). 

Ed è giustamente considerato ipocrita colui che col pretesto della disciplina muta il ministero del governo in esercizio di dominio. E tuttavia spesso si pecca gravemente se nei confronti dei malvagi si custodisce più l’eguaglianza che la disciplina. Infatti, Eli che, vinto da una falsa pietà, non volle punire i figli peccatori, colpi se stesso insieme ai figli con una crudele condanna presso il severo Giudice (cf. 1S 4,17-18); e perciò egli si sente dire dalla parola divina: Hai onorato i tuoi figli pia di me (1S 2,29). E Dio rimprovera i Pastori per mezzo dei profeti dicendo: Non avete fasciato ciò che si era fratturato, non avete ricondotto ciò che era rigettato (Ez 34,4). Si riconduce chi è rigettato quando col vigore della sollecitudine pastorale si richiama alla condizione di giustizia chiunque è caduto nella colpa. E la fasciatura stringe la frattura quando la disciplina reprime la colpa, affinché la piaga non degeneri fino alla morte se non la stringe la severità del castigo. Ma spesso la frattura si fa più grave se viene fasciata senza precauzione e la ferita duole maggiormente se le bende la stringono in modo eccessivo. Perciò è necessario che, quando per porvi rimedio si comprime nei sudditi la ferita del peccato, si abbia grande sollecitudine di moderare la stessa correzione perché, mentre si esercita verso i peccatori il dovere della disciplina, non si venga meno ai sentimenti di pietà. 

Bisogna cioè avere cura che la pietà faccia apparire ai sudditi madre colui che li guida, e la disciplina glielo mostri padre. E pertanto bisogna provvedere con pronta e avvertita prudenza che la correzione non sia troppo rigida o la misericordia troppo permissiva. Infatti, come abbiamo già detto nei Libri Morali (Moralia, lib. 20, cap. 8), sia la disciplina che la misericordia vengono meno se si esercita l’una senza l’altra; invece, nelle guide delle anime, devono trovarsi verso i sudditi una misericordia che provvede secondo giustizia insieme a una disciplina rigida secondo pietà. 

Ed è perciò che nell’insegnamento della Verità quell’uomo semivivo viene condotto all’albergo dalla sollecitudine del Samaritano (cf. Lc. Lc 10,34) e gli vengono somministrati vino e olio nelle sue ferite, chiaramente perché, per esse, egli sperimenti la pungente disinfezione del vino e il conforto dell’olio che lenisce. È assolutamente necessario che chi ha l’ufficio di curare le ferite somministri attraverso il vino il morso pungente del dolore e attraverso l’olio la tenerezza della pietà, giacché col vino si purifica il putridume e con l’olio si nutre e si ristora per la guarigione. 

Così, bisogna mescolare la dolcezza con la severità; bisogna fare come un giusto contemperamento dell’una e dell’altra affinché i sudditi non restino esasperati da troppa asprezza e neppure infiacchiti da una eccessiva benevolenza. Ciò è ben rappresentato dall’arca del Tabernacolo — secondo la parola di Paolo — nella quale si trovano insieme alle tavole la verga e la manna (cf. Ebr. He 9,4); cioè, se nell’anima della buona guida spirituale, insieme alla scienza della Sacra Scrittura c’è la verga della correzione, ci sia anche la manna della dolcezza. 


Perciò dice David: La tua verga e il tuo bastone mi hanno consolato (Ps 22,4), perché la verga ci colpisce e il bastone ci sostiene e se c’è la correzione della verga che ferisce ci sia anche la consolazione del bastone che sostiene. E così ci sia l’amore, non tale però che renda molli; ci sia il rigore non tale però che esasperi; ci sia lo zelo che tuttavia non infierisce oltre misura; ci sia la pietà che risparmia ma non più di quanto conviene; affinché nell’esercizio del governo, conciliando giustizia e clemenza, il superiore muova il cuore dei sudditi col timore ma usi con loro dolcezza, e con questa dolcezza li costringa al rispetto che il timore ispira.

lunedì 8 dicembre 2014

DISCRETO SILENZIO e UTILITA' DI PAROLA

La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio, utile con la sua parola


204



La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua parola affinché non dica ciò che bisogna tacere e non taccia ciò che occorre dire. Giacché come un parlare incauto trascina nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati. Infatti, spesso, guide d’anime improvvide e paurose di perdere il favore degli uomini hanno gran timore di dire liberamente la verità; e, secondo la parola della Verità, non servono più alla custodia del gregge con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei mercenari (cf. Gv. Jn 10,13), poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se fuggissero all’arrivo del lupo. 

Per questo infatti, per mezzo del profeta, il Signore li rimprovera dicendo: Cani muti che non sanno abbaiare (Is 56,10). 
Per questo ancora, si lamenta dicendo: Non siete saliti contro, non avete opposto un muro in difesa della casa d’Israele, per stare saldi in combattimento nel giorno del Signore (Ez 13,5). Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del Signore è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi. 

Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio silenzio? Ma chi si espone in difesa del gregge, oppone ai nemici un muro in difesa della casa di Israele. Perciò di nuovo viene detto al popolo che pecca: I tuoi profeti videro per te cose false e stolte e non ti manifestavano la tua iniquità per spingerti alla penitenza (Lm 2,14). È noto che nella lingua sacra spesso vengono chiamati profeti i maestri che, mentre mostrano che le cose presenti passano, insieme rivelano quelle che stanno per venire. 
Ora, la parola divina rimprovera costoro di vedere cose false, perché mentre temono di scagliarsi contro le colpe, invano blandiscono i peccatori con promesse di sicurezza: essi non svelano le iniquità dei peccatori perché si astengono col silenzio dalle parole di rimprovero. In effetti le parole di correzione sono la chiave che apre, poiché col rimprovero lavano la colpa che, non di rado, la persona stessa che l’ha compiuta ignora.


Perciò Paolo dice: (Il vescovo) sia in grado di esortare nella sana dottrina e di confutare i contraddittori (Tt 1,9). Perciò viene detto per mezzo di Malachia: Le labbra del sacerdote custodiscano la scienza e cerchino la legge dalla sua bocca, perché è angelo del Signore degli eserciti (Ml 2,7).



Perciò per mezzo di Isaia il Signore ammonisce dicendo: Grida, non cessare, leva la tua voce come una tromba (Is 58,1). 
E invero chiunque si accosta al sacerdozio assume l’ufficio del banditore perché, prima dell’avvento del Giudice che lo segue con terribile aspetto, egli lo preceda col suo grido. 
Se dunque il sacerdote non sa predicare, quale sarà il grido di un banditore muto? Ed è perciò che lo Spirito Santo, la prima volta, si posò sui Pastori in forma di lingue (Atti, 2, 3), poiché rende subito capaci di parlare di Lui, coloro che ha riempiti. 
   Perciò viene ordinato a Mosè che il sommo sacerdote entrando nel tabernacolo si accosti con tintinnio di campanelli, abbia cioè le parole della predicazione, per non andare con un colpevole silenzio incontro al giudizio di colui che lo osserva dall’alto. 
È scritto infatti: Perché si oda il suono quando entra e quando esce dal santuario in cospetto del Signore, e non muoia (Ex 28,35). Così il sacerdote, che entra o che esce, muore se da lui non si ode suono, poiché attira su di sé l’ira del Giudice occulto se cammina senza il suono della predicazione. 

Inoltre, quei campanelli sono descritti come opportunamente inseriti nelle sue vesti, perché le vesti del sacerdote non dobbiamo intenderle altrimenti che come le sue buone opere, per testimonianza del profeta che dice: I tuoi sacerdoti si rivestano di giustizia (Ps 131,9). Pertanto, i campanelli sono inseriti nelle sue vesti, perché insieme al suono della parola, anche le opere stesse del sacerdote proclamino la via della vita. 
   Ma quando la guida delle anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni studio a farlo con grande precauzione, perché se si lascia trascinare a un parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti dalla ferita dell’errore; e mentre forse egli desidera di mostrarsi sapiente non spezzi stoltamente la compagine dell’unità. Perciò infatti la Verità dice: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc 9,49). Col sale è indicata la sapienza del Verbo. 

Pertanto chi si sforza di parlare sapientemente, tema molto che il suo discorso non confonda l’unità degli ascoltatori. Perciò Paolo dice: Non sapienti più di quanto è opportuno, ma sapienti nei limiti della sobrietà (Rm 12,3). 
   Perciò nella veste del sacerdote, secondo la parola divina, ai campanelli si uniscono le melagrane (Ex 28,34). E che cosa viene designato con le melagrane se non l’unità della fede? Infatti, come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono protetti da un’unica buccia esterna, così l’unità della fede protegge tutti insieme gli innumerevoli popoli che costituiscono la Santa Chiesa e che si distinguono all’interno per la diversità dei meriti. 
   Così, affinché la guida delle anime non si butti a parlare da incauto, come già si è detto, la Verità stessa grida ai suoi discepoli: Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi, come se attraverso la figura della veste del sacerdote dicesse: Aggiungete melagrane ai campanelli affinché, in tutto ciò che dite abbiate a conservare con attenta considerazione l’unità della fede. 
   Inoltre, le guide delle anime debbono provvedere con sollecita cura, non solo a non fare assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non dire neppure la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso il valore delle cose dette si perde quando viene svigorito, nel cuore di chi ascolta, da una loquacità inconsiderata e inopportuna. Questa medesima loquacità, poi, che è certamente incapace di servire utilmente gli ascoltatori, contamina anche colui che la esercita. Per cui è ben detto per mezzo di Mosè: L’uomo che soffre di flusso di seme, sarà immondo (Lv 15,2). 
   Di fatto, la qualità del discorso udito è seme di quel pensiero che gli terrà dietro nella mente degli ascoltatori, poiché la parola, ricevuta attraverso l’orecchio, nella mente genera il pensiero. È per questo che, dai sapienti di questo mondo, il bravo predicatore è chiamato seminatore di parole (cf. Atti, 17, 18). 
Dunque, chi patisce flusso di seme è dichiarato impuro, perché chi è soggetto a una eccessiva loquacità si macchia con quel seme da cui — se l’avesse effuso in modo ordinato — avrebbe potuto generare nei cuori degli ascoltatori la prole del retto pensiero; ma se lo sparge con una loquacità inconsiderata, è come chi emette il seme, non al fine di generare ma per l’impurità. 
   Perciò anche Paolo, quando esorta il discepolo ad insistere nella predicazione dicendo: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che giudicherà i vivi e i morti, per il suo avvento e il suo regno, predica la parola, insisti opportunamente, importunamente (2Tm 4,1-2); prima di dire importunamente premise opportunamente, perché è chiaro che nella considerazione di chi ascolta, l’importunità appare in tutta la sua qualità spregevole se non sa esprimersi in modo opportuno.

AMDG et BVM

domenica 7 dicembre 2014

S.Gregorius: Regola pastorale

La guida delle anime sia pura nel pensiero


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La guida delle anime sia sempre pura nel suo pensiero, affinché nessuna immondezza contamini colui che ha assunto questo ufficio ed egli sia in grado di lavare anche i cuori altrui dalle macchie dell’impurità; perché bisogna che abbia cura di essere pulita la mano che si adopera a pulire ciò che è sudicio, e non renda ancora più sporco ciò che va toccando mentre è ancora infangata. Perciò è detto per mezzo del profeta: Purificatevi voi, che portate i vasi del Signore (Is 52,12). 

Infatti portano i vasi del Signore coloro che si assumono di condurre le anime ai santuari eterni, con la fedeltà della propria condotta di vita. Dunque, vedano in se stessi quanto debbano essere purificati, quelli che dentro la promessa che hanno fatto di sé portano vasi viventi al tempio eterno. Perciò viene prescritto dalla parola divina che sul petto di Aronne aderisca, legato con nastri, il razionale del giudizio (cf. Es. Ex 28,15), affinché il cuore del sacerdote non sia posseduto da pensieri oscillanti ma sia tenuto stretto solo dalla sapienza dello spirito: e non pensi a nulla di incerto o di inutile colui che, stabilito come esempio per gli altri, deve sempre mostrare, con l’austerità della vita, quanta sapienza abbia nel cuore. 

    E si ha cura di aggiungere che in questo razionale si scrivano i nomi dei dodici patriarchi; infatti, portare di continuo i padri scritti sul petto significa meditare senza interruzione la vita degli antichi, e il sacerdote procede in modo irreprensibile quando fissa il suo sguardo senza posa sugli esempi dei padri che l’hanno preceduto, considera incessantemente le orme dei santi e reprime pensieri illeciti per non oltrepassare il limite di un agire ordinato. 


Ed è anche appropriato il nome di razionale del giudizio, poiché il sacerdote deve sempre discernere con esame sottile e retto il bene e il male e studiare attentamente come si accordino gli oggetti e i mezzi, il tempo e il modo; e non cercare mai nulla per sé ma considerare vantaggio proprio il bene altrui. Perciò là è scritto: Porrai sul razionale del giudizio la dottrina e la verità, che staranno sul petto di Aronne quando entrerà davanti al Signore, e porterà il giudizio dei figli di Israele sul suo petto, davanti al Signore, sempre (Ex 28,30). 
     Per il sacerdote, portare il giudizio dei figli di Israele sul petto davanti al Signore, significa trattare le cause dei sudditi avendo di mira solo la volontà del Giudice interiore, perché ad essa nulla si mescoli di umano in ciò che egli dispensa come rappresentante di Dio né alcun risentimento personale inasprisca l’ardore della correzione. 
   E quando si mostra pieno di zelo contro i vizi altrui, persegua innanzitutto i propri perché una invidia nascosta non contamini la pacatezza del giudizio, o non la turbi un’ira precipitosa. Ma considerando il sacro terrore che si deve a colui che sta sopra a tutto, cioè l’intimo Giudice, non si devono governare i sudditi senza grande timore: quel timore che mentre umilia l’animo di chi governa lo purifica, perché la presunzione spirituale non lo esalti né lo contamini il piacere carnale o non lo oscurino sconvenienti pensieri terrestri, frutto della cupidigia di cose mondane. 
   Tutte queste tentazioni non possono non assalire l’anima di chi governa, ma è necessario affrettarsi a lottare contro di esse per vincerle affinché, per il fatto che l’anima tarda a respingerle, il vizio che la tenta con la suggestione non la sottometta con la mollezza del piacere e non la uccida con la spada del consenso.


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La guida delle anime sia esemplare nel suo agire per potere annunciare ai sudditi, col suo modo di vivere, la via della vita; e il gregge che va dietro alla voce e ai costumi del Pastore, proceda più con l’aiuto dei suoi esempi che delle sue parole. Infatti, chi per dovere indeclinabile del suo ministero è tenuto a dire cose elevate, dal medesimo dovere è costretto a mostrare cose elevate nei fatti; giacché il cuore degli ascoltatori è più facilmente penetrato dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla, il quale con l’esempio aiuta ad eseguire ciò che comanda a parole. Perciò è detto per mezzo del profeta: Sali su un monte eccelso, tu che evangelizzi Sion (Is 40,9). 

Cioè, chi pratica la divina predicazione deve mostrare che, abbandonando le più basse attività terrestri, sta saldo al di sopra delle cose; e tanto più facilmente può attirare i sudditi verso il meglio, quanto è con il merito della sua vita che egli grida le verità celesti. 
    Per questo, per la legge divina, nel sacrificio il sacerdote riceve la spalla destra separata dal resto (cf. Es. Ex 29,22), perché la sua condotta non sia solo utile ma anche esemplare, il suo agire sia retto non solo tra i cattivi ma egli superi per le virtù della sua vita anche i sudditi che operano il bene come è superiore a loro, per la dignità dell’Ordine. 
     A lui, poi, viene assegnata, come cibo, oltre alla spalla, anche la parte tenera del petto, perché quanto gli è prescritto di prendere dal sacrificio impari ad immolarlo in se stesso al Creatore. Ed egli non deve solamente meditare retti pensieri nel suo petto, ma invitare quanti lo osservano ad azioni elevate, indicate dalle spalle: non aspiri alla prosperità della vita presente, non tema le avversità, disprezzi le lusinghe del mondo come per un intimo senso di terrore, ma poi, ai terrori che esse suscitano, non badi, volgendosi al conforto della dolcezza interiore. 
    E per questo la parola divina ordina pure che le spalle del sacerdote siano avvolte dal velo omerale (cf. Es. Ex 29,5), perché egli sia sempre difeso dall’ornamento delle virtù contro l’avversità e contro la prosperità affinché, secondo la parola di Paolo, avanzando con le armi della giustizia a destra e a sinistra (cf. 2Co 6,7) e indirizzando ogni sforzo solo verso i beni interiori, non pieghi né da un lato né dall’altro verso alcun basso piacere.


Non lo esalti la prosperità, non l’abbatta l’avversità, nessuna lusinga lo alletti fino a fargli ricercare il piacere; l’asprezza delle difficoltà non lo spinga alla dispersione, e così, senza che alcuna passione trascini verso il basso la tensione del suo spirito, egli possa mostrare di quanta bellezza il velo omerale ricopra le sue spalle. 

   Ed è anche giustamente prescritto che il velo omerale sia d’oro, di violaceo, di porpora, di scarlatto tinto due volte e di bisso ritorto (cf. Es. Ex 28,8), per dimostrare di quante virtù debba risplendere il sacerdote. 
   Ora, nell’abito del sacerdote, soprattutto rifulge l’oro poiché in lui deve brillare principalmente una intelligenza sapiente. 
Ad esso si aggiunge il violaceo che risplende di riflessi d’oro, affinché attraverso ogni conoscenza a cui perviene, egli non ricerchi basse soddisfazioni, ma si innalzi all’amore delle cose celesti; e non avvenga che mentre si lascia prendere incautamente dalle lodi che gli vengono rivolte, resti privo proprio dell’intelligenza della verità. 
All’oro e al violaceo si mescola pure la porpora, per indicare cioè che il cuore sacerdotale, mentre spera le cose somme che predica, deve reprimere anche in se stesso le suggestioni dei vizi e contraddire ad essi come in virtù di un potere regale, poiché egli deve avere sempre di mira la nobiltà di una continua intima rigenerazione e difendere, coi suoi costumi, l’abito del regno celeste. Di questa nobiltà dello spirito, per mezzo di Pietro è detto: Ma voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale (1P 2,9). E anche riguardo a questo potere di sottomettere i vizi, siamo confortati dalla parola di Giovanni che dice: Ma a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio (Jn 1,12). Ed è considerando la dignità di questa potenza che il salmista dice: Per me sono stati molto onorati i tuoi amici, o Dio, quanto è stato rafforzato il loro principato (Ps 138,17).

Poiché è certo che l’animo dei santi si leva verso le più grandi altezze principalmente quando, all’esterno, essi sono visibilmente sottoposti all’abiezione. Inoltre, all’oro, al violaceo e alla porpora si aggiunge lo scarlatto tinto due volte, a significare che agli occhi del Giudice interiore ogni bene di virtù deve adornarsi della carità, e tutto quanto risplende davanti agli uomini, alla presenza del Giudice occulto deve essere acceso dalla fiamma dell’amore intimo. Ed è evidente che la carità, in quanto ama Dio e il prossimo, rifulge quasi di una doppia tintura. 
Pertanto, colui che anela alla bellezza del Creatore, ma trascura di occuparsi del prossimo, oppure si occupa del prossimo ma è torpido nell’amore di Dio, per avere trascurato uno di questi due precetti, non sa portare lo scarlatto tinto due volte, sul velo omerale. 

Resta ancora però, senza dubbio, che quando lo spirito è teso verso i comandamenti della carità, la carne deve macerarsi nell’astinenza
Perciò si aggiunge allo scarlatto il bisso ritorto. Infatti il bisso nasce dalla terra con un aspetto splendente, e che cosa può essere designata dal bisso se non la castità luminosa per la dignità di un corpo puro? Ed essa si intreccia, ritorta, alla bellezza del velo omerale perché la castità è portata al candore perfetto della purezza quando la carne si affatica nell’astinenza. E quando, tra le altre virtù progredisce anche il merito di una carne umiliata, è come bisso ritorto che risplende nella varia bellezza del velo omerale.


AMDG et BVM