Visualizzazione post con etichetta le parabole di Gesù. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta le parabole di Gesù. Mostra tutti i post

mercoledì 24 luglio 2013

I molti figli di un unico padre


Le parabole di Gesù
(035)
I molti figli di un unico padre (425.7 - 425.8)

Un padre di molti figli dette ad ognuno di essi, diventati adulti, due monete di molto valore e disse loro: "Io non intendo più lavorare per ognuno di voi. Ormai siete in età di guadagnarvi la vita. Perciò dò ad ognuno uguale misura di denaro perchè lo impiegate come più vi piace e a vostro utile. Io resterò qui in attesa, pronto a consigliarvi, pronto anche ad aiutarvi se per involontaria sciagura perdeste in tutto o in parte il denaro che ora vi dò. Però ricordatevi bene che sarò inesorabile per chi lo disperde con malizia volontaria e per i fannulloni che lo consumano o lo lasciano quale è con l'ozio e coi vizi. A tutti ho insegnato il Bene e il Male. Non potete perciò dire che andate ignoranti incontro alla vita. A tutti ho dato esempio di operosità saggia e giusta e di vita onesta. Perciò non potete dire che vi ho corrotto lo spirito col mio mal esempio. Io ho fatto il mio dovere. Ora voi fate il vostro chè scemi non siete nè impreparati, nè analfabeti. Andate." e li licenziò rimanendo solo, in attesa, nella sua casa.

I figli si sparsero nel mondo. Avevano tutti le stesse cose: due monete di gran valore di cui potevano liberamente disporre, e un più grande tesoro di salute, energia, cognizioni ed esempi paterni. Perciò avrebbero dovuto riuscire tutti ad un modo. Ma che avvenne?

Che fra i figli, chi bene usò delle monete e si fece presto un grande e onesto tesoro con il lavoro indefesso e onesto e una vita morigerata, regolata sugli insegnamenti paterni; e chi sulle prime fece onestamente fortuna, ma poi la disperse con l'ozio e le crapule; e chi fece denaro con usure e commerci indegni; e chi non fece nulla perchè fu inerte, pigro, incerto, e finì le monete di molto valore senza aver ancora potuto trovare un'occupazione qualsiasi.
Dopo qualche tempo il padre di famiglia mandò servi in ogni dove, là dove sapeva essere i suoi figli, e disse ai servi: "Direte ai miei figli di radunarsi nella mia casa. Voglio mi rendano conto di cosa hanno fatto in questo tempo, e rendermi conto da me stesso delle loro condizioni". E i servi andarono per ogni dove e raggiunsero i figli del loro padrone, fecero l'ambasciata e ognuno tornò indietro col figlio del padrone che aveva raggiunto.
Il padre di famiglia li accolse con molta solennità. Da padre, ma anche da giudice. E tutti i parenti della famiglia erano presenti, e coi parenti gli amici, i conoscenti, i servi, i compaesani, e quelli dei luoghi limitrofi. Una solenne adunanza. Il padre era sul suo scanno di capo famiglia, intorno a semicerchio tutti i parenti, amici, conoscenti, servi, compaesani e limitrofi. Di fronte, schierati, i figli.
Anche senza interrogazioni il loro aspetto diverso dava risposta sulla verità. Coloro che erano stati operosi, onesti, morigerati e avevano fatta santa fortuna, avevano l'aspetto florido, pacifico, e benestante di chi ha larghi mezzi, buona salute e serenità di coscienza. Guardavano il padre con un sorriso buono, riconoscente, umile ma insieme trionfante, splendente della gioia di avere onorato il padre e la famiglia e di essere stati buoni figli, buoni cittadini e buoni fedeli. Quelli che avevano sciupato nell'ignavia o nel vizio i loro averi stavano mortificati, mogi, sparuti nell'aspetto e nelle vesti, coi segni delle crapule e della fame chiaramente impressi su di loro.
Quelli che avevano fatto fortuna con delittuose manovre avevano l'aggressività, la durezza, sul volto, lo sguardo crudele e turbato di belve che temono il domatore e che si preparavano a reagire.

Il padre iniziò l'interrogatorio da questi ultimi: "Come mai, voi che eravate di così sereno aspetto quando partiste, ora parete fiere pronte a sbranare? Da dove vi viene quell'aspetto?"
"La vita ce lo ha dato. E la tua durezza di mandarci fuori di casa. Tu ci hai messo a contatto con il mondo"
"Sta bene. E che avete fatto nel mondo?"
"Ciò che potemmo per ubbidire al tuo comando di guadagnarci la vita col niente che ci hai dato."
"Sta bene. Mettetevi in quell'angolo... E ora a voi, magri, malati e malvestiti. Che faceste per ridurvi così? Eravate pure sani e ben vestiti quando partiste".
"In dieci anni gli abiti si logorano..." obiettarono i fannulloni.
"Non ci sono dunque più telai nel mondo che facciano stoffe per le vesti degli uomini?"
"Sì... Ma ci vogliono denari per comperarle...."
"Li avevate".
"In dieci anni... si sono più che finiti. Tutto ciò che ha principio ha fine".
"Sì, se se ne leva senza mettervene. Ma perchè voi avete soltanto levato? Se aveste lavorato potevate mettere e levare senza che il denaro finisse, ma anzi ottenendo che aumentasse. Siete stati forse malati?"
"No, padre".
"E allora?"
"Ci sentimmo spersi... Non sapevamo che cosa fare, che fosse buono... Temevamo di far male. E per non fare male non facemmo nulla".
"E non c'era il padre vostro a cui rivolgervi per un consiglio? Sono forse stato mai padre intransigente, pauroso?"
"Oh! no! Ma ci vergognavamo di dirti: <Non siamo capaci di prendere iniziative>. Tu sei sempre stato così attivo.... Ci siamo nascosti per vergogna":
Sta bene. Andate nel mezzo della stanza. A voi! E che mi dite voi? Voi che all'aspetto della fame unite quello della malattia? Forse che il troppo lavoro vi ha resi malati? Siate sinceri e non vi sgriderò".

Alcuni degli interpellati si gettarono in ginocchio battendosi il petto e dicendo: " Perdonaci, o padre! Già Dio ci ha castigati e ce lo meritiamo. Ma tu, che sei padre nostro, perdonaci!.... Abbiamo iniziato bene; ma non abbiamo perseverato. Trovandoci facilmente ricchi dicemmo:<Orbene, ora godiamo un po', come ci suggeriscono gli amici, e poi torneremo al lavoro e rifaremo il disperso>. E volevamo fare così, in verità. Tornare alle due monete e poi rifarle fruttare, come per giuoco. E per due volte (dicono due) per tre (dice uno) ci riuscimmo. Ma poi la fortuna ci abbandonò... e consumammo tutto il denaro.
"Ma perchè non vi siete ripresi dopo la prima volta?"
"Perchè il pane speziato del vizio corrompe il palato, e non si può più farne senza...."
"C'era vostro padre..."

"E' vero. E a te sospiravamo con rimpianto e nostalgia. Ma noi ti abbiamo offeso... Supplicavamo il Cielo di ispirarti di chiamarci per ricevere il tuo rimprovero e il tuo perdono; questo chiedavamo e chiediamo, più delle ricchezze che non vogliamo più perchè ci hanno traviato."
"Sta bene. Mettetevi voi pure presso quelli di prima, al centro della stanza. E voi, malati e poveri come questi, ma che tacete e non mostrate dolore, che dite?"
"Ciò che dissero i primi. Che ti odiamo perchè col tuo imprudente agire ci hai rovinato. Tu che ci conoscevi non dovevi lanciarci nelle tentazioni. Ci hai odiato e ti odiamo. Ci hai fatto questo tranello per liberarti di noi. Sii maledetto".
"Sta bene. Andate coi primi in quell'angolo. Ed ora a voi, floridi, sereni, ricchi figli miei. Dite. Come giunti a questo?"
"Mettendo in pratica i tuoi insegnamenti, esempi, consigli, ordini, tutto. Resistendo ai tentatori per amore di te, padre benedetto che ci hai dato la vita e la sapienza."

"Sta bene. Venite alla mia destra e udite tutti il mio giudizio e la mia difesa. Io ho dato a tutti ad un modo di denaro e di esempio e sapienza. I miei figli hanno risposto in maniere diverse. Da un padre lavoratore, onesto, morigerato, sono usciti dei simili a lui, poi degli oziosi, dei deboli facili a cadere in tentazione, e dei crudeli che odiano il padre, i fratelli e il prossimo si cui, anche se non lo dicono lo so, hanno esercitato usura e delitto. E nei deboli e negli oziosi ci sono i pentiti e gli impenitenti. Ora io giudico. I perfetti già sono alla mia destra, pari a me nella gloria come nelle opere; i pentiti staranno di nuovo, come fanciulli ancora da istruirsi, soggetti fino a che non avranno raggiunto il grado di capacità che li faccia di nuovo adulti; gli impenitenti e colpevoli siano gettati fuori dai miei confini e perseguitati dalla maledizione di chi non è più loro padre, perchè il loro odio per me annulla i rapporti della paternità e della figliolanza fra noi. Però ricordo a tutti che ognuno si è fatto la sua sorte, perchè io ho dato a tutti le stesse cose che, nei riceventi, hanno prodotto quattro diverse sorti, e non posso essere accusato di aver voluto il loro male."


lunedì 22 luglio 2013

La parabola della vigna e del libero arbitrio


Le parabole di Gesù
(036)
La parabola della vigna e del libero arbitrio (428.4)


Dunque l'uomo affida la sua vigna incolta al suo lavoratore: il libero arbitrio, ed esso comincia a coltivarla. L'anima: la vigna, ha però una voce e la fa udire all'arbitrio. Una voce soprannaturale nutrita da voci soprannaturali che Dio non nega mai alle anime: quella del Custode, quella di spiriti mandati da Dio, quella della Sapienza , quella dei ricordi soprannaturali che ogni anima ricorda anche senza che l'uomo ne abbia la percezione esatta. E parla all'arbitrio, con voce soave, supplice anche, per pregarlo di ornarla di piante buone , di essere attivo e saggio per non fare di lei una prunaia selvatica, maligna, velenosa, dove sono annidati serpenti e scorpioni, e fa tana la volpe e la faina e altri quadrupedi malvagi.


Il libero arbitrio non sempre è un buon coltivatore. Non sempre guarda la vigna e la difende con siepe invalicabile, ossia con la volontà ferma e buona, tesa a difendere l'anima dai ladroni, dai parassiti, da tutte le cose perniciose , dai venti violenti che potrebbero far cadere i fioretti delle buone risoluzioni quando queste sono appena formate nel desiderio. Oh! che siepe alta e forte occorre alzare intorno al cuore per salvarlo dal male! Come bisogna vegliare che non sia forzata, che non siano aperte in essa nè grandi aperture da cui entrano dissipazioni, nè subdole e piccole aperture, alla base, dalle quali si insinuano le vipere: i sette vizi capitali! Occorre sarchiare, bruciare le erbe cattive, potare, fare scassi, concimare con la mortificazione, curare con l'amore a Dio e al prossimo, la propria anima.
E sorvegliare con occhio aperto e luminoso e mente sveglia perchè i maglioli, che potevano parere buoni, non si disvelino poi dannosi, e se ciò avviene, senza pietà svellerli. Meglio una pianta sola, ma perfetta, a molte inutili e dannose.

Abbiamo cuori, abbiamo perciò vigne che sono sempre lavorate, piantate di nuove piante da un disordinato coltivatore che affastella nuove piante: questo lavoro, quell'idea, quella volontà, anche non malvagie, ma che poi non se ne cura più e malvagie divengono, cadono al suolo, si imbastardiscono, muoiono.... Quante virtù periscono perchè mescolate alla sensualità, perchè non coltivate, perchè, in conclusione, il libero arbitrio non è sorretto dall'amore! Quanti ladri entrano a rubare, a manomettere, a svellere, perchè la coscienza dorme invece di vegliare, perchè la volontà si infiacchisce e corrompe, perchè l'arbitrio si fa sedurre e si fa schiavo, lui libero, del Male.
Ma pensate! Dio lo lascia libero e l'arbitrio si fa schiavo delle passioni, del peccato, delle concupiscenze, del Male insomma. Superbia, ira, avarizia, lussuria, mescolate prima, trionfanti poi sulle piante buone!.... Un disastro!

Quanta arsura che disseca le piante perchè non c'è più l'orazione che è unione con Dio, e perciò rugiada di benefici succhi sull'anima! Quanto gelo ad assiderare le radici con la mancanza di amore a Dio e al prossimo! Quanta magrezza di terreno perchè si rifiuta la concimazione della mortificazione, dell'umiltà! Che groviglio inestricabile di rami buoni e non buoni, perchè non si ha il coraggio di soffrire per amputarsi di ciò che è nocivo! Questo è lo stato di un'anima che ha per suo custode e coltivatore un arbitrio disordinato e volto al Male.

Mentre l'anima che ha un arbitrio che vive nell'ordine e perciò nell'ubbidienza della Legge data perchè l'uomo sappia cosa è, come è e come si conserva l'ordine, e che è eroicamente fedele al Bene, perchè il Bene eleva l'uomo e lo fa simile a Dio mentre il Male lo abbrutisce e lo fa simile al demonio, è una vigna irrorata dalle acque pure, abbondanti, utili, della fede, debitamente ombreggiata da piante della speranza, soleggiata dal sole della carità, corretta dalla volontà, concimata dalla mortificazione, legata con l'ubbidienza, potata dalla fortezza, condotta dalla giustizia, sorvegliata dalla prudenza e dalla coscienza. E la Grazia cresce, aiutata da tanto, cresce la Santità, e la vigna diviene giardino meraviglioso in cui scende Iddio a prendere le sue delizie finchè, conservandosi dessa vigna sempre un giardino perfetto fino alla morte della creatura, dai suoi angeli Dio fa portare questo lavoro di un libero arbitrio volonteroso e buono, nel grande ed eterno Giardino dei Cieli.

Certo voi volete questa sorte. E allora vegliate acciò il Demonio, il Mondo, la Carne non seducano il vostro arbitrio e devastino l'anima vostra. Vegliate perchè in voi sia amore e non amor proprio che spegne l'amore e getta l'anima in balia delle sensualità diverse e del disordine. Vegliate sino alla fine e le tempeste potranno bagnarvi ma non nuocervi, e carichi di frutti andrete al vostro Signore per il premio eterno.


domenica 14 luglio 2013

La parabola del legno verniciato


Le parabole di Gesù
(037)
La parabola del legno verniciato (434.3 - 434.4)

"Ebbene, ora che hai risposto a Toma vieni con me, Maestro.... a vedere il mio lavoro e a dirmi che devo tingere ora. Cose umili ancora perchè sono un garzone molto incapace."
"Andiamo, Simone..." e Gesù posa i suoi arnesi ed esce collo Zelote...



Tornano dopo qualche tempo e Gesù indica la scala da orto: "Passa la tinta a quella. La vernice rende impenetrabile il legno e lo conserva di più, oltre che farlo più bello. E' come la difesa e l'abbellimento delle virtù sul cuore umano. Può essere grezzo, rozzo.... Ma come le virtù lo vestono si fa bello, piacevole. 

Vedi, per ottenere una tinta bella e un servizio reale dalla stessa occorrono tante avvertenze. Per prima: prendere con attenzione ciò che occorre a formarla. Ossia un recipiente netto da terriccio o da residui di vecchie tinte, oli buoni e buone tinte, e con pazienza mescolare, lavorare, fare un liquido nè troppo denso nè troppo liquido. Non stancarsi di lavorare finchè anche il più piccolo grumo non sia sciolto. Fatto questo prendere un pennello che non perda le setole, non le abbia eccessivamente dure, nè eccessivamente morbide, che sia ben pulito da ogni precedente colore, e prima di applicare la vernice nettare il legno da ruvidezze, da vecchie vernici scrostate, da fango, da tutto, e poi, così, con ordine, mano sicura nell'andare sempre in una direzione, stendere con pazienza, molta pazienza, la tinta. 

Perchè nella stessa tavola ci sono resistenze diverse. Sui nodi, per esempio, la tinta resta più liscia, è vero, però su essi la tinta si ferma male, come la materia legnosa la respingesse. Viceversa sulla parti morbide del legno la tinta si ferma subito, ma le parti morbide generalmente sono poco lisce, e allora possono formarsi vesciche, o rigature.... Ecco allora che si deve riparare con mano costante nello stendere il colore.

Poi ci sono, nei mobili vecchi, le parti nuove, come questo scalino ad esempio. E per non far capire che la povera scaletta è rabberciata, ma vecchia molto, bisogna far sì che tanto lo scalino nuovo come quelli antichi risultino uguali.... Ecco, così!" Gesù curvo ai piedi della scala parla e lavora intanto..."

Tommaso, che ha lasciato i suoi bulini per venire vicino a vedere, chiede: "Perchè hai iniziato dal basso invece che dalla cima? Non era meglio fare l'opposto?"
"Sembrerebbe meglio ma non lo è. Perchè il basso è il più sciupato e il destinato di più a sciuparsi stando appoggiato sulla terra. Perciò deve essere lavorato più volte. Una prima mano, poi una seconda, e una terza se occorre... e per non oziare attendendo che il basso si asciughi per essere pronto ad una nuova mano, tingere intanto il sommo, poi il centro della scala."

"Ma nel farlo ci si può macchiare le vesti e sciupare le parti tinte prima."

"Con accortezza non ci si macchia e non si sciupa niente. Vedi? Si fa così. Si raccolgono le vesti e si sta scosti. Non per schifo della tinta ma per non ledere la tinta delicata perchè da poco messa" e Gesù a braccia alte tinge ora la vetta della scala. E continua a parlare:

"Così si fa con le anime. Ho detto all'inizio che la tinta e' come l'abbellimento delle virtù sui cuori umani. Abbellimento e preservazione del legno dai tarli, dalle piogge, dal solleone. Guai a quel padrone di casa che non si cura delle cose verniciate e le lascia deperire! Quando si vede che il legno si spoglia della sua vernice occorre non perdere tempo e metterne di nuova. Rinfrescare le tinte... 

Anche le virtù messe in un primo slancio verso la giustizia possono deperire o scomparire del tutto se il padrone di casa non veglia, e la carne e lo spirito, messi a nudo in balìa delle intemperie e dei parassiti, ossia delle passioni e delle dissipazioni, possono esserne assaliti, perdere la veste che li fa belli, finire ad essere... buoni solo per il fuoco.

Perciò, sia in noi o in chi amiamo come nostri discepoli, quando si nota sgretolature, dilavature nelle virtù messe a difesa nel nostro io, occorre subito prevedere con un lavoro assiduo, paziente, fino alla fine della vita, perchè si possa addormentarsi nella morte con una carne e uno spirito degni della risurrezione gloriosa.

E perchè le virtù siano vere, buone, iniziarle con intenzione pura, coraggiosa, che leva ogni detrito, ogni terriccio, e lavorare per non lasciare imperfezioni nella formazione virtuosa, e poi prendere un atteggiamento nè troppo duro nè troppo indulgente, perchè tanto l'intransigenza come l'eccessiva indulgenza nuocciono. 
E il pennello: la volontà, sia netto dalle umanità preesistenti che potrebbero venare la tinta spirituale con sfregi materiali, e preparare se stessi o altri, con opportune operazioni, faticose, è vero, ma necessarie, a mondare il vecchio io da ogni lebbra antica, per averlo mondo a ricevere la virtù. Perchè non si può mescolare il vecchio col nuovo.

Poi iniziare il lavoro: con ordine, con riflessione. Non saltare qua e là senza un serio motivo. Non andare un poco in un senso e un po' nell'altro. Ci si stancherebbe meno, è vero. Ma la vernice verrebbe irregolare. Come avviene nelle anime disordinate. Presentano punti perfetti, poi accanto a questi ecco storture, colore diverso.... 

Insistere sui punti resistenti alla tinta, sui nodi: viluppi della materia o di passioni sregolate, mortificati, sì, dalla volontà che simili a pialla li ha faticosamente lisciati, ma che restano come un nodo amputato ma non distrutto a far resistenza. E ingannano talvolta, parendo già ben rivestiti da virtù mentre non è che un velo leggero che subito cade. Attenti ai nodi delle concupiscenze. Fate che la virtù sia ripetutamente messa su essi perchè non rifioriscano deturpando l'io nuovo. E sulle parti molli, sulle cedevolezze troppo facili a ricevere tinta, ma a riceverla a loro piacimento: con vesciche e rigature, insistere colla pelle di pesce e lisciare, lisciare per dare una o più mani di vernice affinchè anche esse parti siano liscie come uno smalto compatto. E attenti a non sovraccaricare. Un eccesso di pretese nelle virtù fa sì che la creatura si ribelli e ribolla e sgalli al primo urto. No. Nè troppo nè troppo poco. Giustizia nel lavorarsi e nel lavorare le creature fatte di carne e anima.


venerdì 12 luglio 2013

La parabola raccontata da Simone Zelote (445.9)


Le parabole di Gesù
(038)
La parabola raccontata da Simone Zelote (445.9)

"Le piante hanno bisogno dell'acqua del cielo, perchè bevono anche con le foglie, eh? Sembra che no, ma è così. Le radici, le radici! Sta bene. Ma anche le fronde ci sono per qualche cosa e hanno i loro diritti..."
"Non ti pare, Maestro, che Bartolomeo proponga il soggetto di una bella parabola?" dice lo Zelote stuzzicando Gesù a parlare.
Ma Gesù, che sta ninnando il fanciullino che ha paura delle saette, non dice la parabola, ma assente dicendo: "E tu come la proporresti?"
"Male certo, Maestro, Io non sono Te..."
"Dilla come la sai. Vi servirà molto il predicare con parabole. Abituatevi. Ti ascolto, Simone...."

"Oh!... Tu Maestro, io.... stolto... Ma ubbidisco. Direi così:
Un uomo aveva una bella pianta di vite. Ma non essendo quell'uomo possessore di una vigna, la sua vite l'aveva messa nel piccolo orto di casa, perchè salisse sul terrazzo a fare ombra e a dare grappoli, e molte cure dava alla sua vite. Ma essa cresceva in mezzo alle case,presso la via, perciò fumo di cucine e forni, e polvere della strada salivano a molestare la vite. E finchè ancora dal cielo scendevano le piogge di Nisam, le foglie della vite si detergevano dalle impurità e godevano del sole e dell'aria senza avere sulla superficie una brutta crosta di sudiciume ad impedirlo. Ma quando venne l'estate e l'acqua non scese più dal cielo, fumo, polvere, escrementi di uccelli si depositarono in spessi strati sulle foglie, mentre il sole troppo rovente le prosciugava. Il padrone della vite dava acqua alle radici sprofondate nel suolo, e perciò la pianta non moriva, ma vegetava stenta, perchè l'acqua dalle radici succhiata non saliva che per l'interno, e le misere fronde non ne godevano. Anzi, dal suolo torrido bagnato con poca acqua, salivano ribollimenti ed esalazioni che sciupavano le foglie macchiandole come per pustole maligne. Ma infine venne una grande pioggia dal cielo e scese sulle fronde, corse lungo i rami, i grappoli, il tronco, spense l'ardore delle muraglie e del suolo, e passata la tempesta il padrone della vite vide la sua pianta pulita, fresca, godere e dare godimento sotto il cielo sereno"

"Va bene. Ma il paragone con l'uomo?..."
"Maestro, questo fallo Tu."
"No. Tu. Siamo tra fratelli, non devi temere di fare brutte figure."
"Se è per le brutte figure non le temo come cose penose. Anzi le amo perchè servono a tenermi umile. E' che non vorrei dire delle cose errate...."
"Io te le correggerò."

" Oh" allora! Ecco. direi: < Così avviene dell'uomo che non vive isolato negli orti di Dio, ma vive in mezzo alla polvere e al fumo delle cose del mondo. Le quali lo ingrommano lentamente, quasi inavvertitamente, ed egli si trova sterilito nello spirito, sotto una crosta di umanità tanto spessa che l'aura di Dio e il sole della Sapienza più non possono giovargli. E inutilmente cerca di sopperire con un poco di acqua, attinta alle pratiche, e data con tanta umanità alla parte inferiore di modo che la parte superiore non ne gode... Guai all'uomo che non si deterge con l'acqua del Cielo che monda dalle impurità, che spegne gli ardori delle passioni, che veramente nutre l'io tutto>. Ho detto."

""Hai detto bene. Io direi anche che, a differenza della pianta, creatura priva di libero arbitrio e confitta nella terra, e perciò non libera di andare in cerca di ciò che le giova e di fuggire ciò che le nuoce, l'uomo può andare a cercare l'acqua del Cielo e sfuggire la polvere, il fumo e l'ardore della carne e del mondo e del demonio. Sarebbe più completo l'insegnamento."


giovedì 11 luglio 2013

Parabola del pescatore...


Le parabole di Gesù
(039)
Parabola del pescatore che giudicava 
duramente il prossimo (448.6)

Un uomo, navigando sul lago in una sera placida come questa e sentendosi sicuro di se stesso, presunse di essere senza difetti. Era un uomo espertissimo delle manovre e perciò si sentiva superiore agli altri che incontrava sull'acque, dei quali molti venivano su esse per diletto e perciò senza quell'esperienza che dà il lavoro usuale e fatto per guadagnarsi la vita. Inoltre era un buon israelita e perciò si credeva possessore di tutte le virtù. Infine era realmente un buon uomo.

Or dunque, una sera che andava navigando sicuro, si permise di esprimere dei giudizi sul prossimo suo. Un prossimo, secondo lui, tanto lontano da non essere considerato prossimo. Nessun legame di nazionalità, nè di mestiere, nè di fede lo univa a quel prossimo e perciò egli, senza nessun freno di solidarietà nazionale, religiosa o professionale, lo derideva tranquillamente, anzi severamente, e si lamentava di non essere padrone del luogo, perchè se lo fosse stato avrebbe cacciato quel prossimo da esso luogo, e, nella sua fede intransigente, quasi rimproverava l'Altissimo di concedere a questi diversi da lui di fare e di vivere quello e dove egli faceva e viveva.
Sulla sua barca era un suo amico, un suo buon amico il quale lo amava con giustizia e perciò lo voleva saggio e, quando occorreva farlo, ne correggeva le idee sbagliate. Quella sera, dunque, questo amico disse all'uomo barcaiuolo: "Perchè questi pensieri? Non è uno il Padre degli uomini? Non è Egli il Signore dell'Universo? Il suo sole non scende forse su tutti gli uomini a scaldarli, e le sue nuvole non bagnano forse i campi dei gentili come quelli degli ebrei? E se questo fa per i bisogni materiali dell'uomo, non avrà le stesse provvidenze per i loro bisogni spirituali? E vorresti tu suggerire a Dio ciò che deve fare? Chi come Dio?"

L'uomo era buono. Nella sua intransigenza era molta ignoranza, molte idee errate, ma non era mala volontà, non era intenzione di offendere Dio, anzi era intenzione di difenderne gli interessi. Sentendo quelle parole si gettò ai piedi del saggio e gli chiese perdono per aver parlato da stolto. Tanto impetuosamente lo chiese che per poco non produsse una catastrofe facendo perire la barca e chi era su essa, perchè nella foga di chiedere perdono non si curò più nè del timone nè della vela, nè delle correnti. Perciò dopo il primo sbaglio di mal giudizio commise un secondo sbaglio di mala manovra, e provò a se stesso che non solo era un debole giudice ma anche un maldestro marinaio.


mercoledì 10 luglio 2013

Parabola dei dieci comandamenti


Le parabole di Gesù
(040)
Parabola dei dieci comandamenti (452.8 - 452.9 - 452.10)
Un padre di famiglia aveva due figli, ugualmente amati e dei quali egli voleva essere in uguale misura benefattore. Questo padre aveva, oltre alla dimora che erano i figli, dei possessi dove erano grandi tesori nascosti. I figli sapevano di questi tesori ma non sapevano la via per andarvi perchè il padre, per motivi suoi propri, non aveva rivelato ai figli la via per giungervi e ciò per molti e molti anni. Però, ad un certo momento, chiamò i suoi due figli e disse:
"E' bene che ormai voi conosciate dove sono i tesori che il padre vostro a messo da parte per voi, per poterli raggiungere quando io ve lo dirò. Intanto conoscetene la strada e i segnali che ho messo in essa, perchè voi non smarriate la via giusta. Sentitemi dunque. I tesori non sono in pianura dove stagnano le acque, arde il solleone, sciupa la polvere, soffocano gli spini e i triboli, e dove facilmente i ladri possono giungere per derubarvi. I tesori sono in cima a quell'alto monte, alto e scabro. Io li ho collocati là in cima e là vi attendono. Il monte ha più di un sentiero, anzi ha molti sentieri. Ma uno solo è buono. Gli altri, quali finiscono in precipizi, quali in caverne senza uscita, quali in fosse d'acqua melmosa, quali in serpai di vipere, quali in crateri di zolfo acceso, quali contro muraglie insuperabili.
Quello buono, invece, è faticoso, ma giunge alla vetta senza interruzione di precipizi o altri ostacoli. Perchè voi lo possiate riconoscere io ho messo lungo di esso a distanze regolari dieci monumenti di pietra con sopra incise queste tre parole di riconoscimento: <Amore, ubbidienza, vittoria>.
Andate seguendo questo sentiero e raggiungerete il luogo del tesoro. Io, poi, per altra via, nota a me solo, verrò e ve ne aprirò le porte perchè siate felici".
I due figli salutarono il padre che finchè potè essere udito da loro ripetè: "Seguite la via che vi ho detto. E' per il vostro bene. Non lasciatevi tentare dalle altre anche se vi sembrano migliori. Perdereste il tesoro e me con esso..."
Eccoli giunti ai piedi del monte. Un primo monumento era alla base, proprio all'inizio del sentiero che era al centro di una raggiera di sentieri, che salivano alla conquista del monte in ogni senso. I due fratelli iniziarono la salita sul terreno buono. Era ancora molto buono nel primo tempo, benchè senza un filo d'ombra. Dall'alto del cielo il sole vi scendeva a picco inondandolo di luce e di calore. La candida roccia in cui era tagliato, il terso cielo sul loro capo, il caldo sole ad abbraccio delle loro membra: ecco ciò che vedevano e sentivano i fratelli. Ma ancora animati da buona volontà, dal ricordo del padre e delle sue raccomandazioni, salivano gioiosi verso la cima. Ecco un secondo monumento.... e poi ecco il terzo. Il sentiero era sempre più faticoso, solitario, ardente.
Non si vedevano neppur più gli altri sentieri nei quali erano erbe e piante o acque chiare, e soprattuitto salita più dolce perchè meno ripida e tracciata nel suolo non già sulla roccia.
"Nostro padre ci vuol far giungere morti" disse un figlio giungendo al quarto monumento. E cominciò a rallentare il passo. L'altro lo confortò a proseguire dicendo: "Egli ci ama come altri se stessi e più ancora perchè ci ha salvato il tesoro così meravigliosamente. Questo sentiero nella roccia che senza smarrimenti sale dal basso alla cima lo ha scavato lui. Questi monumenti li ha fatti lui per guida nostra. Pensa, fratello mio! Lui, da solo, ha fatto tutto questo, per amore! Per darlo a noi! Per fare che vi giungiamo senza sbaglio possibile e senza pericolo."
Camminarono ancora. Ma i sentieri lasciati a valle ogni tanto si riaccostavano al sentiero nella roccia, e sempre più lo facevano più il monte avvicinandosi alla cima si faceva più stretto nel suo cono. E come erano belli, ombrosi, invitanti...
"Io quasi prendo uno di quelli" disse il malcontento giungendo al sesto monumento. "Tanto anche quello va alla cima".
"Tu non lo puoi dire... Non vedi se sale o se scende.."
"Eccolo lassù!"
"Non sai se è questo. E poi il padre lo ha detto di non lasciare l'onesto sentiero... "
Di male voglia lo svogliato proseguì.
Ecco il settimo monumento: "Oh! io me ne vado proprio":
"Non lo fare, fratello!"
Su per il sentiero veramente difficilissimo, ormai. Ma la cima era ormai prossima.
Ecco l'ottavo monumento e vicino, proprio rasente il sentiero fiorito. "Oh! lo vedi che, se non in linea retta, va proprio su anche questo?"
"Non sai se è quello".
"Si. Lo riconosco."
"Ti inganni".
"No. Io vado".
"Non lo fare. Pensa al padre, ai pericoli, al tesoro".
"Ma vadano in perdita tutti! Che me ne faccio del tesoro se giungo in cima morente? Quale pericolo più grande di questa via? E quale odio più grande di questo del padre che ci ha beffati con questo sentiero per farci morire? Addio. Giungerò prima di te, e vivo..." e si gettò nel sentiero attiguo, scomparendo con una esclamazione di gioia dietro i tronchi che l'ombreggiavano.
L'altro proseguì tristemente... Oh! la via nel suo ultimo tratto era proprio tremenda! Il viandante non ne poteva più. Era come ubriaco di fatica, di sole! Al nono monumento si fermò ansante appoggiandosi alla pietra scolpita e leggendo macchinalmente le parole incise. Vicino era un sentiero d'ombra, d'acque, di fiori.. "Quasi, quasi.... Ma no! No. Lì è scritto, e l'ha scritto mio padre: <Amore, ubbidienza, vittoria>. Devo credere. Al suo amore, alla sua verità, e devo ubbidire per mostrare il mio amore.... Andiamo.... L'amore mi sorregga..."
Ecco il decimo monumento...Il viandante esausto, arso dal sole, camminava curvo come sotto un giogo... Era l'amoroso e santo giogo della fedeltà che è amore, ubbidienza, fortezza, speranza, giustizia prudenza, tutto... Invece di appoggiarsi si gettò seduto a quella larva d'ombra che il monumento faceva al suolo. Si sentiva morire.... Dal sentiero accosto veniva un rumore di ruscelli e odor di bosco... " Padre, padre, aiutami col tuo spirito, nella tentazione.... aiutami a essere fedele sino alla fine!"
Da lontano, ridente, la voce del fratello: "Vieni, ti aspetto. Qui è un eden... Vieni..."
"Se andassi?..." e gridando forte: Si sale proprio alla vetta?"
"Si, vieni. C'è una galleria fresca che porta su. Vieni! La vedo già, la vetta, oltre la galleria nel masso..."
"Vado? Non vado? Chi mi soccorre? Vado..." Puntò le mani per rialzarsi e mentre lo faceva notò che le parole scolpite non erano più sicure come quelle del primo monumento: "Ogni monumento, le parole erano più leggere... come se il padre mio, spossato, avesse faticato ad inciderle. E... guarda! .... Anche qui quel segno rosso bruno che già era visibile al quinto monumento.... Solo che qui esso empie il cavo di ogni parola ed è scolato fuori, rigando il masso come di lacrime scure, come... di sangue..."
Grattò col dito là dove era una macchia vasta quanto due mani. E la macchia si sfarinò lasciando scoperte, fresche, queste parole: "Così vi ho amato. Sino a spargere il sangue per condurvi al Tesoro".
"Oh! oh! Padre mio! E io potevo pensare a non fare il tuo comando?! Perdono, padre mio! Perdono". Il figlio pianse contro il masso, e il sangue che empiva le parole si rifece fresco splendendo come rubino, e le lacrime furono cibo e bevanda al figlio buono, e forza.... Si alzò... per amore chiamò il fratello, forte, forte... Voleva dirgli la sua scoperta... l'amore del padre, dirgli: "Torna". Nessuno rispose...
Il giovane riprese l'andare, quasi a ginocchi sulla pietra rovente, perchè era proprio sfinito nella carne dalla fatica, ma lo spirito era sereno. Ecco la vetta... E là ecco il padre.
"Padre mio!"
"Figlio diletto!"
Il giovane si abbandonò sul petto paterno, il padre lo accolse coprendolo di baci.
"Sei solo?"
"Sì... Ma presto giungerà il fratello..."
"No. Non giungerà più. Ha lasciato la via dei dieci monumenti. Non vi è tornato dopo i primi disinganni ammonitori. Vuoi vederlo? Eccolo là. Nel baratro di fuoco... E' stato pertinace nella colpa. Lo avrei ancora perdonato e atteso se, dopo aver conosciuto l'errore, fosse tornato sui suoi passi e, sebbene con ritardo, fosse passato per dove l'amore è passato per primo soffrendo sino a spargere il suo sangue migliore, la parte più cara di se stesso per voi."
"Egli non sapeva..."
"Se egli avesse guardato con amore le parole scolpite nei dieci monumenti avrebbe letto il loro vero significato. Tu lo hai letto sin dal quinto monumento e lo hai fatto notare all'altro dicendo: <Il padre qui deve essersi ferito!> e lo hai letto nel sesto, settimo, ottavo, nono... sempre più chiaro, sinchè hai avuto l'istinto di scoprire ciò che era sotto il sangue mio. Sai il nome di quell'istinto? <Tua vera unione con me>. Le fibre del tuo cuore, fuse alle mie fibre, hanno trasalito, e ti hanno detto: <Qui avrai la misura di come ti ama il padre!>. Ora entra nel possesso del Tesoro e di me stesso, tu, amoroso, ubbidiente, vittorioso in eterno."

lunedì 8 luglio 2013

Parabola sulla distribuzione delle acque


Le parabole di Gesù
(041)

Parabola sulla distribuzione 
delle acque (da 467.2 a 467.5)


Un ricco signore aveva molti dipendenti sparsi in molti luoghi dei suoi possedimenti, i quali non erano tutti ricchi di acque e più dei luoghi pativano le persone, perchè se il terreno era coltivato con piante che resistevano all'asciuttore, la gente soffriva molto per le acque scarse. Il ricco signore aveva invece, proprio nel luogo dove lui abitava, un lago ricco d'acque che vi sgorgavano da sotterranee sorgenti.


Un giorno il signore volle fare un viaggio per tutti i suoi possedimenti e vide che alcuni, i più vicini al lago, erano ricchi di acque; gli altri, lontani, ne erano privi: solo quella poca che Dio mandava con le piogge. E vide anche che quelli che avevano acque abbondanti non erano buoni con i fratelli privi d'acque e lesinavano anche una secchia d'acqua con la scusa di temere di rimanere privi d'acque. Il signore pensò. E decise così: "Farò deviare le acque del mio lago a quelli più vicini, dando loro l'ordine di non rifiutare più l'acqua ai miei servi lontani e che sono sofferenti per la siccità del suolo".


E intraprese i lavori subito facendo scavare canali che portavano l'acqua buona del lago ai possessi più vicini dove fece scavare grandi cisterne, di modo che l'acqua si adunasse abbondante aumentando la ricchezza d'acque che già era nel luogo, e da queste fece partire canali minori per alimentare altre cisterne più lontane.
Poi chiamò coloro che vivevano in questi luoghi e disse: "Ricordatevi che ciò che ho fatto non l'ho fatto per dare a voi il superfluo ma per favorire attraverso voi quelli che mancano anche del necessario. Siate perciò misericordiosi come io lo sono" e li congedò.


Passò del tempo e il ricco signore volle fare un nuovo viaggio per tutti i suoi possessi. Vide che quelli più prossimi si erano abbelliti e non solo erano ricchi di piante utili, ma anche di piante ornamentali, di vasche, e piscine e fontane messe per ogni dove delle case e presso le case.
"Avete fatto di queste dimore delle case di ricchi" osservò il signore. "Neppure io ho tante bellezze superflue" e chiese ancora: " Ma gli altri vengono? Avete dato a loro con abbondanza? I canali minori sono nutriti?"

"Sì. Quanto hanno chiesto hanno avuto. E sono anche esigenti, non sono mai contenti, non hanno prudenza e misura, vengono a tutte le ore a chiedere, come se noi fossimo i loro servi, e ci dobbiamo difendere per tutelare le cose nostre. Non si contentavano più di canali e delle piccole cisterne. Vengono fino alle grandi."
"E' per questo che voi avete cintato i luoghi e messo in ognuno questi cani feroci?"
"Per questo, signore. Entravano senza riguardo e pretendevano levarci tutto e sciupavano...."
"Ma voi avete realmente dato? Lo sapete che per essi ho fatto questo e voi vi ho fatti intermediari fra il lago e le loro terre aride? Non capisco... Avevo fatto prendere dal lago tanto da averne per tutti senza sciupio".
"Eppure credi che noi non abbiamo mai negato l'acqua".
Il signore si diresse ai possessi più lontani. Le alte piante adatte al suolo arido erano verdi e fronzute. "Hanno detto il vero" disse il signore vedendole fremere al vento da lontano. Ma come si avvicinò ad esse e poi si inoltrò sotto di esse vide il terreno arso, morte quasi le erbe che brucavano a fatica le pecore anelanti, sabbiose le ortaglie presso le case e poi vide i primi coltivatori patiti, l'occhio febbrile e avviliti.... Lo guardavano e abbassavano il capo ritirandosi come per paura.

Egli, stupito di quel contegno, li chiamò a sè. Si accostarono tremanti. "Di che temete? Non sono più il vostro signore buono che ha avuto cura di voi e con provvidente lavoro vi ha sollevato dalla miseria delle acque? Perchè quei volti malati? Perchè queste terre aride? Perchè i greggi sono così sparuti? E voi perchè sempre paurosi di me? Parlate senza timore. Dite al vostro signore ciò che vi fa soffrire."

Un uomo parlò per tutti. "Signore, noi abbiamo avuto una grande delusione e molta pena. Tu ci avevi promesso soccorso e noi abbiamo perduto anche quello che avevamo prima e abbiamo perduto la speranza in te."
"Come ? Perchè? Non ho fatto venire l'acqua abbondante ai più vicini dando l'ordine che l'abbondanza fosse per voi?"
"Così hai detto? Proprio?"
"Così. Certamente. Non potevo, per ragioni di suolo, far giungere fin qui l'acqua direttamente. Ma con buona volontà potevate andare ai piccoli canali delle cisterne, andarvi con otri e asini a prenderne quanta volevate. Non vi bastavano gli asini e gli otri? E io non c'ero per darveli?"
"Ecco! Io l'avevo detto! Ho detto: <Non può essere il signore che ha dato l'ordine di negarci l'acqua> se eravamo andati!" "Abbiamo avuto paura. Ci dicevano che l'acqua era un premio per loro e noi eravamo castigati". E raccontarono al buon padrone che i conduttopri dei possessi beneficati avevano detto loro che il signore, per punire i servi delle terre aride che non sapevano produrre di più, aveva dato l'ordine di misurare non solo l'acqua delle cisterne ma quella dei primitivi pozzi, di modo che se prima ne avevano anche duecento bati al giorno per loro e le terre, presi con gran fatica di strada e di peso, ora più neppur cinquanta ne avevano, e per averne tanto per gli uomini e gli animali dovevano andare nei rigagnoli di confine ai luoghi benedetti, là dove traboccavano le acque dei giardini e dei bagni, e prendere quell'acqua motosa, e morivano. Morivano di malattia e di sete, e morivano gli ortaggi e le pecore....

"Oh! questo è troppo! E deve finire. Prendete le vostre masserizie e i vostri animali e seguitemi. Faticherete un poco, esausti come siete, ma poi sarà la pace. Io andrò piano per permettere alla vostra debolezza di seguirmi. Io sono un padrone buono, un padre per voi, e ai miei figli provvedo". E si pose in cammino lentamente, seguito dalla triste turba dei suoi servi e degli animali che però già giubilavano per il ristoro dell'amore del buon padrone.


Giunsero alle terre ricchissime d'acque. Ai confini di esse. Il padrone prese qualcuno fra i più forti e disse: "Andate in mio nome a chiedere ristoro."
"E se ci lanciano contro cani?"
"Io sono dietro voi. Non temete. Andate dicendo che io vi mando e che non chiudano il cuore alla giustizia, perchè le acque sono di Dio e tutti gli uomini sono fratelli. Che aprano subito i canali".

Andarono. E il padrone dietro. Si presentarono ad un cancello. E il padrone rimase nascosto dietro il muro di cinta. Chiamarono. Accorsero i conduttori.
"Che volete?"
"Abbiate misericordia di noi. Moriamo. Ci manda il padrone con l'ordine di prendere le acque che ha fatto venire per noi. Dice che le acque a lui le ha date Dio ed egli a voi per noi perchè siamo fratelli, e di aprire subito i canali".

"Ah! Ah!" risero i crudeli. "Fratelli questa turba di cenciosi? Morite? Tanto meglio. Prenderemo i vostri luoghi, vi porteremo là le acque. Allora sì che le porteremo! E faremo quei luoghi buoni. Le acque per voi? Stolti siete! Le acque sono nostre".
"Pietà. Moriamo. Aprite. Lo ordina il padrone".

I cattivi conduttori si consultarono fra loro, poi dissero: "Attendete un momento" e corsero via. Poi tornarono ed aprirono. Ma avevano i cani e pesanti randelli.... I poveri ebbero paura. " Entrate, entrate... Non entrate ora che vi abbiamo aperto? Poi direte che non fummo generosi...." Un incauto entrò e una grandine di bastonate gli piovve addosso mentre i cani, levati di catena, si avventavano sugli altri.

Il padrone uscì da dietro il muro. "Cosa fate, crudeli? Ora vi conosco, voi e i vostri animali, e vi colpisco" e con le frecce frecciò i cani ed entrò poi, severo e irato. "Così è che eseguite i miei ordini? Per questo vi ho dato queste ricchezze? Chiamate tutti i vostri. Vi voglio parlare. E voi" disse rivolto ai servi assetati, " entrate con le vostre donne e bambini, pecore e asini, colombi e ogni animale, e bevete, e rinfrescatevi, e cogliete queste frutta succose, e voi, piccoli innocenti, correte fra i fiori. Godete. Giustizia è nel cuore del buon padrone e giustizia sarà per tutti".


E mentre gli assetati correvano alle cisterne, si tuffavano nelle piscine, e il bestiame alle vasche, e tutto era tripudio per essi, gli altri accorrevano da ogni parte paurosi.


Il padrone salì sull'orlo di una cisterna e disse: "Avevo fatto questi lavori e vi avevo fatto depositari del mio comando e di questo tesoro perchè vi avevo eletti a miei ministri. Nella prova avete fallito. Parevate buoni. Dovevate esserlo perchè il benessere dovrebbe rendere buoni, riconoscenti verso il benefattore, ed io vi avevo sempre benificato dandovi la conduzione di queste terre irrigue. L'abbondanza e l'elezione vi ha fatti duri di cuore, aridi più delle terre che avete reso del tutto aride, malati più di questi arsi di sete. Perchè essi con l'acqua possono guarire mentre voi, con l'egoismo, avete arso il vostro spirito e difficilmente guarirà e con molta fatica tornerà in voi l'acqua della carità. Ora io vi punisco. Andate nelle terre di questi e soffrite ciò che essi soffrirono."
"Pietà, signore! Pietà di noi! Ci vuoi dunque far perire? Meno pietoso tu per noi uomini che noi per gli animali?"

"E questi che sono? Non sono uomini vostri fratelli? Che pietà aveste? Vi chiedevano acqua, deste colpi di bastone e sarcasmo. Vi chiedevano ciò che è mio e che io avevo dato, e voi lo negaste dicendolo vostro. Di chi le acque? Neppur io dico che l'acqua del lago è mia se anche mio è il lago. L'acqua è di Dio. Chi di voi ha creato una sola goccia di rugiada? Andate!.... E a voi dico, a voi che avete sofferto: siate buoni. Fate loro ciò che avreste voluto fatto a voi fatto. Aprite i canali che essi hanno chiusi e fate defluire le acque ad essi, non appena potrete. Vi faccio i miei distributori a questi colpevoli fratelli ai quali lascio il modo e il tempo di redimersi. E il Signore Altissimo più di me vi affida la ricchezza delle sue acque perchè voi diveniate la provvidenza di chi ne è privo. Se saprete far questo con amore e giustizia accontentandovi del necessario, dando il superfluo ai miseri, essendo giusti, non dicendo vostro ciò che è dono avuto e più che dono deposito, grande sarà la vostra pace, e l'amore di Dio e il mio saranno sempre con voi."



venerdì 5 luglio 2013

Parabola della melogranata


Le parabole di Gesù
(042)
Parabola della melogranata (484.6)

Guardate questo frutto. Voi ne conoscete il sapore oltre che la bellezza. Chiuso come è, già vi promette il succo dolce del suo interno.
Aperto, rallegra anche la vista con le sue file serrate di acini simili a tanti rubini chiusi in un forziere. Ma guai all'incauto che lo morde senza averlo privato delle separazioni amarissime poste fra famiglia e famiglia di acini. Si intossicherebbe le labbra e le viscere e respingerebbe il frutto dicendo: "E' veleno".



Ugualmente le separazioni e gli odi fra popolo e popolo, tribù e tribù, fanno "veleno" ciò che era stato creato per essere dolcezza. Sono inutili, non fanno, come in questo frutto che creare dei limiti che levano spazio e danno compressione e dolore.
Sono amari a chi li addenta, ossia a chi morde il vicino che non ama per dargli offesa e dolore, dànno un'amarezza che avvelena lo spirito. Sono incancellabili? No. La buona volontà le annulla così come anche la mano di un fanciullo leva queste pareti di amarezza nel dolce frutto che il Creatore fece per delizia dei suoi figli.



giovedì 4 luglio 2013

Un re potente


Le parabole di Gesù
(043)
Parabola della visita del re potente (489.4)


Un re potente, il cui regno era molto vasto, volle venire un giorno a visitare i suoi sudditi. Egli abitava in una reggia eccelsa dalla quale, per mezzo dei suoi servi e messaggeri, mandava i suoi ordini e i suoi benefici ai sudditi che perciò sapevano della sua esistenza, dell'amore che aveva per essi, dei suoi propositi, ma non lo conoscevano affatto di persona, non sapevano la sua voce e il suo linguaggio. In una parola sapevano che c'era ed era il loro Signore, ma nulla più.


E, come sovente avviene, per questo fatto molte delle sue leggi e delle sue provvidenze venivano svisate, o per mala volontà o per incapacità di comprenderle, tanto che gli interessi dei sudditi e i desideri del re, che li voleva felici, ne subivano danno. Egli era costretto a punirli talora e ne soffriva più di loro. E le punizioni non cagionavano miglioramento. Disse allora: "Io andrò. Parlerò direttamente a loro. Mi farò conoscere. Mi ameranno e mi seguiranno meglio e diverranno felici". E lasciò la sua eccelsa dimora per venire fra il suo popolo.


Molto stupore cagionò la sua venuta. Il popolo si commosse, si agitò, chi con giubilo, chi con terrore, chi con ira, chi con diffidenza, chi con odio. Il re, paziente, senza stancarsi mai, si pose ad avvicinare tanto chi l'amava come chi lo temeva, come chi lo odiava. Si pose a spiegare la sua legge, ad ascoltare i suoi sudditi, a beneficarli, a sopportarli. E molti finirono ad amarlo, a non sfuggirlo più perchè troppo grande: qualcuno, pochi, cessò anche di diffidare e di odiare. Erano i migliori. Ma molti rimasero ciò che erano non avendo buona volontà in loro. Ma il re, che era molto saggio, sopportò anche questo rifugiandosi nell'amore dei migliori per avere premio delle sue fatiche.


Però, che avvenne mai? Avvenne che anche fra i migliori non tutti lo compresero. Veniva da tanto lontano! Il suo linguaggio era così nuovo! Le sue volontà così diverse da quelle dei sudditi! E non fu capito da tutti.... Anzi alcuni gli dettero dolore, e col dolore gli procurarono nocumento, o almeno rischiarono di procurarglielo, per averlo mal capito. E quando compresero di avergli dato pena e danno, fuggirono desolati dal suo cospetto, nè più andarono a lui temendo la sua parola.

Ma il re aveva letto nei loro cuori e ogni giorno li chiamava col suo amore, pregava l'Eterno di concedergli di ritrovarli per dire loro: "Perchè mi temete? E' vero. La vostra incomprensione mi ha dato dolore, ma l'ho vista senza malizia, frutto soltanto di incapacità a comprendere il mio linguaggio tanto diverso dal vostro. Ciò che mi addolora è il vostro temermi. Ciò mi dice che non solo non mi avete capito come re, ma anche come amico. Perchè non venite? Tornate dunque. Ciò che la gioia di amarmi non vi aveva fatto comprendere, ve lo ha reso chiaro il dolore di avermi dato dolore. Oh! venite, venite, amici miei. Non aumentate le vostre ignoranze col starmi lontano, le vostre caligini col nascondervi, le vostre amarezze coll'interdirvi il mio amore. Vedete? Soffriamo tanto io che voi ad essere divisi. Più ancora io che voi. Venite dunque e datemi gioia."


AVE MARIA PURISSIMA!

domenica 30 giugno 2013

Un padre aveva molti figli


Le parabole di Gesù
(044)
Parabola dei figli lontani che ritornano (501.2)


Un padre aveva molti figli. 
Taluni erano sempre vissuti in stretto contatto con lui, altri, per ragioni diverse, erano stati relativamente più lontani dal padre. Ma però, sapendo i desideri paterni, nonostante gli fossero lontani, potevano agire come se egli fosse presente. 
Altri ancora, perché ancor più lontani, e fin dal primo giorno della loro nascita, allevati fra servi che parlavano altre lingue e avevano altri usi, si sforzavano a servire il padre per quel poco che, più per istinto che per sapere, conoscevano a lui gradito.

Un giorno il padre, che non ignorava come nonostante i suoi ordini i suoi servi si fossero astenuti da far conoscere i pensieri del padre a questi lontani, perché nel loro orgoglio li riputavano inferiori, disamati sol perché non coabitanti col padre, volle radunare tutta la sua prole. E la chiamò a sè.

Ebbene, credete voi che giudicasse per linea di umano diritto, dando il possesso dei beni soltanto a quelli che erano stati sempre nella sua casa, o quanto meno lontani non tanto da impedir loro di sapere i suoi ordini e desideri?
Egli anzi seguì tutt'altro concetto e, osservando le azioni di quelli che erano stati giusti per amore del padre, conosciuto soltanto per nome, e lo avevano onorato con tutte le loro azioni, li chiamò a sé vicino dicendo: "Doppio merito il vostro di esser giusti, poiché lo foste per sola volontà vostra e senza aiuti. Venite e circondatemi. Ne avete ben diritto! I primi mi hanno sempre avuto e ogni loro azione era regolata dal mio consiglio e premiata dal mio sorriso. Voi avete dovuto agire solo per fede ed amore. Venite. Ché nella mia casa è pronto il vostro posto, è pronto da tempo, ed ai miei occhi non costituisce differenza l'esser sempre stati della casa o l'esser stati lontani; ma differenza hanno le azioni che, vicini o lontani da me, i miei figli hanno compiuto."



venerdì 28 giugno 2013

Parabola dell'uomo stolto e del bambino saggio.


Le parabole di Gesù
(046)
Parabola dell'uomo stolto e del bambino saggio (513.3)

Un uomo un giorno si sentì chiamare da un grande re il quale gli disse: "Ho saputo che tu sei meritevole di un premio perchè sei saggio e onori la tua città col lavoro e con la scienza. Orbene io non ti darò questo o quello, ma ti porterò nella sala dei miei tesori, e tu sceglierai quello che vuoi, ed io te lo darò. In tal modo giudicherò anche se tu sei quale la fama ti descrive."



E contemporaneamente il re, accostatosi al terrazzo che cingeva il suo atrio, gettò uno sguardo sulla piazza che era davanti al palazzo reale e vide passare un fanciulletto in povere vesti, un piccolo certo di poverissima famiglia, forse un orfano e mendico. Si volse ai suoi servi dicendo: "Andate da quel fanciullo e portatemelo."

I servi andarono e tornarono con il fanciullino tremante di trovarsi al cospetto del re. Per quanto i dignitari di corte gli dicessero: "Inchinati, saluta, di': <Onore e gloria a te, mio re. Piego il ginocchio davanti a te, potente che la Terra esalta come essere che più grande non c'è>" il fanciullo non voleva inchinarsi e dire quelle parole, e i dignitari, scandalizzati, lo scrollavano duramente e dicevano: "O re, questo fanciullo zotico e lercio è un obbrobrio nella tua dimora. Lascia che noi lo si cacci di qui, in mezzo alla via. Se brami avere al tuo fianco un fanciullo noi andremo a cercartelo fra i ricchi della città, se sei stanco dei nostri, e te lo porteremo. Ma non questo zotico che non sa neppur salutare!..."

L'uomo ricco e saggio, che prima si era umiliato in cento inchini, profondi, come fosse davanti all'altare, disse: "I tuoi dignitari dicono bene. Per la maestà della tua corona devi impedire che non sia data alla tua sacra persona l'omaggio che le si spetta" e nel dire queste parole ancora si prostrava sino a baciare il piede del re.

Ma il re disse: "No. Io voglio questo fanciullo. Non solo. Ma voglio condurlo lui pure nella stanza dei miei tesori perchè scelga ciò che vuole e io glielo darò. Che forse non mi è concesso, perchè sono re, di fare felice un povero fanciullo? Non è forse mio suddito come voi tutti? Ha forse colpa di essere infelice? No, viva Dio, io lo voglio fare contento almeno una volta! Vieni, fanciullo, e non temere di me" e gli porse la mano che il fanciullo prese semplicemente dandogli sopra un bacio spontaneo. Il re sorrise. E fra due file di dignitari curvi, nell'ossequio, su tappeti di porpora a fiori d'oro, si diresse verso la stanza dei tesori, avendo a destra l'uomo ricco e saggio, e a sinistra il fanciullo ignorante e povero.

E il manto regale era in grande contrasto con la vesticciuola sfilacciata e i piedini scalzi del povero bambino.

Entrarono nella stanza dei tesori della quale due grandi della Corte avevano aperto la porta. Era una stanza alta, rotonda, senza finestre. Ma la luce pioveva dal soffitto che era tutto un'enorme lastra di mica. Una luce mite e che pur faceva lucere le borchie d'oro dei forzieri e i nastri porporini di molti rotoli messi su alti e ornati leggii. Rotoli pomposi, dalla bacchetta preziosa, dal fermaglio e il segno ornato di pietre splendenti. Opere rare che soltanto un re poteva possedere. E, negletto su un leggio severo, scuro, basso, un piccolo rotolo attorcigliato su un legnetto bianco, legato con un filo rustico, polveroso come cosa negletta.

Il re disse indicando le pareti: "Ecco, qui sono tutti i tesori della Terra, e altri più grandi ancora dei tesori terrestri. Perchè qui sono tutte le opere dell'ingegno umano, e vi sono anche opere che vengono da fonti soprumane. Andate, prendete ciò che volete".
E si mise al centro della stanza, con le braccia conserte, ad osservare.

L'uomo ricco e saggio si diresse prima ai forzieri e ne alzò i coperchi con ansia sempre più febbrile. Oro in verghe e oro in monili, argento, perle, zaffiri, rubini, smeraldi, opali... scintillii da tutti i cofani.... gridi di ammirazione ad ogni apertura... E poi si diresse ai leggii, e leggendo il titolo dei rotoli, nuovi gridi di ammirazione uscivano dalle sue labbra, e infine l'uomo, acceso di entusiasmo, si volse al re e disse. "Ma tu hai un tesoro senza paragone e le pietre eguagliano in valore i rotoli e questi quelle! E posso proprio scegliere liberamente?"
"L'ho detto. Come tutto ti appartenesse."
L'uomo si gettò col volto al suolo dicendo: "Io ti adoro, o gran re!" E si alzò, correndo prima ai cofani, poi ai leggii, prendendo da questi e quelli il meglio che vedeva.

Il re, che aveva sorriso una prima volta fra la barba vedendo la febbre con cui l'uomo correva da forziere a forziere, e una seconda vedendolo gettarsi a terra adorando, e che sorrideva per la terza volta vedendo con che cupidigia e con qual regola e preferenze sceglieva gemme e libri, si volse al bambino che era rimasto al fianco dicendogli: "E tu non vai a scegliere le belle pietre o i rotoli di valore?"

Il bambino scosse il capo per dire di no.
"E perché?"
"Perchè per i rotoli non so leggere e per le pietre... non ne conosco il valore. Per me sono sassolini e nulla più."
"Ma ti farebbero ricco..."
"Non ho padre, nè madre, nè fratello. A che mi servirebbe andare al mio rifugio con un tesoro al seno?"
"Ma potresti con quello comperarti una casa..."
"Ci abiterei sempre solo".
"Delle vesti."
"Avrei sempre freddo perchè manca l'amore dei parenti".
"Dei cibi".
"Non potrei saziarmi dei baci della mamma, nè comperarli a nessun prezzo."
"Dei maestri e imparare a leggere..."
"Questo mi piacerebbe di più. Ma cosa leggere, poi?"
"Le opere dei poeti, dei filosofi, dei saggi... e le parole antiche e le storie dei popoli."
"Inutili cose, vane o passate... Non merita".

"Che stolto fanciullo!" esclamò l'uomo che aveva ormai le braccia cariche di rotoli, e la cintura e la tunica sul petto gonfia di gemme.
Il re sorrise ancora fra la sua barba. E preso il fanciullo in braccio lo portò ai forzieri e affondando la mano nelle perle, nei rubini, nei topazi, nelle ametiste, facendole cadere come pioggia scintillante, lo tentò a prenderne.

"No, o re, non ne voglio. Vorrei un'altra cosa..."
Il re lo portò ai leggii e lesse strofe di poeti, episodi di eroi, descrizioni di paesi.
"Oh! leggere è più bello. Ma non è questo che vorrei..."
"E che dunque? Parla e te lo darò, fanciullo."
"Oh! non credo, o re, che tu lo possa nonostante la tua potenza. Non è cosa di quaggiù..."
"Ah! vuoi opere non della Terra! Ecco allora: qui sono le opere dettate da Dio ai suoi servi. Ascolta." e lesse pagine ispirate.
"Questo è molto più bello. Ma per capirlo bene bisogna prima sapere bene il linguaggio di Dio. Non c'è un libro che lo insegni, che ci faccia capire cosa è Dio?"

Il re ebbe un atto di stupore e non rise più, ma si strinse al cuore il fanciullo.
L'uomo invece rise beffardo dicendo: "Neanche i più sapienti sanno ciò che è Dio, e tu, fanciullo ignorante, lo vuoi sapere? Se vuoi farti ricco con ciò!..."

Il re lo guardò severo mentre il piccolo rispondeva: "Io non cerco ricchezze, cerco amore, e mi fu detto un giorno che Dio è Amore."
Il re lo portò presso il leggio severo dove era il piccolo rotolo, legato di cordicella e polveroso. Lo prese, lo svolse e lesse le prime righe: "Chi è piccolo venga a Me e Io: Dio, gli insegnerò la scienza dell'amore. In questo libro essa è, e Io..."
"Oh! questo voglio! E conoscerò Dio, e tutto avrò, Lui avendo. Dammi questo rotolo, o re, e io sarò felice."

"Ma è senza valore di denaro! Quel fanciullo è proprio stolto! Non sa leggere e prende un libro! Non è sapiente e non si vuole istruire. E' misero e non prende tesoro."

"Io mi sforzerò a possedere l'amore, e questo libro me lo insegnerà. Che tu sia benedetto, o re, perchè mi dai di che non sentirmi più orfano e povero!"

"Almeno adoralo come ho fatto io, se credi di esser divenuto per suo mezzo tanto felice!"
"Io non adoro l'uomo, ma Dio che lo ha fatto buono così".

"Questo fanciullo è il vero saggio nel mio regno, o uomo che usurpi la fama di saggio. Tu sei divenuto ebbro per orgoglio e avidità al punto di porre l'adorazione alla creatura in luogo di offrirla al Creatore. E ciò perchè la creatura ti dava pietre e opere umane.
E non hai pensato che le gemme che hai, e io le ho avute, perchè Dio le ha create, e hai i rotoli rari dove è il pensiero dell'uomo perchè Dio ha dato all'uomo l'intelletto. Questo piccolo che ha fame e freddo, che è solo, che è stato percosso da tutti i dolori, che sarebbe scusato e scusabile se divenisse ebbro davanti alle ricchezze, ecco che sa dare il giusto grazie a Dio per avere fatto buono il mio cuore, e non cerca che l'unica cosa necessaria: amare Dio, conoscere l'amore per avere le vere ricchezze qui e oltre. 

Uomo: io ho promesso che ti avrei dato ciò che avresti scelto: parola di re è sacra. Va' dunque con le tue pietre e i tuoi rotoli: sassolini multicolori e... paglia di umano pensiero. E vivi tremando per i ladri e per le tignole, i primi nemici delle gemme, le seconde delle pergamene. E abbacinati coi fatui bagliori di quelle scaglie, e disgustati col dolciastro sapore della scienza umana che è solo sapore e non nutrimento. Va'. Questo fanciullo resterà al mio fianco, e insieme ci sforzeremo di leggere il libro che è amore, ossia Dio. E non avremo bagliori fatui di fredde gemme, nè il dolciastro sapore di paglia delle opere di umano sapere. Ma i fuochi dello Spirito Eterno ci daranno sino da qui l'estasi del Paradiso e possederemo la Sapienza, fortificante più che vino, nutriente più di miele. Vieni, fanciullo, al quale la sapienza ha mostrato il suo volto perchè tu la desiderassi come sposa verace":

E cacciato l'uomo prese con sè il fanciullo e lo istruì nella divina Sapienza perchè fosse un giusto e un re degno della sacra unzione sulla Terra, e un cittadino del Regno di Dio oltre la vita.
(Spiegazione)
della parabola 

Questa è la parabola promessa ai piccoli e proposta agli adulti.
Ricordate Baruc?   Egli dice: “Per qual motivo, o Israele, sei in terra nemica, invecchi in paese straniero, sei contaminato fra i morti e annoverato fra quelli che scendono nell’abisso? ”  E risponde: “Perché hai abbandonato la fonte della Sapienza.   Se tu avessi camminato sulla via di Dio saresti vissuto a lungo, in pace e per sempre”.   (…)

Il popolo di Dio soffre perché ha abbandonato la Sapienza. Come potete possedere prudenza, forza, intelligenza, come potete neppur sapere dove si trovano, per poter conseguentemente sapere le cose minori, se non state più ad abbeverarvi alle fonti della Sapienza?
Il suo Regno non è di questa Terra, ma la misericordia di Dio ne concede la fonte. Essa è in Dio. E’ Dio stesso. Ma Dio apre il suo seno perché essa scenda a Voi.  (…)

Perché per salire al Cielo con lo spirito e comprendere le lezioni della Sapienza occorre uno spirito umile, ubbidiente e soprattutto tutto amore, essendo che la Sapienza parla il suo linguaggio, ossia parla il linguaggio dell’amore essendo essa Amore. 

Per conoscere i suoi sentieri ci vuole uno sguardo limpido e umile, libero dalla concupiscenza triplice. Per possedere la Sapienza occorre comperarla con le monete vive: le virtù. (…) 
Una sola cosa è necessaria. Possedere la Sapienza. A costo anche della vita. Perché la vita non è la cosa più preziosa e meglio vale perdere cento vite a perdere la propria anima.

Sancte Antoni, ora pro nobis!