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sabato 15 giugno 2013

OMELIA DEL SANTO PADRE


OMELIA DEL SANTO PADRE 29.6.2011

Cari fratelli e sorelle, 

Non vi chiamo più servi ma amici” (cfr Gv 15,15). 

A sessant’anni dal giorno della mia Ordinazione sacerdotale sento ancora risuonare nel mio intimo queste parole di Gesù, che il nostro grande Arcivescovo, il Cardinale Faulhaber, con la voce ormai un po’ debole e tuttavia ferma, rivolse a noi sacerdoti novelli al termine della cerimonia di Ordinazione. Secondo l’ordinamento liturgico di quel tempo, quest’acclamazione significava allora l’esplicito conferimento ai sacerdoti novelli del mandato di rimettere i peccati. 

Non più servi ma amici”: io sapevo e avvertivo che, in quel momento, questa non era solo una parola “cerimoniale”, ed era anche più di una citazione della Sacra Scrittura. Ne ero consapevole: in questo momento, Egli stesso, il Signore, la dice a me in modo del tutto personale. Nel Battesimo e nella Cresima, Egli ci aveva già attirati verso di sé, ci aveva accolti nella famiglia di Dio. Tuttavia, ciò che avveniva in quel momento, era ancora qualcosa di più. 

Egli mi chiama amico. Mi accoglie nella cerchia di coloro ai quali si era rivolto nel Cenacolo. Nella cerchia di coloro che Egli conosce in modo del tutto particolare e che così Lo vengono a conoscere in modo particolare. Mi conferisce la facoltà, che quasi mette paura, di fare ciò che solo Egli, il Figlio di Dio, può dire e fare legittimamente: Io ti perdono i tuoi peccati. 

Egli vuole che io – per suo mandato – possa pronunciare con il suo “Io” una parola che non è soltanto parola bensì azione che produce un cambiamento nel più profondo dell’essere. So che dietro tale parola c’è la sua Passione per causa nostra e per noi. So che il perdono ha il suo prezzo: nella sua Passione, Egli è disceso nel fondo buio e sporco del nostro peccato. È disceso nella notte della nostra colpa, e solo così essa può essere trasformata. 

E mediante il mandato di perdonare Egli mi permette di gettare uno sguardo nell’abisso dell’uomo e nella grandezza del suo patire per noi uomini, che mi lascia intuire la grandezza del suo amore. Egli si confida con me: “Non più servi ma amici”. Egli mi affida le parole della Consacrazione nell’Eucaristia. Egli mi ritiene capace di annunciare la sua Parola, di spiegarla in modo retto e di portarla agli uomini di oggi. Egli si affida a me. “Non siete più servi ma amici”: questa è un’affermazione che reca una grande gioia interiore e che, al contempo, nella sua grandezza, può far venire i brividi lungo i decenni, con tutte le esperienze della propria debolezza e della sua inesauribile bontà. 

Non più servi ma amici”: in questa parola è racchiuso l’intero programma di una vita sacerdotale. 

Che cosa è veramente l’amicizia? 

Idem velle, idem nolle – volere le stesse cose e non volere le stesse cose, dicevano gli antichi. L’amicizia è una comunione del pensare e del volere. Il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: “Conosco i miei e i miei conoscono me” (cfr Gv 10,14). Il Pastore chiama i suoi per nome (cfr Gv 10,3). Egli mi conosce per nome. Non sono un qualsiasi essere anonimo nell’infinità dell’universo. Mi conosce in modo del tutto personale. Ed io, conosco Lui? 

L’amicizia che Egli mi dona può solo significare che anch’io cerchi di conoscere sempre meglio Lui; che io, nella Scrittura, nei Sacramenti, nell’incontro della preghiera, nella comunione dei Santi, nelle persone che si avvicinano a me e che Egli mi manda, cerchi di conoscere sempre di più Lui stesso. 

L’amicizia non è soltanto conoscenza, è soprattutto comunione del volere. Significa che la mia volontà cresce verso il “sì” dell’adesione alla sua. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego

No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, e proprio così divento veramente me stesso. Oltre alla comunione di pensiero e di volontà, il Signore menziona un terzo, nuovo elemento: Egli dà la sua vita per noi (cfr Gv 15,13; 10,15). 

Signore, aiutami a conoscerti sempre meglio! Aiutami ad essere sempre più una cosa sola con la tua volontà! Aiutami a vivere la mia vita non per me stesso, ma a viverla insieme con Te per gli altri! Aiutami a diventare sempre di più Tuo amico! La parola di Gesù sull’amicizia sta nel contesto del discorso sulla vite. 

Il Signore collega l’immagine della vite con un compito dato ai discepoli: “Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Il primo compito dato ai discepoli – agli amici – è quello di mettersi in cammino, di uscire da se stessi e di andare verso gli altri. Possiamo qui sentire insieme anche la parola del Risorto rivolta ai suoi, con la quale san Matteo conclude il suo Vangelo: “Andate ed insegnate a tutti i popoli…” (cfr Mt 28,19s). Il Signore ci esorta a superare i confini dell’ambiente in cui viviamo, a portare il Vangelo nel mondo degli altri, affinché pervada il tutto e così il mondo si apra per il Regno di Dio. Ciò può ricordarci che Dio stesso è uscito da sé, ha abbandonato la sua gloria, per cercare noi, per portarci la sua luce e il suo amore. Vogliamo seguire il Dio che si mette in cammino, superando la pigrizia di rimanere adagiati su noi stessi, affinché Egli stesso possa entrare nel mondo. Dopo la parola sull’incamminarsi, Gesù continua: portate frutto, un frutto che rimanga! Quale frutto Egli attende da noi? Qual è il frutto che rimane? Ebbene, il frutto della vite è l’uva, dalla quale si prepara poi il vino. Fermiamoci per il momento su questa immagine. Perché possa maturare uva buona, occorre il sole ma anche la pioggia, il giorno e la notte. Perché maturi un vino pregiato, c’è bisogno della pigiatura, ci vuole la pazienza della fermentazione, la cura attenta che serve ai processi di maturazione. Del vino pregiato è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione. 

Non è forse questa già un’immagine della vita umana, e in modo del tutto particolare della nostra vita da sacerdoti? 

Abbiamo bisogno del sole e della pioggia, della serenità e della difficoltà, delle fasi di purificazione e di prova come anche dei tempi di cammino gioioso con il Vangelo. Volgendo indietro lo sguardo possiamo ringraziare Dio per entrambe le cose: per le difficoltà e per le gioie, per le ore buie e per quelle felici. 

In entrambe riconosciamo la continua presenza del suo amore, che sempre di nuovo ci porta e ci sopporta. Ora, tuttavia, dobbiamo domandarci: di che genere è il frutto che il Signore attende da noi? Il vino è immagine dell’amore: questo è il vero frutto che rimane, quello che Dio vuole da noi. Non dimentichiamo, però, che nell’Antico Testamento il vino che si attende dall’uva pregiata è soprattutto immagine della giustizia, che si sviluppa in una vita vissuta secondo la legge di Dio! E non diciamo che questa è una visione veterotestamentaria e ormai superata: no, ciò rimane vero sempre. 

L’autentico contenuto della Legge, la sua summa, è l’amore per Dio e per il prossimo. Questo duplice amore, tuttavia, non è semplicemente qualcosa di dolce. Esso porta in sé il carico della pazienza, dell’umiltà, della maturazione nella formazione ed assimilazione della nostra volontà alla volontà di Dio, alla volontà di Gesù Cristo, l’Amico. Solo così, nel diventare l’intero nostro essere vero e retto, anche l’amore è vero, solo così esso è un frutto maturo. La sua esigenza intrinseca, la fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, richiede sempre di essere realizzata anche nella sofferenza. Proprio così cresce la vera gioia. 

Nel fondo, l’essenza dell’amore, del vero frutto, corrisponde con la parola sul mettersi in cammino, sull’andare: amore significa abbandonarsi, donarsi; reca in sé il segno della croce. In tale contesto Gregorio Magno ha detto una volta: Se tendete verso Dio, badate di non raggiungerlo da soli (cfr H Ev 1,6,6: PL 76, 1097s) – una parola che a noi, come sacerdoti, deve essere intimamente presente ogni giorno. 
Cari amici, forse mi sono trattenuto troppo a lungo con la memoria interiore sui sessant’anni del mio ministero sacerdotale. Adesso è tempo di pensare a ciò che è proprio di questo momento. Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo rivolgo anzitutto il mio più cordiale saluto al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e alla Delegazione che ha inviato, e che ringrazio vivamente per la gradita visita nella lieta circostanza dei Santi Apostoli Patroni di Roma. Saluto anche i Signori Cardinali, i Fratelli nell’Episcopato, i Signori Ambasciatori e le Autorità civili, come pure i sacerdoti, i compagnia della mia prima Messa, i religiosi e i fedeli laici. Tutti ringrazio per la presenza e la preghiera. Agli Arcivescovi Metropoliti nominati dopo l’ultima Festa dei grandi Apostoli viene ora imposto il pallio. Che cosa significa? Questo può ricordarci innanzitutto il giogo dolce di Cristo che ci viene posto sulle spalle (cfr Mt 11,29s). Il giogo di Cristo è identico alla sua amicizia. È un giogo di amicizia e perciò un “giogo dolce”, ma proprio per questo anche un giogo che esige e che plasma. È il giogo della sua volontà, che è una volontà di verità e di amore. Così è per noi soprattutto anche il giogo di introdurre altri nell’amicizia con Cristo e di essere a disposizione degli altri, di prenderci come Pastori cura di loro. Con ciò siamo giunti ad un ulteriore significato del pallio: esso viene intessuto con la lana di agnelli, che vengono benedetti nella festa di sant’Agnese. Ci ricorda così il Pastore diventato Egli stesso Agnello, per amore nostro. Ci ricorda Cristo che si è incamminato per le montagne e i deserti, in cui il suo agnello, l’umanità, si era smarrito. Ci ricorda Lui, che ha preso l’agnello, l’umanità – me – sulle sue spalle, per riportarmi a casa. Ci ricorda in questo modo che, come Pastori al suo servizio, dobbiamo anche noi portare gli altri, prendendoli, per così dire, sulle nostre spalle e portarli a Cristo. Ci ricorda che possiamo essere Pastori del suo gregge che rimane sempre suo e non diventa nostro. Infine, il pallio significa molto concretamente anche la comunione dei Pastori della Chiesa con Pietro e con i suoi successori – significa che noi dobbiamo essere Pastori per l’unità e nell’unità e che solo nell’unità di cui Pietro è simbolo guidiamo veramente verso Cristo. 

Sessant’anni di ministero sacerdotale – cari amici, forse ho indugiato troppo nei particolari. Ma in quest’ora mi sono sentito spinto a guardare a ciò che ha caratterizzato i decenni. Mi sono sentito spinto a dire a voi – a tutti i sacerdoti e Vescovi come anche ai fedeli della Chiesa – una parola di speranza e di incoraggiamento; una parola, maturata nell’esperienza, sul fatto che il Signore è buono. Soprattutto, però, questa è un’ora di gratitudine: gratitudine al Signore per l’amicizia che mi ha donato e che vuole donare a tutti noi. Gratitudine alle persone che mi hanno formato ed accompagnato. 

E in tutto ciò si cela la preghiera che un giorno il Signore nella sua bontà ci accolga e ci faccia contemplare la sua gioia. Amen.

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

domenica 28 ottobre 2012

Padre Gianfranco Maria Chiti o.f.m.cap., già granatiere sul fronte russo 1942-43



“Il mio amico non è ritornato
dal campo di battaglia, Signore.
Chiedo l’autorizzazione di andare
a cercarlo” disse un Soldato
al suo Tenente.
“Autorizzazione negata”, risponde
l’Ufficiale, “non voglio rischi
la tua vita per un uomo che
probabilmente è morto.”
Il Soldato incurante del divieto, va, ed un’ora
dopo ritorna all’accampamento, mortalmente
ferito, con il cadavere del suo Amico.
L’Ufficiale era furioso:
“Te lo avevo detto che era morto.
Dimmi, valeva la pena andare fin là
per ritornare con un cadavere?”
Il Soldato moribondo, rispose:
“Certo che si, Signore! Quando l’ho
Trovato era ancora vivo ed ha
potuto dirmi:
“ero sicuro che saresti venuto.”
“Un Amico è colui che arriva
quando tutti se ne sono
andati”

Padre Gianfranco Maria Chiti o.f.m.cap.
Generale dell’Esercito a riposo

mercoledì 1 agosto 2012

CAPITOLO XVI: Caritas omnia sperat. Chi ama Gesù Cristo spera tutto da Gesù Cristo.



CAPITOLO XVI
Caritas omnia sperat.
Chi ama Gesù Cristo
spera tutto da Gesù Cristo.


1. La speranza fa crescere la carità, e la carità fa crescere la speranza. Certamente la speranza nella divina bontà fa crescere l'amore verso Gesù Cristo. Scrive S. Tommaso che nello stesso tempo che noi speriamo qualche bene da alcuno, cominciamo ancora ad amarlo: Ex hoc enim quod per aliquem speravimus nobis posse provenire bona, movemur in ipsum sicut bonum nostrum et sic incipimus ipsum amare (S. Thom. 2. 2. q. 40. a. 7). Perciò il Signore non vuole che mettiamo confidenza nelle creature: Nolite confidere in principibus (Ps. CXLV, 2); e maledice chi confida nell'uomo: Maledictus homo qui confidit in homine (Ier. XVII, 5). Non vuole Dio che confidiamo nelle creature, perchè non vuole che noi mettiamo in esse il nostro amore. Quindi S. Vincenzo de' Paoli dicea: «Avvertiamo di non molto fondarci sulla protezione degli uomini, perchè il Signore quando ci vede appoggiati ad essi si ritira da noi. All'incontro quanto più noi confidiamo in Dio, tanto più ci avanziamo in amarlo». Viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum (Ps. CXVIII, 32).
Oh come corre nella via della perfezione colui che ha il cuor dilatato dalla confidenza in Dio! Non solo corre, ma vola, perchè, avendo riposta tutta la sua speranza nel Signore, lascierà di esser debole qual era e diventerà forte colla fortezza di Dio che vien comunicata a tutti coloro che in Dio confidano. Qui confidunt in Domino mutabunt fortitudinem, assument pennas ut aquilae, current et non laborabunt, ambulabunt et non deficient (Is. XL, 31). L'aquila volando in alto più si avvicina al sole; e così l'anima, confortata dalla confidenza, si stacca dalla terra e più si unisce a Dio coll'amore.

2. Or siccome la speranza giova ad aumentar l'amore verso Dio, così l'amore aumenta la speranza; poichè la carità ci rende figli di Dio adottivi. Nell'ordine naturale noi siamo fatture delle sue mani, ma nell'ordine sovrannaturale, per li meriti di Gesù Cristo, noi siam fatti figliuoli di Dio e partecipi della natura divina, come scrive S. Pietro: Ut... efficiamini divinae consortes naturae (II Pet. I, 4). E se la carità ci rende figliuoli di Dio, per conseguenza ci rende ancora eredi del paradiso, come parla S. Paolo: Si autem filii, et heredes (Rom. VIII, 17). Or a' figliuoli tocca l'abitare in casa del padre, agli eredi tocca l'eredità, e perciò la carità fa crescere la speranza del paradiso; onde l'anime amanti non lasciano di continuamente esclamare a Dio: Adveniat, adveniat regnum tuum.


3. In oltre Dio ama chi l'ama: Ego diligentes me diligo (Prov. VIII, 17); e colma di grazie chi con amore lo cerca: Bonus est Dominus... animae quaerenti illum (Theren. III, 25). Onde per conseguenza chi più ama Dio, più spera nella sua bontà. E da tal confidenza nasce ne' santi quella inalterabile tranquillità che gli fa stare sempre lieti ed in pace anche in mezzo alle avversità; perchè, amando essi Gesù Cristo e sapendo quanto egli è liberale de' suoi doni con chi l'ama, in lui solo confidano e trovano riposo. Questa è la ragione per cui la sagra sposa abbondava di delizie, perchè, non amando ella altri che il suo diletto, solo a lui si appoggiava; e sapendo quanto egli è grato con chi l'ama, stava tutta contenta: onde di lei fu scritto: Quae est ista quae ascendit de deserto deliciis affluens, innixa super dilectum suum? (Cant. VIII, 5). Troppo è vero quel che diceva il Savio: Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa (Sap. VII, 11): insieme colla carità viene all'anima ogni bene.


4. L'oggetto primario della speranza cristiana è Dio che dall'anime si gode nel regno beato. Ma non crediamo che la speranza di godere Dio nel paradiso sia di ostacolo alla carità; poichè la speranza del paradiso è inseparabilmente annessa alla carità, la quale nel paradiso si perfeziona e trova il suo pieno compimento. La carità è quel tesoro infinito, come dice il Savio, che ci rende amici di Dio: Infinitus enim thesaurus est hominibus quo qui usi sunt participes facti sunt amicitiae Dei (Sap. VII, 14). — Scrive S. Tommaso l'Angelico (2. 2. q. 65, a. 5) che l'amicizia ha per fondamento la comunicazione de' beni, perchè non essendo altro l'amicizia che un amor reciproco tra gli amici, è necessario ch'essi reciprocamente si faccian del bene quanto a ciascuno conviene. Onde dice il santo: Si nulla esset communicatio, nulla esset amicitia. Che perciò disse Gesù Cristo a' suoi discepoli: Vos autem dixi amicos, quia omnia quaecumque audivi a Patre meo nota feci vobis (Io. XV, 15). Perchè gli avea fatti suoi amici, avea lor comunicati tutti i suoi segreti.


5. Dice S. Francesco di Sales: «Che se per impossibile vi fosse una bontà infinita, cioè un Dio, a cui non appartenessimo in alcun modo e con cui non potessimo avere alcuna unione e comunicazione, noi certamente la stimeremmo più di noi stessi; onde potremmo aver desideri di poterla amare, ma non l'ameremmo, perchè l'amore riguarda l'unione; mentre la carità è un'amicizia, e l'amicizia ha per fondamento la comunicazione e per fine l'unione». Per tanto insegna S. Tommaso che la carità non esclude il desiderio della mercede che Iddio ci prepara nel cielo, ma anzi ce la fa riguardare come principale oggetto del nostro amore, quale è Dio che da' beati si fa godere; poichè l'amicizia importa che l'amico goda scambievolmente dell'altro: Amicorum est, quod quaerant invicem perfrui; sed nihil aliud est merces nostra quam perfrui Deo videndo ipsum: ergo caritas non solum non excludit, sed etiam facit habere oculum ad mercedem (S. Thom. in III Sen. Dist. 29. q. 1. a. 4).


6. E questa è quella scambievol comunicazione di doni della quale parlava la sposa de' Cantici: Dilectus meus mihi et ego illi (Cant. II, 16). L'anima in cielo si dà tutta a Dio, e Dio si dà tutto all'anima per quanto ella n'è capace, secondo la misura dei suoi meriti. Ma conoscendo l'anima il suo niente a rispetto dell'infinita amabilità di Dio, e per conseguenza vedendo che Iddio ha un merito infinitamente maggiore di essere amato che non è il merito suo di essere amata da Dio, desidera ella più il gusto di Dio che il suo godimento; e perciò più gioisce in darsi ella tutta a Dio per compiacerlo, che in darsi Dio tutto a lei; ed in tanto si compiace che Dio tutto a lei si dona, in quanto ciò l'infiamma a darsi tutta a Dio con amore più intenso. Gode già della gloria che Dio le comunica, ma ne gode per riferirla allo stesso Dio e così accrescergli gloria per quanto ella può. In cielo l'anima, in veder Dio, non può non amarlo con tutte le forze: all'incontro Iddio non può odiare chi l'ama; ma se per impossibile potesse Dio odiare un'anima che l'ama, e l'anima beata potesse vivere senza amare Dio, più presto ella si contenterebbe di patire tutte le pene dell'inferno, purchè le fosse concesso di amare Dio quantunque Dio l'odiasse, che vivere senza amare Dio, ancorchè potesse godere tutte le altre delizie del paradiso. Sì, perchè l'anima, conoscendo che Dio merita d'essere amato infinitamente più di lei, desidera molto più di amare Dio che di essere amata da Dio.


7. Caritas omnia sperat. La speranza cristiana, come insegna S. Tommaso col Maestro delle sentenze, si definisce un'aspettazione certa della felicità eterna: Spes est expectatio certa beatitudinis. E la certezza nasce dall'infallibil promessa di Dio di dar la vita eterna a' servi fedeli. Or la carità, siccome toglie il peccato, così toglie insieme l'impedimento a conseguir la beatitudine; e perciò la carità quanto è più grande, ella rende più grande e ferma la nostra speranza; la quale all'incontro certamente non può esser di ostacolo alla purità dell'amore, perchè l'amore, come dice S. Dionigi l'Areopagita, naturalmente tende all'unione dell'oggetto amato. Anzi, come dice S. Agostino, lo stesso amore è come un laccio d'oro che unisce insieme i cuori dell'amante e dell'amato: Amor est quasi iunctura quaedam duo copulans. E perchè quest'unione non può farsi da lontano, perciò chi ama desidera sempre la presenza dell'amato. La sagra sposa stando lontana dal suo diletto languiva, e pregava le sue compagne che gli facessero intendere la sua pena, acciocch'egli venisse a consolarla colla sua presenza: Adiuro vos, filiae Ierusalem, si inveneritis dilectum meum, ut nuncietis ei quia amore langueo (Cant. V, 8). Un'anima che ama assai Gesù Cristo non può, vivendo in questa terra, non desiderare e sperare di presto andar al cielo ad unirsi col suo amato Signore.


8. Sicchè il desiderare di andare a veder Dio nel cielo, non tanto per lo contento nostro che ivi proveremo in amare Dio, quanto per lo contento che daremo a Dio in amarlo, è puro e perfetto amore. Nè il gaudio che si prova da' beati in cielo in amare Dio osta alla purità del loro amore; un tal gaudio è inseparabile dall'amore; ma i beati si compiacciono principalmente assai più dell'amore ch'essi portano a Dio, che del gaudio che provano in amarlo. — Dirà taluno: Ma il desiderar la mercede è amor di concupiscenza, non già d'amicizia. Ma bisogna distinguere le mercedi temporali promesse dagli uomini, dalla mercede del paradiso promessa da Dio a chi l'ama. Le mercedi che danno gli uomini son distinte dalle loro persone, poichè gli uomini, nel rimunerare gli altri, non danno già se stessi, ma solamente i loro beni; la principal mercede all'incontro che Dio dà a' beati è il dar loro se stesso: Ego... merces tua magna nimis (Gen. XV, 1); onde è lo stesso desiderar il paradiso che desiderar Dio, il quale è l'ultimo nostro fine.


9. Voglio qui proponere un dubbio che facilmente può venire in mente di un'anima che ama Dio e che cerca di uniformarsi in tutto a' suoi santi voleri. Se mai a costei fosse rivelata la sua dannazione eterna, è obbligata ella ad accettarla per uniformarsi alla volontà di Dio? No, insegna S. Tommaso: anzi dice che pecca se vi acconsente, perchè acconsentirebbe a vivere in uno stato che va unito col peccato ed è contrario al suo ultimo fine datogli da Dio, il quale non crea l'anime per l'inferno, ove l'odiano, ma per lo paradiso ove l'amano: e perciò egli non vuole la morte neppure del peccatore, ma vuol che tutti si convertano e si salvino. Dice il S. Dottore che il Signore non vuole alcuno dannato se non per lo peccato; e per tanto se uno acconsentisse alla sua dannazione, non già si uniformerebbe alla volontà di Dio, ma alla volontà del peccato. Unde velle suam damnationem absolute non esset conformare suam voluntatem voluntati divinae, sed voluntati peccati (S. Thom., De verit. q. 3. a. 8). — Ma se Dio, prevedendo già il peccato di alcuno, avesse fatto il decreto della sua dannazione, ed un tal decreto fosse a lui rivelato, è tenuto egli ad acconsentirvi? Neppure, dice l'Angelico nel luogo citato; poichè dovrebbe intender quella rivelazione non come decreto irrevocabile, ma fatto per modum comminationis, come minaccia se egli persiste nel peccato.



10. Ma ognuno procuri di scacciar dalla mente pensieri così funesti che non servono ad altro che a raffreddare la confidenza e l'amore. Amiamo Gesù Cristo quanto possiamo quaggiù, sospiriamo ogni momento di andarlo a vedere in paradiso per amarlo ivi perfettamente; e questo sia il principale oggetto di tutte le nostre speranze, l'andare ivi ad amarlo con tutte le nostre forze. Abbiamo sì bene anche in questa vita il precetto di amare Dio con tutte le forze: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, et ex tota anima tua, et ex omnibus viribus tuis etc. (Luc. X, 27), ma dice l'Angelico che questo precetto non può dagli uomini perfettamente adempirsi in questa terra. Solamente Gesù Cristo che fu uomo e Dio, e Maria SS. che fu piena di grazia e libera dalla colpa originale, perfettamente l'adempirono; ma noi, miseri figli di Adamo infetti dalla colpa, non possiamo amar Dio senza qualche imperfezione, e solo in cielo, allorchè vedremo Dio da faccia a faccia, l'ameremo, anzi saremo necessitati ad amarlo con tutte le forze.



11. Ecco dunque lo scopo ove han da tendere i nostri desideri, tutti i sospiri, tutti i pensieri e tutte le nostre speranze, di andare a goder Dio in paradiso per amarlo con tutte le forze e godere del godimento di Dio. Godono sì i beati della loro felicità in quel regno di delizie, ma il lor godimento principale, che assorbisce tutti gli altri diletti, sarà quello di conoscere la felicità infinita che gode il loro amato Signore, mentre essi amano Dio immensamente più che se stessi. Ogni beato, per l'amore che porta a Dio, si contenterebbe di perdere tutti i suoi godimenti e di patire ogni pena, purchè non mancasse a Dio, se mai potesse mancare, una minima particella della felicità che gode. Onde, vedendo che Dio è infinitamente felice nè mai la sua felicità può mancare in eterno, questo è tutto il suo paradiso. Così s'intende quel che dice il Signore ad ogni anima nel possesso che le dà della gloria: Intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV, 21). Non già il gaudio entra nel beato, ma il beato entra nel gaudio di Dio, mentre il gaudio di Dio è l'oggetto del gaudio del beato. Sicchè il bene di Dio sarà il bene del beato, la ricchezza di Dio sarà la ricchezza del beato, e la felicità di Dio sarà la felicità del beato.



12. Subito che un'anima entra in cielo e vede alla scoperta col lume della gloria l'infinita bellezza di Dio, si troverà tutta presa e consumata dall'amore. Allora avviene che il beato resta felicemente perduto e sommerso in quel mare infinito della divina bontà. Allora si dimentica di se stesso, ed inebriato dell'amore di Dio, non pensa ad altro che ad amare il suo Dio: Inebriabuntur ab ubertate domus tuae (Ps. XXXV, 9). Gli ubbriachi non pensano più a sè, e così l'anima beata non pensa che ad amare ed a compiacere l'amato: desidera di possederlo tutto, e già tutto lo possiede senza timore di poterlo più perdere; desidera di darsegli tutta per amore ogni momento, e già l'ottiene poichè in ogni momento si dà tutta a Dio senza riserba: e Dio con amore l'abbraccia, e così abbracciata la tiene e la terrà per tutta l'eternità.


13. Sicchè in cielo l'anima sta unita tutta a Dio e l'ama con tutte le sue forze, con un amor consumato e compito, il quale sebbene è finito, perchè la creatura non è capace di amore infinito, nondimeno è tale che la rende appieno contenta e sazia, sì ch'ella niente più desidera. Iddio all'incontro si comunica e si unisce tutto all'anima, riempiendola di se stesso, per quanto ella n'è capace secondo i suoi meriti; e si unisce a lei, non già per mezzo de' soli suoi doni, lumi ed attratti amorosi, come fa con noi in questa vita, ma colla sua medesima essenza. Siccome il fuoco penetra un ferro e par che tutto in sè lo converta, così Dio penetra l'anima e di sè la riempie; ond'ella benchè non perda il suo essere, non però viene ad essere talmente ripiena ed assorbita in quel mare immenso della sostanza divina, che resta come annientata e più non fosse. Questa era la sorte felice che implorava l'Apostolo a' suoi discepoli: Ut impleamini in omnem plenitudinem Dei (Eph. III, 19).


14. E questo è l'ultimo fine che il Signore per sua bontà ci ha dato a conseguire nell'altra vita. Onde finchè l'anima non giunge ad unirsi con Dio in cielo ove si fa l'unione perfetta, non può avere qui in terra il suo pieno riposo. È vero che gli amanti di Gesù Cristo nell'uniformarsi alla divina volontà trovano la loro pace; ma non possono trovare in questa vita il lor pieno riposo, perchè questo si ottiene coll'ottenere l'ultimo fine, qual è di vedere Dio da faccia a faccia ed esser consumati dall'amor divino; e fintanto che l'anima non conseguisce tal fine, sta inquieta e geme, e sospirando dice: Ecce in pace amaritudo mea amarissima (Is. XXXVIII, 17).


15. Sì, mio Dio, io vivo in pace in questa valle di lagrime, perchè questa è la vostra volontà, ma non posso non provare un'inesplicabile amarezza vedendomi da voi lontano e non ancor perfettamente unito con voi che siete il mio centro, il mio tutto e 'l pieno mio riposo.
E perciò i santi benchè ardessero d'amore verso Dio in questa terra pure non faceano che sospirare il paradiso. Davide esclamava: Heu mihi, quia incolatus meus prolongatus est! (Ps. CXIX, 5). Satiabor cum apparuerit gloria tua (Ps. XVI, 15). S. Paolo dicea di sè: Desiderium habens... esse cum Christo (Phil. I, 23). S. Francesco d'Assisi dicea: «Tanto è grande il ben che aspetto, che ogni pena mi è diletto». Questi erano tutti atti di carità perfetta. — Insegna l'Angelico che il grado più alto di carità a cui può ascendere un'anima in questa vita è il desiderare intensamente di andare ad unirsi con Dio ed a goderlo in cielo: Tertium autem studium est, ut homo ad hoc principaliter intendat, ut Deo inhaereat et eo fruatur, et hoc pertinet ad perfectos qui cupiunt dissolvi et esse cum Christo (S. Thom. 2. 2. q. 24. a. 9). Ma questo godere di Dio in cielo, come abbiam detto, non tanto consiste nel ricevere l'anima il godimento che ivi Iddio le dona, quanto nel godere del godimento di Dio, amato dall'anima assai più che se stessa.


16. La maggior pena delle anime sante del purgatorio è il desiderio che hanno di possedere Dio che non ancora possedono. E questa pena specialmente affliggerà quelle anime che poco in vita han desiderato il paradiso. Anzi dice il cardinal Bellarmino (Lib. II. De Purgat. c. 7) che nel purgatorio vi è un certo carcere detto carcer honoratus, ove alcune anime non patiscono alcuna pena di senso, ma solamente la privazione della vista di Dio. Di ciò ne riferiscono più esempi S. Gregorio, il Ven. Beda, S. Vincenzo Ferrerio e S. Brigida. E questa pena si dà non per li peccati commessi, ma per la freddezza nel desiderare il paradiso. Molte anime aspirano alla perfezione, e poi sono troppo indifferenti all'andare a veder Dio o al seguire a vivere in questa terra. Ma la vita eterna è un bene troppo grande che Gesù Cristo ci ha meritato colla sua morte, ond'egli castiga poi quelle anime che poco l'han desiderato nella lor vita.


Affetti e preghiere.

O Dio, mio Creatore e mio Redentore, voi mi avete creato per lo paradiso, mi avete redento dall'inferno per condurmi in paradiso, ed io tante volte con offendervi vi ho rinunziato in faccia il paradiso, e mi son contentato di vedermi condannato all'inferno! Ma sia sempre benedetta la vostra misericordia infinita che perdonandomi, come spero, tante volte mi ha cacciato dall'inferno. Ah, Gesù mio, non vi avessi mai offeso! oh vi avessi sempre amato! Mi consolo che ancora mi resta tempo di farlo.
V'amo, o amore dell'anima mia, v'amo con tutto il mio cuore, v'amo più di me stesso.
Vedo che voi mi volete salvo, acciocch'io v'ami per tutta l'eternità in quel regno di amore. Vi ringrazio, e vi prego ad assistermi nella vita che mi resta, nella quale voglio amarvi assai per amarvi assai poi in eterno.
Ah Gesù mio, quando sarà quel giorno ch'io mi vedrò libero dal pericolo di potervi più perdere, e consumato dall'amore verso di voi in vedere alla scoverta la vostra infinita bellezza, sì ch'io sarò necessitato ad amarvi? Oh dolce necessità! oh felice, oh amata, oh desiderata necessità, che mi esimerà da ogni timore di darvi disgusto e mi costringerà ad amarvi con tutte le mie forze!
La mia coscienza mi spaventa, e mi dice: Come tu puoi pretendere il paradiso? Ma i meriti vostri, caro mio Redentore, sono la speranza mia.
O regina del paradiso Maria, la vostra intercessione è onnipotente appresso Dio, in voi confido.

domenica 5 giugno 2011

L'AMICIZIA DEL SIGNORE

     

    Santa Gertrude spessissimo si recava al suo consueto luogo di preghiera e diceva:

     "Ecco, Signore, io non trovo che amarezza nelle creature, e solo mi compiaccio di intrattenermi e di parlare con te o mio unico bene, solo gaudio del mio cuore e dell'anima mia". 
Poi, baciando le cinque piaghe del Signore, ripeteva cinque volte questo versetto: "Salve , o Gesù sposo dolcissimo, io ti abbraccio con l'amore di tutto l'universo deliziandomi nella tua Divinità, e bacio la piaga del tuo amore".

     Un giorno chiese al Signore se gli fosse gradita questa pratica così breve da non richiedere che pochi momenti. Il Signore le rispose:

      <<Ogni volta che me l'offrirai, io accetterò da te questa pratica come si accetta l'ospitalità di un amico che si sforza di attestarci la sua gioia con ogni sorta di cortesie e con la sua delicata premura. 
Un ospite che fosse accolto così si proporrebbe certo di ricambiare la cortesia del suo amico quando venisse a sua volta a visitarlo; allo stesso modo il mio Cuore pensa con amore alle ricompense da darti nella vita eterna per l'affetto che mi hai dato quaggiù, e che io ti renderò centuplicato secondo la regale liberalità della mia Onnipotenza, della mia Sapienza e della mia Bontà>>  (Rivelazioni, III, 47). 


AMDG et BVM